martedì 21 agosto 2012

Blog Party

Bloc Party “Four”
Provenienza: Londra, Inghilterra
Genere: rockone
Se ti piace ascolta anche: Placebo, Blur, Ash, Deftones, Muse

Era da parecchio tempo che non sentivo un disco come Four.
Four è il nuovo disco dei Bloc Party e, se siete un attimino svegli, capirete da soli che è il loro quarto album.
Non che sia qualcosa di così innovativo e originale. Il fatto è che suona proprio fuori dal tempo. I Bloc Party non si sono trasformati in una revival band dei favolosi anni ’60, non si sono messi a fare disco dance anni ’70, non hanno tirato fuori i synth anni ’80, bensì hanno deciso di cimentarsi con le chitarrone anni ’90.
Four è un disco che sembra uscito proprio da quel decennio e mi ricorda l’epoca in cui sentivo soprattutto musica con le chitarre elettriche distorte e pompate a manetta. Le cose poi sono cambiate. Un po’ perché i miei gusti sono mutati, un po’ perché di grandi dischi fatti di chitarre elettriche negli ultimi dieci e passa anni ne sono usciti sempre meno.

I Bloc Party in crisi d’identità hanno allora deciso di riscaraventarmi/riscaraventarci dentro il tunnel dei ricordi, con un sound che attraversa tutte le varie diramazioni del rock 90s, dall’alternative dei Pixies fino agli intarsi chitarristici, anzi ghitarristici, dei Radiohead epoca The Bends/Ok Computer, passando per l’epicità dei primi Muse e persino verso l’irruenza metallica eppur melodica dei Deftones.
Tra le band uscite fuori negli anni Zero, ho seguito sempre con grande attenzione l’evoluzione dei Bloc Party. Ogni loro lavoro è infatti diverso, imprevedibile, una svolta rispetto al precedente, e in questo senso li ho sempre immaginati come legittimi eredi dei Blur. Purtroppo non hanno mai raggiunto le loro vette e poi oggi Damon Albarn e soci sono ancora in circolo più in forma che mai e quindi di eredi non ne hanno bisogno. Almeno, non ancora.

"Lo so, lo so: una maglietta poco impegnativa!"
Pur non essendo i nuovi Blur, i Bloc Party hanno seguito un percorso comunque parecchio interessante.
Lo ripercorriamo?
Dite di no? Non avete voglia di una lezione di storia?
Eddai, facciamo una cosa veloce: l’esordio Silent Alarm è una bella botta new new-wave, che segnala la particolare voce di Kele Okereke su un muro di chitarre tra i primi U2 e il brit-pop. Bel disco, ma forse i Bloc vengono pompati persino eccessivamente.
Con il secondo splendido lavoro A weekend in the city succede invece un po’ il contrario. Come spesso accade alle band soprattutto britanniche osannate al debutto, l’attenzione della critica si rivolge presto altrove, guardando alla next big thing e trascurando un disco parecchio sottovalutato che ancora oggi suona alla grandissima.
Dopodiché i Bloc Party decidono di cambiare pelle ancora e con Intimacy spingono e di brutto sul pedale non della chitarra elettrica bensì della sperimentazione elettronica, con un disco magari non riuscito al 100% ma parecchio fico. Poco apprezzato dalla critica e snobbato dal grande pubblico, anziché una maggiore intimacy segna un momento di rottura per i membri del gruppo. Ognuno sembra andare in una sua direzione, con il cantante Kele che realizza un lavoro solista niente male, The Boxer, che si immerge ancora di più nei mondi electro, mentre il chitarrista Russell Lissack fonda i Pin Me Down, autori di un bel dischetto d’esordio omonimo dal sound molto anni ’90 e in cui possiamo quindi intravedere i semi che germogliando hanno fatto nascere la pianta di Four.

Perché Four è pura goduria rock 90s. I Bloc a tratti picchiano come bastardi, come mai prima, come una band hard-rock (“We are not good people”) e con livelli di cattiveria notevole (“Team A”, un pezzo ispirato a Pretty Little Liars?). Eppure, sanno anche stenderti con momenti di dolcezza inaspettata (“Truth”, “The Healing”, “Real Talk”), proprio come nei bei disconi di quel decennio, in cui rabbia e dolcezza si alternavano in maniera naturale.
Tra gli highlights dell’album, cito anche la poppeggiante “V.A.L.I.S”, le chitarrine alla Graham Coxon di “Octopus” e l’assalto sonoro di “Kettling”, una di quelle bombe da pogo live tra Muse e Foo Fighters.



Il meglio arriva però con l’eccellente bonus track “Mean”, capace di ricordare addirittura “The Killing Moon” degli Echo & the Bunnymen, senza plagiarla. Un pezzo davvero notevole e se è stato inserito solo come bonus track al termine della scaletta ufficiale forse è perché è un pezzo dal sound troppo new-wave, troppo Bloc Party vecchio stile. Per il resto, il sound del disco è molto ma molto da Rock Sound, il mensile un tempo diretto dal mitico Daniel C. Marcoccia. Una sberla sonora in faccia a tutti quelli cresciuti nei 90s. Una sberla di quelle che fanno bene, ti fanno crescere e maturare. In attesa che la band si avventuri e ci avventuri nella sua prossima svolta sonica.
(voto 7/10)


3 commenti:

  1. Ohh finalmente!
    Proprio ieri mi chiedevo che fine avessero fatto!

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  2. scusa Cannibal ma la definizione "un muro di chitarre tra i primi U2 e il brit-pop" mi fa un po' sorridere...diciamo che ho altre cognizioni edilizie...

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    Risposte
    1. muro in effetti non è il termine migliore.
      diciamo "tessuto di chitarre"...

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