Una volta tanto, sono tanti i film promettenti in arrivo nei cinema italiani. E non solo horror. Anzi, di horror ne arriva solo uno e un altro ve lo offre questa rubrica: Mr. James Ford, il mio blogger nemico che come al solito co-conduce con me questa rubrica sulle pellicole in uscita in sala. E l'ospite?
Questa settimana è Marcello Papaleo, autore dell'ottimo sito cinematografico 1filmalgiorno. Sito che non aggiorna da un po' di tempo – e quindi scatta la doverosa tiratina d'orecchie – ma in compenso dopo qualche mese di assenza è tornato a scrivere sul web apposta per noi. Ecco cos'ha da dire sui film settimanali.
First Man - Il primo uomo
"Il vero motivo per cui ho deciso di andare sulla Luna?
Sfuggire alle botte di Ford dopo che gli ho confessato che Pensieri Cannibali è il mio blog preferito."
Blessed be the Emmy Awards 2018. La fantastica signora Maisel (The Marvelous Mrs. Maisel) a sorpresa è stata la trionfatrice assoluta della serata degli Oscar del piccolo schermo statunitense. Nella categoria comedy ha trionfato portandosi a casa 5 premi, tra cui miglior serie comedy e miglior attrice protagonista con Rachel Brosnahan che, per quanto banale sia da dire, è davvero fantastica!
Questa settimana è la volta di Antonella Buzzi, intelligente e preparata autrice del blog Ho voglia di cinema, che ha un solo difetto: è pigra. O, se non altro, dovrebbe aggiornare il suo sito più spesso, molto più spesso. Daje, Antonella, che ce la puoi fare!
Aspettando di sentire la sua voce con maggiore frequenza dalle sue parti, potete intanto trovarla qui, alle prese con me e con il mio arcinemico Ford per commentare i film in arrivo questa settimana nelle sale italiane.
Stronger
"Approvo la scelta di Antonella come ospite. Adesso basta solo cacciare Cannibal e Ford, e poi questa rubrica è perfetta."
Ispirato al romanzo: L’accademia dei vampiri di Richelle Mead
Cast: Zoey Deutch, Lucy Fry, Olga Kurylenko, Gabriel Byrne, Danila Kozlovsky, Dominic Sherwood, Sarah Hyland, Cameron Monaghan, Sami Gayle, Joely Richardson, Claire Foy, Ashley Charles
Genere: teen fantasy
Se ti piace guarda anche: Percy Jackson, Harry Potter, Shadowhunters, Underworld, Byzantium, Wild Child
Uscita italiana: non ancora pervenuta
Non so voi, ma io stavo proprio sentendo la mancanza di un nuovo film sui vampiri. Negli ultimi anni ne sono usciti solo 3miliardi e io avevo bisogno del 3miliardeunesimo. Dopo Twilight, è stato tutto un proliferare di pellicole sui succhiasangue, con derive persino nel cinema d’autore, con l’intrigante Twixt di Francis Ford Coppola, il soporifero Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch e il più riuscito Byzantium firmato da Neil Jordan, che già aveva partecipato all’ondata vampiresca degli anni ’90, quella andata dal Dracula di Bram Stoker dello stesso Francis Ford Coppola a Buffy – L’ammazzavampiri, con il suo Intervista col vampiro.
A essere contagiato dal successo commerciale della saga di Twilight è stato soprattutto il sottogenere del fantasy teen, che ha dato origine a una serie infinita di pellicole con vampiri e altre creature mostruose assortite, senza dimenticare le incursioni televisivo/trash di The Vampire Diaries e True Blood.
"Non è vero che noi giovani non leggiamo.
Io sto finendo la saga di Twilight, vedi?"
Insomma, si sentiva davvero il bisogno di un nuovo film sui vampiri… peccato che questo non sia un film sui vampiri. Non fatevi ingannare dal titolo. I personaggi di Vampire Academy non gradiscono essere chiamati vampiri, e manco vampirli.
La protagonista è Rose Hathaway, una Dhampir. Cosa cacchio è un Dhampir?
