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domenica 7 settembre 2014

LE MORE SECONDO DAN





L'amore secondo Dan
(USA 2007)
Titolo originale: Dan in Real Life
Regia: Peter Hedges
Sceneggiatura: Pierce Gardner, Peter Hedges
Cast: Steve Carell, Juliette Binoche, Dane Cook, Alison Pill, Britt Robertson, Marlene Lawston, John Mahoney, Dianne Wiest, Emily Blunt, Jessica Hecht, Matthew Morrison, Sondre Lerche
Genere: reale
Se ti piace guarda anche: City Island, Non dico altro, Little Miss Sunshine, Cercasi amore per la fine del mondo

C'è una scena, all'inizio de L'amore secondo Dan, che dice tutto sul film. È il momento del primo incontro tra il protagonista, un vedovo di mezza età con tre figlie femmine interpretato da Steve Carell, e la sofisticata mora francese Juliette Binoche. Lui si finge impiegato come commesso nella libreria in cui lei entra e le chiede che tipo di libro sta cercando. Lei risponde che cerca “qualcosa di divertente, ma non necessariamente di tipo AH AH AH, risate a crepapelle. Non tipo eccessivo sarcasmo sulle persone, ma piuttosto qualcosa di umanamente divertente. E anche che possa prendere alla sprovvista, sorprendere e allo stesso tempo farti riflettere sul fatto che ciò che pensavi non solo era giusto nel modo sbagliato, ma che quando sbagliavi c'era qualcosa di giusto nel tuo sbaglio. La cosa più importante è che voglio esserne completamente travolta e allo stesso tempo non voglio. Insomma, mi piacerebbe sentire un profondo legame con qualcosa.

"Mi stai consigliando un libro di Moccia? AH AH AH! Ma quanto sei simpatico?"
"Veramente non stavo scherzando..."

L'amore secondo Dan non è un libro bensì un film, ma corrisponde alla perfezione alla descrizione fatta da Juliette Binoche. Se Steve Carell anziché un libraio si fosse finto commesso di un negozio di videonoleggio, ammesso e non concesso ne esistano ancora, avrebbe potuto consigliarle il film di cui sono protagonisti proprio loro due e avrebbe fatto centro. Non è un'impresa facile racchiudere in una pellicola sola tutte queste caratteristiche, eppure così è con L’amore secondo Dan.
La sceneggiatura non rappresenta niente di nuovo sotto il sole. È quasi interamente costruita intorno a Steve Carell che deve nascondere al fratello Dane Cook, comico non troppo comico popolare soprattutto negli USA, di essersi innamorato della sua fidanzata, la Juliette Binoche incontrata nella sopra citata scena della libreria quando ancora non sapeva che fosse già impegnata con il fratello.

Si tratta di un altro, l'ennesimo triangolo sentimentale proposto dal cinema recente, solo che questa volta non ci sono di mezzo vampiri, licantropi o altri mostri vari. Grazie a Dio e grazie a Satana! I tre protagonisti di questo triangolo saranno costretti a stare tutti insieme, vicini vicini, durante un weekend in famiglia in cui sono presenti anche le tre figlie di Steve Carell, ovvero la gnocchetta teen Britt Robertson vista nelle serie Life Unexpected, The Secret Circle e Under the Dome, la indie girl Alison Pill già beccata in Scott Pilgrim Vs. the World, The Newsroom e Milk, più la bambinetta Marlene Lawston mai vista prima. Il tutto arricchito dalla comparsata di un'altra mora interpretata da Emily Blunt che si inserirà nel triangolo sentimental-famigliare e contenderà Carell alla Binoche.


"Davvero preferisci quella francese secchiona a moi?"

Questa grande riunione di famiglia per fortuna non si trasforma però in una farsa come succede nel pessimo Big Wedding, nonostante i presupposti ci fossero pure. E qui di nuovo c'è da ringraziare Dio e pure Satana!

