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sabato 12 ottobre 2013

STARBUCK – POLVERE DI SPERMA




Starbuck – 533 figli e… non saperlo!
(Canada 2011)
Titolo originale: Starbuck
Regia: Ken Scott
Sceneggiatura: Ken Scott, Martin Petit
Cast: Patrick Huard, Julie LeBreton, Antoine Bertrand, Patrick Martin, Sarah-Jeanne Labrosse, Félix Brassard, Igor Ovadis
Genere: patriarcale
Se ti piace guarda anche: Life Unexpected, About a Boy – Un ragazzo, Role Models
(e per altri consigli cinematografici, scaricate gratuitamente la app per cellulari Muze)

Questo film mi ha fatto pensare. Mi ha fatto riflettere non sui caffè Starbucks, né tanto meno sulla paternità e sull’avere figli. Mi ha fatto pensare che non sarebbe male fare un po’ di soldini… vendendo sperma.
Cioè ti pagano, e tanto pure, per farti le seghe. Perché non c’ho pensato prima?
Altroché scrivere, che tanto non ti danno quasi niente, o cercare un lavoro fisso, che ormai non esiste più. Alla faccia della crisi e del precariato, vado a fare il donatore di sperma, e vadaviailcù!

Come si fa, a diventare un donatore di sperma?
Innanzitutto, bisogna emigrare. Siamo alle solite. Se si vuole fare qualcosa, l’unica soluzione è scappare dall’Italia. Da noi infatti i donatori di sborr… sperma non vengono pagati. Bisogna concedersi gratis.
Al che uno pensa: “Giusto così.”
Sbagliato. Nessun guadagno, nessun incentivo a donare il proprio sperma e infatti in Italia la domanda di seme eccede l’offerta. Questo giusto per mettere qualche ostacolo tra le gambe di chi vuole diventare genitore ma non può. D'altra parte, nel nostro stato Vaticano l'inseminazione è ancora considerata qualcosa troppo all'infuori della procreazione "normale".
Quindi il primo passo è quello: è necessario espatriare se ci si vuole far pagare per farsi le seghe. Una volta andati all’estero, una volta poi che il proprio sperma è stato considerato idoneo e non c’è il rischio di trasmettere malattie ereditarie o infettive alla prole, si possono fare i $oldi.
A questo punto, tutto bene?

"Grande Balotelli!
Ma siamo sicuri che sia proprio figlio mio?"
Insomma, mica tanto. Guardando Starbuck – 533 figli e non saperlo, film canadese ispirato a una storia vera, viene qualche dubbio in proposito. Se in Italia l’anonimato viene garantito al donatore, in Canada a quanto pare così non è e così il quaranteenne (ovvero un quartenne che vive ancora come un teen) David Wozniak si ritrova costretto a fare i conti con il proprio passato. Un passato in cui ha donato lo sperma con il nome di Starbuck. Non una volta, non 2, non 3, non 4 e potrei andare avanti ancora per un’ora, bensì 533 volte. 142 di questi ragazzi e ragazze nati dal frutto del suo amore solitario ora pretendono di conoscere la vera identità che si cela dietro il nickname Starbuck. E lì so' cazzi. So' cazzi amari.
Uno dona lo sperma per mettere da parte qualche soldo, poi però si ritrova con centinaia di figli da mantenere. Bell’affare. Come investire nella Parmalat pre-crac.
Questa storia ci insegna allora una morale importante, ci racconta di come dietro a un lavoro in cui è apparentemente semplice fare soldi, ci sta sempre la fregatura. Una fregatura che in questo caso è venuta al mondo con le sembianze di 533 figli. Un intero paesino di campagna riempito di eredi, vi rendete conto? Roba che non impareresti mai tutti i loro nomi neanche mettendoti a studiarli tutto il giorno.

