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mercoledì 25 maggio 2016

Kill Your Friends, il Vinyl degli anni '90





Kill Your Friends
(UK 2015)
Regia: Owen Harris
Sceneggiatura: John Niven
Ispirato al romanzo: Kill Your Friends di John Niven
Cast: Nicholas Hoult, Tom Riley, Georgia King, Craig Roberts, Ed Skrein, James Corden, Jim Piddock, Rosanna Arquette, Moritz Bleibtreu
Genere: Brit Psycho
Se ti piace guarda anche: Vinyl, American Psycho, My Mad Fat Diary, Trainspotting, Filth – Il lercio


Kill Your Friends. Uccidi i tuoi amici. E uccidi anche i film tuoi amici, quelli che sembrano usciti dritti dai tuoi sogni, come questo Kill Your Friends. Una pellicola ambientata nel mio decennio preferito, i mitici anni '90, e per di più nel mio ambito preferito, quello musicale. Ciliegina sulla torta: il protagonista è un tipo freddo, cinico, apatico, senza sentimenti, di quelli odiosi che piacciono a me.
Ma non importa. Devo tenere fede al titolo del film: Kill Your Friends. Nessun trattamento di favore verso i film amici. E allora che il massacro cominci.

sabato 11 luglio 2015

My Last Fat Diary





My Mad Fat Diary
(serie tv UK, 2013-2015)
Rete britannica: E4
Rete italiana: non ancora arrivata
Creata da: Tom Bidwell, Georga Kay
Basata sul romanzo: My Fat, Mad Teenage Diary di Rae Earl
Cast: Sharon Rooney, Nico Mirallegro, Jodie Comer, Ian Hart, Claire Rushbrook, Dan Cohen, Jordan Murphy, Ciara Baxendale, Darren Evans, Faye Marsay
Genere: piatto ricco mi ci ficco
Se ti piace guarda anche: Skins, Some Girls, Spike Island

Caro pazzo grasso diario,
oggi ti devo raccontare una cosa triste. Non una cosa triste-brutta. Una cosa triste-bella. La serie britannica My Mad Fat Diary è finita. Finita per sempre e io non me l'aspettavo. Non lo sapevo che la terza e conclusiva stagione avrebbe avuto appena 3 episodi. A dirla tutta, non sapevo nemmeno che sarebbe stata la stagione conclusiva.
Un presunto esperto di serie tv come me che non lo sapeva?

mercoledì 29 aprile 2015

BLUR “THE MAGIC WHIP”, IL PARERE IMPARZIALE: È UNA FIGATA TOTALE!





Blur “The Magic Whip”

Il disco più atteso.
Dell'anno?
Non solo. Per quanto mi riguarda, forse di tutti i tempi. I Blur sono infatti il mio gruppo preferito in assoluto e il loro ultimo album risale a 12 anni fa. 16 anni, se consideriamo il disco "13", l'ultimo lavoro inciso con la formazione al completo.
Adesso i Fantastici 4 sono finalmente tornati insieme: Damon Albarn, Alex James, Dave Rowntree e pure il dimissionario Graham Coxon. E com'è l'album della loro reunion?
Come avrete magari intuito, non sono esattamente la persona più indicata per giudicarlo in maniera oggettiva, ma comunque ci provo.
Mi bastano le prime note di “Lonesome Street” per rimettermi in pace con il mondo. Dentro questo pezzo c'è tutto l'universo sonoro della band, di ieri come di oggi: la voce di Graham che si alterna con quella di Damon, un ritmo saltellante, i coretti, persino un fischettio finale. This is pop. This is fucking pop.

sabato 3 maggio 2014

GUIDA GALATTICA ALLA MUSICA BRITPOP




Indovinello: qual è quell’animale che cento ne pensa e cento ne fa?
Esatto, il Cannibale. Un animale strano, selvatico, che non pago di aver creato già classifiche e liste assortite di tutti i tipi, come la serie della vergogna e quella della crescita, adesso ha ideato un modo nuovo per propinarvi le sue Top 10.
Questa volta la scusa è di fare delle Top Dieci dedicate ad alcuni generi e sottogeneri musicali, rivisti sempre attraverso l’ottica cannibale, ovvio. Ad aprire le danze ci pensa un genere con cui l’animale Cannibale è stato allevato: il Britpop.


