Un biopic musicale su un cantante ambientato negli anni '90 che è anche un Malattia Movie adolescenziale con Britt Robertson come protagonista femminile?
Dio, hai voluto farti perdonare per questo inizio d'anno non proprio stupendo, regalandomi il mio film ideale?
Sai, la gente è strana. E soprattutto, la gente è stronza. Conoscevo solo marginalmente le voci che circolavano intorno a Mia Martini. Sì, quelle che dicevano che portasse sfiga. Non immaginavo però fino a quali conseguenze avevano portato nella sua carriera. Negli ultimi tempi va di moda dire che “grazie” ai social network è tutto un proliferare di fake news. Un proliferare di malignità gratuite. Persino un intellettuale del livello di Umberto Eco, qualche anno fa, disse le famose, ma più che altro famigerate parole: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l'invasione degli imbecilli”.
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Assapora il gusto autentico di The Founder®, il nuovo film che puoi addentare in esclusiva solo nei ristoranti McDonald's®.
Gusto autentico... beh, magari non del tutto autentico. The Founder non racconta infatti la storia dei veri veri fondatori della nostra amata catena, i poveri fratelli Dick e Mac McDonald, bensì di Ray Kroc. Chi è Ray Kroc?
Ispirato alla biografia: Trumbo di Bruce Alexander Cook
Cast: Bryan Cranston, Diane Lane, Elle Fanning, Louis C.K., Michael Stuhlbarg, John Goodman, Helen Mirren, Alan Tudyk, Roger Bart, Sean Bridgers, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Dean O'Gorman, Christian Berkel
Genere: comunista
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Dalton Trumbo era uno degli sceneggiatori più richiesti e di successo di Hollywood. Tutti volevano lavorare con lui. Era un po' come Aaron Sorkin oggi, solo con meno parole e con uno uno stile più commerciale. Dalton Trumbo era uno degli sceneggiatori più richiesti e di successo di Hollywood, fino a che venne accusato di essere... comunista.
Sceneggiatura: Jez Butterworth, John-Henry Butterworth
Cast: Chadwick Boseman, Nelsan Ellis, Viola Davis, Lennie James, Dan Aykroyd, Fred Melamed, Craig Robinson, Octavia Spencer, Jill Scott, Aloe Blacc, Allison Janney, Tika Sumpter
Genere: funky
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C'è un sacco di gente che odia i biopic. Soprattutto in questo periodo in cui un buon 50% delle pellicole nelle sale e il 99% dei film nominati agli Oscar sono tratti da storie vere o quasi. Per quanto il genere si stia effettivamente inflazionando e per quanto ciò dimostri come a Hollywood e dintorni le idee originali siano sempre più una rarità e quindi è meglio prendere ispirazione dalla realtà, io non posso fare a meno di guardarli. Mi farei un film biografico in vena al giorno. Per me quella con il biopic è una delle sfide più impegnative con cui possa confrontarsi un regista. Mettere la vita di un uomo dentro un film. Vi sembra un'impresa semplice?
Grande il rischio, grande la ricompensa. Così come può essere grande la caduta.
Una pellicola biografica non è una sfida tosta soltanto per registi e sceneggiatori, ma pure per chi si trova a doverle giudicare. Nel giudizio rientra sì la qualità cinematografica, però non si può prescindere nemmeno da un confronto con l'uomo/la donna protagonista. Quando c'è di mezzo un biopic, è difficile capire quali siano i reali meriti artistici da attribuire al film e quali siano invece quelli del personaggio raccontato. Tutto questo per dire che le pellicole biografiche, ancora più di altri generi cinematografici, rappresentano sempre un'esperienza particolarmente soggettiva.
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Sono molto molto, molto arrabbiato. Arrabbiato d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Sono molto arrabbiato con me stesso. Per aver giudicato una donna, una intera esistenza, in base a una cosa. Una sola tra le mille, probabilmente più di mille, che ha scritto nel corso della sua carriera. Avevo giudicato Oriana Fallaci soltanto per il suo celebre articolo La rabbia e l'orgoglio, pubblicato sul Corriere della Sera il 29 settembre 2001, a una manciata di giorni di distanza dagli attentati alle Torri Gemelle. Un pezzo fin dal titolo rabbioso che aveva suscitato anche in me una profonda rabbia. Contro di lei, contro le sue parole, contro il suo modo di usarle. Una reazione che mai nessun altro articolo di giornale mi aveva suscitato. Segno che il suo pezzo colpiva nel segno. Nel bene o nel male.
Giudicare Oriana Fallaci soltanto in base a quello scritto si è rivelato del tutto sbagliato. Un grave errore. Un giudizio fallace. C'è voluta una fiction Rai per farmelo notare. È come giudicare la carriera di Lou Reed soltanto in base all'inascoltabile “Lulu”, il disco che ha inciso insieme ai Metallica, ignorando le cose splendide che ha realizzato con i Velvet Underground e da solista. Per me e per la mia generazione Oriana Fallaci è identificata soprattutto con quello scritto, con quello sfogo di rabbia e di orgoglio. Più di rabbia che di orgoglio, se vogliamo dirla tutta. Oriana Fallaci è però stata molto altro e molto di più e il film tv in due puntate L'Oriana lo mette bene in mostra.
Cast: Timothy Spall, Paul Jesson, Dorothy Atkinson, Marion Bailey, Lesley Manville, Ruth Sheen, Sandy Foster
Genere: artefatto
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Non sono capace a dipingere. Non con pennelli, pastelli e matite. Posso provarci con le parole. Vi posso offrire un ritratto del pittore Turner: Turner era un uomo di merda. Fine del ritratto. E il film dedicato alla sua vita, com'è?
La nuova pellicola di Mike Leigh è la dimostrazione di due cose:
1) Un grande artista non sempre è anche un grande uomo.
2) Il film sulla vita di un grande artista non sempre è anche un grande film.
