Sceneggiatura: Kristin Gore, Matthew Silverstein, Dave Jeser
Tratto dal romanzo: Sammy's Hill di Kristin Gore
Cast: Jessica Biel, Jake Gyllenhaal, Catherine Keener, James Marsden, Tracy Morgan, Kurt Fuller, Malinda Williams, Jenny Gulley, Beverly D'Angelo, Bill Hader, Kirstie Alley, David Ramsey, Olivia Crocicchia
Genere: grottesco
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Mi sbagliavo, su Accidental Love. Mi sbagliavo profondamente. Pensavo fosse il solito cinepanettone romcom all'americana, storie corali con sprecatissimi cast all star di quelle che vanno negli ultimi anni, non si sa bene il perché. E invece no. Accidental Love è qualcosa di differente. Sì, è una commedia romantica e sì offre un tipo di comicità, se comicità si può definire, da fare un'enorme invidia a qualunque cinepanettone nazionale o internazionale mai prodotto. Sì, ha pure un cast all star o quasi che comprende i divi Jessica Biel e Jake Gyllenhaal, più gente quasi famosa come James Marsden, Catherine Keener e i comici Tracy Morgan e Bill Hader, o gente una volta famosa come Kirstie Alley.
Solo che questa non è una vicenda corale come l'orrido posterone della pellicola lascerebbe immaginare, visto che è tutta quanta incentrata sul personaggio di Jessica Biel. Una pessima Jessica Biel. Una Jessica Biel da far rimpiangere i tempi di Settimo cielo, per intenderci. Quindi mi sbagliavo. Accidental Love non è un nuovo cinepanettone all'americana. È ancora peggio.
Cast: Mark Ruffalo, Keira Knightley, Adam Levine, Hailee Steinfeld, Catherine Keener, CeeLo Green, Mos Def, James Corden, Aya Cash
Genere: musicale
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Can a song save your life? Può una canzone salvarti la vita?
Dipende dalla canzone. Se è “E chi se ne frega”, la rilettura italiana di “Nothing Else Matters” compiuta da Marco Masini, più che salvartela, ti convince a farla finire.
"Che cacchio hai da ridere?"
"Non lo so, ma di sicuro non è per una battuta letta su Pensieri Cannibali."
Non dico altro
(USA 2013)
Titolo originale: Enough Said
Regia: Nicole Holofcener
Sceneggiatura: Nicole Holofcener
Cast: Julia Louis-Dreyfus, James Gandolfini, Toni Collette, Catherine Keener, Tracey Fairaway, Eve Hewson, Tavi Gevinson, Ben Falcone, Michaela Watkins, Amy Landecker, Anjelah Johnson-Reyes, Rob Mayes
Genere: indie comedy
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Deliziosa indie comedy romantica su un uomo e una donna divorziati che si conoscono a una festa e si piacciono. Più o meno, si piacciono. All’inizio non molto, anche perché lui non è un fuscello e lei è più quella che ti fa dire "Mah, è simpatica!" piuttosto che "Wow!", ma poi cominciano a frequentarsi.
Ottimi i dialoghi e splendida l’intesa tra i due protagonisti, una spettacolare Julia-Louis Dreyfus, la protagonista della spassosa serie Veep, e un gigionissimo James Gandolfini, l’ex Tony Soprano qui a una delle sue ultime interpretrazioni. In più ci sono un paio di comprimarie d’eccezione, Catherine Keener e Toni Collette per una volta non nella parte della matta bensì della psicologa, e un paio di giovani fanciulle da tenere d’occhio, la figlia di Bono Vox, Eve Hewson, già vista in This Must Be the Place, e la bionda Tavi Gevinson, che sembra la sorellina minore di Michelle Williams ed è troooppo adorabile.
Si ride, si riflette un pochino, e poi si ride ancora. Insomma, date un’occhiata a questo film. Non dico altro.
(voto 7/10)
Ah, no. Aggiungo giusto una cosa, per chi ha già visto il film.
ATTENZIONE SPOILER
La cosa migliore della pellicola, oltre alle virtù sopra enunciate, è la sua morale. O meglio, la sua anti-morale.