Nonostante una combinazione di situazioni e di personaggi (lo scrittore tormentato, il fratello superficiale, la francese giramondo e acculturata) già visti e già abusati, L'amore secondo Dan è un film estremamente vivo. Riesce a essere carino, ma non un cariiino stucchevole. Un carino nel senso di piacevole, di sentito, di bello. Con una nota di merito per la piacevole colonna sonora firmata dal cantautore norvegese Sondre Lerche, che appare pure come cantante nella scena sui titoli di coda.
Rispetto a molte altre romcom americane, il suo grande merito è quello di essere un film che non sa di plasticoso. Fa sorridere, ma non ridere AH AH AH, ed emoziona in maniera genuina e gentile. Dan in Real Life, dice il titolo originale come al solito ben più efficace della banale scelta italiana, è proprio così e fa “sentire un profondo legame con qualcosa”. Per quanto romanzata e per quanto rientri pur sempre all'interno della categoria commedia sentimentale con tutti i suoi stereotipi annessi e connessi, questa è la vera vita di Dan. Un personaggio da amare, protagonista di un piccolo film indie da amare.
(voto 7/10)

mercoledì 26 marzo 2014

SNOWPIRLA




Snowpiercer
(Corea del Sud, USA, Francia, Repubblica Ceca 2013)
Regia: Bong Joon-ho
Sceneggiatura: Bong Joon-ho, Kelly Masterson
Ispirato alla serie a fumetti: La Transperceneige di Jacques Lob, Benjamin Legrand e Jean-Marc Rochette
Cast: Chris Evans, Jamie Bell, John Hurt, Tilda Swinton, Song Kang-ho, Ko Ah-sung, Octavia Spencer, Ewen Bremner, Alison Pill, Luke Pasqualino, Tómas Lemarquis, Steve Park, Ed Harris
Genere: arca di Noè 2.0
Se ti piace guarda anche: 2013 – La fortezza, Atto di forza, Brazil

Snowpiercer è il nuovo Blade Runner?
Il nuovo Matrix?
Il nuovo Brazil?
Il nuovo Strange Days?

A essere ancora generosi, a me Snowpiercer è sembrato piuttosto il nuovo 2013 – La fortezza, film dei primi anni ’90 con Christopher Lambert impegnato a lottare contro un sistema oppressivo. O anche una pellicola un po’ alla Paul Verhoeven, tra Atto di forza e Starship Troopers. Ma il nuovo Blade Runner?
ARE YOU FUCKING SERIOUS?

Certo che quelli del marketing sanno come vendere un film, dobbiamo ammetterlo. Quella che l’astuta strategia promozionale ha cercato di spacciare come la migliore pellicola di fantascienza degli ultimi 100 miliardi di anni, o qualcosa del genere, altro non è che l’ennesima banalità sci-fi degli ultimi tempi. Non ai livelli irraggiungibili di Cloud Atlas, però insomma, tra i film dei Wachowski di sicuro siamo più vicini a quelle parti che non a quelle di Matrix.

"Oh, andiamo. Sono l'unico qui dentro con un biglietto
e volete farmi la multa solo perché non l'ho obliterato?"
Il film parte dal solito spunto apocalittico. È arrivata una nuova era glaciale, ma questa volta Scrat non è stato chiamato a far parte del cast, poverino, e gli unici esseri umani sopravvissuti stanno su un treno che gira tutto intorno alla Terra. Contenti loro…
Il treno è una specie di moderna Arca di Noè, anche se a me la storia della sua realizzazione ha più che altro fatto venire in mente l’episodio dei Simpson “Marge contro la monorotaia”. Un’idea strampalata ma se non altro piuttosto originale, sebbene i meriti di ciò vadano assegnati alla serie a fumetti francese Le Transperceneige da cui è tratta, più che alla pellicola di per sé.

