lunedì 31 agosto 2009

L'ultima estate di Joan (episodio 1)

Il mio nuovo racconto/miniserie in 4 episodi. Ecco il primo...

1. Il sogno
Il ricordo più nitido che ha di quell’estate è il suo ultimo sogno. Ancora c’è l’ha ben impresso in zucca. Da allora non riesce più a ricordare ciò che sogna. Certe volte non ha nemmeno la minima sensazione di aver dormito. È come se, dal momento in cui chiude gli occhi, il suo cervello si sintonizzasse sul canale AV della tv. Quando si alza dal letto, vagamente più riposato di quando ci si era disteso, guarda nella tazza del caffè e ci vede dentro lo stesso entusiasmante nero AV.
Da bambino però sognava. Uh, faceva di quei sogni! Le sue erano piccole sceneggiature già belle pronte per essere girate da Steven Spielberg. Sognava di alieni pacifici, di animali parlanti, di supereroi che avevano perso i loro superpoteri, di nuovi sport che nessuno aveva ancora praticato, di campi di grano attraversati dal vento in primavera. E soprattutto, sognava di essere al mare. Circondato da un’enorme distesa di acqua che riusciva a dominare sopra la sua tavola da surf.
Nell’ultimo sogno che ricorda di aver fatto era ancora una volta lì. Svettava in mezzo alle onde del mare inquieto e tutti lo guardavano ammirato. Il sole gli splendeva sui capelli biondi e su quel fisico asciutto, rachitico potremmo quasi definirlo, che sembrava essersi fuso in un tutt’uno con la tavola. Quand’ecco che all’improvviso il cielo si oscurava. Nuvole nere si accoppiavano andando a partorire lampi minacciosi. Il mare impazziva e riuscire a surfarci sopra stava diventando una missione impossibile. Un cavallone enorme si stava formando all’orizzonte e anche se nel sogno lui era un grande, anzi il più grande surfista di tutto il mondo, quell’onda anomala andava al di là di ogni capacità umana. Così cercava di spostarsi più velocemente che poteva. Cercava di sfuggirgli, ma il cavallone gli era già lì sopra la zucca e l’unica cosa che poteva fare era cercare di tenergli testa. La sua tavola filava diritta per qualche metro, sperando in una fuga. Ma era un’illusione. L’onda cresceva sempre più fino a far di lui un sol boccone.
Ricorda ancora la sensazione di non avere più respiro, di fuggire senza muoversi di un millimetro, di provare a stare a galla quando è impossibile stare a galla. Ricorda ancora il suo corpo disteso sul bagnasciuga mentre gli amici e il bagnino provavano a rianimarlo. Vedeva la scena dall’esterno ed era come se non lo riguardasse. Come se lì a terra senza vita ci fosse qualcun altro. Il bagnino proseguiva con la normale procedura di rianimazione, anche se sapeva che non c’erano più speranze. Tutti erano già rassegnati, quand’ecco a un tratto che il cadavere apriva i suoi occhi azzurri tornando dal mondo dei non-vivi. È allora che si è svegliato di soprassalto tutto sudato. Quello è l’ultimo dei sogni che riesce a ricordare.
Aveva sognato il mare quella e molte altre volte prima, da bambino, ma i suoi genitori nel crudo mondo reale non ce lo avevano mai potuto portare: “Siamo troppo impegnati col lavoro,” si giustificavano. Aveva bisogno di vacanze, vacanze vere, non quelle noiose nella casa in campagna dalla nonna dove il tempo non passava mai. Delle vacanze vere dovevano avere il sole, il mare ovviamente, e delle risate. Tutto quello che aveva avuto erano invece state solo le nuvole, la pioggia (è sempre acqua, d’accordo, ma mica ci si può surfare sopra) e dei gran musi lunghi. Quell’estate Mitch, Franklin e gli altri della compagnia andavano come al solito in colonia insieme alle suore. Meta: la Costa Brava spagnola. E bravi. Lui in colonia insieme alle suore non c’era mai stato perché i suoi erano, e ahimè sono ancora, Mormoni. Tutti gli anni chiedeva loro se ci poteva comunque andare e tutti gli anni riceveva come risposta un: “Non sei abbastanza grande,” che poi era la risposta che i suoi genitori davano a tutte le sue richieste.
“Posso giocare a Grand Theft Auto?”
“Non sei abbastanza grande.”
“Posso guardare The L Word?”
“Non sei abbastanza grande.”
“Posso uscire con Lily?”
“Non sei abbastanza grande per uscire con le ragazze.”
“Siamo solo amici.”
“Non sei abbastanza grande comunque. Te lo diciamo noi.”
“Ma nemmeno ancora le sono venute le sue cose…”
