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martedì 26 giugno 2012

Mordi la Fiona Mela

Che bello, il nuovo disco di Fiona Apple, Gesù Santo.
Avevo un po’ paura, prima di ascoltarlo. Non sai mai che scherzi ti possano tirare i tuoi vecchi idoli.
Ma l’avete sentito ad esempio il nuovo album degli Smashing Pumpkins, Oceania?
Non farà sanguinare le orecchie come, per dire, l’ultimo degli Afterhours, ma questo può davvero essere considerato lo stesso gruppo che ha tirato fuori disconi come Mellon Collie, Siamese Dream e Adore? Vi prego, ditemi di no.
“No, non è la stessa band: a parte Billy Corgan, gli altri musicisti sono tutti cambiati!”.
Bene, grazie per la risposta.

Per fortuna, Fiona Apple non ha perso l’ispirazione come accaduto a Billy “non più the Kid” Corgan. Tutt’altro. Il paragone per lei può essere semmai quello con Terrence Malick.
Anche lei è infatti un’artista schiva, che odia i riflettori preferendo concentrarsi sulla sua arte e anche lei è tutto fuorché prolifica. Questo è appena il suo quarto album in 16 anni di carriera e arriva a 7 di distanza dall’ultimo. Una scarsa prolificità che la accomunava, al passato, con Malick, visto che il regista texano adesso s’è messo sotto al lavoro come un forsennato e gira un film dietro all’altro manco si fosse trasformato in Woody Allen.

Fiona Apple è davvero un’artista strana. La parola migliore per definirla sarebbe però “estranea”. Perché Fiona è del tutto estranea al resto dello showbiz musicale. Lo è sempre stata, anche se all’inizio c’avevano pure provato, a incasellarla.
A metà anni Novanta, nel 1996, esce il suo folgorante album d’esordio Tidal. Una raccolta di canzoni intime e personali. Solo per il fatto di essere una cantante donna, con testi più o meno arrabbiati e avere i capelli lunghi, l’industria discografica la etichetta così come nuova Alanis Morissette, che all’epoca vendeva milioni su milioni di dischi.
Ma vi rendete conta che quella era un’epoca in cui Alanis vendeva fantastiliardi di dischi? Quella dove non esisteva quasi lettore CD (perché allora c’erano ancora i lettori CD) su cui non girasse Jagged Little Pill? Non che non se lo meritasse o altro, però è ironic, come canterebbe lei, che oggi se esce un suo album nuovo a malapena una o due persone al mondo ne parlano e invece allora sembrava tipo la più grande cosa mai capitata sulla scena musicale. Davvero altri tempi.
Fatto sta che Fiona, capelli lunghi a parte, ben poco aveva a che vedere con la Morissette e la sua musica semmai portava più dalle parti di Tori Amos. E, di certo, ben poco aveva a che vedere con il resto della musica che passava sulle radio o in tv. Premiata come artista rivelazione agli Mtv Music Awards 1997, Fiona ha ad esempio “ringraziato” con il discorso più anti-Mtv mai sentito su Mtv. Dove – toh, guarda un po’ che caso – non è poi praticamente più passata…

"This world is bullshit. And you shouldn't model your life — wait a second — you shouldn't model your life about what you think that we think is cool and what we're wearing and what we're saying and everything. Go with yourself. Go with yourself."


Con il secondo album, Fiona ribadisce ancora di più la sua estraneità, la sua allergia al mondo dello showbiz. E al mondo, più in generale. Chiama alla produzione il compositore Jon Brion, fa un disco dalle forti atmosfere cinematografiche e gli dà il titolo più lungo nella storia della musica:

When the Pawn Hits the Conflicts He Thinks like a King What He Knows Throws the Blows When He Goes to the Fight and He'll Win the Whole Thing Fore He Enters the Ring There's No Body to Batter When Your Mind Is Your Might So When You Go Solo, You Hold Your Own Hand and Remember That Depth Is the Greatest of Heights and If You Know Where You Stand, Then You'll Know Where to Land and If You Fall It Won't Matter, Cuz You Know That You're Right

Roba che a Lina Wertmüller sarà preso un colpo dopo averlo letto, rimpiangendo non sia venuto in mente a lei.
Boicottato da Mtv, sbeffeggiato per il titolo, senza un singolone pop da sfoggiare, l’album commercialmente va molto meno bene rispetto all’esordio, eppure è una bomba pazzesca. Uno dei dischi più belli che io abbia mai sentito. Una gemma assoluta di rara intensità, paragonabile giusto alla grazia di Jeff Buckley.

Ai tempi del terzo album, Fiona viene poi boicottata persino dalla sua stessa etichetta discografica, la ben poco epica Epic Records, che non vuole farlo uscire perché “troppo poco commerciale”. Il lavoro rimane bloccato, i fan mettono in piedi un’organizzazione chiamata “Free Fiona” manco fosse Free Willy, fino a che la Mela non è costretta a tornare in studio con dei nuovi producer che regalano al tutto un po’ più di ritmo e alla fine, nel 2005, Extraordinary Machine vede extraordinariamente la luce. Disco notevolissimo, sebbene inferiore ai due precedenti, cui fa seguito un altro lungo stop ora interrotto con un nuovo album che è appena uscito a sorpresa sempre per la stessa Epic Records e con un titolo pure questo parecchio lunghetto:

Fiona Apple “The Idler Wheel Is Wiser Than The Driver of The Screw And Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do”
Genere: melò ma non smielato
Provenienza: New York
Se ti piace ascolta anche: Regina Spektor, Lana Del Rey, St. Vincent, Bjork, Joanna Newsom, Cat Power, Feist, Kimbra