"Papààààà!"
"E mo' adesso chi m'ha chiamato?"
Mentre questo piccolo (neanche tanto piccolo) esercito formato dalla sua progenie vuole scoprire la sua identità, il cazzaro David Wozniak alias Starbuck temporeggia con il suo avvocato per mantenere l’anonimato e nel frattempo ne approfitta per avvicinare, in incognito, alcuni dei suoi figli. Qui il film prende una piega un po’ episodica e ripetitiva. Per fortuna non ci vengono proposti gli incontri con tutti e 533 i figli, che altrimenti più che un film ne sarebbe potuta venire fuori una serie tv, anzi una soap opera degna per longevità di Beautiful o Un posto al sole. Ci vengono mostrati solo alcuni dei suoi figli, però la situazione stanca un pochino e i momenti comici latitano. Laddove il protagonista, interpretato dal poco memorabile Patrick Huard, non è che convinca più di tanto, e i personaggi dei suoi vari figli siano più che altro abbozzati, a risollevare il livello di divertimento è l’amico avvocato, o pseudo avvocato, del protagonista. È lui a tirare fuori le battute migliori. Starbuck il film offre poi anche qualche momento più riflessivo e toccante, senza però esagerare in dosi di buonismo ed è questo il suo pregio principale, anche se nel finale… beh, scivola un po’ sui sentieri del fabiofazismo.

Da un’idea così carina e originale, sviluppata in maniera decente ma non eccezionale, con una colonna sonora buona (in particolare la splendida canzone francese “Quelque part” dei Caracol, però ci sono pure i The National) ma un cast così così, volevate che i “cugini” dei canadesi, gli ammericani, non ne approfittassero per girarne un remake? A Hollywood non si sono certo fatti pregare: i diritti dell’adattamento sono già stati acquistati, il protagonista sarà Vince Vaughn, la produzione della DreamWorks di Steven Spielberg (ohi ohi) e prossimamente arriverà sugli schermi mondiali. Scommettiamo che le dosi di banalità e buonismo saranno molto più elevate nella nuova versione a stelle e strisce?
In attesa di scoprirlo, ma anche no, io vado a cercare di guadagnare dei soldi con il mio seme. Anche se, pure per questo, tocca andare all’estero. Parafrasando Caparezza: cervelli in fuga, capitali in fuga e pure sperma in fuga.
(voto 6+/10)



mercoledì 13 febbraio 2013

REBELLE TERRA SELVAGGIA

Rebelle - War Witch
(Canada 2012)
Regia: Kim Nguyen
Sceneggiatura: Kim Nguyen
Cast: Rachel Mwanza, Serge Kanyinda, Alain Lino Mic Eli Bastien, Mizinga Mwinga
Genere: ribelle
Se ti piace guarda anche: Re della terra selvaggia, La sottile linea rossa
Uscita italiana: ?

Komona a 14 anni ha già avuto una vita piuttosto piena. Ha ucciso i genitori (è stata costretta a farlo), ha fatto la guerra, è stata considerata una strega di guerra (in senso positivo), si è sposata due volte, ha avuto un figlio…
No, non è l’inizio di una nuova puntata di Teen Mom. È la vita così come va in Africa, o almeno in alcuni paesi dell’Africa, o almeno ad alcune bambine dell’Africa.
La storia di Rebelle è dura e potentissima, ma ad esserne uscito fuori non è un film di quelli che puntano al facile pietismo e nel buonismo. Qualcuno ha detto The Impossible? Qualcun altro ha detto Fabio Fazio? Piuttosto, è uno di quei film che ti fanno pensare: “Cazzo, ci lamentiamo tanto della nostra vita, dei nostri problemi, della nostra povera Italia, e facciamo comunque bene a lamentarci perché uno non è che deve accettare tutto passivamente, però… però ci sono anche situazioni più dure della nostra. Parecchio più dure.”

Rebelle, a sorpresa, non è un film che ci sbatte la miseria della vita della giovanissima protagonista in faccia. Ci accompagna insieme a lei a scoprire una realtà terribile. Una realtà in cui i bambini, se va loro ancora bene e non vengono subito uccisi, sono presi dai loro villaggi, addestrati per diventare soldati macchine da guerra killer spietati, e costretti a uccidere o a essere uccisi fin dalla più tenera età, senza molte possibilità di miglioramenti sostanziali in vista per quanto riguarda il futuro. Il massimo a cui si può ambire è quello di diventare stregoni o streghe di guerra. Che culo.
Rebelle ci parla di questo, ma non è un documentario di denuncia. È un’opera cinematografica con un occhio vicino al naturalismo di Terrence Malick e che si/ci concede lampi visionari di una bellezza assoluta. È questo ciò che trasforma un personaggio dalla vita incredibile con una storia fortissima in un grande film.

