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sabato 9 maggio 2020

Miss Ammeregana





Miss Americana
(docufilm)
Regia: Lana Wilson
Cast: Taylor Swift, Brendon Urie, Joe Alwyn, Andrea Swift, Kanye West

Taylor Swift è una pallida spilungona bionda che fa musica country, quindi di sicuro è una repubblicana trumpiana di ferro. Ha una lunga lista di ex fidanzati famosi, da Harry Styles a Jake Gyllenhaal passando per Taylor Lautner, John Mayer, Joe Jonas, Tom Hiddleston e chissà quanti altri, e con tutti è finita dopo non molto, quindi dev'essere un'intrattabile, capricciosa e decerebrata starlette che a breve stufa. E poi figuriamoci se le sue canzoni se le scrive lei. Avrà dietro un team di mega capoccia della musica che prepara in laboratorio ogni sua mossa discografica e ogni suo look. Un po' come una Chiara Ferragni in versione musicale, è diventata popolare non si sa bene perché. Non ha talento e, dietro la facciata da brava ragazza, è pure una persona malvagia e calcolatrice, si veda il modo in cui ha fatto passare per un cattivone il povero innocente dolce tenero Kanye West.

Giusto?

lunedì 4 maggio 2020

The Last Dance: no, non è una cosa sul ballo stile Save the Last Dance





The Last Dance
(docu-serie, episodio 1)

The Last Dance è una docu-serie, ma non sul ballo come qualcuno potrebbe immagine. Parla di basket. Dell'ultima gloriosa stagione dei Chicago Bulls di Michael Jordan.

The Last Dance è una docuserie sul basket, ma non è solo quello. E' anche una macchina del tempo, che viaggia tra il presente, il passato e il passato ancora più passato. Va a spasso tra epoche differenti per cercare di comporre un puzzle unico, un po' come True Detective.

venerdì 13 dicembre 2019

Chiara Ferragni - Unposted: un DocuFilm? No, più un DocuSelfie





Chiara Ferragni - Unposted
Regia: Elisa Amoruso
Cast: Chiara Ferragni, Fedez, Paris Hilton


Ci sono cose che non capisco. Non ne capisco di cinema, lo dico subito. Il fatto che fossi più curioso di guardare Chiara Ferragni - Unposted rispetto a The Irishman, l'ultimo (presunto) capolavoro di Martin Scorsese, la dice lunga in proposito. Perdonatemi ma, in quanto blogger, personalmente mi interessa di più un lavoro che parla della carriera di una blogger di oggi, per quanto fashion blogger, rispetto a un film che parla della carriera di un gangster a cavallo tra gli anni '50 e '70, per quanto di Martin Scorsese.
Il fatto poi che io abbia un blog di cinema, che per la cronaca è quello che state leggendo in questo momento, non significa per forza che debba anche possedere un buon gusto in fatto di cinema. Così come il fatto che Chiara Ferragni sia una fashion blogger non significa per forza che abbia un buon gusto in fatto di moda, ahahah.


martedì 4 ottobre 2016

Sapore di Fuocoammare






Fuocoammare
(Italia, Francia 2016)
Regia: Gianfranco Rosi
Sceneggiatura: Gianfranco Rosi
Da un'idea di: Stefano Accorsi Carla Cattani
Cast: Samuele Pucillo, Pietro Bartolo, Maria Costa, Samuele Caruana
Genere: documentarioso
Se ti piace guarda anche: Sacro GRA, The Act of Killing


Fuocoammare è il film che l'Italia ha scelto di nominare come rappresentante del nostro cinema alla prossima edizione degli Oscar nella categoria dei film in lingua non inglese. A dirla tutta, in alcune scene della pellicola il ragazzino protagonista si cimenta proprio con l'inglese, solo che i risultati sono al livello di Renzi e quindi non possono essere considerati davvero in lingua inglese.

lunedì 8 febbraio 2016

Back to Amy





Amy - The Girl Behind the Name
(UK, USA 2015)
Titolo originale: Amy
Regia: Asif Kapadia
Genere: biodocupic
Se ti piace guarda anche: Cobain: Montage of Heck, Sugar Man, What Happened, Miss Simone?

