(in attesa del mio nuovo raccontino di Halloween 2009, vi ripropongo quello dell'anno scorso)
“La paura è una delle emozioni primarie. E come le altre emozioni si può imparare a controllarla.” Se avessi un dollaro per ogni volta che il Dr. Steinberg mi ha ripetuto questa frase adesso sarei stufo di essere ricco. Frase che è una grandissima stronzata, diciamocelo. La paura non può essere controllata. Un’altra cosa che mi ripete sempre il Dr. Steinberg è che ci sono diversi modi per definire la paura, a seconda del suo grado di intensità: c’è il semplice spavento, gli attacchi di panico, il terrore puro e poi c’è la paranoia. Lo spavento è una cosa breve, a volte basta un attimo e già se n’è andato. Lo spavento non è niente. Gli attacchi di panico sono improvvisi e non sono dovuti a nessun motivo particolare. Vengono e basta. Ma tempo mezzora e sono passati. Mi fanno una sega. Quando arriva il terrore l’uomo diventa come un animale. Non sei più in grado di distinguere tra il bene e il male. Agisci e basta, senza pensarci. La paranoia invece è la percezione di essere perseguitati sempre e ovunque da un mostro che ti insegue fino a non riuscire a farti vivere.
Con le parole del Dr. Steinberg che girano ancora per la testa insieme ai miei due soliti fedeli neuroni vado a prendere mio figlio da Stephanie, la mia ex. Mi ha mollato perché diceva che sono mentalmente instabile. Grandissima stronzata pure questa. Quando apre la porta sembra sorpresa: “Sei arrivato in anticipo,” mi dice col fiatone. Si tira su una spallina dell’abito rosso che ha indosso, quello che le avevo regalato io molto tempo fa. Dopo un po’ sbuca fuori Michael, il suo nuovo “compagno”. Si tira su la patta dei pantaloni. Mio figlio invece “non c’è ancora. Oggi aveva il dopo scuola. L’hai dimenticato come fai sempre con tutte le cose?” Dico che no, “non me ne sono dimenticato. Ho preso le mie pastiglie, oggi.” Agito il tubetto mezzo vuoto di pasticche. “Vedi?” Poi arriva. Insieme ad una ragazzina bionda mai vista prima. Si stanno scattando delle foto col cellulare, probabilmente per metterle su myspace. “Chissà se se la fa?” mi chiedo. Mio figlio si chiama Eugene (non guardate me, il nome l’ha scelto la madre…) ha 12 anni, ascolta i Fall Out Boy (lo so perché ha indosso una loro t-shirt), su myspace il suo nickname è Black Nightmare e ha 3227 amici (almeno fino alle 11 di stamattina quando ho controllato che qualche pervertito non gli avesse lasciato dei commenti sconci). E basta. Non credo di sapere altro su di lui. Quella strega di sua madre non me lo lascia vedere molto spesso. Anche il giudice ha sentenziato che sono “mentalmente instabile” e io in aula ho gridato “Grandissima stronzata. Ma che è? Vi siete messi tutti d’accordo per dire la stessa maledetta bugia?” Stasera però la strega e Michael devono andare alla festa di Halloween organizzata dagli amici di lui (considerata la sua età, sospetto si tratti di una cosa della confraternita) e siccome anche Ashley la baby-sitter tettona stasera ha da fare (probabilmente sarà pure lei a quella festa), Stephanie ha pensato di concedermi la possibilità di “Fare il padre, per una volta. Almeno provaci,” mi ha detto. E dunque eccomi qui a fare “dolcetto o scherzetto” insieme a questo tween che non conosco per niente. Provo a farci due chiacchiere: “Hey, giovanotto. Chi era quella bionda? La tua fidanzatina?” Lui mi guarda shockato e mi fa: “Stai parlando di Tiffany?” scuote la testa. “Certo che no, mioddio.” Tempo qualche mese o forse solo qualche giorno e cambierà idea. Gli ormoni prenderanno il sopravvento. In ogni caso, primo tentativo di approccio da parte mia: fallito. Sposto l’argomento su Halloween: “Cosa vuoi indossare per andare in giro?” Lui scrolla le spalle incurante: “Mamma ha detto che sei tu quello bravo con i travestimenti e anche con i cambiamenti di personalità. Non ho capito esattamente di che stesse parlando ma credo mi potrai dare una mano.” Quella strega dovrebbe smetterla di dire stronzate sul mio conto, ma almeno grazie a questo mio potere mutante ho l’occasione giusta per diventare il padre figo dell’anno. Prima però devo trovare un travestimento all’altezza.