Se da buoni babbani non sapete cos’è, vi dico brevemente che è stata quella scena musicale sviluppatasi in Gran Bretagna – dal nome l’avreste mai detto? – nel corso degli anni ’90. Le radici del genere si possono trovare nei 60s, con band fondamentali come Beatles, Rolling Stones e Kinks, così come nel glam-rock 70s di David Bowie, ma un’influenza enorme l’hanno giocata anche gruppi successivi come Smiths e Stone Roses.
Da queste basi, nel corso degli anni ’90 e a partire dal 1993-94 circa, in tutto il Regno (Unito) c’è stato un enorme fermento musicale e sono salite alla ribalta un sacco di band dal suono pop-rock, che oggi potremmo definire indie-rock, ma che allora chiamavamo Britpop. Tra i primi a ottenere una grande notorietà ci sono stati gli Suede con il loro look androgino e il loro sound glam, ma l’apice della popolarità il genere l’ha toccato con la rivalità epica tra Blur e Oasis, alimentata da sfide a colpi di grandi canzoni e di battibecchi verbali, puntualmente riportati dalle riviste inglesi più cool del periodo, NME e Melody Maker.
Da lì in poi la scena si è ingigantita, sono nate un sacco di band cloni, non solo in Gran Bretagna ma ovunque, persino in Italia, dove c’erano i Lunapop che prendevano in prestito pezzi dagli Ocean Colour Scene, i Super B che scimmiottavano i Blur, Daniele Groff che imitava (malamente) gli Oasis. Qualcuno se li ricorda?
Verso la fine degli anni ’90 l’interesse nei confronti della scena, come per tutte le scene, è scemato, e il Britpop è passato di moda ma ora, a 20 anni di distanza, è tempo di revival. Per fare un tuffo in quel periodo potete dare un’occhiata alla serie My Mad Fat Diary e dare un ascolto alla mia playlist su Spotify, nonché alla mia immancabile Top 10 qui sotto.



Top 10 canzoni Britpop (secondo Pensieri Cannibali)

10. Charlatans “One to Another”



9. Elastica “Connection”



8. Supergrass “Alright”



7. Bluetones “Slight Return”



6. Mansun “Wide Open Space”



5. The Verve “Bittersweet Symphony”



4. Oasis “Live Forever”



3. Pulp “Disco 2000”



2. Blur “The Universal”



1. Suede “Beautiful Ones”

lunedì 28 aprile 2014

NUOVI DISCHI: PAOLO NUTINI, DAMON ALBARN, SKRILLEX, PHARRELL




Breve rassegna discografica sui nuovi album di quattro artisti molto differenti tra loro. Cos’hanno in comune?
Niente, a parte il fatto di essere tutti quanti uomini e di comparire in questa rubrica sui dischi passati nelle ultime settimane sulle frequenze di Pensieri Cannibali.

Paolo Nutini “Caustic Love”
Paolo Nutini è bello, bravo e pure simpatico. Da premesse simili, è difficile non farselo stare sulle balle. Allo stesso tempo, è difficile pure odiarlo, perché il ragazzo ha talento. Non è un nuovo genio musicale come qualcuno, tipo Fabio Fazio all’ultimo Sanremo, vuole farci credere, però ha talento. Con questo terzo album Paolo lo scozzese di origini italiane dimostra di possedere anche un certo coraggio nel proseguire per la sua strada. "Caustic Love" riesce a essere un buon incrocio tra i sue primi due lavori, senza ammiccamenti ai suoni cool o alle tendenze musicali del momento. C’è dentro il gusto per le ballatone messo in mostra soprattutto ai tempi dell’esordio (ricordate le splendide "Last Request" e "Rewind"?), e confermato qui con inedite doti da crooner, si senta la ballatona strappamutande “One Day”. Allo stesso tempo c’è dentro pure quel sapore retrò-vintage del secondo album e che qui appare ancora più accentuato.
Paolo Nutini ha tirato fuori un nuovo disco molto soul/R&B, quasi come se fosse una versione bianca e maschile di Janelle Monae, la quale non a caso figura come prestigiosa guest-vocal del brano “Fashion”. Il limite del disco è solo quello di scivolare in maniera un po’ troppo tranquilla nella parte finale. Qualche brano uptempo in più come il primo singolo “Scream (Funk My Life Up)” non avrebbe guastato, ma nel complesso si può considerare un perfetto ascolto da domenica mattina: rilassato, sciallato e tranquillo. E un tizio che ti tira fuori un disco così, sebbene sia bello, bravo e simpatico, è difficile da odiare.
(voto 7/10)