È un essere metà uomo e metà donna? No. Quello si chiama Conchita Wurst. Un Dhampir invece è metà umano e metà vampiro e lo scopo della sua inutile vita è quello di fare da guardia del corpo a un Moroi. Cosa cacchio è un Moroi?
È un vampiro, che però non vuole essere chiamato vampiro ma Moroi e in più è un vampiro buonista, uno che convive in pace con gli umani e si contrappone agli Strogoi. E cosa cacchio sono gli Strogoi?
Allora non sapete proprio niente, vi devo dire tutto io! Gli Strogoi non sono miei parenti stronzi (il mio nome è Marco Goi nda), ma sono dei vampiri cattivoni che pure loro non gradiscono essere definiti vampiri, anche se a tutti gli effetti lo sono visto che uccidono gli umani per nutrirsi del loro sangue. Almeno qualche ciucciasangue vecchio stile esiste ancora, in questo malato mondo ripieno di vampiri vegani, pacifisti e, ma solo secondo Berlusconi, pure comunisti.
"Non sono un mostro, GRRR!"
Raccontato così può sembrare un gran casino e un pochino lo è. Alcuni passaggi non sono spiegati benissimo e si ha come l’impressione che possano essere compresi appieno soltanto da chi ha letto i libri della saga teen fantasy scritta da Richelle Mead cui il film si ispira. Se però avete più di 12 anni è probabile che siate oltre la fase romanzi young adult e potete accontentarvi della versione cinematografica. Una versione che negli USA si è rivelata un flop e quindi difficilmente proseguirà, sebbene il finale della pellicola sia fatto apposta come collegamento per un secondo episodio.
Nonostante la confusione generale della trama si riesce comunque a entrare in questo mondo fantasy, sarà che è simile ad altri mondi fantasy, non solo vampireschi, come quelli di Pirla Jackson Percy Jackson e Harry Potter. Solo che l’ambientazione della pellicola è quella di una scuola non di magia, come Hogwarts, bensì un’accademia per addestrare sia i vampiri buoni, pardon i Moroi, sia i loro aiutanti/schiavetti, ovvero i Dhampir.
È qui che sta la particolarità, o se non altro la minima variante rispetto alle altre saghette vampiresche viste in abbondanza di recente. La protagonista è fedelissima alla sua vampirella Moroi che protegge, ma allo stesso tempo è una simpatica combina guai dalla battuta sempre pronta, e allo stesso tempo è pure un po’ una bimbaminkia superficiale style Hanna delle Pretty Little Liars. È lei il personaggio che rende gradevole la visione di questo fantasyno girato in maniera alquanto anonima da Mark Waters, il regista del cultissimo del 2004 Mean Girls, una delle pellicole che più hanno lasciato il segno nella pop culture americana degli ultimi 10 anni.
"Mi sembra proprio di essere in una puntata di The Vampire Diaries.
Per i vampiri?
Ma va, perché c'è un ballo studentesco!"
La protagonista mezza vampira e mezza umana è interpretata da una a sorpresa convincente Zoey Deutch.
Chi cacchio è Zoey Deutch?
Scommetto che non sapete nemmeno questo. Va beh, come al solito ve lo dico io. Zoey Deutch aveva la parte della figliastra di Sarah Michelle Gellar (ex Buffy, sarà un caso?) nella pessima serie Ringer e lì mi era sembrata un’attrice davvero cagna. Forse era solo colpa di quell’oscenità di serie, perché qui Zoey Deutch, per quanto non sia diventata all’improvviso una fenomena, è piuttosto convincente e riesce a reggere alla grande l’intera pellicola che, per il resto, vanta un cast abbastanza di prestigio, quanto svogliato. In ruoli-macchietta ci sono l’affascinante Olga Kurylenko e un pessimo Gabriel Byrne, mentre sono abbastanza sprecati i giovani Cameron Monaghan della serie Shameless US e Sarah Hyland della Modern Family, così come Sami Gayle già vista nel film Detachment – Il distacco. A non funzionare proprio del tutto è invece l’altra protagonista principale, la bionda Lucy Fry, che dovrebbe essere la vampirona gnoccona di turno e invece appare parecchio scialba.