Sceneggiatura: Jalil Lespert, Jacques Fieschi, Marie-Pierre Huster, Jérémie Guez
Ispirato al libro di: Laurence Benaïm
Cast: Pierre Niney, Guillaume Gallienne, Charlotte Le Bon, Laura Smet, Marie de Villepin, Nikolai Kinski, Astrid Whettnal
Genere: fashionista
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Vagazzi, questa ve la devo pvopvio vaccontave. Ievi sono andato a vedeve il film sul mio stilista pvefevito e si è vivelato una delusione paz-zes-ca. Di chi sto pavlando? Ma come, di chi sto pavlando? Sto pavlando di lui, del solo e unico, del divino e gvande Yves Saint Laurent.
Lo so, me ne vendo benissimo conto di aveve un leggevo difetto di pvonuncia. I pezzenti dicono che ho la evve moscia, ma io pvefevisco dive che ho la evve alla fvancese, che fa più figo. A dispetto di questo difetto che pevò io considevo un dono di Dio che mi distingue dalla massa di voi comuni movtali bavboni, c’è una pavola, una sola con la evve che viesco a pvonunciave pevfettamente: Yves Saint Laurent. Non so pevché, ma è così. Savà pevché io vesto solo Yves Saint Laurent. O quasi solo Yves Saint Laurent. Pev casa ammetto di indossave delle ciabatte Pvada da bavbone e una vestaglia che Gianni aveva disegnato apposta pev me. Gianni chi?
Gianni Vevsace, ovviamente.
Confesso poi che come bovse della spesa uso le Louis Vuitton, ma pev il vesto ho solo voba di Yves Saint Laurent. È la mia mavca pvefevita. Il mio bvand pevsonale. YSL. Potete quindi immaginave la mia attesa nei confvonti di un film dedicato all’uomo dietvo questa gvande fivma.
La pellicola è divisa pvaticamente in due pavti, che vappvesentano le due anime, i due volti di Yves Saint Laurent. Quanto mi piace pvonunciave questo nome, quanto?
Nella pvima pavte, Yves Saint Laurent è un fanciullo ingenuo, spvovveduto osevei quasi dive, il pupillo di Diov. Quando Chvistian Diov viene a mancave, nonostante la sua teneva età Yves Saint Laurent diventa il nuovo divettove avtistico della maison. Tutti lo cevcano, tutti lo vogliono. Alla fine degli anni Cinquanta, diventa così il nome di punta della moda fvancese. Fino a che viene chiamato alla avmi. No, non viene chiamato a disegnave le nuove divise dell’esevcito. Viene pvopvio chiamato a combatteve. Stiamo schevzando? La guevva è così poco chic. Come si può considevave umana una pvatica bavbava in cui c’è da indossave delle tute mimetiche tanto inguavdabili? No, ma io dico, si può andave in givo conciati così?
Yves Saint Laurent affvonta allova una cvisi pevsonale, cade in depvessione, viene licenziato da quei cattivoni della Diov e si tvova in tanto giovane età a esseve già un fallito. Un bavbone. Viuscivà comunque a vipvendevsi gvazie all’aiuto del compagno, pevché sì, Yves Saint Laurent è omo. Pensavate che uno stilista, pev di più fvancese, potesse esseve etevo? Siete pvopvio ingenue, mie cave. Siete più ingenue delle tipe che si vestono al mevcato o dai cinesi e pensano di esseve alla moda. Io una volta sono entvato in un discount cinese e, solo guavdando la lovo collezione di abiti pvimaveva-estate, ho avuto una sincope.
"Mmm, tesoro, quanto sei bono!"
"Chi, io? Ma se sembro la versione brutta di Renato Pozzetto."
Finito il peviodo di cvisi, non mia ma del pvotagonista del film, Yves Saint Laurent insieme al compagno fonda il suo mavchio di moda pevsonale e tovna sulla cvesta dell’onda. Anzi, diventa popolave come non mai. Tva gli anni ’60 e i ’70 diventa l’icona che conosciamo e veneviamo tutt’oggi. A livello pevsonale le cose pev lui inoltve cambiano molto. È qui che, dopo la pvima spenta pavte, il film entva nella seconda pavte, quella un pochino più intevessante, sebbene anch’essa non del tutto viuscita. Yves Saint Laurent finisce in un vovtice autodistvuttivo fatto di sesso, dvoga e vock’n’voll, passando da una velazione monogama-monotona a favsi cani e povci. Bavboni pevò no. Almeno un minimo di decenza ce l’ha ancova.
Il cast del film devo dive che non è male. Il pvotagonista Pievve Niney è quello che avevamo già visto nella MILF comedy fvanscese 20 anni di meno e qui se la cava sopvattutto nel vitvavve l’Yves Saint Laurent nevd dei pvimi tempi, più che l’icona glam degli anni successivi. Il suo compagno è intevpvetato da Guillaume Gallienne, nuovo celebvato fenomeno del cinema fvanscese, l’autove di Tutto sua madve, altvo film fvanscese vecente che mi è toccato con gvande vammavico bocciave. Laddove là non mi aveva convinto molto, qui Gallienne invece mi è piaciuto pavecchio di più. La migliove del cast è pevò la Chavlotte Le Bon. Concedetemi la volgavità, mie cave e miei cavi, ma Chavlotte è pvopvio bona. Ha un volto che buca lo schevmo.
Ma quindi pevché questo film mi ha deluso?
Nonostante sia ben intevpvetato, sia vealizzato con una buona cuva fovmale e gli abiti di Yves Saint Laurent siano stati veplicati in manieva elegante, è la classica pellicola biogvafica givata con uno stile da fiction Vai o Mediaset. E io odio la tv genevalista. Io guavdo solo Sky. Non pevché abbia pev fovza dei pvogvammi migliovi, a pavte il nuovo canale Sky Atlantic dedicato alle sevie tv che è tvoooppo figo, ma pevché è a pagamento e quindi i bavboni non possono pevmettevsi di guavdavlo.