“Michael, basta! Tanto, già lo sai: NON SEI ABBASTANZA GRANDE!”
Michael però quell’estate doveva andare in Spagna. Doveva vedere il mare a tutti i costi, non poteva più rimandare. Ne andava di mezzo la sua vita.
“Mamma, papà… Posso andare in colonia questa estate?” chiese.
“Michael?” lo illusero loro.
“Sììììì?” fece lui con gli occhioni azzurri pieni di speranza.
“NON SEI ABBASTANZA GRANDE!”
Quasi si mise a piangere. Poi pensò che era ora di dimostrar loro che era un uomo, o almeno quasi un uomo. Per la prima volta, decise eroicamente di ribattere: “Ho 14 anni. E questo è l’ultimo anno in cui le suore ti lasciano partecipare alla colonia. A meno che non sei un ritardato mentale, naturalmente. Quindi mamma e papà cari, quest’anno sì: IO SONO ABBASTANZA GRANDE!” Il padre nei giorni successivi se ne stava tutto sorridente e con il petto all’infuori come un galletto. Segretamente orgoglioso di quello scatto d’impeto virile del figlioletto che aveva sempre considerato una checca persa. E dopo lunghe e melodrammatiche discussioni, riuscì infine a convincere la moglie a lasciarlo andare: “Va con gli amici, Anne. Si divertirà un mondo.”
“Copriti, mi raccomando,” gli intimò la mamma appena prima di partire, stampandogli con un bacione tutto il rossetto sulla fronte.
“Mamma, ma d’estate in Spagna ci saranno almeno 40 gradi…”
“E tu copriti lo stesso, che non si sa mai.” Poi si rivolse al marito: “Caro? Non credi sia ora di fare a tuo figlio quel discorso?”
“Quale discorso?” chiese lui seccato. La moglie l’aveva distratto dalla parata di culetti minorenni. Le compagne di colonia del figlio intente a salire sull’autobus stavano sfilando sotto i suoi occhi e lui avrebbe voluto solo stare lì ad ammirarle con un pacco maxi di popcorn in una mano e una birra ghiacciata nell’altra. Senza essere disturbato.
“Il discorso sul sesso, no?” fece la moglie petulante. “Le ragazzine di oggi sanno essere molto sveglie e provocanti…”
“Lo so, cara. Lo so benissimo,” cercò di spostare, senza successo, il suo sguardo dai culetti minorenni alle palle degli occhi della consorte. “Ma ho visto nostro figlio in bagno l’altra sera e non credo riesca ancora a infilare quel cosino da qualche parte. Non è ancora…” finalmente guardò la moglie fissa negli occhi, quindi concluse: “Non è ancora abbastanza grande.” Tutti e due scoppiarono in una fragorosa risata sotto gli occhi increduli del figliuolo: “Papà… Mamma… Sono qui davanti a voi! Non potreste almeno aspettare che me ne sia andato?”
Fu un attimo di debolezza. Subito i due tornarono al loro contegno genitoriale con un simultaneo quanto finto colpo di tosse. Fu allora che la suora-capo gridò: “Tutti a bordo,” anche se quella non era una nave ma un misero pullmino di quelli solitamente usati per trasportare i disabili. Immediatamente dopo spinse dentro gli ultimi ragazzini, dividendo Michael dall’abbraccio materno. Fino a che il pullman non diventò solo un puntino giallo perso nel cielo di Monaco, lei se ne stette a sventolare il suo fazzolettino bianco, mentre il marito continuava a suonare il clacson: “Andiamocene di qua, Anne. Michael è partito. Andato. Finalmente. Sono tre quarti d’ora che te ne stai lì ad agitare quel coso nel nulla. È pure sporco: mi ci ero appena soffiato il naso. Ed ho un terribile raffreddore.”
Ma torniamo in presa diretta sul giovine Michael, che se ne sta lentamente salendo i gradini del pulmino e si guarda intorno alla ricerca disperata di un posto libero. In fondo ci sono Michael e Franklin che stanno facendo gli scimpanzè, le ragazze davanti mostrano la linguaccia alle spalle delle suore, Kristin & Holly attaccano la doppia presa delle cuffie nell’iPod per poter cantare insieme le canzoni di Miley Cyrus. E poi c’è Joan che è seduta come al solito tutta sola intenta a leggere Dostoevskij.
“Chi è Joan?” vi state chiedendo. Come “Chi è Joan?”
Joan è LA RAGAZZA PIU’ BELLA DEL MONDO e Michael si sta dirigendo proprio verso quel posto vuoto proprio per sederlesi accanto. Proprio ora.
I suoi tentativi di sistemare lo zainetto nel vano sopra la testa falliscono miseramente, chè lui è troppo basso e fino a lassù non ci arriva. In suo soccorso giunge una suora caritatevole che gli ripone lo zaino tra le risate e gli scherni di Mitch e Franklin: “Sfi-ga-to” e “Cre-ti-no,” tossiscono balbettando. “Co-co-coc-co-di-suora,” fanno anche, imitando le galline.