Damon Albarn “Everyday Robots”
Per me parlare di Damon Albarn è un po’ come per un cristiano affrontare l’argomento Gesù Cristo o la Santificazione dei Papi. Ho un forte senso di soggezione e di gratitudine nei suoi confronti. Il Damon è uno dei pochi eroi degli anni ‘90 che nel corso della sua ormai lunga carriera non mi ha mai deluso. Qualche lavoro un po’ sottotono l’ha realizzato pure lui, che manco Dio è perfetto. I supergruppi The Good, the Bad & the Queen e Rocket Juice & the Moon ad esempio non mi avevano entusiasmato e le colonne sonore delle opere teatrali Dr. Dee e Monkey: Journey to the West ce la poteva pure risparmiare. Per il resto, Albarn non ha mai sbagliato un disco, né con i Blur, né con i Gorillaz. Dopo aver realizzato decine di lavori e molteplici progetti differenti, Damon Albarn è ora giunto al suo primo album solista vero e proprio, se si esclude l'EP "Democrazy". E com’è, questo “Everyday Robots”?

È un’albarnata pazzesca! Questo è il grande pregio così come l’unico piccolo limite del lavoro. Per chi conosce bene il suo percorso artistico, qui dentro è difficile trovare novità enormi. È come sentire i Blur senza la componente più rockettara fornita da Graham Coxon, o come ascoltare i Gorillaz privi della parte più hip-hoppara. L’album è più che altro una raccolta di ballate autobiografiche molto sentite e personali, alcune, la maggior parte, davvero splendide come la title-track "Everyday Robots", l’incantevole “Hostiles” (una delle canzoni più belle degli ultimi 120 anni), la malinconicissima “Lonely Press Play”, la sognante “The Selfish Giant”, e la molto soul “Heavy Seas of Love”, che ricorda “Tender” dei Blur. Manca solo quell’innovazione musicale che aveva sempre contraddistinto i suoi lavori passati. In compenso è ben presente una classe enorme e una capacità di scrivere canzoni eterne, fuori dal tempo, come pochi altri oggi sanno fare. A 20 anni dall’uscita di “Parklife” dei Blur, del periodo d’oro del Britpop e delle rivalità con i fratelli Gallagher, “Everyday Robots” è l’ulteriore, definitiva conferma che Damon è il migliore autore della sua generazione. Vi sembra poco?
(voto 8/10)



Skrillex “Recess”
Skrillex è un tamarro?
Sì.
Skrillex è un truzzo?
Sì.
Skrillex ha cambiato la musica degli ultimi anni?
Che vi piaccia o meno, anche la risposta a questa domanda è affermativa. Sonny John Moore (questo il suo vero nome), ha cominciato nella scena metal con i From First to Last, per poi reinventarsi come deejay e producer elettronico e inventare un suono nuovo. Skrillex non ha creato il genere dubstep, ma è riuscito a darne una sua particolare declinazione, commerciale e tamarra fin che si vuole, ma anche dannatamente efficace. Musica che va suonata a massimo volume col subwoofer a stecca, per assaporare in pieno i bassi, sentirseli pompare dentro al corpo e fare incazzare i vicini di casa.
Nel corso degli ultimi anni, Skrillex è diventato il nome di punta, il poster boy della scena dubstep e l’ha fatto con una manciata di singoli, di EPs, oltre ad aver contribuito alla devastante colonna sonora del cult movie più cult movie degli ultimi anni, Spring Breakers. Il suo primo album vero e proprio è arrivato solo adesso, si chiama “Recess” ed è un lavoro fico, pieno di bombe da dancefloor, come “Recess”, “Ragga Bomb” e “Ease My Mind”, pezzi capaci di polverizzare tutto. Allo stesso tempo il disco manca il bersaglio grosso, quello di diventare un vero e proprio manifesto del genere, l’album simbolo del dubstep. Skrillex si dimostra ancora come un tipo più da canzoni singole che da long playing, ma quando alzerete il volume dei suoi pezzi e sentirete le finestre tremare, potrete anche chiudere un occhio (e un orecchio) su questo aspetto.
(voto 6,5/10)



