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martedì 11 marzo 2014

I DISCHI CON CUI SONO CRESCIUTO




Nuovo giochino/lista su Pensieri Cannibali.
Dopo la serie dedicata a film, dischi, canzoni e programmi tv vergogna, ecco che vi propongo una nuova top 10. Anche questa volta ha a che fare con il tirare fuori i propri scheletri dall’armadio, ma in questo caso non sono scheletri di cui necessariamente vergognarsi.
Quali sono i dischi, o anche solo le canzoni, con cui siete cresciuti?
Ecco la lista dei 10 album fondamentali della mia adolescenza. Come potrete notare sono tutti dischi degli anni ’90. Questo perché è in quel decennio che ho cominciato ad ascoltare musica e in quel periodo mi piaceva sentire soprattutto artisti a me contemporanei. Le band del passato erano roba per i miei genitori e io, da buon teenager ribelle, non volevo averci niente a che fare. Più in là nel tempo avrei poi ampiamente rivalutato un sacco di musica “vecchia”, soprattutto quella degli anni Ottanta, ma nei 90s per me esisteva solo la musica dei 90s.
E dopo questa premessa più o meno inutile, beccatevi la mia top 10 degli album con cui sono cresciuto. Se vi piace l’iniziativa, partecipate pure voi con le vostre liste di dischi o canzoni con cui siete sopravvissuti all'infanzia/adolescenza da postare sui vostri blog, sui social network oppure tra i commenti a questo post.

10. Alanis Morissette “Jagged Little Pill”
Ci sono dischi che segnano una generazione. L’esordio di Alanis Morissette uscito a metà anni ’90 è uno di questi. Difficile spiegare bene il perché a chi scopre la sua musica adesso. Aveva le canzoni giuste, il look giusto, il suono giusto. Aveva un’attitudine rock ribelle ma i suoi pezzi possedevano anche un’immediatezza pop capace di raggiungere qualunque tipo di pubblico. Ascoltato oggi può non sembrare niente di così fenomenale o sconvolgente, eppure chi è cresciuto nei 90s, ovunque fosse e qualunque tipo di musica ascoltasse, non può non essere stato segnato in qualche modo da questo disco.



9. Verdena “Verdena”
Nell’epoca in cui gli album ancora si compravano, non ho mai comprato molti dischi italiani. Nei 90s ascoltavo i vari Afterhours, Bluvertigo e Marlene Kuntz, però nessun gruppo nostrano era riuscito a conquistarmi davvero come le band inglesi o ammerecane. Nessuno fino ai Verdena. Pezzi come “Valvonauta” o “Viba” non ho capito ancora oggi cosa significhino, probabilmente non l’hanno capito nemmeno gli stessi Verdena, però dio bono se spaccavano, i Nirvana de’ noantri. E spaccano ancora.



8. Fugees “The Score”
Per quanto sia cresciuto con dischi prevalentemente rock, il mio cuoricino ha sempre battuto in maniera particolare anche per la musica hip-hop. Tra l’ascolto occasionale di una “Gangsta’s Paradise” di Coolio e una “California Love” di 2Pac, l’album che ha definitivamente sdoganato il genere rap nella mia collezione di dischi è stato “The Score” dei mitici Fugees. Quella con la loro versione super cool di “Killing Me Softly”.



7. Muse “Showbiz”
Il primo concerto a cui sono stato. Milano. Alcatraz. Muse. Quando ancora nessuno se li filava. Quando in Italia, ma un po’ anche nel resto del mondo, li ascoltavamo soltanto io e il mio amico Carlo Maria. E chi li aveva fatti conoscere i Muse al mio amico Carlo Maria? Io ovviamente. I tre inglesi capitanati da Matthew Bellamy avrebbero poi venduto milioni di copie e sarebbero finiti a suonare a Wembley e a farsi Kate Hudson, però come direbbe Pippo Baudo: “I Muse li ho inventati io”.



6. Sonic Youth “A Thousand Leaves”
Una volta non si chiamava indie, si chiamava alternative rock. Quando ho conosciuto i Sonic Youth, sono davvero diventato alternative rock. Sono davvero diventato indie.

Mamma, sono diventato indie!
Ma se dormi ancora col tuo orsetto Yoghi! [Articolo 31 cit.]