Il nuovo album di Fiona, cui anziché l’intero titolo originale ci riferiremo con il più breve The Idler Wheel, è una magia fatta di voci, piano, qualche percussione e poco altro. Essenziale. È un disco essenziale. In tutti i sensi comunemente intesi del termine. Essenziale perché non potete perdervelo. Ed essenziale perché ha un suono scarno (ma tutt’altro che scarso), fatto di pochi elementi e del tutto naturale. Come se Fiona tenesse un concerto davanti a noi, solo per noi.
La sua voce regala magie a profusione ed è protagonista unica di uno spettacolo lungo 40 minuti. Non pensate però a vocalizzi, sfoggi inutili di virtuosismi o gorgheggi alla Mariah Carey. Fiona vomita fuori le parole che ha tenuto dentro di sé negli ultimi anni.
La sua voce sussurra, accarezza le orecchie, per poi accendersi all’improvviso a sottolineare alcune parole, come in “Daredevil” e “Valentine”, trasformarsi in coro come in “Periphery” o nel ritornello del singolo “Every Single Night”, toccare la poesia assoluta nell’incantevole “Anything We Want”, raggiungere il sublime in “Hot Knife” e poi pugnalarti quando meno te lo aspetti.

The Idler Wheel è un disco di canzoni pop con testi di un'urgenza espressiva di matrice quasi rap e suonato con un'attitudine jazz.
Un disco figlio diretto dei suoi album precedenti eppure dal suono diverso, scarno, ancora più personale, sentito e vissuto, un pugno dritto alla bocca dello stomaco della scena musicale di oggi. Un disco… essenziale, non ci sono altre parole per descriverlo.
E allora, che altro aspettate ancora ad addentare la Fiona Mela?
(voto 9+/10)


lunedì 25 giugno 2012

Mad Men, pazzi gli uomini (e le donne) che non lo guardano

Mad Men
(serie tv, stagione 5)
Rete americana: AMC
Reti italiane: Rai 4, Fox, FX, Cult
Creato da: Matthew Weiner
Cast: Jon Hamm, Jessica Paré, John Slattery, Vincent Kartheiser, Christina Hendricks, Elisabeth Moss, January Jones, Kiernan Shipka, Jared Harris, Rich Sommer, Aaron Staton, Robert Morse, Ben Feldman, Jay R. Ferguson, Alexis Bledel, Alison Brie, Christine Estabrook, Julia Ormond, Christopher Stanley, Peyton List, Michael Gladis, Joel Murray, Marten Holden Weiner
Genere: retrò
Se ti piace guarda anche: The Hour, Mildred Pierce, Revolutionary Road

“Come disse una volta una persona saggia: l’unica cosa peggiore di non ottenere ciò che desideri, è vedere qualcun altro che la ottiene.”
Roger Sterling (John Slattery)

Spiegare la grandezza di Mad Men a un profano, a chi magari ne ha visto giusto mezzo episodio o appena qualche minuto, è come spiegare l’esistenza di Dio a un ateo.
Tanto per continuare nella non richiesta metafora religiosa, Dio è nei dettagli, così come il diavolo. Lo stesso discorso vale anche per Mad Men. Sono i dettagli di classe, sono i lampi improvvisi di genio, sono gli scarti dalla norma del tutto inattesi a rendere la serie qualcosa all’infuori e all’insopra del resto del panorama. Televisivo quanto cinematografico.

La maggior parte delle serie tv raggiunge il suo picco nel corso delle prime stagioni, poi quasi inevitabilmente va incontro a un declino, più o meno rapido. Ci sono anche alcuni telefilm che il meglio l’hanno dato in là con gli anni: Buffy, ad esempio, ha raggiunto il suo picco di creatività, ironia e genialità solo nel corso della season 6. Ma Mad Men resta un caso a parte. La qualità si è mantenuta paurosamente alta. Sempre. Come mai mi era capitato di vedere in alcuna altra serie. A una prima stagione folgorante, piovuta dal cielo come un meteorite destinato a polverizzare ogni altra cosa fosse in onda in quel momento in tv, sono seguite due stagioni con qualche lievissimo calo fisiologico, ma limitato giusto a una manciata di episodi. La quarta stagione aveva quindi rappresentato una ventata di aria fresca per la serie, una rimescolata a uno show che sembrava vivere di vita nuova. Poteva bastare così? No, perché la quinta stagione si è spinta ulteriormente oltre.

"Oddio, ma come ti sei vestito?"
"Perché tu, invece?"
13 episodi fenomenali, uno più bello dell’altro, in grado di costruire un corpus unico e allo stesso tempo di regalare a ognuno (o quasi) dei personaggi principali il suo momento personale di epifania joyciana. Senza dubbio alcuno, una delle stagioni migliori mai viste di una qualsiasi serie tv e probabilmente la migliore in assoluto per lo stesso Mad Men. Nel complesso persino meglio di quel miracolo di stagione 1. Non pensavo sarebbe potuto succedere e a questo punto mi aspetto una season 6 ancora più incredibile. Perché la sesta sarà anche l’ultima. Scriverà la parola fine a una delle più belle narrazioni di sempre, non solo in campo televisivo ma prendendo in considerazione anche letteratura e cinema e qualunque altra cosa.
Mad Men con la scusa di parlare di un gruppo di pubblicitari ha ridisegnato un decennio, levando via un sacco di stereotipi e di miti sui favolosi anni Sessanta e ha ridisegnato il significato stesso della parola “stile”. In più, ci ha regalato una serie di personaggi meravigliosi, complessi, mutevoli, indecifrabili e proprio per questo umani come raramente è capitato di vedere. Mad Men è come il tonno. Insuperabile.

Per una riflessione più ampia sull’importanza storica avuta da Mad Men nel rivedere oggi il passato (si veda in proposito l’influenza non solo estetica su produzioni come The Help o Mildred Pierce) ci sarà tempo con la stagione finale, per il momento concentriamoci sulla season 5. Una mad season che ha tenuto fede al titolo della serie.

