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lunedì 5 dicembre 2016

Capitan Schettino, prendi esempio dal Capitan Sully invece che dal Capitan Uncino





Sully
(USA 2016)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Todd Komarnicki
Ispirato al libro: Highest Duty: My Search for What Really Matters di Chesley Sullenberger e Jeffrey Zaslow
Cast: Tom Hanks, Aaron Eckhart, Laura Linney, Mike O'Malley, Anna Gunn, Sam Huntington, Autumn Reeser, Max Adler, Michael Rapaport
Genere: miracolato
Se ti piace guarda anche: Flight, United 93, Snowden


Non mi sono mai piaciuti i Capitani, da Capitan Findus ai "capitani coraggiosi" Claudio Baglioni e Gianni Morandi.
Non reggo i film sugli American Heroes.
Non mi fanno impazzire le pellicole tratte da eventi di cronaca vera, soprattutto recenti.
Non sono un fan di Clint Eastwood.
Mai sopportato Tom Hanks.

mercoledì 11 settembre 2013

OLYMPUS HAS FALLEN, AND CINEMA TOO




Attacco al potere – Olympus Has Fallen
(USA 2013)
Titolo originale: Olympus Has Fallen
Regia: Antoine Fuqua
Sceneggiatura: Creighton Rothenberger, Katrin Benedikt
Cast: Gerard Butler, Aaron Eckhart, Rick Yune, Radha Mitchell, Morgan Freeman, Melissa Leo, Angela Bassett, Ashley Judd, Finley Jacobsen, Dylan McDermott, Robert Forster
Genere: patriottico
Se ti piace guarda anche: Die Hard, 24, Giustizia privata

Americanata.
Provate a cercare questo termine su un dizionario e probabilmente non la troverete. Anche perché probabilmente un dizionario in casa vostra non lo troverete. Ormai, con Internet, con Wikipedia, a che ve serve, ah ignoranti?
Nell’edizione 2014 del dizionario Garzanti, se mai la comprerete, di fianco alla parola “Americanata”, è probabile che troverete la locandina di questo film: Olympus Has Fallen – Attacco al potere. Già dal titolo originale, ci sente puzza di magniloquenza (non conosci il significato di questa parola? scoprilo qui!) a stelle e strisce lontana un miglio. L’Olympus sembra infatti riferito al governo americano e alla Casa Bianca, giusto per non esagerare. Così come il titolo, tutto in questo film trasuda grandezza. A parte il risultato complessivo, davvero modesto.

"Presto, Presidente, dobbiamo scappare!"
"Che c'è, ci stanno attaccando?"
"No, sta per iniziare la partita di football!"
"Azz, muoviamoci. Che sto facendo ancora con questi musi gialli?"
La prima scena dovrebbe mettere la pulce nell’orecchio. Il film di Antoine Fuqua, in un tempo lontano regista del cazzuto Training Day, punta immediatamente a giocare con i sentimenti dello spettatore, con una tragedia che manco Everwood o un film tratto da Nicholas Sparks avrebbero osato piazzare subito. Mentre si trova a Camp Davis, il Presidente degli Stati Uniti ha un incidente micidiale e la sua auto rimane in bilico su un burrone. Il suo paggetto, pardon addetto alla security Gerard Butler, deve decidere cosa fare e riesce a salvare soltanto il Presidente, mentre la First Lady viene sacrificata e finisce morta stecchita in fondo al burrone. Un inizio estremamente drammatico che poi non si rivelerà così fondamentale per gli sviluppi della storia e che quindi sa tanto di ruffianata strappalacrime messa lì alla cazzo di cane tanto per provare a strapparci il fazzoletto dalle tasche. Missione fallita, Fuqua. L’espediente ultra drama te lo sei giocato troppo presto, quando ancora non eravamo minimamente affezionati ai personaggi, perciò che c’è frega se muore la First Lady dopo una sola scena?
Non che con il resto della visione ci si affezioni in qualche modo ai personaggi, comunque…