La vegia del film è davvevo piatta. Più moscia della mia evve e la sceneggiatuva è banale, incapace di appvofondive come si deve un pevsonaggio della Madonna come l’Yves Saint Laurent. Vacconta la solita pavabola di ascesa e declino al successo, condita con tutti i cliché del caso, senza mai cvesceve nel vitmo e senza mai andave a colpive vevamente al cuove dello spettatove. Sembva solo la bozza di un buon film, quello che speviamo vivamente di vedeve vealizzato pvesto sul gvande stilista. Al Festival di Cannes 2014 vevvà infatti pvesentata un’altva pellicola a lui dedicata: Saint Laurent, divetta dal Bevtvand Bonello dello stilosissimo L’Apollonide, e con nel cast la chic Léa Seydoux. Quello sì che pvobabilmente savà il gvande film che tutti noi fan della moda stavamo aspettando. Questo Yves Saint Laurent è invece soltanto una pellicola pev bavboni.
Cast: Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Clifton Collins Jr., Mark Pellegrino, Bob Balaban, Chris Cooper, Bruce Greenwood
Genere: freddo
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A caldo, la morte di Philip Seymour Hoffman mi ha lasciato davvero di merda.
A freddo, posso dire che continua a essere una merda, ma sto cominciando ad accettare la cosa, con calma.
In questi giorni di lutto e sconforto, ho recuperato finalmente un film fondamentale nella carriera dell’attore americano, Truman Capote – A sangue freddo, “soltanto” la pellicola che gli ha fatto vincere l’Oscar.
Perché non l’avevo ancora visto?
Il solito insieme di coincidenze sfortunate. Magari ti scarichi una versione che non si vede benissimo e allora rinunci in favore di qualche altra visione. Lo riscarichi, dici: “Domani lo vedo” e poi il giorno seguente dici lo stesso e poi passano gli anni e ogni estate, quando hai tempo per i recuperi, ti riprometti di andarlo a ripescare, solo che è un film troppo poco estivo, ma davvero troppo poco, e allora niente. C’è voluta allora una ancor più sfortunata occasione come la morte dell’attore perché finalmente mi decidessi a vederlo.
Ho fatto bene?
Sì, perché la prova interpretativa di Philip Seymour Hoffman nei panni del giornalista e scrittore Truman Capote è superlativa e la storia parecchio avvincente. Da un punto di vista cinematografico invece non è che mi stessi perdendo una pietra miliare, visto che la regia di Bennett Miller, che poi avrebbe diretto pure un altro film che poco mi ha impressionato come L’arte di vincere – Moneyball, è parecchio piatta e anonima. Presente quelle regie invisibili tipo Muccino quando è andato negli USA?
Ecco, quel genere di anonimo. Ed è un vero peccato perché una simile meravigliosa performance recitativa di P.S. Hoffman avrebbe meritato ben altra compagnia. Il film è freddo, glaciale, in questo è anche fedele al personaggio che ritrae, solo che gli manca quel “di più”, in grado di farlo passare da una visione interessante a una realmente memorabile. Gli manca il cambio di passo, la svolta registica, il momento di elevazione a grande opera cinematografica. Gli manca poi pure l’originalità che ha invece contraddistinto il rivoluzionario lavoro di Truman Capote.
"Questo capitolo devo proprio riscriverlo! Sembra scritto da Cannibal Kid..."
Correva l’anno 1959 quando una famiglia come tante di un paesino sperduto nel Kansak veniva uccisa in circostanze brutali e misteriose. Un caso di cronaca sorprendente e clamoroso in un posto dimenticato da Dio così come fino ad allora anche dal crimine. Un caso in grado di scatenare la curiosità non solo degli Studio Aperto, Salvo Sottile o Roberta Bruzzone dell’epoca, ma anche di uno dei più celebri giornalisti e scrittori di quel periodo, Truman Capote. Il suo scopo era quello di scrivere un articolo di approfondimento, più che sull’omicidio in sé, su come la comunità locale avesse vissuto quel traumatico evento. Un articolo poi tramutatosi in un libro vero e proprio, un mix mai tentato prima tra stile romanzesco da fiction e cronaca vera. Da qui sarebbe nato A sangue freddo, una pubblicazione svolta sia per la narrativa che per il giornalismo successivi. In un’epoca di grandi cambiamenti sociali, culturali e politici, anche Truman Capote nei primi Anni Sessanta faceva la sua parte rivoluzionando la scrittura moderna. Su questo aspetto la pellicola non si sofferma più di tanto, così come a livello stilistico e formale risulta ben lontano dall’essere un prodotto rivoluzionario, o anche solo vagamente originale.
"Mi fugo una siga. Tanto sarà mica questa ad ammazzarmi..."
Va riconosciuto al film di Miller di non scadere nel solito thrillerino, come la trama poteva suggerire. Truman Capote – A sangue freddo ci racconta non tanto di un omicidio, quanto della genesi di un’opera fondamentale per come la cronaca viene trattata oggi. Ciò che non riesce a fare è scavare davvero all’interno della personalità dei suoi personaggi, i criminali della storia così come anche gli altri, che rimangono giusto un contorno. La forza della pellicola, tra una regia pallida e una vicenda intrigante ma che non riesce a decollare del tutto, è allora il protagonista. Lui e solo lui. Philip Seymour Hoffman fa vivere Truman Capote su grande schermo in maniera pazzesca. Si annulla del tutto dietro al personaggio, al punto che fin da subito mi sono lasciato alle spalle la tristezza per la notizia della sua morte e nel film non ho visto Philip Seymour Hoffman. Nel film ho visto Truman Capote. Questo è ciò che un grande attore deve fare. Questo è ciò che Philip Seymour Hoffman sapeva fare. Questo è ciò che ce lo fa rimpiangere adesso e credo ancora per molto tempo.
(voto 6,5/10)
Per ricordare il grande attore scomparso, io e il solito gruppetto di blogger abbiamo pensato di dedicare questa giornata ai suoi film e alle sue interpretazioni. Questi sono gli altri contributi che potete trovare in questo triste ma (spero) bello Philip Seymour Hoffman Day.
L'uomo che ha creato l'iPod e l'uomo che si è ciulato (e si ciula) Mila Kunis. Chi dei due ha compiuto l'impresa più memorabile?