"I dilemmi della vita: sono più gnocca o più brava a recitare o a cantare?"
ATTENZIONE SPOILER
La partenza è stata grandiosa. La doppia prima puntata, season chicken premiere double burger, è stata una lezione autentica di scrittura televisiva. A un occhio mad-men-ateo, sarà potuto sembrare un episodio in cui nulla succede. A me è sembrato un episodio dalla struttura quasi da thriller. L’attesa di un qualcosa che sta per succedere. Tutta la puntata è incentrata su una festa, a casa di Don Draper. Tutta la festa e le discussioni post-festa sono incentrate su un singolo momento, la performance sorprendente e incredibile della neo signora Draper, la francesina Megan, interpretata da una Jessica Paré bomba sexy a livello fisico e da Emmy immediato a livello recitativo. Zou Bisou Bisou, canta Megan/Jessica riecheggiando Gillian Hills e la nostra Sophia Loren, e tutto il resto del mondo scompare. Un momento musicale che da solo vale 3 intere stagioni di Glee.


Il bello di Mad Men è anche quello di saper affrontare tematiche tipiche degli anni ’60, senza per forza voler sviscerare tutto l’argomento con triti e ritriti sermoni. Mad Men preferisce suggerire, offrire spunti. In questa stagione 5 è stata quindi introdotta la tematica dell’integrazione razziale, con le prime segretarie di colore assunte da Draper e soci, si è intravista la fascinazione per le religioni orientali, con il ritorno da guest-star di Paul Kinsey (Michael Gladis) in versione santone, e poi c’è stato il rock’n’roll, con un episodio in cui Don e Harry (Rich Sommer) vanno dietro le quinte di un concerto dei Rolling Stones.
Al proposito, è fondamentale l’uso delle musiche in Mad Men. Le canzoni sono usate con grande parsimonia, in genere una ad episodio, non di più, ma sempre in maniera ma-gi-stra-le. La scena in cui Don Draper ascolta “Tomorrow Never Knows”, probabilmente il pezzo più avanti dell’intera discografia dei Beatles, e poi la toglie dal giradischi prima che finisca la dice lunga, dice tutto, su un uomo d’altri tempi che non riesce ad adattarsi alla modernità e non riesce a cambiare. Il dilemma fondamentale intorno a cui ruota la serie intera è proprio questo: riuscirà mai a cambiare, Don Draper? L’ultimissima inquadratura del season finale ci suggerisce che probabilmente la risposta è un no. Ma staremo a vedere…

"Cosa essere questo?"
Tornando in campo musicale, un altro esempio di quanto bastino poche note per cambiare tutto ce l’ha dato l’episodio in cui Peggy (Elisabeth Moss) abbandona definitivamente la società e si appresta a prendere l’ascensore. È triste perché si lascia alle spalle un pezzo importante della sua vita. Poi partono le note di “You Really Got Me” dei Kinks e la sua espressione cambia improvvisamente, come se davanti a sé vedesse un futuro nuovo ed eccitante, indipendente e molto rock’n’roll.

Che dire poi dell’esaltante stagione vissuta da Roger Sterling (John Slattery)? Scatenato, dirompente, ironico ancor più che in passato, annoiato dalla sua vecchia vita e pronto a lasciarsi l’amarezza del passato alle spalle grazie a una passione tutta nuova: l’LSD. E così Mad Men per un episodio è diventato più visionario del solito, quasi un Twin Peaks Sixties. Una scena grandiosa, quella di Roger sotto LSD, che fa il paio con un momento onirico e thriller con protagonista un Don Draper in versione American Psycho ante litteram.

"Perché ce so' stata poco in 'sta stagione? Ero troppo impegnata a magnà!"
Un po’ sacrificato in questa stagione invece il personaggio di Betty, l’ex signora Draper ora (in)felicemente sposata con un altro uomo e alle prese con dei per lei inediti problemi di peso e di insicurezza fisica. Per la Grace Kelly dei nostri giorni un cambiamento di look radicale, quasi un I Used To Be Fat di Mtv al contrario, coinciso tra l’altro con la gravidanza dell’attrice January Jones.
Betty si è comunque ritagliata un episodio da protagonista ma per il resto, per quanto lo dica con un velo di tristezza, la sua assenza non si è fatta certo sentire più di tanto. Troppo dirompente la nuova Megan per far sentire la mancanza di qualcun altro.
Oltre al numero musicale di cui abbiamo parlato sopra, è stata lei il personaggio in più, la quinta marcia inserita nella Jaguar guidata questa stagione dal creatore Matthew Weiner e dal suo formidabile team di sceneggiatori.
La vitalità  di Megan, la sua gioventù, anche le sue idee a livello creativo, hanno in qualche modo provato a dare una scossa a quel gran musone di Don. Riuscendoci anche, sebbene solo in parte. Rappresentando il nuovo che avanza e che Don fa così tanto fatica ad accettare ma con lei al suo fianco sembra almeno sforzarsi di fare un tentativo.

Il nuovo è rappresentato anche dal novello creativo assunto da Peggy: si tratta di Michael Ginsberg (Ben Feldman), un personaggio di quelli che per ora rimangono tra le belle speranze non ancora pienamente espresse e che magari troveranno un maggiore spazio nella stagione finale.
Chi ha avuto un maggiore risalto, suo malgrado, è stato Lane Pryce (Jared Harris), l’economista, il Tremonti dello studio pubblicitario, protagonista della svolta più drammatica e traumatica dell’intera storia della serie.

Tra i personaggi femminili più spazio anche per la prosperosa rossa Joan (Christina Hendricks), ora nelle vesti di nuova socia della compagnia e pure di madre single. E ricordo che siamo sempre negli anni ’60 e non è che allora fosse una cosa così comune e socialmente accettata. Forse nemmeno oggi lo è ancora.