Risolto in qualche modo il problemino bagaglio a mano, Michael si mette finalmente comodo accanto a Joan, emettendo anche un “Aaaah” di sollievo. Joan lo fissa stupefatta mentre fa il suo “Aaaah” di sollievo, così lui in risposta a quello sguardo le sorride. Lei continua a fissarlo ma il suo sguardo da incredulo si fa gelido.
“E tu?” gli chiede. “Tu da dove cazzo sei sbucato fuori?”
Michael non si fa scoraggiare da questo inizio non esattamente dei migliori. Lui è un tipo che non si fa mai scoraggiare. Pensate ai genitori che si ritrova: se fosse uno che si fa scoraggiare sarebbe semplicemente fre-ga-to.
“Piacere, sono Michael,” gli risponde gentile, porgendogli la sua manina.
Lei ignora la manina e continua a fissarlo torva.
“Credi davvero che adesso io ti dirò il mio nome, tappo?” se la sghignazza.
Lui abbassa lo sguardo. Ecco, forse adesso un po’ scoraggiato lo è. Povero!
“Tanto lo sai già come mi chiamo, ne sono sicura.” Ora Joan si apre in un bel sorriso. “Te lo sarai scritto su tutte le tue mutandine e magari ti sussurri il mio nome nel buio della cameretta mentre la mano ti scende lì sotto,” dice guardandogli i pantaloncini accompagnando le parole a una risatina maliziosa. “Quindi no, non te lo dirò come mi chiamo e quella tua mano sudicia, Santo Cielo!” La sua espressione si fa schifata: “Io preferisco non toccartela.”
Michael arrossisce fino a diventare paonazzo e mette da parte, almeno per il momento, l’idea di chiacchierare insieme a lei per tutto il viaggio in modo da approfondire reciprocamente la propria conoscenza e avere uno scambio di opinioni amichevole e sincero. Come in quei film americani dove di solito il ragazzo figo di turno conosce la ragazza dei suoi sogni e tra loro lentamente nasce un bellissimo, profondo, eterno legame.
Quello che Joan aveva appena detto, a dire il vero, non è che si allontanasse molto dalla realtà. Voglio dire, non la parte delle mutandine, Cristo Santo! Quella è una cosa che solo le ragazze possono fare. Ma sul resto c’aveva preso in pieno. Lui naturalmente sapeva già come lei si chiamava. Joan, che dolce nome. Chi non lo conosceva nella sua scuola? Chi non lo sussurrava toccandosi sotto le coperte appena rabboccate dalla mammina?
Dopo qualche ora di viaggio nel più totale e religioso silenzio, Michael riprende un pochino di quel coraggio che da sempre lo contraddistingue. Si mette a sbirciare la copertina del libro su cui gli occhi di Joan non hanno mai smesso un secondo di andare veloci da sinistra a destra, dall’alto in basso, riga dopo riga, mentre le ruote dell’autobus sotto di loro stanno macinando kilometri su kilometri.
“D-O-S-T-O-E-V-S-K-I-J” prova a leggere Michael, prima sillabando le lettere una ad una, infine tutto d’un fiato: “Dostoevskij”. Non ricorda questo nome nel programma di libri che la signorina Tinger aveva dato da leggere per l’estate. Lui che da quella lista aveva depennato a fatica I viaggi di Gulliver, prima di tornare a immergersi nella lettura dei suoi amati Harry Potter.
“Di cosa parla il libro che stai leggendo?” le chiede stufo del silenzio. Non importa se lo insulterà o se lo deriderà (cosa invero alquanto probabile). Qualunque cosa sarebbe stata meglio di quell’infinito mortale silenzio.
Lei emette un sospiro, seccata per l’interruzione, poi gli spara veloce come una rapper: “Parla di un uomo cattivo, coso. Un uomo malato, profondamente malato, prodotto di una società malata che non può essere salvato da niente e da nessuno…”
“Scusa se te lo dico,” la interrompe Michael. “Ma il tuo libro secondo me non ha alcun senso.”
“Ah no, tappo?” Joan adesso sembra realmente incuriosita da quell’ometto che le siede a fianco. “E perché, di grazia?”
“Perché tutti possono essere salvati,” e gli fa l’occhiolino (o forse strizza l’occhio solo come reazione alla polverina appiccicosa che Mitch da dietro gli ha appena gettato in testa).
Joan gli sorride, ma per la prima volta il suo non è un sorriso sarcastico. È un sorriso vero, come vere sono le vacanze che stanno facendo, tutti insieme. Le risate ci sono, adesso mancano solo il sole e il mare.