"Cannibal Kid è l'unico al mondo che non massacra del tutto il nostro film."
"E' proprio un bimbominkia!"
A questo punto, so già che avrete un’altra domanda e questa volta non riguarda più Damphir, Moroi, Strogoi o qualche altro diavolo di assurdo modo hipster in cui vogliono essere chiamati i succhiasangue al giorno d’oggi. La domanda che vi starete ponendo è: ma questo Vampire Academy un’occhiata la merita, si o no?
La risposta è no, se di filmetti sui vampiri non ne potete più. Questo non dice assolutamente niente di nuovo sul tema e non è certo un capolavoro imperdibile. Se poi cercate una pellicola dai risvolti anche solo vagamente horror, tenetevi alla larga. Questo è un teen fantasy, non un film dell’orrore.
La risposta è invece sì se cercate una pellicoletta adolescenziale scema di discreto intrattenimento. Rispetto a porcherie assolute come Shadowhunters, questo si fa guardare con discreto piacere e, grazie alla simpatia della protagonista, con il sorriso sulle labbra. E poi dai, avete già visto 3miliardi di film sui vampiri, volete perdervi proprio il 3miliardeunesimo?
Cast: Claire Foy, Sam Claflin, David Gyasi, MyAnna Buring, Lee Ingleby, Reece Ritchie, Jessica Gunning, Juliette Stevenson, Lindsay Duncan, Hugh Quarshie, Jeremy Northam, Tamsin Greig
Genere: sceneggiatone
Se ti piace guarda anche: La meglio gioventù, Il grande freddo, Piccole bugie tra amici, We Want Sex
La meglio gioventù in versione inglese?
È questo che si può pensare di White Heat, mini-serie britannica in 6 puntate da un’oretta l’una recuperate dietro consiglio del blog di Cipolla pensierosa. Una meglio analisi superficiale e veloce, ma che a grandi linee rende l’idea di quello che vi potrete trovare di fronte.
In questa serie le vicende personali di una serie di personaggi si sviluppano con sullo sfondo le vicende politiche e sociali della Gran Bretagna tra gli anni ’60 e i ’90, con una puntatina nel presente, laddove La meglio era ambientata tra il 1966 e il 2003. La differenza principale tra la splendida serie italiana firmata da Marco Tullio Giordana e questa è nella caratteristica dell’unione dei personaggi.
La meglio gioventù è incentrata su una famiglia, i preziosi Carati, mentre qui le vicende sono incentrate su un gruppo di coinquilini. Ed è qui che si annida una differenza fondamentale tra la cultura italiana che, un po’ come quella americana, non può prescindere dall’unione famigliare, mentre in UK, vuoi per l’assenza di una forte impronta cristiana, il concetto di famiglia è differente e trascende i legami di sangue.
Nel 1965, un gruppo di sette tizi (4 ragazzi e 3 ragazze) va a vivere insieme e da lì in poi rimarranno per sempre legati da un rapporto di amicizia così come anche di contrasto che ricorda molto un rapporto famigliare, perché alla fine è questo che diventeranno: una famiglia.
White Heat è un romanzone, un’epopea che si sviluppa in vari decenni con vari personaggi e, come le migliori di queste storione, riesce a coinvolgere e appassionare sempre più, episodio dopo episodio, epoca dopo epoca. Cosa che comunque non lo rende esente da difetti, in primis la mancanza del caratteristico British humor, in favore di una seriosità che ci sta anche ma è probabilmente eccessiva.
La vicenda parte nel presente, con i personaggi ormai “vecchi”, intorno ai 60 anni passati, che si ritrovano per la morte di uno di loro. Chi è non ve lo dico, anche perché su questo mistero si gioca fino all’ultimo episodio. In ogni puntata, velata da una forte dose di malinconia, si viaggia in flashback indietro in un anno importante, sia per loro, che in qualche modo per la storia britannica recente: 1965, 1967, 1973, 1979, 1982 e 1990. Il legame tra la riflessione intima e personale sui personaggi e sui rapporti che si instaurano tra loro con una riflessione politica e sociale è ben congegnato e funziona piuttosto bene, sebbene la serie non riesca a sfuggire del tutto dagli stereotipi e da una schematizzazione e semplificazione a tratti eccessiva.