Nel 90% delle commediole americane tradizionali, il messaggio che viene dato è che, per trovare la felicità, una persona deve cambiare ciò che è. Prendiamo I sogni segreti di Walter Mitty, il più evidente simbolo odierno dell’American comedy moralista classica. Se vuole smetterla di essere uno sfigato e realizzarsi, il protagonista deve rinunciare alla sua vita, a quello che è, per andare sull’Himalaya o a nuotare con dei simpatici squaletti.
Ma vaffanculo, Ben Stiller! Vacci te a rischiare la vita in un modo tanto stupido, che l’unica cosa che trovi è la morte, non certo la felicità!
In questo film invece i protagonisti continuano a ripetere sempre gli stessi errori. Sono dei divorziati che dai loro precedenti matrimoni falliti non hanno imparato un granché. La pellicola ci dice però che va bene così. James Gandolfini non deve cambiare. Non deve dimagrire. Non deve cominciare a usare i comodini. Non deve smettere di essere un orso. Lui può trovare la felicità anche così. Senza nemmeno dover andare sull'Himalaya.
Cast: Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Clifton Collins Jr., Mark Pellegrino, Bob Balaban, Chris Cooper, Bruce Greenwood
Genere: freddo
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A caldo, la morte di Philip Seymour Hoffman mi ha lasciato davvero di merda.
A freddo, posso dire che continua a essere una merda, ma sto cominciando ad accettare la cosa, con calma.
In questi giorni di lutto e sconforto, ho recuperato finalmente un film fondamentale nella carriera dell’attore americano, Truman Capote – A sangue freddo, “soltanto” la pellicola che gli ha fatto vincere l’Oscar.
Perché non l’avevo ancora visto?
Il solito insieme di coincidenze sfortunate. Magari ti scarichi una versione che non si vede benissimo e allora rinunci in favore di qualche altra visione. Lo riscarichi, dici: “Domani lo vedo” e poi il giorno seguente dici lo stesso e poi passano gli anni e ogni estate, quando hai tempo per i recuperi, ti riprometti di andarlo a ripescare, solo che è un film troppo poco estivo, ma davvero troppo poco, e allora niente. C’è voluta allora una ancor più sfortunata occasione come la morte dell’attore perché finalmente mi decidessi a vederlo.
Ho fatto bene?
Sì, perché la prova interpretativa di Philip Seymour Hoffman nei panni del giornalista e scrittore Truman Capote è superlativa e la storia parecchio avvincente. Da un punto di vista cinematografico invece non è che mi stessi perdendo una pietra miliare, visto che la regia di Bennett Miller, che poi avrebbe diretto pure un altro film che poco mi ha impressionato come L’arte di vincere – Moneyball, è parecchio piatta e anonima. Presente quelle regie invisibili tipo Muccino quando è andato negli USA?
Ecco, quel genere di anonimo. Ed è un vero peccato perché una simile meravigliosa performance recitativa di P.S. Hoffman avrebbe meritato ben altra compagnia. Il film è freddo, glaciale, in questo è anche fedele al personaggio che ritrae, solo che gli manca quel “di più”, in grado di farlo passare da una visione interessante a una realmente memorabile. Gli manca il cambio di passo, la svolta registica, il momento di elevazione a grande opera cinematografica. Gli manca poi pure l’originalità che ha invece contraddistinto il rivoluzionario lavoro di Truman Capote.
"Questo capitolo devo proprio riscriverlo! Sembra scritto da Cannibal Kid..."
Correva l’anno 1959 quando una famiglia come tante di un paesino sperduto nel Kansak veniva uccisa in circostanze brutali e misteriose. Un caso di cronaca sorprendente e clamoroso in un posto dimenticato da Dio così come fino ad allora anche dal crimine. Un caso in grado di scatenare la curiosità non solo degli Studio Aperto, Salvo Sottile o Roberta Bruzzone dell’epoca, ma anche di uno dei più celebri giornalisti e scrittori di quel periodo, Truman Capote. Il suo scopo era quello di scrivere un articolo di approfondimento, più che sull’omicidio in sé, su come la comunità locale avesse vissuto quel traumatico evento. Un articolo poi tramutatosi in un libro vero e proprio, un mix mai tentato prima tra stile romanzesco da fiction e cronaca vera. Da qui sarebbe nato A sangue freddo, una pubblicazione svolta sia per la narrativa che per il giornalismo successivi. In un’epoca di grandi cambiamenti sociali, culturali e politici, anche Truman Capote nei primi Anni Sessanta faceva la sua parte rivoluzionando la scrittura moderna. Su questo aspetto la pellicola non si sofferma più di tanto, così come a livello stilistico e formale risulta ben lontano dall’essere un prodotto rivoluzionario, o anche solo vagamente originale.