5. Prodigy “The Fat of the Land”
Oltre che una testa di radio e oltre che una testa di ca**o, sono una testa elettronica. Sono cresciuto con una cultura musicale orientata verso il rock, però ho sempre creduto ci fosse qualcosa di più e qualcosa di diverso da una formazione chitarra-basso-batteria. A farmi avvicinare al mondo della musica electro c’hanno allora pensato i Prodigy, gruppo capace di fondere un’attitudine punk-rock da Sex Pistols a suoni da rave-techno per impasticcati. Cosa ci poteva essere di più figo?



4. Blur “Blur”
Un grandissimo album, “Blur” dei Blur, come d’altra parte tutti i dischi della band di Damon Albarn. Al di là del valore dell'LP nel complesso, se devo indicare una sola canzone capace di scaraventarmi indietro nel tempo, questa è “Song 2”. Non servono DeLorean, flussi canalizzatori o 88 miglia orarie. Bastano meno di due minuti ed eccomi lì di nuovo, un kid di appena 15 maledettissimi anni.



3. Nirvana “Nevermind”
Uno dei più grandi rimpianti della mia vita è quello di non aver vissuto “in diretta” il periodo dei Nirvana. L’ho mancato giusto per un soffio. Ai tempi dell’esplosione di “Smells Like Teen Spirit” avevo appena 9 anni e Kurt Cobain non sapevo manco chi fosse. Il mio idolo ai tempi era Robbbertobbbaggio, come lo chiamava Biscardi. Kurt Cobain l’ho conosciuto solo dopo la sua morte e, al di là delle sue splendide canzoni, mi avrebbe affascinato, e mi affascina tutt’oggi, come nessun altro personaggio, musicale e non. Per me Kurt resterà sempre un gigantesco meraviglioso punto interrogativo. Il simbolo di un disagio esistenziale che, anche quando tutto il mondo ti acclama, non puoi scrollarti di dosso. Mai.



2. Radiohead “Ok Computer”
La prima volta che ho ascoltato “Paranoid Android” è stata come la prima volta che ho fatto all’amore o la prima volta che ho visto 2001: Odissea nello spazio. Un’esperienza rivelatrice capace di farmi rivalutare tutto ciò in cui credevo prima, con la sola differenza che 2001 e Paranoid Android sono durate molto più a lungo. Quando poi è arrivato l’intero album Ok Computer, il mondo così come lo conoscevo è cambiato un’altra volta ancora.



1. Oasis “(What’s the Story) Morning Glory?”
Non il mio album preferito, non il più bello, non il migliore, bensì quello più importante per la mia adolescenza musicale. “(What’s the Story) Morning Glory” della band dei fratelli Gallagher è stata la prima musicassetta che ho comprato, ed era il giorno in cui ho compiuto 14 anni. È il disco che mi ha cambiato la vita e mi ha fatto diventare un drogato perso di musica. Per qualche tempo gli Oasis sono stati la mia band favorita, poi sono arrivati i loro rivali Blur e goodbye Gallagher.
Nonostante il tempo sia passato e con il tempo i miei ascolti siano cambiati, siete stati davvero importanti per me, cari Noel e Liam e, anche se siete due bastardi come pochi, vi vorrò sempre un mondo di bene.

venerdì 14 settembre 2012

Alanis Zerotette

Alanis Morissette “Havoc and Bright Lights”
Genere: lagna-rock
Provenienza: Ottawa, Canada
Se ti piace ascolta anche: Avril Lavigne, Tori Amos, Sheryl Corvo

La gente dovrebbe aprire bocca soltanto quando ha davvero qualcosa da dire. È una cosa che penso e che ho sempre pensato. È una cosa che cerco di mettere in atto anche in questo blog. Magari non mi riesce tutte le volte, però l’obiettivo è sempre quello di realizzare dei post che abbiano qualcosa da dire. Non per forza una verità fondamentale sulla vita e sul mondo, giusto “qualcosa”. A volte può capitare di scrivere di un film solo perché l’ho visto e allora sento in automatico il bisogno di parlarne a tutti i costi e ne viene fuori un post riempitivo. Nella quantita, capita. Il più delle volte comunque cerco di parlare di una pellicola, così come di un disco o di un libro o di altro, solo quando ho l’ispirazione per raccontarlo in maniera personale e regalarne una visione che sia mia.
E poi, naturalmente, ci sono le volte in cui scrivo solo delle gran ca**ate, ma anche quelle ca**ate in qualche modo provano a esprimere “qualcosa”.