L’altro grande personaggio femminile venuto fuori sempre più in questa stagione è Sally Draper, la figlioletta di Don ormai diventata una piccola donna che sta cominciando ad accettare il divorzio dei genitori. A interpretarla troviamo una Kiernan Shipka giovanissima fenomena che se continua così si candida al titolo di prossima Kirsten Dunst, piccola star ai tempi di Intervista col vampiro e Jumanji poi maturata alla grande come vergine suicida, o di nuova Natalie Portman, bimba prodigio all’epoca di Leon e poi trasformatasi in un cigno (nero). Sperando invece che non faccia la fine tossica di Lindsay Lohan o di Macaulay Culkin o caschi nel dimenticatoio come Haley Joel Osment.
Haley Joel chiii?
Piccolo spazio curiosità: l’altro figlio di Don, Bobby, è stato interpretato nelle precedenti stagioni da Jared Gilmore, che adesso è diventato l’(insopportabile) Henry di Once Upon a Time. Fine piccolo spazio curiosità. L’ho detto che era piccolo.

"No, non la voglio conoscere tua mamma Lorelai. Quella non tace un secondo!"
E chiudiamo questa lunga quanto meritata disamina dell’universo Mad Men con il mio personaggio preferito, enorme Don Draper escluso: Pete Campbell (Vincent Kartheiser). Opportunista, insensibile, spesso bastardo in passato, nei nuovi episodi ha trovato una nuova e inedita dimensione umana, grazie all’amore. Per quanto si tratti di amore adultero, altrimenti non sarebbe il vero Pete Campbell. Molto bella e tragica la relazione con Alexis Bledel, figlia per amica di Una mamma per amica, qui nelle vesti di tentatrice e Mad Woman nel senso letterale del termine, visto il suo ricovero in manicomio. Le fanno pure l’elettroshock. Anche qui, la serie ci ricorda che siamo negli anni ’60 e queste cose allora le facevano. Che le facciano pure oggi?
Nemmeno un trattamento con elettroshock può farci comunque guarire da una passione folle. Quella per Mad Men. Già in passato serie fenomenale, adesso diventata una serie mastodontica.
E infine, tanto per chiudere con una citazione pubblicitaria di quelle che avrebbe potuto tirare fuori un Don Draper: che mondo sarebbe, senza Mad Men?
(voto alla stagione: 9,5/10)


giovedì 3 novembre 2011

O Florentina, di ogni disco ti vogliam regina


Florence + the Machine “Ceremonials”
Genere: pop Sacro
Provenienza: Londra, Inghilterra
Se ti piace ascolta anche: Bat for Lashes, Marina & the Diamonds, Zola Jesus, Lykke Li, Ellie Goulding, Oh Land

Toglietevi le scarpe. Perchè questo è un luogo sacro. Si celebra una cerimonia solenne.
Non importa se questa emozione durerà per tutta la vita o Only if for a night, l’importante è darsi una scossa. È difficile ballare con un diavolo sulla schiena, ma non è impossibile. Basta scrollarselo di dosso. Se le note poi sono quella della canzone più pop e difficile da scrollarsi dalle orecchie che la Fiorenza abbia mai fatto, niente è impossibile.


Quando arriva l’acqua non ci puoi far nulla. Vieni travolto completamente. Vieni battezzato. Prova a respirare, se ci riesci, ma è meglio se trattieni il fiato. Fino alla fine.


Never let me go. Never let me go. Non lasciarmi. E a te chi te lascia, Florence? Chittelascia?


Breaking Down ti fa a pezzi. Spietata come una pop song, incisiva come un inno, commovente con il suo incedere da pura emozione come una canzone sui titoli di cosa di un film. Un bel film, intendo, non il quasi omonimo Breaking Dawn (lo dico preventivamente, anche se deve ancora uscire).

E poi arrivano gli amanti, lover to lover, nel momento hippie dell’album, giusto per spezzare/spazzare via con una festa l’atmosfera epica e solenne.

Quando le luci vanno però a farsi fottere si grida “no light, no light!” spaventati. Brancoliamo nel buio in cerca di una rivelazione, di una risoluzione, di una rivoluzione, guidati dalla voce della Fiorenza e dalla sua manina che ci tiene stretti.

E ora tutti in cerchio. Tenete le mani di chi vi sta intorno. Il rituale di evocazione può avere inizio. Toglietevi quei sorrisini dalle facce, che qui si fa sul serio. Concentratevi e ripetete insieme a me:

Seven devils all around you
Seven devils in your house
See I was dead when I woke up this morning
I'll be dead before the day is done
Before the day is done

Fino a che non li vedrete comparire intorno a voi, non sette samurai ma sette diavoli. Florence non è una cantante. Florence è una strega. E noi siamo i suoi piccoli malefici complici.
Dopo aver portato tra noi i demoni, bisogna seguire le heartlines, le linee del cuore per celebrare il matrimonio tra il bene e il male, e poi ballare yeah yeah al ricevimento.

In quella che è una cerimonia che non si fa mancare davvero nulla, arrivano pure gli spectrum. Per vederli Florence ha solo una piccola richiesta: say my name.
Florence.
Say my name!
Florence.
As every color illuminates
we are shining
and we’ll never be afraid again
Say my name!
Florence.
As every color illuminates
we are shining
and we’ll never be afraid again


Li vedete anche voi, adesso?
E certo che li vedete, perché All this and Heaven too significa che siete arrivati in Paradiso. Pensavate di essere stati cattivi in vita? Pensavate sareste finiti all’Inferno insieme a Belzebù? Invece belze-buuh! sorpresa! Non siete nel noioso para-para-paradise dei Coldplay, ma vi trovate in Paradiso a gustarvi un soffice Kinder Paradiso insieme alla Florence.