Pharrell Williams “G I R L”
Ormai non se ne può più. “Happy” è una canzone contagiosa, riuscitissima, capace di mettere subito di buon umore. Fino a qualche tempo fa. Dopo che è stata suonata ovunque, dagli Oscar al Grande Fratello, in qualunque servizio di telegiornale, spot, promo, e usata in qualsiasi balletto, c’è poco da fare, ormai ascoltare “Happy” fa diventare sad. E fa persino morire.


Il secondo album solista di Pharrell “G I R L”, dopo il non troppo riuscito “In My Mind”, ha il problema di essere costruito proprio intorno a quel fortunatissimo pezzo, un po’ troppo in fretta e furia. Qualche singola canzone come “Marilyn Monroe” o la nuova collaborazione con i Daft Punk “Gust of Wind” funziona, solo che nel complesso il disco manca di una sua coerenza generale e finisce per suonare a tratti come una versione di serie B di Justin Timberlake. Da Pharrell, producer e autore geniale, io mi aspetto qualcosa di più per farmi davvero happy.
(voto 5,5/10)

domenica 13 aprile 2014

SPIKE ISLAND, ALLA RICERCA DEGLI STONE ROSES E DELLA… KHALEESI




Spike Island
(UK 2012)
Regia: Mat Whitecross
Sceneggiatura: Chris Coghill
Cast: Elliott Tittensor, Nico Mirallegro, Jordan Murphy, Adam Long, Oliver Heald, Emilia Clarke, Chris Coghill, Matthew McNulty, Michael Socha, Lesley Manville, Antonia Thomas, Paul Popplewell, Ciara Baxendale, Kaya Scodelario
Genere: musicale
Se ti piace guarda anche: My Mad Fat Diary, Not Fade Away, Quasi famosi, The Inbetweeners

Ci sono eventi musicali che segnano una generazione. Woodstock è il primo che mi viene in mente. Oggi ci sono un sacco di festival più fighetti e hipster, come il Coachella attualmente in corso, il South by Southwest o il Bonnaroo, anche se in quanto a notorietà e a impatto culturale niente di paragonabile con il festivalone simbolo degli anni ’60 e della cultura hippie. L’unico che per importanza si è forse avvicinato un pochino è stato negli anni ‘90 il Lollapalooza, l’evento alternative rock diventato pure protagonista dell’episodio dei Simpson Homerpalooza.
Per qualcuno un “pochino” più sfigato, l’eventone musicale pubblico della vita è stato la registrazione di una puntata del Karaoke con Fiorello nella piazza della propria città, mentre per i giovani dei primissimi anni ‘90 delle periferie delle città inglesi, e di Manchester in particolare, l’apice è stato Spike Island. What the fuck is Spike Island?


Spike Island è un’isola. Sorpresi? Per entrare più nello specifico, si tratta di una isoletta nel nord ovest dell’Inghilterra, una zonaccia piena di industrie abbandonate. È in questo luogo simbolo della decadenza post-industriale che gli Stone Roses hanno deciso di tenere un loro mega concerto storico. Who the fuck are The Stone Roses?