La protagonista Komona sembra una sorella maggiore di Hushpuppy e Rebelle è un fratellino di Re della terra selvaggia (Beasts of the Southern Wild), leggermente meno fantasioso, ma comunque non privo di momenti visivi eccelsi e notevole sia per cosa racconta che per come lo racconta. Anche Rebelle vanta una strepitosa giovane protagonista, Rachel Mwanza, e lo sguardo tutto da tenere d’occhio anche nel futuro del regista e sceneggiatore canadese Kim Nguyen. Il suo nome non tragga in inganno, è un uomo, ha già alle spalle alcuni film poco considerati, mentre con questo potente Rebelle si è imposto di diritto tra i nuovi registi più interessanti del cinema mondiale e si è guadagnato una nomination all’Oscar 2013 tra i migliori film stranieri. Contro di lui ci saranno il super mega ultra strafavorito Amour, che vincerà sicuramente, più il norvegese Kon-Tiki, il cileno No e il danese A Royal Affair. Film di pregevole anzi ottima fattura di cui parlerò nei prossimi giorni, però il mio cuore fa e farà sempre il tifo per gli outsider, per i ribelli, per Rebelle.
(voto 8/10)



mercoledì 23 maggio 2012

Andare a scuola fa male

Film segnalato qualche tempo fa spassionatamente (non moderatamente) da moderatamente ottimista sul suo blog Piano piano, sequenza....

Polytechnique
(Canada 2009)
Regia: Denis Villeneuve
Cast: Maxim Gaudette, Karine Vanasse, Sébastien Huberdeau, Evelyne Brochu, Johnne-Marie Tremblay
Genere: stragista
Se ti piace guarda anche: Elephant, ...e ora parliamo di Kevin, Bowling a Columbine, Romanzo di una strage, United 93, La donna che canta

Cosa muove il comportamento di un pazzo assassino?
Polytechnique si ispira alla strage compiuta nel 1989 da un tizio che non si definiva un “pazzo assassino”. Si definiva un razionale.
E allora: cosa muove il comportamento di un “razionale” del genere?
Questo massacro è avvenuta a Montreal, in Canada. Come? Nel pacifico Canada avvengono cose del genere?
Sì, nel pacifico Canada. Così come nella pacifica Norvegia c’è stata la strage dell’isola di Utoya.
Se nel caso di Columbine le cause possono essere ricercate nella cultura della violenza della società americana, qui come la mettiamo?
Eppure anche in questo caso gli atti sono rivendicati come politici e dovuti a una mentalità d’odio puro. Nel caso di Utoya (che potrebbe diventare prossimamente un film di produzione americana), Breivik è un dichiarato anti-multiculturalista, anti-marxista, anti-islamista. Nel caso di questo Polytechnique, l’autore della strage è un dichiarato anti-femminista:

Avendo sempre avuto una mentalità un po' retrograda per natura
ho sempre provato rancore verso le femministe.
Si aggrappano ai vantaggi dell'essere donna,
come i costi più bassi dell'assicurazione,
il congedo per maternità, quello parentale,
ed allo stesso tempo rivendicano per loro quelli degli uomini.
The Killer, Polytechnique


Il regista Denis Villeneuve, futuro autore del bellissimo La donna che canta, nonostante il cognome non ama correre. Ci accompagna per i corridoi del politecnico di Montreal in maniera lenta e discreta, come chi sente il bisogno di mostrarci una cosa importante. Qualcosa che non ci piacerà, che ci farà stare male, che picchierà forte come un pugno allo stomaco dato da un tizio grosso stile Khal Drogo di Game of Thrones. Eppure sente il bisogno di farlo, perché è una storia che dobbiamo conoscere, dobbiamo vedere con i nostri occhi.
Polytechnique non è una visione leggera. Fin dall’inizio ci proietta dentro un incubo reale. Un vero horror che fa il paio con Elephant di Gus Van Sant, inevitabile pietra di paragone. Ma Polytechnique, oltre alla scelta del bianco e nero che rende il tutto ancora più freddo e raggelante, offre anche spunti di riflessione diversi, su tutte un maschilismo imperante difficile da estirpare anche nelle società che si dichiarano più evolute, come il colloquio iniziale della protagonista femminile ben evidenzia. E nei difficili panni di questa protagonista, suo malgrado, della triste storia raccontata dal film troviamo l’ottima Karine Vanasse. Segnatevi il suo nome. Questa stagione è stata a bordo del cast della gradevole serie 60s style Pan Am. La serie non è stata confermata, ma di lei invece credo sentiremo parlare ancora a lungo.