La singolare variante trenistica di un film a caso di Roland Emmerich si scontra però contro due problemi principali. Il primo è la sua struttura narrativa da videogioco, ovvero completare un livello per passare a quello successivo, solo con le carrozze al posto dei livelli. La sceneggiatura del film si limita quindi a spostare i protagonisti ribelli, i poveri delle ultime carrozze, in quelle davanti, dove incontreranno avventure incredibili… si fa per dire. Detto in parole povere: cinema-videogame alla Zack Snyder spacciato per cinema d’autore.
Carrozza dopo carrozza, diventa chiaro sia ai protagonisti che allo spettatore il funzionamento del treno. Il superamento dei livelli avviene attraverso vari combattimenti, scazzottate o sparatorie, in cui il regista sudcoreano Bong Joon-ho si diverte un mondo. Peccato che, tra momenti concitati alternati a rallenty, appaiano come l’ennesima scopiazzatura fuori tempo massimo delle sequenze action del menzionato Matrix. L’unica scena impressionante è la battaglia con le fiaccole, il solo momento davvero notevole a livello visivo.

"Charlotte Gainsbourg, preparati che sto arrivando!"
Per il resto, il film è una successione di scenette a metà tra il grottesco e il risibile, con ottimi attori come Tilda Swinton, Alison Pill, John Hurt, Octavia Spencer e Ewen Bremner (il mitico Spud di Trainspotting) ridotti a interpretare dei personaggi macchietta che sembrano usciti dalla parodia di un film di Terry Gilliam. Per non parlare dell’attore feticcio del regista, Song Kang-ho, cui è affidata la parte del tossico patito di Kronol che poteva essere il personaggio simpa di turno e invece no, è una lagna pure lui. In un cast sulla carta di buon livello in cui si segnala pure Jamie Bell che ormai vedo ovunque, da Il lercio all'imminente Nymphomaniac e presto pure Cosa nei nuovi Fantastici 4, il protagonista principale – sempre a proposito di Fantastici 4 – è Chris Evans. Ecco, io non ho niente contro Chris Evans, mi sta simpatico fin dai tempi dell’esilarante Non è un’altra stupida commedia americana, ma, se anche in Snowpiercer tutto il resto avesse funzionato a dovere, un film con Chris Evans protagonista NON può essere un cult. Mi si viene a dire che Channing Tatum è inespressivo, ed è vero, ma allora che dire di Chris Evans?

"Vi prego, sparatemi ma risparmiatemi il finale di questo film!"
Oltre a essere un film-videogame, il secondo grande problema della pellicola, anzi il terzo visto che il secondo è Chris Evans, è la sua ambizione di contenere chissà quale altissimo messaggio. Solo che Snowpiercer ha lo spessore politico di un discorso di Matteo Renzi. Hunger Games viene tanto criticato perché propone una visione socio-politica semplicistica, come fosse un 1984 per teenager, cosa che infatti è, ma al confronto di Snowpiercer appare come una saga ultra impegnata.
Nel film di Bong Joon-ho tutto è troppo spiegato. Sul fatto che il treno sia una metafora della società umana, con le classi più agiate nelle carrozze di prima classe davanti e i morti de fame in quelle in fondo, ci potevamo arrivare anche da soli. Invece no. Il film deve esplicitare pure quello, attraverso una serie di dialoghi ridicoli che raggiungono il top nella parte finale. L’apparizione del creatore, del Dio del treno, tale Wilford interpretato da Ed Harris, fa andare giù le mutande quanto quella dell’Architetto in Matrix Reloaded. E allora si torna lì, al cinema dei Wachowski, ma non certo al loro film migliore, il primo Matrix, quanto ai suoi penosi seguiti. Che fantasia poi prendere per questa parte Ed Harris, già uomo dietro le quinte del The Truman Show. Morgan Freeman, che di solito in questi ruoli ci sguazza, era per caso troppo impegnato?
La claustrofobia provocata da Snowpiercer non è allora causata tanto dall’ambientazione interamente all’interno di un treno, quanto dalla presenza di questi soffocanti spiegoni, che non lasciano spazio a molte interpretazioni. Il film concede una carrozza a chiunque, tranne al libero pensiero dello spettatore.