Gli Stone Roses
Gli Stone Roses sono stati una delle più grandi band britanniche di tutti i tempi, giusto per non esagerare, sebbene qui in Italia non siano mai stati popolarissimi, ancor meno degli Smiths. Gli Smiths sono stati tra i gruppi più importanti di sempre, eppure se chiedi a qualcuno in strada se li conosce, la maggior parte della gente ancora ti guarda male, mentre tutti, ma proprio tutti, conoscono Vasco, e a molti piace pure. Perché vivo ancora in Italia?

Comunque… Gli Stone Roses sono stati una band fondamentale che avrebbe poi ispirato gran parte del Britpop giunto qualche anno dopo, i concittadini Oasis in particolare, oltre ad aver contribuito a cavallo tra fine 80s e inizio 90s alla nascita della cosiddetta scena di Madchester. Un movimento di cui si è parlato anche nel film 24 Hour Party People e un tipo di musica riecheggiato di recente nella colonna sonora dell’ultimo episodio della Trilogia del Cornetto, La fine del mondo. Nonostante nella loro breve carriera abbiano pubblicato appena un paio di album, l’omonimo The Stone Roses, capolavoro e pietra miliare immediata della musica British, e il travagliato e criticato Second Coming, il segno che hanno lasciato è stato profondo. D’altra parte, anche altri gruppi fondamentali come Sex Pistols, Joy Division e Nirvana non hanno avuto bisogno di decine di lavori per restare impressi nella Storia. Se non conoscete gli Stone Roses dunque è un male, ma potete comunque recuperare guardandovi proprio questo film, Spike Island.

Spike Island racconta il tentativo di andare al concerto degli Stone Roses di un gruppo di 5 ragazzi di Manchester. Gruppo sia nel senso di gruppo di amici che di band musicale in erba. I 5 fanno parte degli Shadow Caster e, nel caso aveste dubbi in proposito, hanno un sound molto simile a quello dei loro idoli Stone Roses. Sono dei ragazzotti tipicamente inglesi, sbruffoni e strafottenti. Dei tipi alla Noel e Liam Gallagher, dei simpaticoni del genere. In quanto sprovveduti cazzari, i 5 si recano a Spike Island sprovvisti di biglietto e sperano di entrare al concerto in qualche modo truffaldino, all’italiana insomma. Ce la faranno?

Una cosa che NON ci mancherà degli anni '90: il taglio a scodella.
Questo è un quesito che ci si pone ma, non essendo un thriller, non è certo una domanda fondamentale. L’importante non è tanto quello, quanto il viaggio, il vivere quest’avventura insieme, come amici, come gruppo. Spike Island è un film fortemente musicale, che ha il suo punto forte nel far respirare l’atmosfera di quegli anni. A livello di colonna sonora è, com’è facile immaginare, un inno d’amore nei confronti degli Stone Roses. Se non sapete chi sono, imparerete ad amarli. Se invece già li conoscete, dopo la visione di questo film sentirete le loro canzoni con ancora maggiore trasporto emotivo. Sotto questo punto di vista, è una pellicola perfetta. Laddove Spike Island non riesce a fare il salto di qualità per diventare un cult cinematografico sta in una sceneggiatura troppo prevedibile. Ognuno dei ragazzi della band porta con sé al concerto il suo bagaglio di vita vissuta complicata, c’è chi viene picchiato dal padre e chi invece ha il papà in ospedale in fin di vita, così come tra un paio di membri della band nascerà un conflitto. I membri della band coinvolti sono naturalmente il cantante da una parte e il chitarrista/autore principale delle canzoni dall'altra. Un classico. Un altro classico è il loro essere in conflitto non solo e non tanto per la leadership del gruppo, quanto per una ragazza. E chi è questa ragazza sfasciaband?
Emilia Clarke.
Scusate se è poco.

"Ma quanto sono pucciosa?"