"Mi fugo una siga. Tanto sarà mica questa ad ammazzarmi..."
Va riconosciuto al film di Miller di non scadere nel solito thrillerino, come la trama poteva suggerire. Truman Capote – A sangue freddo ci racconta non tanto di un omicidio, quanto della genesi di un’opera fondamentale per come la cronaca viene trattata oggi. Ciò che non riesce a fare è scavare davvero all’interno della personalità dei suoi personaggi, i criminali della storia così come anche gli altri, che rimangono giusto un contorno. La forza della pellicola, tra una regia pallida e una vicenda intrigante ma che non riesce a decollare del tutto, è allora il protagonista. Lui e solo lui. Philip Seymour Hoffman fa vivere Truman Capote su grande schermo in maniera pazzesca. Si annulla del tutto dietro al personaggio, al punto che fin da subito mi sono lasciato alle spalle la tristezza per la notizia della sua morte e nel film non ho visto Philip Seymour Hoffman. Nel film ho visto Truman Capote. Questo è ciò che un grande attore deve fare. Questo è ciò che Philip Seymour Hoffman sapeva fare. Questo è ciò che ce lo fa rimpiangere adesso e credo ancora per molto tempo.
(voto 6,5/10)
Per ricordare il grande attore scomparso, io e il solito gruppetto di blogger abbiamo pensato di dedicare questa giornata ai suoi film e alle sue interpretazioni. Questi sono gli altri contributi che potete trovare in questo triste ma (spero) bello Philip Seymour Hoffman Day.
Tratto dal libro: Il dovere di un capitano di Richard Phillips e Stephan Tatty
Cast: Tom Hanks, Catherine Keener, Barkhad Abdi, Barkhad Abdirahman, Faysal Ahmed, Mahat M. Ali, Chris Mulkey, David Warshofsky, Michael Chernus, Corey Johnson, Max Martini
Genere: piratato
Se ti piace: fatti curare
Okay, il post avrebbe dovuto chiamarsi Capitan Findus ma, visto che l’idea è stata già usata in rete praticamente ovunque e da chiunque più volte e anche da me nei post dedicati a Golden Globe e Oscar, ci ho rinunciato e quindi in questo post dedicato al film Captain Phillips – Attacco in mare aperto eviterò di menzionare il Capitan Findus o il Capitan Schettino o “O Capitano mio capitano”, così come non posterò nemmeno La canzone del capitano di Dj Francesco Fuckinetti. Grazie a Dio.
Cercherò allora di fare un post su Captain Phillips evitando tutti gli stereotipi sui capitani.
FINE DEL POST
Okay, gente, se non posso utilizzare alcun stereotipo sui capitani, non ho più idee.
Ah sì, una ce l’ho: scrivere una bella invettiva contro Tom Hanks.
Io non ci posso fare mica niente. I film con Tom Hanks il più delle volte mi fanno cagare. Quando poi il Fabio Fazio di Hollywood, l’attore più buonista tra i buonisti si mette pure a fare il regista slash sceneggiatore, com’è stato il caso di L’amore all’improvviso – Larry Crowne, i risultati disastrosi sono ancora di più assicurati. Ma anche se è solo attore, naturalmente onnipresente protagonista assoluto come in questo caso, basta e avanza.