Jobs
(USA 2013)
Titolo originale: jOBS
Regia: Joshua Michael Stern
Sceneggiatura: Matt Whiteley
Cast: Ashton Kutcher, Josh Gad, Lukas Haas, Dermot Mulroney, Matthew Modine, Lesley Ann Warren, J.K. Simmons, James Woods, Kevin Dunn, Victor Rasuk, Nelson Franklin, Eddie Hassell, Masi Oka, Joel Murray, Amanda Crew, Abby Brammell
Genere: biopic
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Steve Jobs è l’uomo che ha reso cool i computer. Da quando Matteo Renzi ha usato la parola “cool”, la parola “cool” però non è più cool e quindi diciamo che Steve Jobs è l’uomo che ha reso fighi i computer. Renzi non si è ancora appropriato della parola “fighi”? Bene, allora possiamo continuare a usarla.
Che attore c’è di cool, pardon di figo, che può interpretare Steve Jobs?
Ashton Kutcher, che fisicamente gli somiglia parecchio.
Mmm… fermi un attimo. A me sta simpatico Ashton Kutcher. Io gli voglio bene ad Ashton Kutcher, fin dai tempi della spassosissima serie That ‘70s Show, però come attore non è proprio un fenomeno. Non è lo Steve Jobs degli interpreti. Senza offesa, così stanno le cose.
"Maledetto Cannibale! Ma cosa diavolo scrive?"
Perché un attore sia perfetto per un biopic, non occorre solo che somigli al personaggio che deve interpretare o che cerchi di imitare le sue movenze. Deve fare qualcosa di più. Prendiamo Quando l’amore brucia l’anima. In quel film, io non vedo Joaquin Phoenix, io vedo Johnny Cash. Qui invece vedo Ashton Kutcher che si impegna, che ce la mette tutta, che imita in maniera a tratti anche piuttosto discreta Steve Jobs. Però non vedo Steve Jobs. Eh lo so, non è facile dare vita a un personaggio, soprattutto uno esistito veramente e così iconico e conosciuto in tutto il mondo. I grandi attori lo sanno fare. Lo fanno apparire naturale. Ashton Kutcher, così come già Will Smith in Alì, non riesce a togliersi da davanti, a levarsi dalle scatole per farci vedere il personaggio.
Mi spiace, Ashton: sei un figo della Madonna, ti bombavi Demi Moore prima e Mila Kunis ora, e fin qui non c’è proprio niente di cui dispiacersi per te, però non sei un grande attore, ed è questo che dispiace. Dispiace perché con un altro interprete forse le cose per questo jOBS sarebbero potute andare meglio.
"Mannaggia! Anche leggendo su questo computer le sue parole non cambiano."
Questo è il primo problema del film, ma non è il più grave. Il più grave è quello di non essere stati fedeli a Steve Jobs, il personaggio.
Potete dire quello che volete su una pellicola come Last Days di Gus Van Sant. Potete dire che è noioso, che non succede nulla. Di certo, non è il film su Kurt Cobain che il grande pubblico si sarebbe aspettato. Non ci viene mostrata la relazione con Courtney Love. Non ci viene spiegato come a Kurt sia venuta l’ispirazione per “Smells Like Teen Spirit”. Non ci viene presentata la sua ascesa al successo. Eppure credo che Last Days, nel suo essere un film così radicalmente alternative, rappresenti al 100% lo spirito di Kurt Cobain e credo anche che lui l’avrebbe adorato. Così come credo che Steve Jobs non si sarebbe entusiasmato troppo con questo jOBS.
Oh, poi magari mi sbaglio. Non è che sono in contatto con i morti.
Nel film, a un certo punto Steve jOBS dice una frase che potrebbe confermare la mia teoria:
“Non facciamo nulla che IBM non faccia già. E preferisco scommettere sul nostro punto di vista, piuttosto che fare un prodotto nella norma. Dobbiamo rendere le cose semplici memorabili.”
"Vediamo se, distruggendo il computer, la recensione migliora."
Steve Jobs non faceva prodotti nella norma. Questo invece è un film biopic nella norma. Non è realizzato così male, Ashton Kutcher non riesce a offrire un’interpretazione davvero efficace di Steve Jobs ma non è nemmeno un cane totale e il film, grazie soprattutto all’interesse nei confronti del personaggio, si lascia seguire dall’inizio alla fine. Alcune parti sono superflue, ci si concentra troppo sulle dinamiche aziendali interne alla Apple che sinceramente dopo un po’ scoglionano non poco, e insomma una mezz’oretta in meno nel montaggio finale non avrebbe guastato il prodotto finale.
Non convince del tutto poi la scelta di fermarsi con il racconto a metà degli anni ’90, quando la creazione dell’iPod sarebbe potuto risultare un capitolo più avvincente da raccontare rispetto ai drammoni aziendali. Al di là delle discutibili scelte narrative, complessivamente il suo difetto principale è però quello di essere mediocre, nella norma.
A questo punto, sarebbe risultata una scelta migliore realizzare un film sperimentale che sarebbe potuto uscire uno schifo totale. Se non altro si sarebbe provato a fare qualcosa di diverso, a rischiare tutto come piaceva fare a Steve Jobs, sempre e comunque. Quella che ne è uscita è invece una pellicola che una volta si sarebbe potuta definire di qualità televisiva, non fosse che HBO oggi farebbe di meglio. Anzi, ha fatto di molto meglio, si veda il recente Dietro i candelabri – Behind the Candelabra di Steven Soderbergh con un grande Michael Douglas nei panni del pianista Liberace.
"No, non c'è niente da fare..."
jOBS appare come una grande occasione sprecata. Tutto quello che The Social Network è, questo non lo è. Laddove lì si raccontava la storia di Mark Zuckerberg e della nascita di Facebook ma allo stesso si riusciva a offrire anche una visione di quello che è il mondo di oggi, nell’era dei social network, jOBS si limita a essere un film biografico che non riesce a guardare all’infuori del personaggio che racconta. E anche come biopic in sé, non è poi così riuscito. La figura di Steve Jobs uomo non viene approfondita fino in fondo, e tra l’altro Steve Jobs l’uomo non ne esce benissimo, un po’ come Zuckerberg nel film di David Fincher, e questo alla fine è un po' l’aspetto più intrigante della pellicola.