"Oh, no. Ci hanno colpiti con un attacco a sorpresa!"
"Nucleare? Chimico?"
"No, un astuto uso combinato di biglie e bucce di banana per farci scivolare!"
18 mesi dopo, Gerard Butler lavora in ufficio e non è più a capo della security del Presidente. Il trauma per quanto successo è ancora troppo forte, ma non è niente rispetto a quello che succederà di lì a poco. E cosa succede?
Lo spunto politico della pellicola è più attuale che mai, o almeno lo era ai tempi dell’uscita nei cinema lo scorso aprile, mentre ormai è stato sorpassato dalla questione siriana. Nel film, la minaccia nucleare da parte della Corea diventa realtà, in una maniera però ancora più minacciosa di quanto si potrebbe immaginare. I coreani prendono d’assalto la Casa Bianca, ne fanno saltare per aria metà, rapiscono il Presidente (un Aaron Eckhart per una volta per nulla convincente) e uccidono tutti. Quasi tutti. Gerard Butler, che passava di lì per caso, è vivo e vegeto ed è pronto ad eliminare la minaccia coreana. Da solo. L’americanata, pardon il film, si gioca la carta del one man’s hero, l’uomo, l’eroe che da solo salva tutto e tutti. Come Bruce Willis in Die Hard, solo senza lo stile, l’ironia, la figosità di Bruce Willis in Die Hard. Yippie-ki-yay, Butler-fucker, non vali un cacchio al suo confronto. Ma proprio niente. E mi riferisco ai primi episodi della saga, non all’ultimo orribile Die Hard – Un buon giorno per morire.

"Corea o Siria?"
"Beh, io preferirei andare in Siria. Dovrebbe fare più caldo."
"Ma Presidente, io intendevo quale bombardare, non dove andare in vacanza..."
Olympus Has Fallen cade anche sulla tematica terroristica. Nel post-11 settembre, tutto quello che c’era da dire sul tema è già stato detto e fatto nella serie 24. Non bastasse John McClane, pure Jack Bauer in un confronto massacrerebbe alla grande il povero inutile poco credibile Gerard Butler versione action hero. Dopo Zero Dark Thirty, poi, e la serie capolavoro Homeland, dico Homeland, una pellicola del genere è un brutto, orribile ritorno al passato. Il passato degli action movies anni Ottanta imitato in maniera pessima e di cui restano giusto gli aspetti più trash, dalle musiche esageratamente enfatiche a un Morgan Freeman che di americanate non se ne perde una, fino ai soliti cattivoni stereotipati, qui capitanati da Rick Yune (che si legge "ricchiune") visto in L’uomo con i pugni di ferro, che cercano di togliere agli americani il loro splendido way of life. Ma tanto sappiamo già tutti come andrà a finire per loro.
E non dite che vi sto spoilerando qualcosa, perché se vi aspettate delle soprese o dei colpi di scena clamorosi da un film del genere siete messi peggio degli autori di questa...
Americanata. Non c’è altro modo per definirla. Per di più, un’americanata fatta male. Molto male.
(voto 4/10)