Qualcuno potrà dire che mi sono imbarcato prevenuto sulla nave di questo Capitan – Non dire Findus! Non dire Findus! Non dire Findus! – Capitan Find… d’oh! Volevo dire Capitan Phillips. Quel qualcuno ha ragione in pieno. Io parto sempre prevenuto, e con tanto di salvagente già addosso, nei confronti di una barca pellicola guidata da Tom Hanks. Però ad esempio di recente ho trovato pessimo anche il film sull'omicidio di JFK Parkland e ho scoperto che è una pellicola in cui Tom Hanks figura come produttore solo leggendo i titoli di coda. Ma mi aveva già fatto pena prima di scoprirlo. Quindi non c’è niente da fare: ciò che ha a che fare con Hanks a me fa schifo, che io sappia di un suo coinvolgimento prima o meno.
Se poi parto pure con i pregiudizi, com’è questo il caso, il rischio di un naufragio è altissimo. Sarà davvero andata così male?
Risposta breve: sì.
Risposta lunga: sì e ancora peggio di quanto mi aspettassi.
"Vieni fuori, Hanks. La devi pagare cara per tutti i film buonisti che hai fatto!"
Un conto è girare in finto stile documentaristico, un conto è girare proprio di merda. Il sopravvalutato regista Paul Greengrass qui adotta uno stile molto fisico. Troppo? Certe scene sono girate in maniera molto mossa, concitata, volutamente quasi amatoriale, come se fossero girate da me. E io con una macchina da presa in mano sono un incapace totale. Faccio il “critico” cinematografico (ma dove?) perché sono un regista fallito, lo ammetto. Quando paragono Paul Greengrass a me stesso regista quindi non gli faccio certo un complimento, anche perché non basta muovere un po' la macchina da presa per creare una pellicola tesa e avvincente.
La vicenda qui narrata, tratta da una storia realmente accaduta raccontata in un libro scritto dallo stesso vero Captain Phillips, trasuda poi di americanismo sfegatato a ogni scena. Roba del tipo: i bianchi buoni vengono attaccati dai cattivoni pirati neri che d’altra parte in Africa non hanno alternative a quella di delinquere. Ah, se solo vivessero in America, patria della Libertà! Venite, venite pure da noi che vi beccate 33 anni di galera!
Io naturalmente ho fatto il tifo tutto il tempo per i pirati, anche perché Tom Hanks qui ci regala uno dei personaggi meno simpatici nella storia del Cinema e dell’Umanità in generale. Il motivo di maggiore interesse della pellicola, per quanto mi riguarda, è allora stato vedere se i pirati somali sarebbero riusciti a far fuori Tom Hanks e, se sì, in quale atroce modo. Gli attori che li interpretano sono inoltre la cosa migliore nonché l’unica da salvare della banale e malamente scritta pellicola, soprattutto l'ottimo (ma l'Oscar è tutto di Jared Leto) Barkhad Abdi. Per il resto, ho trovato la visione insostenibile. Per il suo ipocrita buonismo ("Siete cattivi, ma non è nemmeno colpa vostra") dietro cui si cela la voglia di ribadire il ben poco velato messaggio propagandistico del film: la superiorità del Grande Popolo degli Stati Uniti d'America su tutti gli altri. E ho trovato insostenibile la visione anche per la sua noia intrinseca.
"Azz, che brutta situazione! In questo momento avrei proprio bisogno
di un paio di marò italiani armati..."
Provate a immaginare qualcosa di noioso. Una sala d’attesa può andare?
Ecco, ora provate a immaginare qualcosa di noioso e di spiacevole. Una sala d’attesa del dentista può andar bene?
Ora provate a immaginare qualcosa di noioso e di molto, molto spiacevole. Una sala d’attesa dal dentista con un disco di Laura Pausini in filodiffusione a tutto volume rende abbastanza l’idea?
Bene, cioè male, perché la visione di Captain Phillips è un’esperienza ancora più noiosa e ancora più spiacevole. È un peccato che abbia visto questo film, quindi. Ed è ancora più un peccato che l’abbia visto solo a 2014 inoltrato, quando ormai avevo già postato i miei peggio film del 2013. Altrimenti il premio Valium se lo sarebbe assicurato di diritto, non ci sono Misérables che tengano. E forse si sarebbe beccato pure qualche altro bel premiuzzo.