"No, sparate prima a me!"
Dopo 2 ore di corsa in cui si è stati per lo più in piedi e giusto per una manciata di minuti seduti, neanche tanto comodamente, si arriva al termine stremati e si rimpiange addirittura di non aver viaggiato con Trenitalia. Perché?
Perché come film d’intrattenimento Snowpiercer è a malapena mediocre, da un punto di vista del messaggio politico è scontato e ci regala un finale penoso che, alla faccia della fonte di ispirazione francese e del regista orientale, sa tanto di solita americanata buonista, con tanto di ATTENZIONE SPOILER sacrificio supereroistico di Chris Evans. Ciliegina sulla torta: un’ultimissima inquadratura dedicata a un tenero orsetto bianco, che vorrebbe rappresentare come sulla Terra all'infuori del treno ci sia ancora spazio per la vita. Peccato che il tenero orsetto sia pronto a cenare con gli ultimi umani rimasti.
E questa roba qua sarebbe il nuovo Blade Runner?
Gente, prendete meno Kronol, per favore!
(voto 5/10)

"Che finale imbarazzante!"

martedì 23 ottobre 2012

Li mortacci tua, Woody Alien!

"Roberto, come la chiamate qui in Italia una terrible actress?"
"La chiamiamo Mastronardi, maestro."
To Rome With Love
(USA, Italia, Spagna 2012)
Regia: Woody Allen
Cast: Woody Allen, Roberto Benigni, Jesse Eisenberg, Greta Gerwig, Alec Baldwin, Ellen Page, Alison Pill, Flavio Parenti, Alessandro Tiberi, Alessandra Mastronardi, Penelope Cruz, Riccardo Scamarcio, Antonio Albanese, Judy Davis, Fabio Armiliato, Monica Nappo, Ornella Muti, Carol Alt, Vinicio Marchioni
Genere: ao’
Se ti piace guarda anche: Vac(c)anze di Natale vari, I Cesaroni

Dopo l’ottimo Midnight in Paris, non volevo credere alle voci negative riguardo al nuovo film di Woody Allen ambientato in Rome. Infatti le voci negative si sbagliavano. Oh, se si sbagliavano.
La verità è che è molto ma molto peggio. Ma molto.

"Woody, se te becco te faccio 'na faccia così!"
Una prima cosa non proprio positiva da rilevare su quest’ultima ennesima fatica alleniana riguarda gli stereotipi su Roma e sull’Italia. Ma su di quelli si è espresso già molto chiaramente Carlo Verdone, uno il cui ultimo film Posti in piedi in Paradiso non sarà un granché, ma al confronto di ‘sta roba è un Fellini. Ecco cos’ha detto:

"Il film di Woody Allen sulla mia città? Non fa per niente ridere, anzi, fa piagne: è un'opera assolutamente inutile, mostra una capitale che non esiste, magari esistesse, e che secondo me non è mai esistita. Non sta né il cielo né in terra: punto. Un'operazione solo turistica, la sua: si voleva fare una vacanza e basta. […] Mi dispiace dirlo di Woody, ma è così: la sua ultima fatica è un presepe finto, in cui non ha fatto altro che giocare coi luoghi comuni. È una Roma vista con gli occhi degli americani, che quando viaggiano sperano di trovarla così: gente bonacciona, un po' sguaiata, i monumenti, se mangia bbene... Roma invece è una città piena di problemi, che amo tantissimo, che mi sta a cuore, ma è diventata impossibile."