Parlare di Amy Winehouse per me è dura. A distanza di quasi 5 anni, la sua scomparsa è una ferita ancora aperta, come se si trattasse di quella di un amico o un parente stretto. Tra le “morti VIP”, la sua è quella che mi ha fatto più male. Quando se n'è andato Kurt Cobain, nel 1994, ero troppo piccolo e ancora non ascoltavo la sua musica. Quando è venuto a mancare Stanley Kubrick, nel 1999, è stato un colpo molto pesante, visto che avevo scoperto da pochi mesi il suo cinema ed ero quasi ossessionato dai suoi film. Al punto che c'ho messo tipo una settimana buona per riprendermi. Poteva dare ancora qualcosa all'arte, come lo splendido Eyes Wide Shut dimostrava, però comunque aveva i suoi 70 anni e il suo top l'aveva già raggiunto. Discorso simile per David Bowie. La news della sua morte è stata una batosta, soprattutto subito dopo la pubblicazione di un nuovo lavoro parecchio vitale come Blackstar, ma se non altro aveva raggiunto quota 69 anni che, soprattutto per una rockstar che ha avuto la sua vita, non è poi così male.

venerdì 9 gennaio 2015

THE ACT OF KILLING, LO SHREK DEI DOCUMENTARI STORICI





The Act of Killing - L'atto di uccidere
(Danimarca, Norvegia, UK 2012)
Titolo originale: The Act of Killing
Regia: Joshua Oppenheimer, Anonimo, Christine Cynn
Cast: Anwar Congo, Herman Koto, Syamsul Arifin, Ibrahim Sinik, Yapto Soerjosoemarno
Genere: massacrante
Se ti piace guarda anche: Sugar Man, Exit Through the Gift Shop

Ci sono sempre (almeno) due modi di raccontare una storia. Per parlare del massacro di 2,5 milioni di cinesi comunisti avvenuto in Indonesia tra il 1965 e il 1966 la via più ovvia, quella più politically correct, sarebbe stata quella di dare voce ai famigliari delle vittime. Ne sarebbe uscita una pellicola toccante e strappalacrime, di sicuro impatto.
Il regista Joshua Oppenheimer ha invece compiuto un'altra scelta. Ha deciso di far parlare i carnefici di quel massacro. Ha voluto dare loro la possibilità di spiegare quanto hanno fatto. In questo modo nessuno può dire che sia un documentario di parte. Questa non è la versione delle vittime. Questa è la verità degli assassini. The Act of Killing da questo punto di vista è un po' lo Shrek dei documentari storici. La parola ai mostri.

martedì 11 novembre 2014

Modà, esce oggi Come in un film... dell'orrore





Scritto il 11-11-2014



(FOTO: GRAHAM INSTA)


SAN SIRO (MI) – È già stato definito il film horror più spaventoso dell'anno. Durante la presentazione in anteprima, Dario Argento ha lasciato la sala terrorizzato. Wes Craven e John Carpenter si sono persino rifiutati di vederlo. E non sono i soli. Di cosa stiamo parlando?
Di Come in un film, la pellicola documentario dedicata all'agghiacciante concerto tenuto dai Modà lo scorso luglio a San Siro. Siro che è stato fatto Santo dopo aver retto le urla di Kekko Silvestre, per i poco religiosi che non ne fossero a conoscenza.

Il film evento sbarcherà soltanto (e meno male) stasera e domani sera nelle peggiori sale italiane. Al termine di queste due eccezionali visioni, per sicurezza tutte le copie della pellicola verranno spedite in un luogo top-secret e conservate dall'esercito degli Stati Uniti come arma da usare solo in caso di un nuovo conflitto mondiale.

Come in un film, da stasera nei cinema. Andate a vederlo.
Se ne avete il coraggio.