Non so nemmeno io se consigliarvi un film del genere o meno, soprattutto in un momento come questo dove notizie e ricorrenze certo non felici si rincorrono tra giornali e telegiornali. Polytechnique è girato ottimamente, offre parecchi spunti di riflessione e lascia il segno. Però fa male. Ti fa rimanere in stato di allerta tutto il tempo. L’attesa è qualcosa di snervante. Noi spettatori sappiamo che qualcosa di terribile sta per succedere. Loro, quelle ragazze, invece non sapevano nulla. Per loro era soltanto un’altra normale giornata di scuola.
(voto 7,5/10)


sabato 4 febbraio 2012

La donna che ca… che canta

La donna che canta
(Canada 2010)
Titolo originale: Incendies
Regia: Denis Villeneuve
Cast: Lubna Azabal, Mélissa Dèsormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Remy Girard, Abdelghafour Elaaziz, Allen Altman
Genere: il passato ritorna
Se ti piace guarda anche: Valzer con Bashir, Persepolis, La chiave di Sara

La donna che canta non è il film biografia dedicato a Laura Pausini. Quello si intitolerebbe “La donna che canta male”. O ad essere proprio perfido, si intitolerebbe "La donna che caga (dalla bocca)".
Sarò mica stato troppo cattivo?
Ma va là, che sono ancora stato gentile, con tutte quelle che ci ha fatto e continua a farci passare lei con la sua “musica”…

"Ciao, sono la nuova postina di Maria de Filippi: c'è posta per teee!"
La donna che canta invece e per fortuna è tutta un’altra musica. Nell’aria propaga infatti onde sonore e visive di quelle tipiche del grande film, di quelli impegnati socialmente e politicamente, di quelli che a vederli ti fanno sentire una persona più intelligente e matura, però non di quelle mattonate pesanti che ti raccontano una storia importante ma ti stremano a livello fisico. Si può parlare di tematiche pesanti senza per questo diventare pesanti per lo spettatore.
Il film, già inserito tra i miei top film del 2011 a una prestigiosissima 6a posizione, riesce a mantenersi incredibilmente in bilico tra la necessità di raccontare una storia rappresentativa dell’eterno conflitto in Libano tra Palestina e Israele, quella di una donna (sì, la donna che canta) e dei figli nati da uno stupro subito mentre era in prigione, senza però finire nel piagnisteo da C’è posta per te con Maria de Filippi.
Oddio, me sento male al solo nominarla.
Uff, Pausini e de Filippi. Se il film non è pesante, lo starò mica diventando io con questo post?

"Maria, c'è posta anche per te!"
Per raccontarci a ritroso la storia non certo leggera della donna che canta, tratta da un’opera teatrale di Wajdi Mouawad, il regista Denis Villeneuve insieme alla co-sceneggiatrice Valérie Beaugrand-Champagne (voglio anch’io un cognome così cool!) ha adottato una formula matematica.
Cosa, cosa?
In pratica, il prodotto dell’equazione del film è la prima splendida sequenza, illuminata dalle note di “You and Whose Army?” dei Radiohead, pezzo che tornerà poi ancora nel corso della pellicola, a mo’ di lietmotiv. Si scriverà così lietmotiv? Sì, ho controllato su Google e su Google ci sta la Verità Suprema.
Il resto della pellicola procede a ritroso cercando di risolvere quest’equazione. Spiegato così è un casino e io di matematica dalla seconda liceo in poi ho cominciato a capirne sempre meno, mano a mano che i numeri venivano sostituiti da incognite, variabili, ellissi (?!) e altre cose per me ancora oggi del tutto prive di senso.
La componente matematica è presente ma non preponderante, altrimenti il film si chiamerebbe “La donna che conta”.
Ahahaha, dopo questa battuta credo mi prenderanno a condurre Zelig!