martedì 1 maggio 2012

Dopo la passione di Cristo, la passione del giornalista

"Forse mi conviene mettere su gli occhiali da sole. Forse..."
Oggi è il Primo Maggio. Festa del lavoro o anche Festa dei lavoratori. Lo sapevate già, eh? Non posso mica sempre inventarmi cose nuove. Sì, potrei dire che oggi è il giorno di Natale, ma ciò mi farebbe apparire solo psicopatico, più che originale.
In occasione di questa festa, allora, Pensieri Cannibali dedicata un post speciale al lavoro più bello del mondo.
Il pornodivo?
L’imprenditore pedofilo?
Il politico imprenditore pedofilo?
Il ballerino di Amici che si piomba Belen?
No, no, no e ancora no.
Il mestiere più bello del mondo è… il giornalista.
‘Azzo ridete? Non ho detto il più remunerativo.
E non ho detto nemmeno il più rispettabile, se come giornalista consideriamo l’inviato a Londra di Studio Aperto che ogni giorno deve pescare una notizia contro Murdoch se no lo fustigano pubblicamente.
Mi riferisco a un mestiere che, se fatto con passione, può essere molto soddisfacente.
No, eh?
Vabbè, era solo una scusa per parlare oggi del seguente film. Perché in fondo è anche questo ciò che fanno i giornalisti: scovano collegamenti inesistenti tra le notizie (e a volte sono inesistenti pure le stesse notizie).
E a (s)proposito di lavoro, giornalismo e collegamenti inesistenti, vi segnalo i miei nuovi pezzi per Ed è subito serial e per Wait! Music. Tenete d'occhio questi due siti, mi raccomando!


"Ma perché ho girato questo film?"
The Rum Diary - Cronache di una passione
(USA 2011)
Regia: Bruce Robinson
Cast: Johnny Depp, Amber Heard, Aaron Eckhart, Giovanni Ribisi, Michael Rispoli, Richard Jenkins, Bill Smitrovich, Amaury Nolasco, Marshall Bell
Genere: annacquato
Se ti piace guarda anche: Paura e delirio a Las Vegas, Zodiac, Chico & Rita

Se avete qualche dubbio sul fatto che quello del giornalista possa essere il mestiere più bello del mondo, guardatevi questo film e ve ne convincerete. Di certo non è il film più bello del mondo, però Johnny Depp se la spassa alla grande: beve tutto il giorno, va ai party, entra in contatto con i potenti di turno, si fa Amber Heard. Devo aggiungere altro?
Detto così, sembra una figata, e lui probabilmente se l’è spassata alla grande nel girarlo. Noi a vederlo, un po’ meno…

"Ora ricordo il perché: per farmi Amber Heard!"
Johnny Depp torna a interpretare una pellicola tratta da un romanzo del giornalista e scrittore Hunter S. Thompson, dopo Paura e delirio a Las Vegas. Il film di Terry Gilliam può suscitare impressioni del tutto diverse nello stesso spettatore:
- Se lo guardi da lucido, è una cazzata pazzesca.
- Se lo guardi da fatto, è una figata pazzesca.
- Se lo guardi da strafatto, beh, è il trip definitivo.
Adesso che vi ho citato quel film, toglietevelo subito dalla mente. The Rum Diary infatti è più rassicurante e, in qualunque stato fisico e/o mentale lo si guardi, resta sempre un film loffio.
Ma si può trarre un film loffio da un romanzo cult di uno dei giornalisti e autori più fuori e "gonzi" di sempre?
Evidentemente si può. Soprattutto quando decidi di aprire la pellicola sulle note di Volare nella versione Dean Martin.
Cos’è? L’ultimo di Woody Allen?
Anche se da una simile intro potrebbe sembrare, il film non è ambientato in Italia bensì a Porto Rico. Nel caliente Porto Rico. Non esattamente il posto più indicato per lavorare in maniera professionale e per restare sobri. Paul Kemp, l’alter-ego di Hunter S. Thompson intepretato da Johnny Depp, a smettere di bere non ci prova nemmeno. A parole dice che ha intenzione di farlo, ma i suoi occhi (rossi) raccontano un’altra storia.
Quale storia?