Andiamo al negozio del vecchio Joe, quello dove mio padre mi portava sempre a scegliere i vestiti per Halloween. A quei tempi la scelta era tra i Ghostbusters, Michael Jackson e Batman. Oggi la scelta è tra il vampiro di Twilight, il cantante dei My Chemical Romance e il Joker. Ma la maschera di oggi che mi terrorizza di più è certamente quella da Sarah Palin. Se avessi una femmina penso proprio che gliela farei indossare. A Eugene (ma che razza di nome!) dico invece che col Joker quest’anno va sul sicuro. Lui accenna un “ok” non troppo convinto, come se qualunque vestito non avrebbe cambiato lo stato delle cose: una noiosa serata a rendersi ridicolo insieme al vecchio anziché essere alla festa strafica col “patrigno” e i suoi amici a mala pena maggiorenni. “Bene Joker, why so serious?” gli chiedo vedendo il suo volto corrucciato. Lui coglie il riferimento e mi accenna quasi un sorriso. Andiamo a prepararci per la serata nel mio appartamento. È la prima volta che ci entra e va subito in salone a spulciare nella mia vasta collezione di cd e dvd. “Non siamo poi così diversi,” sembra suggerire il suo sguardo. Io esco dalla mia camera vestito da Batman. Eugene mi guarda come se fossi pazzo. Grandissima stronzata, io non sono pazzo. “Non sono uguale a Christian Bale?” gli chiedo e stavolta lo vedo tutto il suo sorriso. Finisco di mettergli il rossetto sbavato sulle labbra e siamo pronti a sfoggiare i nostri costumi in strada. Appena fuori vedo un flash. Qualcuno ci sta scattando delle foto. Ma dov’è? Cerco di vedere da dove sia arrivata la luce accecante ma è impossibile individuarla in mezzo al muro di marmocchi Harry Potter accompagnati da adulti nascosti sotto le maschere da McCain, Obama e da Joe l’idraulico.
Andiamo a bussare alla porta della signora Anberlin, la mia anziana vicina di casa. “Signora Anberlin, dolcetto o scherzetto?” Non risponde. Mi accorgo che la porta è soltanto socchiusa, così entro. È tutto buio, le uniche luci arrivano dalle lanterne di Jack che sbucano inquietanti qua e là per la casa, io però mi muovo con sicurezza, come se quel posto mi fosse familiare. Eugene sta defilato dietro ai miei pantaloni. Quando mi giro a guardarlo fa il suo solito sguardo indifferente, ma mi sa che se la sta facendo sotto. “Signora Anberlin, ce l’ha qualche dolcetto da darci?” Entriamo in soggiorno e non si vede un accidenti. Eugene inciampa su qualcosa e finisce a terra, lamentandosi per il dolore al ginocchio. Una luce si accende. Seduta su una poltrona compare inquietante la signora Anberlin, cornetta del telefono appoggiata all’orecchio. “Ho già chiamato il 911,” minaccia. “Ma signora, sono il suo vicino.” Lei prova a guardarmi nell’oscurità ma non riesce a vedermi. “Questo dovrai dimostrarlo ai poliziotti, non a me,” mi intima. Prendo Eugene per mano e ce la filiamo fuori. “Questa è proprio svitata,” sorride Eugene. Il dolore al ginocchio se n’è già andato. “Che spavento quando l’ho vista in faccia!” mi confida in uno di quei momenti padre-figlio che ho sognato ogni giorno di questi ultimi 12 anni.