Kannibal Kekko


Questo post, così come quello su Vasco, vi è stato gentilmente offerto da















ULTIM'ORA KEKKO SILVESTRE ARRESTATO PER DISTURBO DELLA QUIETE PUBBLICA. MENTRE VENIVA PORTATO VIA DALLE FORZE DELL'ORDINE, IL LEADER DEI MODA' PARE ABBIA DICHIARATO: "STAVO SOLAMENTE PROVANDO UNA CANZONE NUOVA".

lunedì 17 febbraio 2014

WHAT DIFFERENCE DOES IT MAKE, LA DIFFERENZA DI CHI FA MUSICA




What Difference Does It Make – A Film About Making Music
(USA, Germania 2014)
Regia: Ralf Schmerberg
Genere: documentario musicale

What Difference Does It Make è il titolo di un documentario che farà la gioia di tutti gli appassionati di musica. Soprattutto chi la musica la fa, ci prova a farla, e pure chi se la vorrebbe fare. In occasione dell’anniversario dei 15 anni della Red Bull Academy, il regista tedesco specializzato in documentari Ralf Schmerberg ha messo a disposizione il suo talento visivo per un bel docu che ci proietta dentro il suono. Tra concerti, lavoro in studio e performance dove capita, anche giù in metropolitana, la cosa più affascinante di questo What Difference Does It Make? (il titolo è un omaggio a un pezzo degli Smiths) è proprio l’aria che si respira. Aria di musica a pieni polmoni. Questo è il cuore della pellicola.

La parte chiamiamola più razionale, il cervello della pellicola è invece fatta di parole. Tante parole che ci arrivano dai vari cantanti, musicisti e artisti intervistati per l’occasione. Spazio allora ai racconti e alle esperienze di Debbie Harry dei Blondie, a Erykah Badu, Giorgio Moroder, Nile Rodgers, Brian Eno, a un bellissimo Lee ‘Scratch’ Perry, a Richie Hawtin, Q-Tip, Rakim, Skream, a James Murphy ex LCD Soundsystem e producer dell’ultimo album degli Arcade Fire. Una serie di nomi grossi tutti impegnati a fornirci i loro personali resoconti. Lasciando fuori i divismi e le esagerazioni tipici dello showbiz, quello che ne viene fuori è un racconto corale che testimonia una grande passione per la musica. Il pregio di questo lavoro è proprio quello di proporre un sacco di realtà differenti, presentando una grande varietà di modi di rapportarsi alla musica, alla creazione e pure alla vita, attraverso artisti di epoche e generi differenti. Un pregio che può essere visto anche come il limite principale del documentario, che risulta in questo modo leggermente dispersivo. Il suo scopo comunque lo raggiunge. Non fotografare un solo determinato stile musicale, ma un sacco di approcci.
Dove poter guardare questa chicca, una visione consigliata in particolare ai musicomani, ma comunque molto ben realizzata da un punto di vista tecnico-cinematografico e quindi apprezzabile un po’ da tutti?
Sul sito redbullmusicacademy dove sarà visibile in streaming gratuito a partire da domani. Buona visione, allora, e soprattutto buon ascolto.
(voto 6+/10)

venerdì 13 dicembre 2013

SUGAR MAN, IL PIU’ GRANDE MISTERO NELLA STORIA DELLA MUSICA




Sugar Man
(Svezia, UK 2012)
Titolo originale: Searching for Sugar Man
Regia: Malik Bendjelloul
Sceneggiatura: Malik Bendjelloul
Ispirato agli articoli: “Sugar and the Sugar Man” di Stephen “Sugar” Segerman e “Looking for Jesus” di Craig Bartholomew-Strydom
Genere: musicalesistenziale
Se ti piace guarda anche: Velvet Goldmine, Catfish

Chi è Rodriguez?
Se non abitate in Sud Africa o non avete visto il film documentario Sugar Man, molto probabilmente non ne avrete idea. Il consiglio che vi do subito, per primissima cosa, non è allora quello di trasferirvi in Sud Africa, a meno che non ci teniate, bensì è quello di andare a vedervi questa pellicola, questo straordinario documentario. Non importa se non amate i documentari, Sugar Man è comunque imperdibile. Io non sono un fan assoluto del genere documentaristico, preferisco i film recitati, “di finzione”, però ogni tanto capita di imbattersi in un docu-gioiellino e Sugar Man è uno di questi. Perché?