Una vera sfortuna. Ma c’è qualcuno che è stato più sfigato di me: il capitano Phillips.
La prima sfiga è quella di trovarsi un cognome del genere. Non tanto per il cognome in sé. È un cognome rispettabile, oltre che una marca di elettrodomestici rispettabile.
Ah no, quella è la Philips con una l sola.
È un cognome di merda quando decidi di diventare un capitano di nave e tutti ti sfottono chiamandoti Capitan Findus. Cosa che però io ho promesso di non fare assolutamente, non in questo post, almeno...
Ok, non lo farò a partire da ora.
La sfiga numero 1 del Captain Phillips è il suo cognome. La sfiga numero 2 è che è stato sequestrato da dei pirati e ne ha subite di tutti i tipi, come si può vedere (anche se io vi consiglio di non farlo) nel film che racconta della sua sventurata vicenda.
La sfiga numero 3, la più grande, è però che per interpretare la sua parte nella pellicola non hanno preso un attore fenomenale, come poteva ad esempio essere un Michael Fassbender o il camaleontico Christian Bale. E non hanno nemmeno preso l’attore figaccione di turno, come poteva essere un Chris o Liam Hemsworth oppure un James Franco o un Ryan Gosling. Anche perché non è che questi attori assomiglino molto al vero Richard Phillips, che è questo qui in mezzo…
Per interpretarlo non hanno ingaggiato nemmeno il regista Paul Greengrass, che sembra il suo fratello grasso, ma l’attore più sopravvalutato e odioso nella storia di Hollywood: Tom Hanks.
Non fosse che per tutta la durata del film ho fatto il tifo per la sua uccisione brutale, mi farebbe quasi pena. Povero Capitan Findu… volevo dire povero Capitano Phillips: capitano davvero tutte a lui.
Cast: Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Christopher Walken, Mark Ivanir, Imogen Poots, Liraz Charhi, Wallace Shawn, Nina Lee
Genere: classico
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Qual è la differenza tra una rock band e un quartetto d’archi?
La rock band brinda alla figa. Il quartetto d’archi brinda alla Fugue, intesa come fuga musicale (vi rimando a Wikipedia perché non sarei in grado di spiegare cos’è con parole mie), e intesa come nome del gruppo messo insieme dai protagonisti.
"Viva la fugue!"
Questo per darvi subito l’idea della pellicola che vi troverete davanti, se mai vi avventurerete in una visione simile. Capite bene che si tratta di un film dai toni assai differenti da un Almost Famous, tanto per citare un altro film a tema musicale.
Se siete patiti di musica classica, comunque, questo film vi farà venire. È come 8 Mile, con la classica al posto del rap. La colonna sonora comprende interpretazioni di brani di Beethoven, Haydn, Bach, Strauss, più pezzi originali creati dal grande Angelo Badalamenti, che qui dimentica le atmosfere inquiete di Twin Peaks e dei lavori fatti per il suo compare preferito David Lynch e si concentra pure lui in una serie di composizioni molto… classiche, indovinato!
In più, tutti i personaggi parlano di musica classica, suonano in teatro, in studio, oppure si esercitano, o insegnano. Insegnano cosa? Matematica? Letteratura? Educazione fisica?
Ma va. Insegnano musica classica, ovviamente.
Gente che suona
Philip Seymour Hoffman, che qui interpreta la parte del secondo violinista della band, ascolta musica classica persino facendo jogging. Io per andare a correre ascolto invece soprattutto roba dubstep o hip-hop o pop-rock o comunque dotata di un certo ritmo (ma non con bpm troppo elevati, devo mica fare i 100 metri piani).
Ecco qui, giusto per spezzare l’andatura classica del post, la playlist dei pezzi che mi caricano di più per correre al momento, ascoltabile con Spotify. E se non avete Spotify siete più superati di P.S. Hoffman e dei suoi amichetti del quartetto d’archi.