"Ciao Woody, vuoi che reciti nel tuo prossimo film? Eh, come no!
Le cose che ho detto su To Rome With Love?
Ma no. Sai com'è, noi romani stiamo sempre a scherzà..."
E questa questione l’ha espressa bene il Carletto. Se a ciò aggiungiamo personaggi che si chiamano Michelangelo e Leonardo, ma purtroppo mancano Donatello e Raffaello altrimenti si poteva anche fare una reunion delle Tartarughe Ninja, più qualche marchettona marchionnara della 500 e le note di “Nel blu dipinto di blu” sparate subito subito sui titoli di testa, la cartolina dell’Italia idealizzata è bell’e che servita.
Se vogliamo, anche il precedente di Allen Midnight in Paris era ricchissimo di stereotipi, su Parigi e sull’età dell’oro degli anni ’20, e su Parigi negli anni ’20. Però il film funzionava. Era una splendida fiaba e allo stesso tempo una riflessione nostalgica su come il passato sembri sempre meglio del presente. Vero anche questo: il vecchio Allen era meglio di quello nuovo.
Quello nuovo di To Rome With Love non se pò vedé.

"Penelope, la prossima scena me la fai un po' più Ruby Rubacuori, ok?"
Non c’è comunque da disperare troppo. In fondo, dopo il modestissimo Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, a sorpresa è tornato in grande spolvero in quel di Parigi. In fondo, Woody Allen è fatto così. Di film ne gira tanti, troppi, alcuni sono belli, altri meno, qualcuno come questo è davvero brutto. Certo, un tonfo imbarazzante del genere non l’aveva mai fatto, almeno non tra le sue pellicole che ho visto (una piccola percentuale, visto che come ho detto ne gira davvero troppi), però chissà che con il suo ritorno negli USA per il suo prossimo progetto ancora senza titolo non ritrovi l’ispirazione perduta.

Gli stereotipi danno fastidio sempre, quando ci vanno a toccare in prima persona in quanto italiani sono ancora più fastidiosi e posso capire l’ulteriore disappunto dei romani come Verdone. Ma quali sono gli altri problemi del film? La questione fondamentale è che al di là della cornice idealizzata, stereotipata ecc., è proprio il film una fetecchiona. La sceneggiatura è imbarazzante. Mette insieme una serie di storielle degne di un cinepanettone. O di una barzelletta. E a tratti, To Rome With Love somiglia persino a una puntata dei Cesaroni, e pure di quelle scritte male. Ammesso e non concesso ne esistano di scritte bene. Siamo talmente dalle parti della fiction di Canale 5 che mi sono stupito di non vedere arrivare Matteo Branciamore da un momento all’altro a cantare “Sai cosa c’è…” poi non so più come va avanti. Che volete? Non sono mica un fan dei Cesaroni come Wudy Aia.
Non ci sarà Branciamore, almeno quello, ma le musiche utilizzate sono penose e fanno molto film di Pierino. Senza offesa per i film di Pierino.

"Alessandro, perché tutti mi chiamano cagna maledetta? Sai che vuol dire?"
"Chi io? Non ne ho la più pallida idea..."
Dicevamo comunque delle storielle messe insieme alla buona. La più agghiacciante, e chissà perché non ne sono stupito, è quella che vede come protagonisti gli attori italiani. Dai citati Cesaroni, ecco a voi Alessandra Mastronardi. Se Carla Bruni nel precedente Midnight in Paris era stata molto tagliata nel montaggio finale e compariva giusto per pochi secondi, riuscendo comunque a rimediare una figura barbina, qui la Cesarona ce la dobbiamo sorbire a lungo. E com’è la sua intepretazione? Terribbbile.
Con lei c’è anche Alessandro Tiberi che si vede che ha studiato la recitazione alleniana e ne propone una versione/imitazione italiana accettabile. Ebbravo lo stagista di Boris!
Parecchio spento Antonio Albanese, del tutto fuori parte come latin lover e super divo del cinema italiano, mentre convince Riccardo Scamarcio, che nella sua fugace apparizione arriva, tromba la bernarda della mastronarda e va via. Così si fa!
"Adoro il tuo social network, Mark. Ci passerei tutto il giorno..."
"Come devo ripetertelo che non sono Zuckeberg? Comunque ti addo agli amici!"
Nell’episodio compare inoltre la spagnola Penelope Cruz, ennesima “dea dell’amore” alleniana. Diciamo solo che la spagnola ha offerto prove migliori in film migliori.