C’è ad esempio Jay (Reece Ritchie), il personaggio omosessuale cui, in maniera piuttosto prevedibile, fanno contrarre l’HIV, c’è la tipa grassottella ma buona di cuore Orla (Jessica Gunning), c’è la bionda Lilly (MyAnna Buring), una tipa perennemente insoddisfatta che intraprende la via dell’arte fino a che non si rende conto di non avere talento e c’è il rigido ingegnere Alan (Lee Ingleby), che le va dietro come un cagnolino fino a che non riuscirà a farla diventare sua moglie.
Se questi personaggi di “contorno” non sono male ma nemmeno sono stati sviluppati al meglio, laddove la serie funziona e coinvolge di più è nel triangolo sentimentale tra i tre veri protagonisti centrali della storia.
Jack (Sam Claflin) è il figlio di un ricco politico conservatore che, per ribellarsi al padre, diventa una sorta di hippie dalle idee del tutto opposte a quelle del genitore e destinato a una carriera nel partito laburista. Charlotte (Claire Foy) è una donna forte e indipendente, una femminista che proverà a fargli mettere la testa a posto. Ma tra loro spunta Victor (David Gyasi), un ragazzo black che per via del colore della sua pelle avrà varie vicissitudini con la polizia; naturalmente si innamora di Charlotte che però sembra avere occhi soltanto per il rebel rebel Jack. Anche se i tre protagonisti non rifuggono pure loro del tutto dagli stereotipi, c’è poco da fare: un triangolo amoroso quando è ben architettato funziona sempre e mantiene alta l’attenzione dello spettatore.
Bravini, ma non del tutto spettacolari, gli attori. Alcuni di loro hanno comunque ampi margini di miglioramento e potrebbero riservarci buone cose in futuro: tra loro svettano Claire Foy, già vista nei panni della strega inquietante del pessimo L’ultimo dei templari, Sam Claflin, lanciatissimo anche a Hollywood dopo Biancaneve e il cacciatore in cui ha la parte del Principe Azzurro, Reece Ritchie, già nel toccante Amabili resti, e la bionda MyAnna Buring, vista nell’atroce Kill List. Azzeccata la scelta di prendere degli altri attori per interpretare i personaggi ormai invecchiati nel presente, invece di ricorrere a un trucco che avrebbe potuto creare effetti involontariamente tragici, come nel recente J. Edgar di Clint Eastwood.
La serie non riesce a gettare uno sguardo sul passato radicalmente nuovo, come invece fatto da una serie come Mad Men, in grado di prendere gli anni ’60 così come li conoscevamo e rivoltarli come un calzino. I decenni recenti sono qui rivissuti in una maniera conosciuta, già vista da altre parti, e le tematiche sono quelle che ci si può aspettare: diritti civili, femminismo, aborto, omosessualità, gli anni della Thatcher, ecc., affrontati attraverso i cambiamenti sociali e culturali da metà 60s al 1990. Niente di troppo nuovo sotto il sole a livello di tematiche e anche la colonna sonora, pur di primissimo livello, ripropone pezzi stranoti, dai Who a David Bowie, dai Clash ai classici della disco anni ’70.
Per quanto non riesca a sorprendere, per quanto mi sia concentrato soprattutto sugli aspetti meno convincenti, White Heat è uno sceneggiato tv che si lascia seguire in maniera del tutto appassionante e che ti entra sempre più dentro al cuore, al punto che, dopo essere rimasto piuttosto perplesso dopo i primi due episodi, quelli meno riusciti e più stereotipati dei ’60, mi sono letteralmente divorato i successivi. Perché nella sua imperfezione si cela un’umanità rara da trovare in molti altri prodotti, anche più riusciti o innovativi.
Il miglior pregio di White Heat, allora? Quello di essere una serie ricca di tanti, umanissimi difetti.
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