"Khaleesi, sguinzaglia i tuoi draghi e facci entrare al concerto!"
Ecco, se non ve ne frega un cazzo della musica inglese, un più che valido motivo per recuperare questo film è la presenza della Khaleesi, o se preferite ormai Mhysa, sebbene sia qui presente con un ruolo e in abiti del tutto differenti da quelli vestiti e svestiti in Game of Thrones.
Se invece non siete patiti di musica inglese e manco di Game of Thrones, potreste essere interessati a questa pellicola se siete fan delle serie British. Troviamo infatti qui le basi della gang di Rae in My Mad Fat Diary, il bello Nico Mirallegro, qui alle prese con un ruolo più da sfigato, lo scemo Jordan Murphy, che pure qui ha la parte dello scemo di turno, e in una minuscola parte pure la rossa Ciara Baxendale. Inoltre rispondono presente all’appello Elliott Tittensor che è stato per anni interprete del bulletto Carl Gallagher in Shameless UK e inoltre nella vita reale è il fortunello boyfriend di Kaya Scodelario, che pure compare in un cameo. Nel cast della pellicola ci sono quindi anche Antonia Thomas, l’attizzapiselli di Misfits, e Michael Socha, l’amichetto di Alice in Once Upon a Time in Wonderland.

Fan degli Stone Roses, fan di Game of Thrones, fan di My Mad Fat Diary e fan di ciò che è made in UK in generale, ho quindi dato a tutti voi almeno un buon motivo per andare a cercare questo piccolo film inglese. Una pellicola dal forte gusto musicale che, sebbene non possieda lo stesso sapore di un Quasi famosi e sia privo di personaggi, battute o una storia particolarmente originali o memorabili, si lascia guardare con grande piacere e fa venire voglia di scoprire qualcosa di più di quel periodo, i primissimi anni ’90. E, soprattutto, fa venire una gran voglia di mettere su quel primo fenomenale omonimo album degli Stone Roses.
(voto 6,5/10)

giovedì 25 aprile 2013

HO PAURA DI TUTTO, ANCHE DI A FANTASTIC FEAR OF EVERYTHING


A Fantastic Fear of Everything
(UK 2012)
Regia: Crispian Mills, Chris Hopewell
Sceneggiatura: Crispian Mills
Cast: Simon Pegg, Amara Karan, Clare Higgins, Alan Drake, Paul Freeman, Henry Lloyd-Hughes, Simon Kunz
Genere: grottesco
Se ti piace guarda anche: John Dies at the End, The Darjeeling Limited, 7 psicopatici

Perché ho visto A Fantastic Fear of Everything, piccola produzione cinematografica britannica?
Ho visto questo film perché si tratta dell’esordio cinematografico come regista e sceneggiatore di Crispian Mills. Se a questo punto avete urlato: “E chi cazzo è Crispian Mills?” significa innanzitutto che siete parecchio maleducati. Sempre con ‘sto cazzo in bocca… vi sembra una cosa da persone per bene, e che cazzo?
Per seconda cosa, significa che probabilmente non siete cresciuti negli anni ’90 e, se anche l’avete fatto, non eravate dei grandi appassionati di Britpop, vero?
Per chi ha vissuto il periodo d’oro del Britpop, il nome di Crispian Mills risuonerà invece familiare. Si tratta infatti del cantante e leader dei Kula Shaker.
“E chi cazzo sono i Kula Shaker?”

I Kula Shaker sono stati una meteora, una delle tante del periodo Britpop, ma per un breve periodo hanno brillato di una luce folgorante. Proponevano un sound dalle forti influenze beatlesiane e ancor più forti influenze indiane: in pratica erano influenzati dal periodo indiano dei Beatles. Il periodo di maggior fattanza, pardon di maggiore apertura mentale, dei Fab Four. La loro più grande hit è stata “Tattva” che rappresenta al meglio il loro sound, tra space rock, psychedelia e spiritualità indiana. Tra il 1996 e il 1997, pensate un po’ che i Kula Shaker erano talmente famosi che il loro album d’esordio è subito schizzato in cima alla chart britannica e sono persino stati ospiti al Festival di Sanremo, dove hanno proposto proprio questa canzone.