Tornati in strada vedo Tiffany, l’amichetta di mio figlio. È vestita da Hannah Montana. “È carina, vacci a parlare,” suggerisco a Eugene. Lui fa “Naah,” ma lo vedo che ha voglia di andare a salutarla. “Dai, io ti aspetto qui. Prometto di non farmi vedere.” Eugene è lì, insieme alla sua Hannah Montana, e da qualche parte arriva la musica di Nightmare Before Christmas e tutto è così perfetto. E poi, succede ancora una volta. Quando tutto sembra andare bene nella mia vita lui compare. All’inizio striscia come un’ombra. Quindi diventa carne. Lo vedo comparire dietro Eugene. Vengo colto da un attacco di panico e me ne resto lì paralizzato. La piccola Hannah Montana guarda terrorizzata alle spalle di mio figlio. Eugene si gira e mi vede “Oh, quello è solo mio padre,” la rassicura. L’ombra che striscia è sparita nel nulla. Ci siamo solo io, Eugene e la bionda. Gli facciamo “ciao ciao” con la manina e ce ne andiamo. “Avevi promesso che non saresti comparso,” si lamenta Eugene. “Qui non è sicuro,” gli faccio io, guardandomi in giro torvo. “Non è che incominci con uno di quei tuoi attacchi? Com’è che li chiama mamma?” ci riflette su, poi sentenzia: “Ah si, attacchi di paranoia.” Le sue parole affilate fanno a pezzettini il mio ego. “Non devi ascoltare quello che dice tua madre sul mio conto. Sono tutte stronzate,” riprendo il controllo della conversazione. Dopotutto tra noi due quello adulto sono io. “È solo che io sono il cavaliere oscuro e vengo fuori dall’oscurità.” Adulto, ma fino a un certo punto. “Buahuahuah,” mi metto a sghignazzare. Lo faccio ridere ancora una volta. È un nuovo record! In lontananza vedo una casa con il giardino ripieno di ragazzi sfatti e di macchine parcheggiate a caso. “Dev’essere una festa,” penso. “Dev’essere LA festa della confraternita,” realizzo. “Andiamo un po’ lì a fare dolcetto o scherzetto,” suggerisco a Eugene. Dal tono del suo “ok” direi che è tornato al solito stato da zombie pre-adolescente indifferente a tutto.
Bussiamo alla porta e veniamo accolti da un quarterback ubriaco: “Bei costumi ragazzi, entrate! Io intanto me ne vado a fare un giro sulla mia Mercedes nuova,” fa sventolando le chiavi. Ci accomodiamo in salotto. Alcune ragazze stanno ballando e si stanno baciando su I Kissed a Girl di Katy Perry. Copro gli occhi di Eugene, poi mi chiedo “Ma che sto facendo? Queste sono cose che DEVE vedere.” Gli tolgo la mano dagli occhi e ce ne stiamo tutti e due lì imbambolati per un bel po’. Veniamo interrotti dalla voce da strega di Stephanie: “E voi che ci fate qui?” A cui seguono frasi del genere “Ma ti sembra un posto in cui portare un bambino?” cui io replico “Ti sembra il posto in cui portare una quasi-quarantenne?” e il mio sguardo va a incrociare quello del suo “compagno” Michael. Seguono alcuni bicchierini di Jack per calmarmi, Eugene-Joker che viene accarezzato e vezzeggiato “Ma che ragazzino carino!” dalle tipe che prima si baciavano, qualche flash che mi acceca, fiumi di birra, un paio di pezzi di Lil Wayne e altre studentesse sexy che ballano. Fino a che Stephanie ci prende e ci porta fuori: “Ho sbagliato a fidarmi di te,” punta il suo dito accusatore. “Adesso riportalo a casa e poi salutalo, perché è l’ultima volta che lo vedi.”