Dite addio al vostro corpo, leave my body, leave your body. Your body, my body, everybody, move your body! Tempo di lasciarsi il mondo alle spalle. Non si tratta di un funerale, quindi non piangete. Quello che vi aspetta è qualcosa di oltre. Qualcosa di più grande. Un’avventura grandiosa. Siete pronti per l’ascesa?

Toglietevi le scarpe. Inchinatevi. Questo non è un disco. È la messa pagana cui volevo partecipare da tutta una vita. E queste non sono canzoni. Sono delle porco *** di preghiere.
(voto 9+/10)

lunedì 24 ottobre 2011

La malinconia di Kirsten Dunst e delle sue pere al vento

Melancholia
(Danimarca, Svezia, Francia, Germania 2011)
Regia: Lars Von Trier
Cast: Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Alexander Skarsgard, Stellan Skarsgard, John Hurt, Charlotte Rampling, Udo Kier, Brady Corbet, Cameron Spurr
Genere: fine del mondo
Se ti piace guarda anche: The Tree of Life, Donnie Darko, Festen, La malinconia di Haruhi Suzumiya

C’è una sottile linea (rossa) che congiunge The Tree of Life di Terrence Malick alla Melancholia di Lars Von Trier. Non che siano poi così simili, Melancholia è più dialogato, più narrativo, più fisico. Uno rappresenta la cosmogonia, l'altro la cosmoagonia. Insomma, per certi aspetti sono opposti, vedi anche la reazione all’ultimo Festival di Cannes dove uno ha vinto e l’altro è stato cacciato, ma in un certo qual modo è come se entrambi i registi avessero voluto dare la loro personale risposta alla bruttezza imperante della reality-tv, così come dei video caricati su YouTube in bassa qualità. Entrambi hanno fatto due film esteticamente estasianti, in cui comunque i contenuti sono ben presenti e dicono cose importanti sulla vita, sulla morte, sul mondo. Basta solo saperle vedere, le cose.



Che Kaiser Von Trier abbia voluto fare la sua opera più visivamente curata lo si capisce fin da una scena d’apertura di raggelante, splendida, pittorica bellezza, che in una manciata di minuti spazza via anni di cinema catastrofico di Roland Emmerich.
Il ralenty usato è uno dei pochi punti di contatto con il precedente Antichrist, film molto controverso che ha suscitato reazioni parecchio contrastanti (chi ha parlato di capolavoro, chi di schifezza, io per una volta sto nel mezzo e dico che è stato una delusione ma al suo interno aveva anche elementi interessanti). E anche questo film dividerà. Certo, il pubblico che andrà a vederlo aspettandosi un bel blockbusterone catastrofico rimarrà alquanto sconcertato, un po’ come chi andando a vedere The Tree of Life si immaginava un drammone strappalacrime con i superdivi Pitt & Penn, o chi da Somewhere di Sofia Coppola si attendeva una spassosa celebrazione della vita di una star hollywoodiana, o ancora chi ha fremuto in poltrona aspettando che in Drive di Refn a un certo punto il protagonista Ryan di O.C. (ah perché, non era Ryan di O.C.?) facesse due freni a mano insieme a Vin Diesel.
Al punto che negli Stati Uniti (e questa non è una notizia da me inventata, ma una cosa successa davvero) una certa Sarah Deming ha fatto causa alla distribuzione di Drive perché il trailer prometteva secondo lei una pellicola in stile Fast & Furious e invece il film era tutt’altra cosa.
Che la signora in questione sia per caso parente di un certo Vasco Rossi, l’uomo dalla denuncia facile?

Alla fine quindi è tutta una questione di aspettative. Io personalmente quando vengo colto di sorpresa da qualcosa che ribalta le mie aspettative il più delle volte sono contento. Se vado a un appuntamento al buio e mi si presenta davanti un uomo anziché una donna magari non è proprio la sorpresa più gradita del mondo, però  in genere mi piace essere sorpreso. E se poi l’uomo è Jared Leto, oh lo si fa andare bene lo stesso.
La gente (sì, sto facendo un discorso generalista, lo so che non è giusto ma tant’è: è il mondo a non essere giusto) invece vuole vedere proprio ciò che si aspetta. Sempre. Altrimenti chiede indietro il prezzo del biglietto. O un risarcimento, vedi signora di sopra.
E prevedo che un sacco di gente che andrà a vedere Melancholia chiederà indietro il prezzo del biglietto. E un sacco di risarcimenti. Però certo che per chiedere indietro i soldi di un film in cui Kirsten Dunst compare nuda bisogna avere un senso della bellezza alquanto ottenebrato, per non dire inesistente.
Ma la gente chiederà il risarcimento.
Perché la gente è noiosa.
La gente non sa vedere oltre la superficie delle cose.
La gente non la sa vedere, la bellezza.
E io sto generalizzando.
Proprio la stessa cosa che fa la gente.

Qualche anticipazione su quanto vi aspetta se avrete il coraggio e l’incoscienza di addentrarvi in questo ennesimo, spudorato, esagerato viaggio nel mondo della mente malata del genio Von Trier?
La pellicola è divisa in due parti, che potrebbero sembrare piuttosto sconnesse e disomogenee tra loro ma in realtà sono speculari e procedono sulla stessa traiettoria, come due pianeti che gravitano vicini, fino a che si scontrano. È inevitabile.



Nella prima, Kirsten Dunst e Alexander Skarsgard si sposano per tentare di guadagnarsi il titolo di coppia più bella del mondo e ci dispiace per gli altri, anche per Celentano e consorte. I due sono così belli, bianchi e biondi che insieme potrebbero realizzare il sogno di Lars Von Trier di dare vita alla razza perfetta.
Prima che mi arrivi una richiesta di rettifica, specifico: non intendo sostenere che Lars Von Trier sia un nazi. Anche perché tanto ci pensa già lui a definirsi tale.
“Capisco Von Trier, credo che abbia fatto delle cose sbagliate, come il non del tutto riuscito Antichrist, ma riesco a vederlo seduto nel suo bunker. Credo di capire l'uomo, non è quello che definirei un “bravo ragazzo”, ma credo di comprenderlo.”
Dopo questa dichiarazione verrò considerato “persona non grata” dal mondo dei blogger?