Steve Jobs uomo appare come una persona glaciale, senza amici, senza veri legami, attaccata al denaro e al successo, che non esita a pugnalare alle spalle chi ha contribuito alla causa Apple fin dagli inizi in bene di un ideale più grosso, quello di voler cambiare il mondo. Quello di pensare fuori dagli schemi.
Alla faccia del think different, in jOBS il film di different rispetto alle tradizionali pellicole biografiche non c’è invece un bel nulla. È la celebrazione del think identical. Quello che ne è uscito è il biopic precisino che si meriterebbe giusto un Bill Gates. Non uno Steve Jobs.
Tratto dal libro: Behind the Candelabra: My Life With Liberace di Scott Thorson e Alex Thorleifson
Cast: Michael Douglas, Matt Damon, Rob Lowe, Scott Bakula, David Koechner, Dan Aykroyd, Garrett M. Brown, Nicky Katt, Boyd Holbrook
Genere: gaypic
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Behind the Candelabra è un film gay, molto gay, talmente gay che in questo post cercherò di battere il Gaynness World Record per il maggior uso della parola gay in un post solo. Pronti? Via.
Liberace mentre cercava di nascondere di essere gay.
Behind the Candelabra è il biopic gay sulla storia gay della vita gay del pianista gay Liberace, all’anagrafe Władziu Valentino Liberace, un nome già di suo parecchio gay, visto che lo stilista Valentino è notoriamente gay e l’attore Rodolfo Valentino era anch’esso gay, quindi la sua gayezzitudine era già scritta nel suo nome.
Nonostante il suo portamento gay, la sua parlata gay, la sua camminata gay, le sue parrucche gay, nonostante uno sfoggio di abiti gay da far impallidire Lady Gaga, nota icona gay, Liberace in vita nascose sempre il fatto di essere gay. Arrivò persino a denunciare i giornalisti che gli avevano dato del gay andando a vincere la causa gay. Fu per questo che, almeno in vita, lui non è mai stato più di tanto un’icona gay.
La grande contraddizione che è stata la sua vita, tra un’immagine vistosamente gay e l’esigenza di non essere considerato solo un pianista gay, è al centro della pellicola biopic supergay girata da Steven Soderbergh, al suo secondo lavoro degno di nota dell'anno dopo l'ottimo thriller Effetti collaterali. Steven Soderbergh non mi risulta sia gay, però secondo Wikipedia ha un fratello dichiaratamente gay e inoltre sospetto che, dopo aver girato Magic Mike con tutti quei bei maschioni, possa essere diventato gay anche lui.
Il gaypic è intitolato Behind the Candelabra, un titolo che, nonostante sembri un titolo gay, in realtà non è gay più di tanto. Il candelabro non nasconde allusioni sessuali ma è solo un oggetto simbolo del personaggio, che si esibiva con un candelabro sopra il pianoforte… mmm, una cosa un pochino gay forse lo era. La pellicola non è arrivata nei cinema, colpa forse dell’ostruzionismo anti-gay dei produttori hollywoodiani gay che come Liberace preferiscono non venire allo scoperto dicendo di essere gay e preferiscono quindi non distribuire film troppo gay nelle sale etero.
Una scena gay del film.
Che uomo era Liberace, a parte un uomo gay?
La prima cosa che salta all’occhio nel film è… sì, il suo essere gay. Si può stare a esaltare le sue doti pianistiche sopraffine, la sua capacità di coinvolgere il pubblico con l’utilizzo soltanto di un pianoforte, roba mica da tutti, ma ciò che appare subito nella sua evidenza è che era gay. E la gente all’epoca, tra gli anni Cinquanta in cui cominciò a farsi conoscere e gli anni Settanta in cui si concentra la pellicola, non sapeva che era gay, o semplicemente faceva finta di non vedere quanto gay fosse.
L’apparizione di Liberace in scena è folgorante. Super vistoso, super appariscente, super gay, con indosso pellicce bianche che lo rendevano visibile fin dalla Luna, almeno dal gay side of the Moon. La sua capacità gay di ammiccare al pubblico sia etero che gay e la sua voglia di essere sempre sotto i riflettori come una prima donna lo rendevano un divo gay perfetto. Peccato che lui non volesse essere conosciuto per il suo essere gay. Nonostante questa contraddizione, Liberace ha comunque vissuto alla grande il suo essere gay nella sua splendida casa, decorata con un gusto sopraffino che solo i gay possiedono, dove giovincelli gay gironzolavano a tutte le ore del giorno e della notte, tenuti a bada dal suo onnipresente cameriere, maggiordomo e tuttofare ovviamente gay.
Una scena ancora più gay del film.
Fino all’arrivo del grande amore gay della sua vita gay: il giovane fanciullo gay, anzi bisex Scott Thorson, autore del libro memoriale a cui la pellicola è ispirata. Behind the Candelabra non è solo un biopic sull’esistenza gay dietro il candelabro del grande Liberace, ma è anche una grande storia d’amore, naturalmente gay, tra il pianista gay e Scott Thorson. Amore in senso romantico è persino limitativo, visto che Liberace per Scott era non solo compagno, non solo amante, ma anche migliore amico e pure padre. A dimostrazione di come l’amore gay possa essere più grande e totale di quello etero. A volte ci rifletto e penso che mi piacerebbe essere gay. Non fosse per il piccolo dettaglio che non provo attrazione sessuale gay nei confronti degli uomini, non sarebbe male essere gay. Non per perpetuare i soliti stereotipi gay, ma i gay hanno dei gusti fantastici. La casa di Liberace mostrata nel film come accennato è forse la casa più spettacolare che io abbia mai visto, nella realtà così come nelle pellicole gay o non gay. C’ha persino le colonne romane! Cosa c’è di più stiloso, e di più gay, di ciò?
Matt Damon a torso nudo per la gioia del pubblico gay.