"Amber, quando hai capito di essere lesbica?"
"Facile: la prima volta che mi sono guardata allo specchio."
Questo film non racconta nessuna storia. Si limita a seguire il protagonista nelle sue peregrinazioni. Detto così ci potrebbe anche stare bene, più che bene. Un sacco di film splendidi non raccontano niente, eppure finiscono per raccontare tutto. Peccato che il regista Bruce Robinson segua il protagonista da lontano, senza mai farcelo vivere. Questo personaggio ci piace o non ci piace? Ci sta simpatico? Dobbiamo fare il tifo per lui? Boh, la pellicola si mantiene sempre troppo distante per farcelo capire con chiarezza.
Bruce Robinson era assente dalla regia da una ventina d'anni, da Gli occhi del delitto con Uma Thurman del 1992, e fondamentalmente non è che sentissimo granché la sua mancanza. Il suo stile è molto classicheggiante, per essere gentili e non dire piatto. La forza della scrittura di Hunter S. Thompson sta proprio in un forte stile, quello ricreato alla perfezione dall’altrettanto allucinato Terry Gilliam, mentre qui lo beviamo annacquato in una forma priva di spunti e di idee. L’unico momento “visionario” è quello del trip da droga vissuto dal protagonista insieme all’amico con la lingua che si allunga, ma è giusto una scena una e tra l’altro appare slegata da tutto il resto.

"Me lo rinfaccerai ancora a lungo che ero in Avatar?"
"Almeno per tutta la vita, come minimo."
Non male invece il cast. Johnny Depp va avanti in modalità pilota automatico. Questa non verrà certo ricordata come una delle sue interpretazioni più brillanti, però se non altro sembra ritornato su livelli decenti dopo le sue agghiaccianti performance negli ancor più agghiaccianti The Tourist e Alice in Wonderland: qualcuno, vi prego, mi dica che la Deliranza in realtà non è mai esistita e me la sono solo immaginata durante un trip da LSD.
Quindi c'è il sempre valido e (quasi) sempre sottoutilizzato Aaron Eckhart e in un piccolo ruolo c’è pure Giovanni Ribisi. Giovanni Ribisi, it boy negli anni ’90, che fine aveva fatto? Boh. Ah sì, aveva avuto una piccola parte in Avatar, ma pure quello come la Deliranza desidererei cancellarlo dalla memoria.
E poi, have you heard? C’è Amber Heard. Compare in maniera molto misteriosa come una sirena e altrettanto misteriosamente a un certo punto sparisce dalla scena. È lei il vero motore della vicenda, se in questo film c’è una vicenda principale. Peccato sia sfruttata davvero poco, troppo poco.

Anche il rum tanto sbandierato nel titolo, non è che giochi poi tutto questo ruolo centrale. Il film si adagia su ritmi sonnacchiosi, in perfetto stile Porto Rico poco fico e con poca musica, zero ritmo, finendo paradossalmente per essere una pellicola fredda invece che caliente come ci si poteva aspettare dall’ambientazione o come l’ingannevole trailer lascerebbe supporre. Per respirare di più l’odore del sesso (come direbbe Figabue Ligabue) e i ritmi latinoamericani, vi consiglio allora Chico & Rita, che pur essendo una pellicola d’animazione è molto più hot e sexy di questo rum on the rocks.
Vediamo Johnny Depp bere in più di un’occasione, eppure non sentiamo mai l’odore dell’alcool. Come effetto alcolico, The Rum Diary non provoca l’eccitazione di quando si comincia a bere. Provoca piuttosto l’intontimento delle ore successive, e verso la fine pure un cerchio alla testa da hangover. Un film con i ritmi da pennichella pomeridiana, anziché da venerdì sera alcolico. Più che di rum, un film che sa di birra. Birra analcolica.
(voto 5,5/10)

mercoledì 23 febbraio 2011

Rabbit Hole: Nella tana del biancofiglio

Rabbit Hole
(USA 2010)
Regia: John Cameron Mitchell
Cast: Nicole Kidman, Aaron Eckhart, Dianne Wiest, Miles Teller, Sandra Oh, Tammy Blanchard
Genere: drammone
Se ti piace guarda anche: In the bedroom, Moonlight Mile, La stanza del figlio, Le cose che restano, Gli ostacoli del cuore, Amabili resti
Attualmente nelle sale italiane