Nella prima parte, la storia è tutta dedicata alla festa post-nozze della coppia di superfighi, innamorati, innamoratissimi. Sembrerebbe. Lei pubblicitaria geniale e di successo, lui uomo più fortunato del mondo solo per averla sposata. La seconda parte è invece incentrata maggiormente sulla sorella della protagonista, ovvero Charlotte Gainsbourg, che si dimostra la donna più coraggiosa del mondo tornando a lavorare con l’Anticristo Lars dopo essere stata martoriata in Antichrist.
Ma tranquilli, perché Kirsten è presente pure in questo seconda orbita del film. Ed è fenomenale, tra l’altro, anche se forse la mia parola non è delle più obiettive. Kirsten Dunst è sempre stata una delle mie attrici culto fin dai tempi di Jumanji e Intervista col vampiro (dove era la vampira condannata a rimanere bambina per sempre), arrivando poi a dare il meglio di sé con Sofia Coppola nella rappresentazione della bellezza eterna ne Il giardino delle vergini suicide e con lo stravolgimento del cinema storico nel super fashion Marie Antoinette, fino ad arrivare alla parentesi “commerciale” ma pur sempre cinematograficamente ottima nei panni della rossa Mary-Jane in Spider-Man.

In Melancholia Kirsten interprete il suo ruolo più estenuante a livello fisico (ma rispetto ad altre donne vontriereriane le è ancora andata bene, vada a chiedere a Nicole Kidman, Bjork o alla collega di set Gainsbourg), con una performance quasi da cigno nero in cui la vediamo sprofondare progressivamente sempre di più negli inferi, della sua anima o di una forza superiore, questa è una domanda interessante. Il suo andamento è infatti lunatico, o meglio melancholico visto che più che dalla Luna o dal ciclo mestruale il suo umore dipende dal pianeta Melancholia. O forse è lei a controllare il comportamento dei pianeti, come nel geniale anime La malinconia di Haruhi Suzumiya? Di certo c’è che il premio di miglior attrice all’ultimo Cannes è stato davvero azzeccato, così come quelli a The Tree of Life di miglior film e a Refn per la miglior regia. Quest’anno mi sento totalmente in linea con le scelte di Robert De Niro e del resto della giuria del Festival. Devo cominciare a preoccuparmi? Il mondo sta davvero per giungere al termine?

Grandioso anche tutto il resto del cast, con Lars che si dimostra un fan di 24: ha chiamato il mitico Jack Bauer al secolo Kiefer Sutherland per un ruolo (finto) rassicurante e pure il giovane Brady Corbet, presente nella 5a stagione, mentre per quanto riguarda lo stile cinematografico rimane lontano dai ritmi adrenalinici e dagli split-screen della serie. Ma forse il buon (buon si fa per dire) Lars è anche un fan di True Blood, visto che ha chiamato il vampiro Eric al secolo Alexander Skarsgard (ho sentito le urla delle fan vampirelle fin da qui!), accompagnato da suo padre Stellan, già habituè del regista, visti i suoi precedenti ne Le onde del destino, Dancer in the Dark e Dogville; però il Lars, che le scontatezze proprio non le ama, non gli ha dato lo scontato ruolo di padre dello sposo, bensì quello del capo della sposa. Altrettanto bastarda si può considerare anche la scelta di due grandi attori come John Hurt e Charlotte Rampling nei panni dei genitori della sposa per poi metterli un po’ in disparte, quando invece i loro personaggi avrebbero potuto avere maggiore spazio. Ma il fascino del cinema di Von Trier sta proprio in questo: non ti dà ciò che ti aspetti, ti dà qualcos’altro.

Se dai film precedenti Lars Von Trier appariva nelle vesti di sadico misogino, con questo Melancholia emerge un’altra realtà: forse il vero Von Trier non va cercato nei personaggi maschili delle sue pellicole, ma in quelli femminili. Se qui il personaggio indubbiamente più vicino al regista è quello di Kirsten Dunst, pere al vento a parte, chissà che anche nei suoi precedenti la martorazione delle varie Emily Watson, Nicole Kidman e Bjork non fosse in realtà un’autopunizione. Chissà? Chissà? E forse non è nemmeno lui ad essere un nazi. È il mondo ad esserlo.



Melancholia è una visione folgorante, un film immenso quanto un pianeta che procede solenne la sua inarrestabile rotta insieme al prelude del Tristano e Isotta di Wagner che funge da leitmotiv musicale. Qualcuno (leggi molti) lo troveranno pretenzioso o noioso, a me invece ha tenuto incollato allo schermo dall’inizio alla fine. È infettivo, contagia come una malattia e non se ne va più dalla tua mente nemmeno nei giorni successivi alla visione. Più che un film sulla fine del mondo, un film sulla depressione. Che per Lars Von Trier, qui alle prese con il suo Donnie Darko personale o forse solo con la paranoia da calendario Maya, alla fine sono la stessa cosa.
La Terra è corrotta
non c’è alcun bisogno di affliggersi per lei
nessuno ne sentirà la mancanza.

(voto 10/10 e se non siete d’accordo vi spedisco in vacanza premio sul pianeta Melancholia in compagnia di Lars Von Trier)

mercoledì 2 marzo 2011

Minkia ke bimbi

Confessions
(Giappone 2010)
Titolo originale: Kokuhaku
Regia: Tetsuya Nakashima
Cast: Takako Matsu, Masaki Okada, Yoshino Kimura, Yukito Nishii, Kaoru Fujiwara, Ai Hashimoto
Tratto dal romanzo di: Kanae Minato
Genere: V per vendetta
Se ti piace guarda anche: Old Boy, Rashōmon, Lady Vendetta, Battle Royale

Trama semiseria
In una classe delle scuole medie, un’insegnante racconta un tragico fatto di cronaca che vede coinvolti in prima persona alcuni di loro. In Giappone però la legge non può punire i ragazzini di 13 anni, neppure se colpevoli di omicidio. In Italia qualcuno sa dirmi se funziona allo stesso modo o se ad essere impuniti sono solo i presidenti del Consiglio?