La storiella (relativamente) più interessante e meglio recitata è invece quella con Mark Zuckerberg Jesse Eisenberg e Greta Gerwig. Lei gli presenta una sua amica attrice, Ellen Page, dicendogli che tutti gli uomini finiscono per innamorarsi di lei e anche lui naturalmente finirà per… innamorarsi di lei. D’altra parte, Ellen Page è la cosa migliore di questo film e il suo personaggio, per quanto anch’esso tratteggiato con enorme leggerezza, è l’unico raggio di sole in una Roma che qui appare cinematograficamente molto nuvolosa. Il personaggio “off” di un buon Alec Baldwin invece no, quello è davvero odioso. Una sorta di grillo parlante non richiesto che rompe le balle a Zuckerberg Eisenberg, alla Page e soprattutto allo spettatore.

"Va bene, Alec, ti taggo insieme a me!"

"Alec, eddaje! Vuoi essere taggato pure qua?"

"Woody sta guardando dall'altra parte? Io allora mi do' alla fuga!"
La storiella di Roberto Benigni è quella nelle intenzioni più “profonda”. Una riflessione su come oggi si possa diventare famosi per niente. Qualcuno ha detto Paris Hilton?
Bella l’idea, che forse sarebbe stata più efficace per un cortometraggio, realizzazione stancante, con un Benigni che per un paio di minuti fa anche ridere, subito dopo stufa. Che poi, il tema della celebrità è una costante in tutte le vicende, peccato sia trattato in una maniera davvero superficiale e non dice fondamentalmente niente di nuovo sull’argomento.

"Bravo Cannibal. Sul post non siamo molto d'accordo,
però sulla Mastronardi come darti torto?"
Un’altra storiella di questo puzzle di ispirazione boccaccesca (il titolo iniziale del film era Bop Decameron) vede impegnato lo stesso Woody Allen, di rientro davanti alla macchina da presa, ed è l’unico che azzecca 1 battuta 1 in tutto il film, quando va dai genitori del fidanzato della figlia, che hanno una ditta di onoranze funebri, e dice: “Abbiamo seguito il primo carro funebre e l’abbiamo trovata”. Per il resto, come detto dal bianco rosso Verdone, più che ridere se piagne.
Al di là di questo unico momento ilare della pellicola, la storiella è di quelle talmente ridicole da poter risultare geniali, se solo fossero affidate a uno Spike Jonze o a un Michel Gondry, non a questo spento Woody Allen. Il padre del futuro marito di sua figlia (una sprecatissima Alison Pill) è un tipo che sotto la doccia, e solo sotto la doccia, si rivela un cantante lirico alla Pavarotti, Caruso o Bocelli. Tanto per non farci mancare pure questo stereotipo italiota. E così Allen lo incoraggia a esibirsi a teatro… sotto la doccia.
Uno spunto grottesco potenzialmente interessante che si risolve, come tutto il resto del film, in farsa. Anche se a me è sembrata più che altro una tragedia.