"Cos'è questa luce accecante? Dio, o solo l'ego gigantesco di Cannibal Kid?"
Alanis Morissette è una che una volta di cose da dire ne aveva. Parecchie. Il suo album d’esordio Jagged Little Pill sarà stato anche prodotto in maniera furbastra, con le chitarre di impronta grunge addolcite da qualche ritmo pop e un sapore da classic rock americano, eppure la ai tempi ragazza aveva parole avvelenate da sputare fuori. Basti sentire “You Oughta Know”. Una canzone sulla fine di un rapporto decisamente più incazzosa rispetto ad analoghe hit recenti come “Somebody That I Used to Know” di Gotye o “Someone Like You” di Adele, che prendono la rottura con maggiore filosofia.
Con il secondo album, “Supposed Former Infatuation Junkie”, benché eccessivo, troppo pieno di roba e non del tutto riuscito, la sensazione era quella di trovarsi di fronte a un’artista che aveva più cose da dire ancora. Sulla popolarità enorme che l’aveva travolta e sulla sua esperienza life-changing in India, ringraziata nel singolo “Thank U”.
Dal terzo disco in poi, Alanis non aveva più niente da dire. È diventata incosistente. Ha continuato a tirare fuori un (inutile) album nuovo ogni tanto così, per mantenere il suo agiato stile di vita. La musica è passata dall’essere una passione, una valvola di sfogo per tirare fuori ciò che aveva dentro, a una professione come un’altra. Capita a un sacco di artisti. Dicono tutto ciò che avevano di più o meno originale e di più o meno personale da dire a inizio carriera e poi semplicemente si fanno risucchiare dall’industria. Passano dall’essere artisti all’essere impiegati comuni, come tanti altri. Niente di male, in questo. Non è che uno può tirare sempre fuori qualcosa di nuovo e di bellissimo e di fondamentale. Si fanno dischi, così come si producono automobili. Anche se, oddio, oggi come oggi entrambi i settori non è che siano dei più redditizi.
Come detto, niente di male in questo. Soprattutto in tempi di crisi, ci si arrangia come si può. L’unica cosa è che noi non siamo obbligati a starli a sentire. Se non hanno più niente da dire, meglio rivolgere le nostre stazioni radio, le nostre cuffiette e i nostri impianti subwoofer altrove.

Per una sorta di attaccamento adolescenziale, ché io con i primi due dischi dell’Alanis ci sono cresciuto, una possibilità al suo nuovo disco ho voluto comunque dargliela. Invano, visto che si allinea alle sue ultime poco memorabili produzioni e vola forse ancora più in basso. Però non si sa mai. Magari un giorno la Morissette avrà qualcosa da dire di nuovo. Magari tirerà fuori un disco di ballate country in cui rimetterà a nudo la sua anima e tornerà ad essere un’artista.
Il nuovo “Havoc and Bright Lights” la vede invece nelle vesti di impiegata, di commessa musicale. Da una parte cerca di tornare alle origini rock del suo debutto, con delle chitarrone sparate a manetta che però più che ricordare l’alternative rock degli anni Novanta finiscono per far venire in mente lo stile Nickelback. Ovvero: fanno sanguinare le orecchie. Come nel primo pessimo spiritualeggiante singolo “Guardian”.



Dall’altra parte, quando i ritmi rallentano le cose si fanno ancora più drammatiche e si fa fatica a non addormentarsi con pezzi comatosi come “’til You”, “Empany”, “Havoc”, “Win and Win”. E, quando va ancora peggio, si vorrebbero sbattere le orecchie contro il muro per non sentire (la litania di “Lens”). L’album si salva un minimo giusto nel finale, con un paio di pezzi decenti (“Edge of Evolution” e “Will You Be My Girlfriend”). La questione fondamentale comunque non sono tanto i suoni o le singole canzoni, quanto la totale mancanza di una anche solo vaga ispirazione.
La gente dovrebbe aprire bocca soltanto quando ha davvero qualcosa da dire. I cantanti dovrebbero fare lo stesso.
E pure io, mi sa.
(voto 4/10)

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