Non ho ancora nominato gli attori protagonisti? Ma sono proprio gay!
Matt Damon ha la parte di Scott Thorson, aspirante veterinario che ha un cane che si chiama Cannibal (che nome gay!) e che un giorno va a vedere uno spettacolo gay di Liberace. Nel dietro le quinte dello show tra i due scattano le scintille gay. Liberace viene folgorato da questo aitante maschione gay, anzi no, come ho già detto è bisex. Matt Damon in questo ruolo se la cava, ma personalmente avrei preso un attore più giovane e gay, visto che lui è troppo poco gay per fare la parte del gay barra bisex e soprattutto è un po’ vecchiotto: Thorson quando ha conosciuto Liberace era appena 18enne, quindi, benché Damon sfoggi un fisico notevole, e lo dico come apprezzamento non gay, e benché abbia fatto uso di una parrucca gay per apparire un ragazzetto gay, un attore più giovane e possibilmente più gay sarebbe risultato più azzeccato.
Spettacolare, davvero spet-ta-co-la-re è invece un impagabile Rob Lowe nella parte del chirurgo plastico cui faranno ampio ricorso i due protagonisti gay, e a sua volta super rifatto pure lui. E forse gay anche lui, ma non ne sono sicuro.
Il vero Liberace in uno scatto poco gay.
Le luci della ribalta gay sono però tutte sul protagonista gay. Un Michael Douglas mai così gay e mai così bravo come forse dai tempi del mitico Gordon Gekko di Wall Street. La sua performance gay è davvero fenomenale, riesce a rendere alla grande tutto l’essere gay di Liberace, ma senza apparire come una macchietta gay o una parodia dei gay, anche se, a tratti, a dirla tutta oltre che al vero Liberace somiglia pure a Lord Micidial della serie tv di Maccio Capatonda Mario. Michael Douglas, noto tombeur de femmes, in questo film insomma non recita la parte di un gay. Michael Douglas in questo film è gay.
Come già capitato con Magic Mike, anche in questo caso Sodergay con la sua patinatissima regia gay ha realizzato un film più convincente nella prima parte, quella più brillante e dai toni da commedia, rispetto alla seconda maggiormente drammatica, ma ha comunque sfornato una pellicola pronta per essere un nuovo cult gay, nonché il più grande biopic su un personaggio gay mai realizzato. Milk di Gay Van Sant permettendo. Se siete gay, lo adoregayrete. Se non siete gay, diventerete gay, almeno per le due ore della sua durata gay.
(voto alla gayosità 10/10
voto al film 7+/10)
Recensione firmata da Marco Gay di Peni Cannibali, blog notoriamente gay.
E con quest’ultimo gay ho battuto il Gaynness World Record per il maggiore uso della parola gay in un post solo. Hurray!
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Alfred Hitchcock era un maniaco?
Non lo sappiamo, almeno io non lo so, ma il film The Girl fa venire un pochino il dubbio.
Alfred Hitchcock era un guardone, o se preferite un voyeur e anche un mezzo stalker?
Questo è parecchio probabile. I suoi film sono pieni di indizi in tal senso. Molti dei suoi più grandi capolavori sono infatti giocati sullo spiare, sul guardare, sull’osservare in silenzio, dal Norman Bates di Psyco fino persino ai pennuti stalker de Gli uccelli, per non dire poi del caso più clamoroso, quello de La finestra sul cortile, una vera e propria celebrazione del voyeurismo.
"Se te lo stai chiedendo: sì, c'ho messo del roipnol."
Più che un film biografico sul grande regista, The Girl è il resoconto del suo rapporto di amore-odio malato nei confronti delle bionde dei suoi film e in particolare è la storia della sua ossessione per Tippi Hedren, la protagonista de Gli uccelli e di Marnie. Segnalata dalla moglie di Hitch, questa bionda dalle esperienze cinematografiche pressoché inesistenti ha subito folgorato il regista, affascinato dall’idea di prendere una completa sconosciuta per il film che doveva seguire al grande successo di Psyco. In tale modo, i veri protagonisti assoluti erano loro, gli uccelli.
Modella di origini campagnole, Tippi Hedren si è ritrovata così catapultata al centro di una grossa produzione hollywoodiana, tra le mani del più grosso (in tutti i sensi) regista hollywoodiano dell’epoca. E forse non solo dell’epoca.
Laddove nell'altrettanto recente film Hitchcock abbiamo una visione più benevola del regista, in questo film tv prodotto da HBO troviamo un suo ritratto più inquietante. Il cattivo, il mostro di The Girl è proprio lui, Hitchcock. È questa l’idea più intrigante di una produzione televisiva di livello cinematografico che si avvale dell’interpretazione di due ottimi attori. Personalmente ho trovato più adatto al ruolo del regista Anthony Hopkins, per età e per “mole” fisica, ma a livello attoriale il piccolo Toby Jones ha svolto pure lui un lavoro impressionante. L’attore 46enne, minuto e piccolino, non ha il physique du role, se così vogliamo dire, del grosso cineasta britannico, ed è troppo giovane per fare Hitch quando questi era già oltre i 60 anni. Eppure la sua interpretazione è così convinta da farci quasi dimenticare questi aspetti.
Perfetta nella parte di Tippi Hadren è una notevole Sienna Miller, attrice dotata di una classe molto 60s già mostrata in Factory Girl, in cui interpretava Edie Sedgwick, una delle muse di Andy Warhol. Vedendo Gli uccelli, l’attrice contemporanea che più mi ha ricordato Tippi Hadren è stata però Naomi Watts, ma comunque anche la Miller le somiglia molto e qui è parecchio convincente.
Naomi Watts avrebbe dovuto prendere invece la parte che fu della Hadren nel vociferato remake de Gli uccelli in preparazione pochi anni fa. Quello che, come accennavo ieri, doveva realizzare Michael Bay ma che ora è in stand-by.
È su loro due, sui due protagonisti, che l’intera pellicola è costruita. Sul loro rapporto controverso che, più che a una storia d’amore, somiglia a quello tra Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix in The Master di Paul Thomas Anderson.
