And you’re singing the songs, thinking this is the life and you wake up in the morning and your head feels twice the size l’abbiamo canticchiata tutti.
Io ho consumato l’album d’esordio di Amy MacDonald appena uscito nel 2007, già parecchio prima che la scovassero appena pochi mesi fa le radio commerciali italiane e Simona Ventura (che l’ha ospitata a “Quelli che il calcio” che in un impeto pippobaudiano l’ha presentata quasi come una SUA scoperta). Non lo dico per tirarmela (vabbè, giusto un poco) ma solo per dire che nell’epoca di internet non è più necessario aspettare i porci comodi dei tempi della discografia (perché, esiste ancora?) italiana.
Il suo secondo album “A Curious Thing” non è stato quindi concepito in fretta e furia per sfruttare l’onda lunga del successo tardivo, ma è nato nei tempi giusti e ci porta una MacDonald con un suono rinnovato e canzoni ispirate.
Il primo singolo “Don’t tell me that it’s over” tenta una strada più rockeggiante alla Cranberries, con un ottimo accompagnamento d’archi che ricorda (così come il titolo) la mia amata “Tell me where it hurts” dei Garbage. Anche la successiva “Spark” si dirige sulla stessa riga.
Il pezzo successivo annuncia “I got no roots” e invece Amy torna alle radici folk con una ballata delicata nel suo stile.
“Love love” ha un ritmo allegro che ammicca agli 80s, ma sotto pelle si intravede l’impronta country. L’avrei vista bene reinterpretata da Johnny Cash.
Il disco prosegue con canzoni notevoli che ho l’impressione consumerò per lungo tempo, proprio com’era successo ai tempi del primo album. Alla faccia dei panini McDonald’s da consumersi fast entro 15 minuti, la musica di Amy MacDonald va gustata con calma, assaporando lentamente tutte le sfumature delle sue storie di gioventù folk. Parappapapa. I’m lovin’ her.
Il disco è QUI
Io ho consumato l’album d’esordio di Amy MacDonald appena uscito nel 2007, già parecchio prima che la scovassero appena pochi mesi fa le radio commerciali italiane e Simona Ventura (che l’ha ospitata a “Quelli che il calcio” che in un impeto pippobaudiano l’ha presentata quasi come una SUA scoperta). Non lo dico per tirarmela (vabbè, giusto un poco) ma solo per dire che nell’epoca di internet non è più necessario aspettare i porci comodi dei tempi della discografia (perché, esiste ancora?) italiana.
Il suo secondo album “A Curious Thing” non è stato quindi concepito in fretta e furia per sfruttare l’onda lunga del successo tardivo, ma è nato nei tempi giusti e ci porta una MacDonald con un suono rinnovato e canzoni ispirate.
Il primo singolo “Don’t tell me that it’s over” tenta una strada più rockeggiante alla Cranberries, con un ottimo accompagnamento d’archi che ricorda (così come il titolo) la mia amata “Tell me where it hurts” dei Garbage. Anche la successiva “Spark” si dirige sulla stessa riga.
Il pezzo successivo annuncia “I got no roots” e invece Amy torna alle radici folk con una ballata delicata nel suo stile.
“Love love” ha un ritmo allegro che ammicca agli 80s, ma sotto pelle si intravede l’impronta country. L’avrei vista bene reinterpretata da Johnny Cash.
Il disco prosegue con canzoni notevoli che ho l’impressione consumerò per lungo tempo, proprio com’era successo ai tempi del primo album. Alla faccia dei panini McDonald’s da consumersi fast entro 15 minuti, la musica di Amy MacDonald va gustata con calma, assaporando lentamente tutte le sfumature delle sue storie di gioventù folk. Parappapapa. I’m lovin’ her.
Il disco è QUI
il singolo l'ho sentito solo 2 volte ma mi ha lasciatoun poi' freddo,ti farò sapere appena ascolto tutto l'album.
RispondiEliminadi quello vecchio la mia preferita era mr.rock'n'roll
..nn la conoscevo..nn male..
RispondiEliminala faccia da poker invece è oggettivamente una figa della madonna.pero' io non ce la faccio a guardare i video senza spegnere le casse dl pc.