Trama semiseria
Nicole Kidman e Aaron Eckhart sono una coppia in apparenza come tante, sposati e quindi mediamente infelici e mediamente noiosi. Presto scopriamo però che dietro la loro apatia si nasconde in realtà un dramma: pochi mesi prima hanno infatti perso il loro unico figlioletto e cercano di tirare avanti come possono, andando ad esempio agli incontri per coppie come loro. Negli USA non ci sono infatti solo gli alcolisti anonimi, ma c’è praticamente un gruppo di sostegno per qualunque cosa. Soffrite di diarrea? C’è un gruppo. Vi piace cantare canzoncine sceme? C’è un gruppo (il Glee Club). Odiate Al Bano? Negli Stati Uniti c’è un gruppo (numerosissimo) persino per quello! E mentre Aaron Eckhart si fa le canne con la tipa asiatica di Grey’s Anatomy, la Kidman incontra il ragazzo che ha preso sotto loro figlio…

Recensione cannibale
La perdita di un figlio è una delle tematiche più difficili da affrontare. È sempre un’impresa da equilibristi riuscire a utilizzare un tocco intimo e delicato e a non fare del facile sentimentalismo pietoso alla Studio Aperto/Maria de Filippi. Difficile quanto estrattare un ossicino dall’allegro chirurgo (qualcuno di voi c’è mai riuscito?). Un argomento da tv del dolore su cui è facile scivolare, ma che se affrontato con il giusto tatto può portare a risultati splendidi, e come esempio in tal senso non posso che citare il mio amato Amabili resti.

Il regista di questo Rabbit Hole è John Cameron Mitchell, uno che arriva dalla fantasiosa epopea glam di Hedwig – La diva con qualcosa in più e dal controverso (e quasi porno) Shortbus. Uno che insomma non ci si aspetta di trovare dietro un drammone in piena regola, decisamente classico sia per narrazione che per direzione e invece eccolo qui, talmente immedesimato nel ruolo del regista tradizionale che non si concede praticamente alcuna libertà.

La pellicola ha dei momenti drammatici molto intensi che difficilmente lasciano indifferenti, anche se per la maggior parte del tempo i toni sono piuttosto freddi, cosa che se da una parte evita quindi il rischio del pietismo, dall’altro non aiuta a empatizzare con i protagonisti. Nicole Kidman è come al solito bravissima, ma non riesce a coinvolgere/sconvolgere come parecchie altre volte nel suo passato a.B., avanti Botox (Da morire, Eyes Wide Shut, Moulin Rouge!, The Others e Dogville i suoi exploit che più mi hanno sconvolto) e anche Aaron Eckhart è mediamente bravo. L’impressione è che però il film non aggiunga al drammatico argomento niente di diverso rispetto ad altre pellicole simili (In the bedroom, La stanza del figlio), tra le tendenze adultere di Eckhart e il rapporto conflittuale della Kidman con la madre Dianne Wiest, che pure lei è passata attraverso la perdita di un figlio.

L’elemento di maggiore interesse e originalità è allora fornito dal personaggio di Jason (il promettente Miles Teller), il ragazzo che suo malgrado ha tirato sotto il figlio della coppia. Nicole Kidman è ossessionata da questo giovane, lo segue quando torna da scuola e gli si avvicina: no, tra loro non scatterà un’improbabile storia sessuale, però lei si interesserà a un fumetto scritto dal ragazzo e intitolato Rabbit Hole. Questa parte della vicenda avrebbe meritato un ulteriore approfondimento e allora sì che avremmo avuto una pellicola particolare e fantasiosa. Così è solo un film impeccabile quanto algido, peccato che dentro questa tana del coniglio si sarebbe potuto scavare molto più a fondo.
(voto 6)

Personaggio cult: il giovane fumettista e involontario killer Jason (Miles Teller)
Scena cult: un intenso dialogo tra Nicole Kidman e Dianne Wiest sul dolore per la perdita di un figlio

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