Sulla strada di casa siamo così un Batman e un Joker un po’ tristi, ma Dio sa se ce la siamo spassata! Ci avviamo verso il mio appartamento per toglierci i costumi, quand’ecco che rivedo Tiffany-Hannah Montana. È insieme a un uomo che non riesco a vedere bene perché se ne sta nell’oscurità. Mi avvicino, ma è come se il suo volto stesse sempre di spalle. Però ne sono sicuro: è l’ombra che mi perseguita. Sempre la solita. Adesso che è diventata carne e ossa prende la manina di Tiffany e se la porta via. “Seguiamoli,” faccio a Eugene. “Ma di chi diavolo stai parlando?” mi chiede lui. “Della tua amichetta, insieme a quel tizio.” Li indico mentre fuggono via. “Intendi Tiffany?” fa Eugene guardandosi intorno. “Sono due ore che io non la vedo.” “Era lì,” gli faccio e corro verso quella direzione. Li scorgo mentre entrano nella casa della signora Anberlin. L’uomo ha in mano un coltello. La porta è ancora semiaperta. Entro ed è sempre tutto così maledettamente buio, non vedo un tubo. “Tiffany!” grido. “Dove sei?” Non arriva nessuna risposta. Allora ritento: “Hannah?” grido sempre più forte. “Hannah Montana, ci sei?” Il terrore si è ormai totalmente impossessato di me. Sento dei rumori. Non vedo Tiffany, né Hannah Montana, però scorgo l’ombra che mi perseguita. La sento respirare, è davanti a me. Le luci si accendono improvvisamente. Adesso riesco a vedere il volto dell’ombra. È la mia faccia, rinchiusa in uno specchio proprio di fronte a me. “Eccolo!” grida la signora Anberlin. “È lui, arrestatelo.” Alcuni poliziotti sbucano fuori dal nulla e mi mettono le manette ai polsi. Fuori è un casino di sirene, luci e flash che immortalano il mio volto. Il mio volto. Il volto dell’ombra che mi perseguita da sempre. Sono io. Il mio peggior nemico, la causa di tutte le disgrazie della mia vita sono io.
Cerco di vedere dietro ai flash. Ci sono Tiffany ed Eugene che mi stanno scattando delle foto. “Ragazzi, state bene?” chiedo loro. Non ricevo risposta, chè sono già spinto dentro la volante degli sbirri. La mattina seguente, in carcere ricevo la visita di Stephanie. “E Eugene?” le chiedo. “Dov’è Eugene?” “L’hai lasciato in mezzo alla strada,” mi grida, evitando di rispondere alla mia domanda. “Dov’è Eugene?” provo a ripeterle. “Come hai potuto? Nemmeno da te mi sarei mai aspettata una cosa del genere. Il Dr. Steinberg dice che sono tre mesi che non ti fai vedere.” “Sì, lo so. Ho fatto una stronzata, come al solito. Ma Eugene dov’è?” comincio a preoccuparmi. “È passata una Mercedes. Un ragazzo ubriaco uscito dalla festa.” Mi fa lei. Il quarterback. La Mercedes nuova. So già come sta per finire quella frase. “Li ha presi sotto. È morto. Eugene è morto. E anche la sua amica, Tiffany. Come hai potuto lasciarli lì da soli?” mi chiede in lacrime e mi fissa, fino a che il tempo per le visite finisce. Mi riportano in cella. Sono accusato di essermi introdotto più volte in casa della signora Anberlin negli ultimi mesi e di averle rubato soldi e gioielli per potermi comprare degli psicofarmaci contro la paranoia e contro i vuoti di memoria. Paradossalmente me ne sono scordato. Questo spiega perché la casa della signora Anberlin mi sembrava così familiare. Naturalmente sono anche accusato di abbandono di minore. Quanto basta per farmi restare qui dentro un bel po’. Dentro questa cella piccola e fredda, dove però non sono solo. Ci sono Eugene e Tiffany che ogni tanto mi fanno visita e mi scattano delle foto da mettere su myspace. C'è il Dr. Steinberg che mi incoraggia “Puoi controllarla! Se ti impegni puoi sconfiggere la paura,” e stronzate del genere. C’è anche uno specchio alla parete. Dentro vedo la mia faccia che continua a ripetere: “Sei tu, sei sempre stato tu. E l’hai sempre saputo.”
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