La donna che canta invece è ben altro e riesce a fare una cosa che una formula matematica non riuscirebbe mai a fare (a parte forse gente non del tutto normale come Will Hunting): emozionare. Senza retorica o facili patetismi. In una sceneggiatura così potente e ben orchestrata emerge un solo piccolo difetto, come ha messo in evidenza il collega blogger Oh Dae-Soo, che riguarda la verosimiglianza dell’età dei figli e del padre-stupratore. Però a questo punto le questioni matematiche le abbiamo già lasciate da parte e quindi meglio non addentrarci troppo nei cavilli tecnici e goderci semplicemente la visione del film. Ok?

"Mamma, smettila coi tuoi ridicoli pensieri e guarda come sono brava a tuffarmi!"
Cast da applausi con una enorme Lubna Azabal nella parte della madre, l’attore feticcio del regista Maxim Gaudette e la rivelazione assoluta Mélissa Dèsormeaux-Poulin, una sorta di versione più giovane di PJ Harvey. Non che PJ Harvey sia vecchia, però insomma, ci siamo capiti, no?
Alla solidissima regia c’è il citato Denis Villeneuve che dimostra come questo cognome non significhi solo talento dietro a un volante ma pure dietro a una macchina da presa. Il suo sguardo è infatti lucido, preciso, asciutto, ma anche capace di illuminarsi improvvisamente. Un talento già dimostrato con il precedente Polytechnique, un Elephant canadese che rappresentava un’altra bella mazzata.
Volendo proprio trovare un difetto a questo Denis Villeneuve è che i suoi film sono così seri e belli e importanti che è difficile ironizzarci sopra. E per me questo è grave. Mi obbliga a cercare di essere serio e a provare a fare un’analisi profonda delle tematiche qui espresse.
C’è la guerra, l’eterna guerra, ci sono gli uomini che odiano le donne (come già in Polytechnique), ci sono due figli alla ricerca di risposte sul loro passato e sulla misteriosa vita della loro madre. Ci sono tutti questi temi molto importanti e altri ancora ma a parlarne troppo rischierei di suonare borioso e, soprattutto, noioso.
E quindi vi lascio alla visione consigliatissima di questa pellicola che invece evita in scioltezza tali rischi.
Niente boria. Niente noia. Bella storia.
(voto 8/10)

lunedì 12 dicembre 2011

Ti odio poi ti amo poi ti amo poi ti odio poi ti amo

Les amours imaginaires
(Canada 2010)
Titolo internazionale: Heartbeats
Regia: Xavier Dolan
Cast: Xavier Dolan, Monia Chokri, Niels Schneider, Anne Dorval, Anne-Élisabeth Bossé, Olivier Morin, Magalie Lépine Blondeau, Éric Bruneau, Gabriel Lessard, Bénédicte Décary
Genere: romanticamente immaginario
Se ti piace guarda anche: Cashback, Le regole dell’attrazione, In the mood for love

Ci sono diversi modi in cui si potrebbe definire Les Amours Imaginaires, opera seconda del 22enne franco-canadese Xavier Dolan in veste di attore regista e pure sceneggiatore:
Nouvelle vague della nouvelle vague, per il suo saper guardare alla realtà con occhio leggero quanto profondamente cinematografico.
Un Wong Kar Wai che tiene le eleganti carrellate in slow-motion ma toglie tutta la parte noiosa dai suoi film.
Un Gregg Araki meno dopato e più romantico.
Un Bret Easton Ellis che sa cos’è l’amore.
Ci sono diversi modi in cui si potrebbe definirlo, ma presto probabilmente basterà dire: è un film di Xavier Dolan, e tutto sarà subito chiaro.