Non so se gliel’hanno gridato a Roma, nel caso rimedio io:
ah Wood Alien, ma vedi di andare a pijartelo 'nder cu..
(voto 3/10)

lunedì 2 luglio 2012

Uguale uguale a Studio Aperto

"Vi comunichiamo che sì: Bonucci sta ancora piangendo!"
The Newsroom
(serie tv, stagione 1, episodio 1)
Rete americana: HBO
Rete italiana: non ancora arrivata
Creatore: Aaron Sorkin
Cast: Jeff Daniels, Emily Mortimer, Alison Pill, Thomas Sadoski, John Gallagher Jr., Sam Waterston, Dev Patel, Adina Porter, Olivia Munn
Genere: giornalistico
Se ti piace guarda anche: The Hour, Sports Night, West Wing, Studio 60 on the Sunset Strip, The Social Network, Good Night, and Good Luck., 24, Mad Men, The Office, Veep

Ci sono un paio di ragioni per seguire The Newsroom, la nuova serie tv di HBO. Veramente, ce ne sarebbero ben più di un paio, però cominciamo con le prime due: Aaron Sorkin e la tematica del giornalismo.

Aaron Sorkin è il Cristiano Ronaldo, il Mario Balotelli, la Spagna degli sceneggiatori. Fa cose mostruosamente difficili, con una facilità impressionante. Come nella straordinaria sceneggiatura di The Social Network che gli è valsa il premio Oscar. Premetto che non ho seguito le serie che ha creato in precedenza: Sports Night, sul dietro le quinte della realizzazione di un programma sportivo, West Wing, ambientato alla Casa Bianca, e il più recente Studio 60 on the Sunset Strip, ancora sul dietro le quinte della realizzazione di un programma tv, questa volta uno show comico stile Saturday Night Live.
Il mio entusiasmo nei confronti di questa sua nuova creatura può quindi dipendere da questo, mentre altri autorevoli critici americani e italiani hanno sottolineato che si tratta di una buona serie, ma della “solita” buona serie sorkiniana. Ad avercene, in ogni caso.
Il suo stile in effetti c’è tutto e anche di più. I dialoghi rapidissimi sono puro Sorkin all’ennesima potenza. Con una sceneggiatura da lui curata, si possono anche evitare grandi movimenti di macchina da presa, il montaggio può rilassarsi, tanto sono le sue parole affilate e tambureggianti a dettare il ritmo. Un ritmo infernale.

La prima scena di The Newsroom credo sia una delle più belle aperture di serie che abbia mai visto dai tempi di Twin Peaks. E con questo non voglio dire che abbia qualcosa a che fare con Twin Peaks, qualità eccelsa a parte. Rispetto al ritrovamento di Laura Palmer, il contesto qui è del tutto differente.
Siamo in uno studio tv, il luogo prediletto da Sorkin, in un talk-show politico. Pensate a Santoro, quando ancora lo facevano stare in Rai, oppure a Matrix, quando ancora c’era Enrico Mentana e non quel manichino che l’ha sostituito.
Come in ogni buon, ma pure cattivo, talk-show politico che si rispetti, è il solito fiume di parole bla bla bla inutili bla bla bla. Tra gli ospiti c’è anche il giornalista veterano Will McAvoy (Jeff Daniels), definito una sorta di Jay Leno dei giornalisti, perché è uno che non si espone mai troppo: “È popolare perché non disturba nessuno.” Il classico tipo che non pesta i piedi ai potenti, come Ezio Greggio a Striscia la notizia. Strappa la risata, quando va bene e ultimamente non va molto bene, però è innocuo.

"Volete sapere perché Cannibal Kid è il miglior blogger del mondo?
La verità è che non lo è affatto!"
Quando una ragazza del pubblico gli chiede: “Perché l'America è il miglior paese del mondo?”, Will McAvoy/Jeff Daniels gigioneggia come al solito. Tira fuori qualche risposta ironica, indugia, fino a che, sotto l’insistenza del conduttore, sbrocca e decide di dire esattamente ciò che gli passa per la testa. Il succo del discorso? Gli Stati Uniti non sono per niente il paese migliore del mondo, lo sono stati un tempo, potrebbero esserlo in futuro, ma ora come ora non lo sono.
Apriti cielo. Il discorso viene bollato da tutti come anti patriottico, nonostante nella seconda parte McAvoy abbia invece riflettuto su come gli USA potrebbero tornare ad essere di nuovo grandi. Ma i bei ragionamenti alla stampa non interessano. Alla stampa interessa solo la polemica.
E così, l’America sembra voltare le spalle a McAvoy, che nel giro di una sola ospitata televisiva controcorrente è passato dall’essere il Bruno Vespa lacchè benvoluto o almeno ben sopportato da tutti, a tornare ad essere una mina vagante. Tornare ad essere un grande giornalista, una sorta di Enrico Mentana americano. Eppure, se pensate a un personaggio del tutto positivo, a un modello da imitare, a livello di rapporti interpersonali McAvoy ha parecchie lacune e a livello umano non sembra molto lontano dal cinismo di un Dr. House.