Quella di Rodriguez è forse la storia più incredibile che io abbia mai sentito. In assoluto. Di certo è la vicenda più pazzesca e inverosimile nella storia della musica in cui mi sia mai imbattuto. Pensavo di averne sentiti di tutti i tipi, di aneddoti curiosi e folli sulle rockstar, di racconti sulle incredibili vite dei più grandi artisti dello showbiz musicale, e invece non erano niente in confronto a quanto capitato a Rodriguez.
Su di lui cercherò di dirvi il meno possibile, perché la sua vicenda dovete sentirla raccontare attraverso la pellicola Sugar Man. Il mondo è pieno di belle storie, ma una bella storia da sola non fa un bel film. Invece Sugar Man è anche un gran bel film. Un documentario che però sembra un thriller, che riesce a creare una tensione palpabile e a mettere addosso una curiosità enorme intorno alla figura di questo mistero, il più grande mistero nella storia della musica pop-folk-rock, che si cela dietro al nome di Rodriguez.
Oltre a essere costruito in maniera narrativamente brillante, in grado di tenerti incollato allo schermo manco fossi di fronte a una nuova puntata inedita di Lost, Sugar Man è una pellicola molto ben girata, con una fotografia magnifica e scene di autentica poesia che molti film di fiction fanno fatica a regalare.
L’altra cosa splendida di questo documentario è il suo approccio alla musica. Sugar Man presenta le canzoni di Rodriguez al loro meglio. Le fa assaporare fino in fondo, non con uno stile da videoclip e nemmeno cercando di ricreare in maniera didascalica i testi delle sue songs. Semplicemente, le fa vivere. Una cosa semplice, no?

Proprio la semplicità è la caratteristica che balza subito all’orecchio ascoltando i pezzi di Rodriguez. È anche per questo che il mistero di come non abbia avuto successo è ancora più… misterioso, appunto.
Ci sono un sacco di cantanti e gruppi bravissimi là fuori, e molti non fanno il botto. Uno si chiede il motivo. Perché gli U2, i Coldplay o i Muse sono mostruosamente popolari in tutto il mondo e invece band che sembrano più o meno allo stello livello, o magari sono anche meglio, non se li fila nessuno o quasi? Il più delle volte, se uno va scavare a fondo, riesce a trovare una ragione. Gli U2 ad esempio hanno Bono che è un personaggio, un leader carismatico, uno che riesce a imporsi all’attenzione con la sua parlantina da politicante mista a un’attitudine da rockstar. I Coldplay invece non sono personaggi e spesso e volentieri sono delle autentiche lagne, eppure hanno delle canzoni come “Yellow” o “In My Place” o “Fix You” o “Viva la vida” che sanno arrivare al cuore delle persone. O ancora, i Muse dal canto loro sono tecnicamente mostruosi e vederli dal vivo è davvero un’esperienza.

Questo per semplificare in maniera estrema. Ci sono poi altri fattori che entrano in gioco. A volte basta una canzone che comincia ad andare su un programma di una radio e poi viene suonata pure dalle altre stazioni e poi la senti ovunque, a volte basta un riff di chitarra per farti passare da cult alternative band a gruppo sulla bocca di tutti, come capitato nel 1991 ai Nirvana. A volte, oggi, conta un video che si diffonde in maniera virale sul web. Spesso è fondamentale anche il marketing, dai Sex Pistols che sarebbe difficile immaginare senza il loro manager e “creatore” Malcolm McLaren, alle Spice Girls ideate genialmente a tavolino mettendo insieme 5 tipi classici (più o meno) di donna: la sportiva, l’elegantona che se la tira, la pazza pericolosa, la lolita e la zoccola.


Quello che è mancato a Rodriguez è allora forse quest’ultimo fattore, una strategia di marketing valida all’epoca, nei primissimi anni ’70 quando ha pubblicato i suoi due primi (e unici) album “Cold Fact”, fenomenale album d’esordio, e il secondo anch'esso notevole “Coming From Reality”, che hanno tutti e due venduto pochissimo e quasi nessuno si è filato. È mancato il marketing ed è mancata anche la classica botta di culo che pure quella, in ogni storia di un successo che si rispetti, non può mai essere assente. Giusto questo, è mancato a Rodriguez. Il resto c’era tutto. C’erano le canzoni e c’era il personaggio.