Recensione cannibale
Confessions è un film terribile. No, aspettate: non intendevo in quel senso. È un film terribile nel senso di profondamente sconvolgente e inquietante, per quanto non si tratti di un horror. Di fronte ci troviamo infatti una pellicola con dentro una cattiveria esagerata e davvero bastarda, in cui trovare figure positive o role models è un’impresa impossibile. Se avete trovato difficoltà ad enfatizzare con i personaggi di The Social Network, qua avrete quindi vita ancora più dura.
Confessions era il film giapponese candidato quest’anno all’Oscar di miglior film straniero: incluso nella rosa dei 9 papabili, non è però riuscito a entrare in cinquina. Vista l’inclusione di un altro film spietato come il greco Dogtooth (Kynodontas), a quei bonaccioni dell’Academy dev’essere sembrato troppo inserire due pellicole, anzi due “cose” così perfide ed estreme, quindi purtroppo il giapponese è rimasto fuori.

I primi 30 minuti di Confessions sono da antologia del Cinema. In una classe delle scuole medie, un’insegnante parla ai suoi alunni distratti, tutti troppo presi da telefonini, videogame, iPod e aggeggi elettronici vari, tutti presi a parlare e a ridere tra loro. Un branco di bimbiminkia giapponesi casinisti, per rendere l’idea. Un rumore di fondo costante in grado di scoraggiare anche il professore meglio disposto. La giovane insegnante comincia però a raccontar loro una storia molto particolare e inquietante che riguarda in prima persona sia lei che i suoi studenti. Poco a poco il casino di fondo si abbassa e l’attenzione cresce, con una serie di rivelazioni, di confessions, davvero sconvolgenti in un crescendo mostruoso di tensione costruito in una maniera favolosa.

30 minuti eccelsi, ma comunque anche il resto del film non è da meno e riesce a mantenere l’interesse in maniera efficace, moltiplicando nelle parti successive i punti di vista della stessa storia, a mezza strada tra Rashōmon di Akira Kurosawa e la serie tv Lost. E la storia che sta al centro di tutto è una vicenda forte e davvero dura di bambini nichilisti e malvagi (roba che Samara di The Ring al confronto è una Santa) molto lontani dal Giappone stilizzato di Pokemon e Holly & Benji, nonostante qualche momento di comicità manga ogni tanto affiori persino qui.
Visivamente è tra le cose più belle e potenti osservate negli ultimi tempi, per merito di un montaggio iper-veloce, l’uso di ralenty, inserti visionari e qualche momento splatter. Dei film precedenti del regista Testuya Nakashima avevo già visto il divertente ma sconclusionato Kamikaze Girls, un luna park per gli occhi non supportato da una trama troppo coinvolgente; questa volta alle prese con una sceneggiatura di alto livello posso dire che è sicuramente tra gli uomini di maggior talento al mondo con una macchina da presa in mano (mica come il neo premio Oscar Tom Hooper). In più la colonna sonora veleggia ispirata, ispiratissima tra musiche giapponesi e occidentali delle più varie con XX, Boris, “That’s the way (I like it)” e Johann Sebastian Bach, fino a raggiungere il vertice assoluto con “Last Flowers” dei Radiohead.

Se volete vedere un gioiellino orientale lontano anni luce dai prodotti in serie hollywoodiani, ma soprattutto se siete pronti per una storia davvero perfida questa è la mia confessione: Confessions (Kokuhaku) è uno dei film più bastardi che io abbia mai visto. E come resistere a un po’ di sana cattiveria del genere, soprattutto quando è girata così da Dio?
Anzi, vi dirò di più: avete presente Amore 14? 3MSC? Bene, questo non è il film anti-Moccia. Questo è il film ammazza-Moccia.
(voto 9)

Canzone cult: Radiohead “Last Flowers”
Scena cult: i primi 30 minuti, una vera lezione di Cinema

lunedì 17 gennaio 2011

Cigno nero - Black Swan: Two cign is megl che one

Cigno nero – Black Swan
(USA 2010)
Regia: Darren Aronofsky
Cast: Natalie Portman, Mila Kunis, Vincent Cassel, Barbara Hershey, Winona Ryder, Ksenia Solo, Christopher Gartin, Sebastian Stan, Janet Montgomery, Kristina Anapau, Benjamin Millepied, Mark Margolis
Genere: balletto horror
Se ti piace guarda anche: Mulholland Drive, The Wrestler, Eyes Wide Shut, π – Il teorema del delirio, Requiem for a Dream, The Fountain
Uscita italiana: 18 febbraio (secondo MYmovies), 11 marzo (secondo IMDb)

Trama semiseria
Nina è una ballerina classica il cui sogno più grande nella vita è diventare la protagonista de Il lago dei cigni, ma una misteriosa rivale si metterà in mezzo ai suoi sogni di gloria. Vi siete già addormentati? Pensate che non possa minimamente interessarvi una pellicola sul balletto? Nonostante io sia di Casale Monferrato come Roberto Bolle, di danza non me n’è mai fregato una cippa, eppure questo è il film più sconvolgente che mi sia mai capitato di vedere. Appena annunciato il mio film re del 2010, ecco allora che già si presenta un titolo totalmente differente come primo autorevole candidato per il 2011.