Nonostante Una fragile armonia sia l’apoteosi della celebrazione della musica classica, il film riesce ad appassionare e coinvolgere anche i meno patiti del genere. Oddio, se proprio odiate la classica con tutti voi stessi, preferirete una mazzata sulle palle piuttosto che immergervi in tale visione, ma se il genere non vi fa del tutto schifo, qui vi ritroverete di fronte a un film con un’atmosfera molto classica, girato anch’esso in maniera classica, leggermente da indie movie radical-chic Sundance classic syle ma non troppo, e interpretato alla grande. In modo sì un po' classico, ma comunque alla grande. I 4 protagonisti membri del quartetto fanno a gara a chi è più bravo. Sia a livello musicale, e qui vince il meno conosciuto del lotto, l’attore ucraino Mark Ivanir, sia a livello recitativo, e qui invece ad avere la meglio è il solito enorme Philip Seymour Hoffman. Bravi pure Christopher Walken e Catherine Keener, mentre la rivelazione è Imogen Poots, giovane bionda già avvistata ne I segreti della mente – Chatroom e Fright Night – Il vampiro della porta accanto, qui in grado di tenere testa alla grande a un cast di simile livello e pronta quindi a stupirci ancora, in futuro.
Segnatevi il suo nome. Lo ripeto a scanso di equivoci: Imogen Poots, non Imogen Boobs.
Una gnocca che suona
Oltre a beccarvi un cast in formissima, se non siete patiti di classica perché mai dovreste guardarvi un film come questo?
Perché, insieme alla parte più strettamente musicale, Una fragile armonia ci fa anche entrare dentro la vita dei membri del quartetto d’archi, ci fa sentire tutte le tensioni che si sono accumulate tra loro in 25 anni di collaborazione e che esplodono quando il più vecchio, Christopher Walken, annuncia l’imminente ritiro per via del Parkinson.
Musica classica, Parkinson…
E che due maroni! Mi rendo conto che non possano essere gli argomenti più appealing per la visione di un film. Superato lo scoglio del primo movimento, Una fragile armonia si rivela però a sorpresa una sinfonia potente, che fluisce alla grande e con tutti gli strumenti che si incastrano alla perfezione: musica, malattia, ma anche amori e passioni che trascinano fino alla fine, magari non come un’opera di Beethoven, ma sicuramente più di una composizione di quel bidone musicale che risponde al nome di Giovanni Allevi.
Ancora gente che suona
Non sarà la pellicola più divertente e d’intrattenimento dell’anno, eppure Una fragile armonia merita un ascolto, pardon una visione. Anche perché, come spiega in una splendida scena del film Christopher Walken ai suoi studenti di musica, parlando di un suo collega:
Casals metteva in rilievo le cose buone, quelle che gli erano piaciute. Era incoraggiante. E il resto, lasciatelo agli imbecilli o, come si dice in spagnolo, chi giudica contando gli errori.
È quello che si cerca di fare anche qui, a Pensieri Cannibali, almeno nei giorni positivi. A parte le volte in cui ci si diverte a demolire del tutto qualche sciagurato film, come ad esempio World War Z, si cerca sempre di trovare del buono anche in pellicole che non sono dei capolavori. E Una fragile armonia non è un capolavoro, ma è un film tutt’altro che fragile e che al suo interno ha delle cose buone. Parecchio classiche, però buone.
Cast: Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Samantha Morton, Tom Noonan, Michelle Williams, Hope Davis, Jennifer Jason Leigh, Sadie Goldstein, Emily Watson, Daniel London
Genere: labirinto mentale
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La mente di John Malkovich di Essere John Malkovich, gli innamorati di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, i gemelli di Adaptation. Alla fine tutto riconduce a una e una sola persona: Charlie Kaufman, l’autore delle sceneggiature delle pellicole con la regia griffata Michel Gondry (Eternal Sunshine) e Spike Jonze (le altre due).
Adesso Kaufman esordisce dietro la macchina da presa. Adesso si fa per dire visto che il film è del 2008, ma non facciamoci troppi problemi a livello cronologico, considerando come il protagonista di Synecdoche, New York certo non se ne faccia.
Il protagonista del film è Caden Cotard, un autore teatrale.
Il protagonista del film è un immenso Philip Seymour Hoffman, l’attore che lo interpreta.
Il protagonista del film è Tom Noonan, l’alter ego di Caden Cotard/Philip Seymour Hoffman.