E dire che il suo film d’esordio nemmeno mi era piaciuto. J’ai tué ma mère era infatti una pellicola in cui si intravedeva chiaro e limpido il talento del suo autore, allora appena 19enne, eppure con il suo essere semi biografico finiva per essere troppo autistico, troppo rivolto verso se stesso e poco comunicativo nei confronti del resto del mondo. Soprattutto, peccava di eccessivi toni melodrammatici, con la madre che urlava, strepitava e piangeva manco fosse Laura Morante, anzi no la Fornero. Quasi come ci trovassimo in un film di Gabriele Muccino, solo con meno gente che correva.
Niente di irrimediabile, soprattutto quando fai un film a un’età così giovane e comunque già dimostri un occhio cinematografico mica tanto comune. E così Dolan alla sua seconda prova non solo aggiusta il tiro, ma fa un clamoroso centro pieno.

Les Amours Imaginaires è tutta la magia del cinema. È lo stupore con cui un giovane prende in mano la macchina da presa e realizza un film come se fosse il primo mai girato in tutta l’umanità. Per questo mi sembra più un’opera d’esordio questa, rispetto al suo vero esordio. J’ai tué ma mère provava ad essere un film maturo ma risultava una variante acerba del capolavoro di Almodovar Tutto su mia madre (ma se pensate che per il Pedro abbia solo parole positive, aspettate che parli di La pelle che abito). Con Les Amours Imaginaires, il giovane Dolan ha messo da parte gli intenti autobiografici, ha tirato fuori tutta la sua innocenza, tutto il suo romanticismo e ha realizzato un’opera paradossalmente molto più personale. Come ha fatto? Ci ha aperto il suo cuore.
Ma di cosa acciderboli parla questo film?

Ti sei mai innamorato di una persona che credeva di essere infatuata di un’altra persona che era presa da un’altra persona che aveva una simpatia per un’altra persona che però non provava sentimenti per le altre persone ma magari sì?
Ecco, Les Amours Imaginaires parla di questo e più in generale è un piccolo trattato sociologico sull’amore. Senza pretese di raccontare in maniera esaustiva tutte le relazioni o tutti i tipi d’amore, Dolan getta uno sguardo su un gruppo di ragazzi e ragazze. Attraverso le loro interviste/confessioni, abbiamo un ritratto dell’amore oggi, ai tempi di Internet, con a svettare su tutti una tipa con gli occhiali, tale Anne-Élisabeth Bossé, che è diventata tipa la mia nuova idola assoluta. Vorrei poterla tenere sul comodino accanto al letto come soprammobile.
Questi personaggi comunque sono solo un contorno alla storia principale, che è quella di un classico triangolo amoroso tra i tre protagonisti. Solita storia, sento da qua i vostri sbadigli. Il tema è già stato affrontato più e più volte da film, serie tv, letteratura, eppure negli ultimi tempi, chissà perché, quando si tira fuori la parola triangolo viene subito in mente non Renato Zero (se vi viene in mente lui, significa solo una cosa: siete vecchi ah-ah!), bensì Twilight: il vampiro Edward, il licantropo Jacob e l’umana (umana si fa per dire) Bella.
Cancellate tutto, perché qui non c’è né la componente fantasy, né tutte le logorroiche menate virginali alla Stephenie Meyer. Qui c’è il vero Romanticismo. Qui ci sono sentimenti veri. O no, perché sono immaginari. Ma se una cosa è immaginaria, è forse meno vera. È forse meno reale?
Un ragazzo (lo stesso Xavier Dolan, pure ottimo attore) e una ragazza (una emergente Monia Chokri da Oscar, da Coppa Volpi, da Palma d’Oro) si innamorano, o meglio si prendono una cotta pesante, per un giovane Adone (Niels Schneider). No, non è una metafora. Il tipo ha infatti i boccoli biondi, gli occhi larghi, un fisico statuario. Insomma, è proprio un novello Adone 2.0 e i due si ritroveranno inevitabilmente a cadere come pere cotte ai suoi piedi. Due ragazzi e una ragazza, come in The Dreamers ma senza le pretese politiche e lo morbosità voyeuristica del “vecchio” Bertolucci, nonostante una scena dello stesso Dolan da “masturbation award” (anche se per questo premio la Natalie Portman del Cigno nero rimane imbattibile). E a proposito di The Dreamers, il film nel finale regalerà una sorpresina ai suoi estimatori…