Per il resto, The Girl offre anche qualche retroscena interessante riguardo alla lavorazione de Gli uccelli e poi anche di Marnie, l’altro film girato insieme dalla coppia non-coppia Hitch/Hedren. Da questo punto di vista, il film Hitchcock risulta più interessante, sarà perché la preparazione di Psyco è più mitologica, mentre sul piano della costruzione dei personaggi la figura del regista viene qui trattata in maniera più coraggiosa. Come detto, ne esce un suo ritratto parecchio spaventoso.
Tratto dal saggio: Come Hitchcock ha realizzato Psycho di Stephen Rebello
Cast: Anthony Hopkins, Helen Mirren, Scarlett Johansson, James D’Arcy, Jessica Biel, Michael Wincott, Danny Huston, Toni Collette, Michael Stuhlbarg, Kurtwood Smith, Ralph Macchio
Genere: famo un film
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Good evening.
Oppure, se state leggendo in altro momento della giornata diverso dalla sera: good morning, good afternoon o good night.
Questa sera, o quest'oggi se preferite, vi parlerò di Hitchcock. Hitchcock è un film su Alfred Hitchcock.
MA VAAA?
"Era dai tempi di Bianca come il latte, rossa come il sangue
che non leggevo qualcosa di tanto terrificante."
A dispetto del titolo, non è però un film su tutta la vita del grande cineasta britannico. Più nello specifico, si concentra sulla mitologica lavorazione di quello che è probabilmente il suo film più celebre: Psyco (o se preferite il titolo originale con la H di Horror, Psycho). Uno dei massimi capolavori nella storia del cinema, uno dei capisaldi del genere thriller horror, uno dei film più tesi e spaventosi mai girati, oggi tra l'altro tornato più che mai attuale grazie anche alla serie tv Bates Motel. Per chi è appassionato di cinema, questo Hitchcock è quindi una visione da non perdere. A livello cinematografico non è un film strabordante, d’altra parte il regista mica è Hitchcock ma è tale Sacha Gervasi chiiiiiiiiiiiiiiii?
Se il livello cinematografico non è eccelso, ma è comunque piuttosto buono, chi ama il mondo del cinema si trova in ogni caso di fronte a una vicenda tra le più intriganti, avvincenti e ricche di aneddoti che il mondo dei dietro le quinte ricordi. La lavorazione di Psyco è stata infatti parecchio travagliata. Uno pensa al film e immagina che tutto sia andato liscio, che i produttori non potevano far altro che innamorarsi di un progetto del genere, che tutti avrebbero dato carta bianca al regista, che pure era già uno dei più importanti del mondo, e invece le cose non sono andate in maniera così liscia. Non sono andate per niente, in maniera liscia.
Dopo il flop (ebbene sì) di La donna che visse due volte – Vertigo, in seguito riconosciuto come uno dei sommi capolavori della settima arte, e il successo di Intrigo internazionale, Alfred Hitchcock era alla ricerca di una nuova stimolante sfida. Girare un film su un certo agente 007? Nah. Meglio rischiare con un thriller ispirato alla figura del serial killer Ed Gein in cui la protagonista viene fatta fuori a sorpresa nella prima parte.
"Congratulazioni per la gravidanza, Mister Hitchcock.
Sarà un maschio o una femmina?"
"Grrr! Congratulazioni a te, mi hai appena fatto
venire l'ispirazione per la scena della doccia."
Siamo nel 1959 e il progetto di un thriller, che oggi apparirebbe piuttosto nella norma, era qualcosa per l’epoca di davvero assurdo. Hitchcock sentiva però che era quello che doveva fare, a quel punto della sua carriera. Ce l’avrà fatta?
La risposta ovviamente la conosciamo già, ma è davvero affascinante assistere alla nascita e alla lavorazione di Psyco, attraverso tutte le sue fasi. Dall’indecisione iniziale da parte della moglie di Hitch, la come al solito impeccabile Helen Mirren, alla scelta del cast, con Scarlett Johansson ottima Janet Leigh e Jessica Biel che ci regala una odiosa Vera Miles. Quindi ci sono i problemi con la censura dell’epoca, che non vedeva di buon occhio alcune scene, in particolare quella della doccia. Ed è qui che la pellicola offre uno dei momenti più curiosi: ci fa vedere com’è stata girata la storica sequenza. Tutto merito di quel genio di Hitchcock?
Non esattamente, visto che un ruolo decisivo lo giocano pure le musiche di Bernard Herrmann che il regista all’inizio manco voleva inserire in quella sequenza…
E, se ve lo state chiedendo, e so che ve lo state chiedendo: no, non si intravede manco mezza tetta di Scarlett Johansson. Ma tanto, grazie all’hacker martire Christopher Chaney, avevamo già potuto ammirare le sue grazie in tutto il suo splendore.
IMMAGINE CENSURATA (oh, non voglio mica finire in galera per dieci anni pure io)
"Piaciuta la mia foto nuda, brutti pervertiti?
"La Thatcher è morta? Oh, no! Ora mi tocca sorbirmela pure quassù..."
Più che un filmone di per sé, questo Hitchcock è allora una chiccheria ricca di aneddoti e curiosità, da poter poi sfoggiare con gli amici per fare i fighi e quelli che la sanno lunga sulla lavorazione di uno dei film cardine del cinema. Allo stesso tempo è anche un modo, non riuscito fino in fondo, per provare a penetrare nella mente del regista e avvicinarsi a un personaggio davvero singolare, egotomane e imponente, fisicamente e non solo, interpretato da un ottimo Anthony Hopkins. L’attore diventa Hitch. Non offre solo un’imitazione come quella di Beppe Fiorello alle prese con Domenico Modugno nella fiction Volare. Certo che anche io, andare a paragonare un’interpretazione di Sir Anthony Hopkins a una di Beppe Fiorello… Che ci volete fare? Pure a me come a Hitchcock piace shockare e sorprendere il pubblico. E cosa c’è di più spaventoso di Beppe Fiorello che recita?
Adesso andate a dormire e fate sogni d’oro, se ci riuscite.