Il loro suono da hippie freakkettoni è ben presto passato di moda, nonostante anche il loro secondo album non fosse niente male, dopodiché sono spariti per un po’ dalla circolazione, il cantante Crispian ha messo su un'altra poco fortunata band, i Jeevas, per poi ritornare con i Kula Shaker negli ultimi anni con un paio di dischi che non s’è filato nessuno. Neanche i loro parenti e amici.
La loro proposta musicale, interessante per quanto derivativa dai 60s, si riflette ora nel primo film del loro cantante, Crispian Mills, che di questo A Fantastic Fear of Everything firma la sceneggiatura in solitaria e la regia insieme a Chris Hopewell, regista di videoclip (tra cui quelli per “There There” dei Radiohead, “The Dark of the Matinee” dei Franz Ferdinand e “Blood” degli Editors), pure lui all’esordio nel lungometraggio.

Crispian Mills da oggi fa dunque parte del club dei cantanti diventati registi, in cui possiamo annoverare parecchi italiani. Luciano Ligabue ha esordito piuttosto bene con Radiofreccia, per poi perdersi clamorosamente con Da zero a dieci, un film che da zero a dieci vale direi… fatemici pensare… ehm, zero. Laddove la sua proposta cinematografica è comunque pregna di “ligabuismo” al 100%, Federico Zampaglione dei melodici Tiromancino ha invece tirato fuori a sorpresa il suo lato dark con il discusso horror Shadow, non riuscito fino in fondo ma che almeno non lascia indifferenti. Poi tra i cantanti/registi c’è anche il recentemente politicamente controverso Franco Battiato, però il suo esordio cinematografico me lo sono perso. In passato, inoltre, persino Adriano Celentano e Nino D’Angelo si sono cimentati con la regia, tanto per dire che in Italia un film non lo neghiamo a nessuno. Proprio a nessuno. Tra gli stranieri cito Rob Zombie, di cui non sono certo un gran fan, ma la cui filmografia horror appare se non altro parecchio in linea con la sua proposta musicale metallara. Quando a Madonna boh, non ho ancora avuto la fortuna (o la sfortuna) di vedere le sue creature cinematografiche. E poi al momento di cantantoni/registoni non me ne vengono in mente altri…

"Mi scusi, queste mutande sono sue?"
"Mmm... non ci sono orsetti sopra, quindi direi di no."
Parlando finalmente del nostro film del giorno, A Fantastic Fear of Everything è proprio come la musica dei Kula Shaker. All’inizio la senti e rimani un po’ disorientato dalla loro proposta persino troppo freakketona e indianeggiante, ma quando c’hai fatto l’orecchio comincia a prenderti abbastanza. Non sono i Beatles, però qualche bella canzone dalla loro ce l’hanno. Lo stesso vale per il film. All’inizio appare eccessivamente stralunato. Una roba grottesca in cui vediamo Simon Pegg (quello de L’alba dei morti dementi ecc. ecc.) scrittore in fissa con i serial killer e spaventato da qualsiasi cosa. Dopo una prima parte introduttiva un po’ macchinosa, il suo personaggio comincia a suscitare simpatia, benché questa non sia proprio una pellicola comicissima, e il suo viaggio nella notte si fa intrigante.

A metà circa, il film comincia (finalmente) a ingranare con una scena ambientata in lavanderia assurda e parecchio divertente. Da lì in poi il buon Crispian Mills ci mette dentro di tutto, da ralenty un po’ abusati che citano 2001: Odissea nello spazio, a una sequenza favolistica in stop-motion che rimanda a Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, più qualche flashback, un pizzico di psicanalisi e un aspirante serial killer che vuole uccidere le sue vittime sulle note di “The Final Countdow” degli Europe. Naturalmente non manca poi l’amore di Crispian per l’India, che si palesa nell’interesse sentimentale del protagonista, ovvero Amara Karan, attrice già vista in The Darjeeling Limited sempre di Wes Anderson.
A Fantastic Fear of Everything è allora una pellicola d’esordio classica, con tutti i pregi e difetti che questo comporta, e che a dispetto del titolo non ha paura o timori, dimostra un buon coraggio e racconta una storia grottesca, quasi un’anti-favola, dal ritmo psichedelico, con una partenza soft, un buon crescendo e in grado alla fine di dare assuefazione. Proprio come la musica dei Kula Shaker.
E comunque, chi cazzo sono i Kula Shaker?
(voto 6+/10)



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