La storia di Les Amours Imaginaires può sembrare nulla di ché, e in effetti dietro non c’è nessuna idea rivoluzionaria. Nessuno spunto di trama inedito o mai visto. A colpire, a fare breccia nel cuore e a riempire lo sguardo dello spettatore (o almeno il mio), è il tocco delicato e leggero del giovane Dolan. Questa volta niente melodrammi. Anche le scene più intense e sofferte volteggiano in maniera leggiadra. Complice di questo miracolo è una scelta delle canzoni in colonna sonora oltre la soglia dello spettacolare. Dolan usa come tema ricorrente “Bang Bang” di Dalida, sì proprio la “nostra” Dalida, la cantante anni ’60 portata ahinoi sul piccolo schermo dalla Sabrinona Ferilli… Il remake italiano del pezzo che in versione Nancy Sinatra echeggiava nel Kill Bill di Tarantino è un autentico miracolo e vedere l’uso magistrale che ne fa un ragazzotto canadese ci fa chiedere: ma possibile che nessuno in Italia riesca a valorizzare in questo modo la nostra arte, la nostra storia della musica? Sarà che qui da noi per esordire alla regia, così come per fare qualcosa in molti altri campi politica in primis, devi essere per forza over 40?
Dolan, oltre che regista dallo sguardo magico, si dimostra così un dj estremamente versatile, in grado di mixare Dalida con “Jump Around” degli House of Pain e fare apparire il tutto come il più naturale possibile! A completare una delle più belle soundtrack mai concepite da mente umana c’è anche l’elettronica leggera di The Knife e Fever Ray, più le raffinate perle francesi di Indochine e Vive la fete.

Considerando che un regista come Manoel de Oliveira alla tenera età di 103! anni realizza ancora pellicole, e considerando che Dolan - classe 1989 - attualmente sta già girando il suo terzo film, Laurence Anyways, previsto in arrivo nel 2012, se continua così potrebbe diventare il regista più prolifico della storia. Ma la cosa importante non è la quantità, bensì la quantità, e se già questo Les Amours Imaginaires è un piccolo capolavoro, la sensazione è quella che le sue potenzialità future siano ancora tutte da scoprire. In attesa di vedere quali altre perle ci donerà in futuro, godiamoci il presente. Perché già adesso, più che girare, Xavier danza in maniera leggiadra sulla immagini e ci ha regalato una delle visioni più incantevoli degli ultimi tempi. Adorable, formidable.
(voto 9/10)


venerdì 9 dicembre 2011

Xavier Dolan: Man of the year 2011 n. 10

Xavier Dolan
Genere: giovani talenti crescono
Provenienza: Montreal, Québec, Canada
Età: 22
Il passato: il film d’esordio J’ai tué ma mère
Il suo 2011: Les amours imaginaires
Il futuro: il suo terzo film Laurence Anyways
Perché è in classifica: volendo esagerare un attimo, è la grande speranza del cinema mondiale
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Xavier Dolan è un regista, attore, sceneggiatore, è canadese, è gay, ha 22 anni, è il futuro (ma anche già il presente) del cinema mondiale. Il suo esordio J’ai tué ma mère non mi aveva convinto molto, non perché fosse una cattiva pellicola, ma perché il suo talento mi sembrava come trattenuto. Con il suo secondo Les amours imaginaires è invece riuscito a farlo esplodere del tutto, realizzando una delle pellicole più BELLE, nel senso più pieno e godurioso del termine, degli ultimi tempi. Pura gioia per gli occhi, grazie a un occhio alla Wong Kar Wai senza le parti noiose che getta uno sguardo su una storia a metà strada tra Gregg Araki e Bret Easton Ellis, con una colonna sonora grandiosa che ti fa chiedere: ma ci voleva proprio un ragazzetto canadese per valorizzare un pezzo italiano degli anni ’60 come “Bang Bang” di Dalida?
Presto dedicherò a questa perla di pellicola un post tutto suo, nel frattempo vi consiglio di cercarlo, non nei cinema italiani dove un’uscita non è al momento stranamente prevista, ma nei soliti posti in rete. Anche voi lo amerete. Che poi lo facciate in maniera immaginaria o reale, quello sta solo a voi…




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