Recensione cannibale
Black Swan è un film di una carica drammatica, emotiva, sessuale, horror unica. In tutta la storia del Cinema non ho mai visto una pellicola con una pari intensità per la sua intera durata. È un’esperienza viva, che coinvolge e sconvolge fisicamente lo spettatore (o almeno l’ha fatto con me), con una travolgente forza senza pari. Davvero senza pari. Esagero? Può darsi.
La storia come anticipato potrebbe apparentemente far storcere il naso a qualcuno, visto che parla della preparazione di una rappresentazione teatrale de Il lago dei cigni nel più prestigioso teatro di New York City, niente di più, niente di meno. Si può fare un film interessante su un tema del genere? Cazzo, se si può. Protagonista è Nina (Natalie Portman), una ballerina la cui unica passione nella vita sembra essere la danza e ottenere l’agognata parte principale nella prestigiosa opera, ma l’ostacolo principale sarà per lei riuscire a interpretare non solo il cigno bianco, ruolo per cui è assolutamente adatta, ma anche il cigno nero, una parte che richiede di essere sciolti, sensuali e soprattutto lasciarsi andare.
Ecco, lasciarsi andare, lose yourself è la frase chiave per entrare dentro il film. Bisogna lasciarsi rapire dai movimenti vorticosi della regia maestosa di Darren Aronofsky, dalla sua macchina da presa che segue costantemente Natalie Portman, un po’ come faceva con il meno leggiadro Mickey Rourke The Ram in The Wrestler, mentre nelle scene in metropolitana il regista richiama invece il suo film d’esordio, il pazzesco Π – Il teorema del delirio. Ma quella pellicola, per me una delle opere visivamente più interessanti e importanti degli anni Novanta, così come un The Fountain troppo metafisico e ai limiti dell’umana comprensibilità, avevano un tocco diverso. Black Swan è invece molto più fisico, viscerale, ti entra dentro. Come e più di esperienze già parecchio tattili come le altre pellicole del regista The Wrestler e Requiem for a Dream.
Inoltre Black Swan non solo è teso come un thriller o come una corda di violino, ma presenta anche le scene horror più agghiaccianti degli ultimi anni. In più momenti ho avuto paura, come se il mostro che divora dal di dentro Nina/Natalie Portman stesse per sbranare anche me.

Capitolo Natalie Portman, fresca vincitrice di Golden Globe come miglior attrice drammatica per questo film. Vogliamo parlarne? Pensavo che non solo lei, ma nessun attore/attrice del mondo potesse realizzare un’interpretazione più varia e sorprendente della sua sfuggente Alice di Closer. E invece lei stessa è riuscita a superarsi, andando a toccare in Black Swan tutte le corde dello spettro emotivo umano. La sua Nina è una ragazza tanto impeccabile nella danza quanto rigida, anzi frigida come viene definita, nella sfera privata. La sfida per lei sarà quindi lasciarsi andare alla vita, al piacere, al sesso, persino alle droghe. In questo la sceneggiatura le dà ampio spazio con un notevole momento di autoerotismo, con la danza chemical brothers in disco e con la scena lesbo featuring Mila Kunis più incredibile di tutti i tempi (altroché Cruel Intentions). Il lasciarsi andare farà però crollare anche tutte le sue certezze e la farà sprofondare in un vortice di follia, visioni e specchi che riflettono qualcosa di diverso dalla sua immagine. “I gufi non sono quello che sembra,” si diceva in Twin Peaks. In Black Swan nemmeno la tua immagine allo specchio lo è.

Mila Kunis è la perfetta antagonista: uno spirito libero che si lascia andare alla fantasia e ha una irresistibile carica sessuale, in grado di attirare come una calamita persino Nina la frigidina. Quella rompicoglioni di madre che si ritrova la protagonista è invece una straordinaria Barbara Hershey, mentre Winona Ryder ha ruolo piccolo eppure centrale: è il fantasma di una diva, il canto del cigno che non è più né bianco né nero ma è semplicemente tramontato, è l’ombra del ricordo e della vecchiaia che incombono su tutti noi. E in mezzo a un cast femminile di quelli mai tanto impressionanti, emerge anche un Vincent Cassel cattivo e ispirato.

Da sottolineare la magnifica colonna sonora di Clint Mansell, collaboratore abituale di Aronofsky per un sodalizio pari a quello David Lynch-Angelo Badalamenti, con il tema ricorrente che è ovviamente il motivo del lago dei cigni di Čajkovskij risuonato però pure sotto forma di suoneria del cellulare e di carillon. Una musica che mi ha fatto affiorare antichi ricordi, visto che anche mia mamma una volta aveva un carillon pressoché identico. Mi ha sempre affascinato e inquietato parecchio, proprio lo stesso effetto riaffiorato con questo film.

Black Swan è una pellicola incentrata profondamente sul doppio, sul bene e sul male che sono presenti in ognuno di noi e tratta la tematica della ricerca della perfezione in maniera… perfetta, non c’è altra parola che possa descrivere meglio questo (capo)lavoro. Darren Aronofsky orchestra il balletto della sua vita (ma speriamo non sia il suo canto del cigno), volteggia con la videocamera come Christopher Nolan, rimane concreto quanto David Fincher, ha un’agghiacciante occhio visionario alla David Lynch, è accurato e attento al dettaglio, ricordando in questo Stanley Kubrick. Eppure ha uno stile unico e personale e in più l’arma di una fisicità e intensità qui superiore agli illustri nomi citati. Dopo questo grand ballet, a Hollywood Aronofsky può ormai guardare tutti dall’alto in basso e gettarsi in pace nel vuoto. Come il suo cigno bianco.
(voto 10)

Scene cult: l’incontro-scontro lesbo Natalie Portman/Mila Kunis, le scene con gli specchi, la “metamorfosi” di Nina


E come dice Jim Carrey nella sua spassosa parodia del film realizzata per il Saturday Night Live:
Once you go Black Swan, you never come back… Swan

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