(fine prima puntata)
Le altre puntate sono presenti nella mia prima raccolta:
L'ultima estate di Joan e altri racconti
ora ordinabile su Lulu.com


4 commenti:

  1. Grande! Un nuovo racconto! Visto che è un po' lunghetto me lo salvo e me lo leggo con comodo. Tornerò a commentare ;)

    Kiss :*

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  2. il titolo significa libertà....che poi è ciò di cui parlo nella "poesia"

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  3. Come promesso, torno a commentare.
    Mi sono presa il tempo di leggere con calma questo primo capitolo, e sto già zompettando in attesa del secondo!
    Joan è una vera tosta (e poi legge Dostoevskij!!) e già mi chiedo perché sarà la sua ultima estate...ok, immagino che lo scoprirò strada facendo. Michael mi piace già ma non potrebbe essere altrimenti, degli "sfigati" mi innamoro sempre.
    Leggendo le tue righe mi sono ricordata di una gita che ho fatto coi miei tantissimi anni fa...credo fosse il 1992, e quell'incosciente di mio padre mi ha portata a fare il bagno al mare anche se era agitatissimo. Non dimenticherò mai la sensazione dell'essere travolta da onde che mi sembravano altissime, e sbattuta sulla spiaggia e poi risucchiata di nuovo nel vortice.
    Terribile, ma allo stesso tempo intenso.
    Attendo la prossima puntata ;)

    Ciao!!!

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  4. aspettiamo gli altri epidosi. Per questo ti becchi un bel 10! :)


    Clelia

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