Il protagonista del film è Charlie Kaufman. Perché alla fine è questo che fa Kaufman, così come tutti gli autori egocentrici: parla sempre e solo di se stesso, delle sue ossessioni, del suo mondo. Come Woody Allen. Come Federico Fellini. Come Quentin Tarantino.
In tal senso, Synecdoche è l’apoteosi della sua visione del mondo e, contrariamente a quanto dice il titolo ingannevole, in realtà non è ambientato a New York, bensì all’interno della mente di Kaufman.
La pellicola parte con un tono piuttosto realistico, almeno per i suoi standard e almeno per quello che può valere la parola “realistico” nel cinema di Kaufman, con scene di vita quotidiana del protagonista insieme alla moglie Catherine Keener e alla figlia. Tutto tranqui, tutto rego, fino a che un banale incidente di vita quotidiana porta Kaufman/Seymour Hoffman all’ospedale. Qui comincia un viaggio attraverso vari medici che lo spediscono da un’altra parte, verso un’altra diagnosi, verso un’altra cura, come nel terzo episodio del Caro diario di Nanni Moretti.
La malattia del Kaufman/Seymour Hoffman è però più complessa di quanto la medicina possa spiegare in maniera razionale. La sua malattia è il genio. Philip Seymour Hoffman cioè il protagonista cioè Charlie Kaufman ottiene un cospicuo premio in denaro proprio per il suo genio e decide di spenderlo realizzando un’opera teatrale. Perché se la medicina non può, forse l’arte è in grado di spiegare la sua condizione mentale.
E qual è, questa condizione?
Charlie, cioè Philip, cioè il protagonista, cioè qualcuno dei suoi numerosi alter-ego, vive in una dimensione temporale tutta particolare, tutta sua, tutta kaufmaniananananannananannana, scusate si è incantato il disco e ne è uscito fuori un ritornello pop, na nanna nananà, na nanna nananà, Charlie Kaufman song, na nanna nananà, na nanna nananà, Charlie Kaufman, cecereccece cecereccece cè, Gusttavo Kaufman.
Synecdoche non è un film. Non è solo un film. Non è tanto un film. È un viaggio nella mente. Dentro la mente. È ciò che sarebbe dovuta essere la serie Awake, ad esempio, invece di trasformarsi nel solito ennesimo telefilm crime. È Inception senza gli effetti speciali e il tocco visivamente grandioso di Christopher Nolan.
Se proprio vogliamo trovare un limite alla pellicola è che, a un livello cinematografico e di immaginario visivo, Charlie Kaufman esordiente totale dietro la macchina da presa è bravo ma ha ancora ampi margini di miglioramento prima di passare al livello di un Nolan o dei suoi amichetti Jonze e Gondry, che negli anni passati hanno avuto il compito di trasformare in immagini le sue parole, confuse e geniali.
Se come regista Charlie Kaufman per ora è “solo” promettente, come sceneggiatore è un mostro, capace di mettere in scena tutto se stesso e pure il dramma che è la vita di ognuno. Perché nessuna persona al mondo è una comparsa. Tutti sono protagonisti.
Una Michelle Williams straordinariamente brava, persino per i suoi livelli solitamente straordinari.
Una come al solito pure lei grande Samantha Morton che, per una di quelle trovate genialate kaufmanianate, vive dentro una casa incendiata.
Una Catherine Keener artista celebrata dai circoli radical-chic berlinesi.
Philip Seymour Hoffman. Uno nessuno e centomila. I personaggi che lo interpretano a teatro in un’opera che non ha un inizio né una fine, né l’intenzione di andare mai per davvero in scena. Perché il palcoscenico è la vita stessa.
Con questo film-labirinto-sudoku, Charlie Kaufman è riuscito a mettere in scena non un momento della vita, bensì tutta la vita. La vita di tutti. Senza nemmeno farci uscire dalla sua mente.
Cecereccece cecereccece cè, Gusttavo Kaufman.
(voto 8+/10)
(Il film, evidentemente considerato troppo complesso e geniale per il pubblico italiano, da noi non è mai uscito. Lo trovate in rete sottotitolato, nei soliti posti.)
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