"Dopo la risposta di Jeff Daniels, siamo invasi da
telefonate di protesta dei lettori di Pensieri Cannibali..."
Tutto questo solo nei primi grandiosi minuti di questa serie. Quello che succede dopo, ve lo lascio scoprire da voi. Giusto per anticiparvi qualcosa, il tema principale è quello del giornalismo, dell’integrità professionale e, come nella serie british The Hour, di come costruire un vero grande notiziario. Proprio quello che fanno a Studio Aperto ogni giorno, nevvero?

Il tutto è orchestrato con grande maestria da un Aaron Sorkin in forma strepitosa, con un monologo iniziale da Premio Nobel per la letteratura e una serie di dialoghi al fulmicotone da applausi. Intorno al fuoriclasse Sorkin, per la prima volta autore per una tv via cavo e quindi con una libertà espressiva pressoché totale, ruotano un cast e una troupe tecnica di primissimo livello.
Il protagonista, come abbiamo visto, è Jeff Daniels, attore spesso sottovalutato, spesso sotto utilizzato e ora alle prese con un personaggione con cui sembra avere tutte le possibilità di lasciare un segno indelebile. Poi c’è Emily Mortimer, vista qua e là in Shutter Island, Hugo Cabret, Lars e una ragazza tutta sua e nel nuovo Quell’idiota di nostro fratello, pure lei spesso parecchio sotto utilizzata e pure lei alla grandissima occasione di riscatto.
E poi: Alison Pill (Milk, Scott Pilgrim, nonché Zelda Fitgerald in Midnight in Paris), bravissima, con il personaggio dell’assistente di produzione del programma già protagonista fin dal primissimo episodio di un promettente triangolo amoroso. No, niente roba alla Twilight, tranquilli.
C’è spazio poi per lo “stereotipo di informatico indiano”, played by Dev “The Millionaire” Patel, mentre la gnoccolona della serie nella puntata pilota non è comparsa ma dovrebbe arrivare a breve e si tratta della star in forte ascesa Olivia Munn.
Non dimentichiamo infine quello che potrebbe essere il personaggio cult dello show: Sam Waterston, che interpreta il capo di rete ubriacone. Sembra uscito da altri tempi. Sembra uscito da Mad Men e, giusto per fare il solito paragone esagerato che tanto mi piace fare, questo The Newsroom potrebbe diventare il Mad Men ambientato nel mondo del giornalismo di oggi, anziché nel mondo della pubblicità anni ’60.

Non dimentichiamo poi che a dirigere l’episodio pilota c’è stato Greg Mottola, il regista del divertente Suxbad, del molto bello Adventureland e del deludente Paul, mentre le musiche sono firmate da Thomas Newman, quello di American Beauty, una delle soundtrack con dentro più beauty nella storia del cinema.
Avevo detto che ci sono un paio di motivi per non perdervi questa serie, alla fine spero di avervene dati parecchi di più. Che altro aspettate ancora a recuperarvi l’episodio pilota, che ne parlino a Studio Aperto?
(voto 8,5/10)

UPDATE: dopo appena un paio di episodi, la serie è stata rinnovata da HBO per la seconda stagione.

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