Cast: Gretchen Mol, Jared Harris, Sarah Paulson, David Strathairn, Lily Taylor, Chris Bauer, Norman Reedus, Cara Seymour
Genere: biopic
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Prima cosa: che figa che era Bettie Page.
Seconda cosa: che figa che è Gretchen Mol nella parte di Bettie Page.
Per quanto riguarda la prima cosa: chi è Bettie Page?
Come, chi è Bettie Page? Capisco che se non avete 150 anni non abbiate vissuto in prima persona il periodo in cui è assurta a notorietà, però andiamo, è un’icona che avrete già visto sicuramente o quasi da qualche parte.
Bettie Page è la pin-up per eccellenza. I più sporcaccioni e deviati tra di voi cari lettori cannibali sapranno che è anche un’icona del genere fetish e del sadomaso, per via dei suoi scatti più piccanti e provocatori. Quelli che hanno fatto gridare “Oooh” dallo scandalo gli americani. Che comunque non ci va niente per far gridare “Oooh” dallo scandalo gli americani, perlomeno se consideriamo gli americani come una popolazione composta da una miriade di famiglie Camden (quelli della fu serie Settimo Cielo) replicati in massa pronti a gridare "Mitt Romney hurrah, salvaci tu dall'uomo nero!"
Per fortuna non è così, non in tutte le parti degli United States of America e non tutta la popolazione, almeno, però quando Bettie Page realizza i suoi scatti siamo negli anni Cinquanta e la società americana è ancora più bigotta di oggi. Ma nemmeno troppo più di oggi, comunque.
L’aspetto più interessante della figura di Bettie Page, se non consideriamo la sua splendida figura fisica, bensì la sua figura chiamiamola “personale e psicologica”, è il conflitto dentro di lei tra la voglia di apparire, mettersi in mostra e trasgredire, e la sua anima più conservatrice e religiosa. In lei c’è un duello profondo tra le fotografie “peccaminose” per cui posa, e per cui è felice di posare visto che lo vede come il suo dono nei confronti dell’umanità, e una vocina che le dice che ciò che sta facendo potrebbe essere sbagliato.
Questa lotta personale è un aspetto su cui il film si concentra, ma forse si sarebbe potuto fare qualcosa di più per rendere la complessità di questa figura. O forse no, perché Bettie Page era sì combattuta, ma magari non era una figura così complicata. Magari era solo un’ingenua ragazza degli anni ’50 cresciuta con una mentalità strettamente cattolica dentro un corpo esplosivo.
L’altro elemento cardine della pellicola è quello della censura. Come visto anche in Larry Flynt - Oltre lo scandalo di Milos Forman, al termine della seconda guerra mondiale gli americani hanno combattuto due battaglie principali: una contro il comunismo, l’altra contro la pornografia. Messo da parte lo spettro nazista, sono stati questi i due grandi nemici degli U.S.A., prima dell’arrivo di Saddam Hussein e Osama Bin Laden.
Gli scatti di Bettie Page che non solo posa nuda, ma viene spesso fotografata in pose bondage, ovviamente scatena lo sdegno dell’opinione pubblica e gli istinti più brutalmente censori. E pure qua il film avrebbe potuto offrire di più: il conflitto tra la professione scandalo di Bettie non scatena una vera e propria lotta nella sua famiglia, cosa che avrebbe potuto dare una maggiore spinta drammatica alla visione. Le parti processuali legate alla volontà di censurare le immagini offrono qualche spunto interessante (i feticisti vengono visti come degli psicopatici da curare, più pericolosi dei tossicodipendenti), ma niente più.
Il film sulla scandalosa Bettie Page avrebbe quindi potuto rischiare di più, spingersi in territori più piccanti e politically incorrect. La via scelta dalla regista Mary Harron sembra però essere stata un’altra e non affatto disprezzabile, quella di realizzare sostanzialmente una commedia, in cui gli episodi più drammatici (lo stupro di gruppo ai danni della povera Bettie; il processo) non acquistano mai una parte preponderante, preferendo tenere un’atmosfera più leggera e pop, giocata a livello visivo a metà strada tra colore e b/n.
Mary Harron si conferma regista valida e dotata di un tocco mai troppo pesante. Dopo gli anni 60s di Ho sparato a Andy Warhol e gli 80s di American Psycho, è passata a confrontarsi con i 50s di Bettie Page. Realizzando un’altra opera ricca di spunti di interesse, eppure non riuscita fino in fondo.
A impreziosire la confezione di questo biopic convincente, sebbene solo a metà, ci pensa la solida produzione HBO Films e un cast telefilmico di primissimo livello.
Si intravedono il sempre bravissimo Jared Harris di Mad Men e Norman Reedus di The Walking Dead, oltre a due nomi che non a caso verranno poi ripescati nel circuito delle serie targate HBO: lo sceriffo di True Blood Chris Bauer, e poi lei, la protagonista, la meravigliosa Gretchen Mol di Boardwalk Empire.
Due parole su quest’attrice bisogna pur dirle. E qui veniamo finalmente alla seconda cosa di cui parlavamo a inizio post. Gretchen Mol ha una dote impressionante come trasformista. Ogni volta che la vedo, sembra una persona diversa. Una donna completamente differente. Una dote preziosissima e molto rara per un’interprete. Dalla biondina tardo 90s di film come Donnie Brasco, Il giocatore - Rounders e Il tredicesimo piano alla rossiccia giovanissima madre di Michael Pitt nella serie Boardwalk Empire fino alla mora Bettina Page, difficile riconoscere la stessa attrice. E invece è sempre lei e se la cava sempre più alla grande. Ancora troppo poco utilizzata, ha un potenziale davvero notevole, espresso pienamente in una interpretazione di Bettie Page clamorosamente immersa nella parte e clamorosamente ignorata dai grandi premi Oscar, Golden Globes etc.
È lei l’anima e (hard)core di questo biopic. Scandaloso? Nah, fondamentalmente ingenuo e naif, almeno come possono apparire oggi gli scatti della sempre Notorious and gorgeous Bettie Page.
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