Molti gruppi di nicchia, amati magari dalla critica e da un piccolo zoccolo duro di fan, non riescono ad avere un grande successo perché fondamentalmente gli mancano le hit. Gli mancano quei pezzi in grado di sfondare, di poter essere suonati in radio e di conquistare subito le orecchie e il cuore degli ascoltatori. Non è il caso di Rodriguez. I suoi brani sono semplicissimi, sono diretti, basta un solo ascolto per cominciare ad amarli e sentirli propri, come se fossero sempre esistiti, come se già li conoscessi e facessero parte della tua vita da sempre. La sensazione raccontata nei film romantici, con lui che incontra lei ed “È come se ti conoscessi da sempre!”. È quella sensazione lì che fanno le canzoni di Rodriguez.
I Wonder” ad esempio è un brano pop di presa immediata, con una melodia di quelle che avrebbero potuto scrivere i Beatles e un giro di basso che si incolla in testa istantaneamente.



Altri brani ricordano più Bob Dylan, anche per la notevole qualità dei testi, ma, come dice uno dei produttori di Rodriguez: “Bob Dylan non era al suo livello”. E non è che sia una sparata tanto per. Certe canzoni di Rodriguez, molte canzoni di Rodriguez, Bob Dylan se le può sognare in cartolina, e diciamolo. Con questo non voglio sminuire Bob Dylan o dire che sia sopravvalutato, perché il suo posto di rilievo nella storia della musica se l’è guadagnato tutto. Non voglio sminuire nessuno, voglio solo dire che il nome di Rodriguez non dovrebbe essere seguito da un “Chiiiiiiiiii?”. Il nome di Rodriguez dovrebbe stare lì accanto a quello dei grandi riconosciuti della musica, con Dylan e Jimi Hendrix e i Rolling Stones e i Beatles e tutti gli altri. Quello è il suo posto.

Oltre all’irresistibile “I Wonder”, di canzoni incredibili Rodriguez ne ha tirate fuori un sacco. Cito giusto “Sugar Man”, il title theme della pellicola che suonerebbe alla grande pure in qualunque film di Quentin Tarantino, o “Cause” e “Crucify Your Mind” che sono brani di drammatica bellezza, poesia urbane che ti strappano fuori il cuore dal petto e te lo riducono in pezzettini, o ancora “Street Boy”, un altro pezzo di presa immediata , o una magia come “I’ll Slip Away”, sulle cui note è difficile non farsi venire i brividi.
E poi c’è “I Think of You”, uno di quei pezzi che suoni a una ragazza e lei ascoltandola te la smolla subito. Questo almeno in un mondo ideale, un mondo in cui Rodriguez è una celebrità e le sue canzoni le conoscono tutti a memoria.



Non è il mondo in cui viviamo. In quello in cui viviamo Rodriguez continua a essere un emerito sconosciuto, almeno ai più. E pensare che, oltre alle canzoni, c’era anche il personaggio. Insomma, Rodriguez era un tipo schivo, timido, riservato, uno che cantava con le spalle voltate al pubblico, tutto l’opposto di una rockstar tradizionale in pratica, però in compenso poteva vantare un incredibile alone di mistero intorno alla sua figura, con tanto di leggende riguardo al suo lavoro, alla sua vita, al suo suicidio. Una immagine così enigmatica che è incredibile non sia diventato famoso. Forse perché erano altri tempi. Negli ultimi anni, band come Daft Punk e Gorillaz hanno costruito una parte della loro fortuna proprio giocando sul non apparire, sul nascondersi. Rodriguez questo lo faceva già nei primi anni Settanta, sebbene in maniera inconsapevole.
La cosa più incredibile è che anche adesso niente sembra muoversi più di tanto. I Velvet Underground di Lou Reed ad esempio pure loro se li erano filati in pochi, ai tempi dell’esordio e nonostante avessero uno stratega del marketing come Andy Warhol dietro, eppure con il tempo è stata giustamente riconosciuta la loro importanza, anche perché pezzi come “Sunday Morning” non potevano restare ignorati a lungo. Nonostante l’Oscar vinto dal film Sugar Man, la colonna sonora della pellicola ha però fatto a malapena capolino nella classifica americana, per non parlare dell’Italia dove il film è uscito in 4 sale in croce e in piena estate. Qualcuno in più che lo conosce dopo questa pellicola allora c’è, ma fondamentalmente Rodriguez continua a essere uno nome sconosciuto al grande pubblico e ciò continua a essere un mistero, oltre che un’ingiustizia clamorosa.

Chi è Rodriguez?
Guardate Sugar Man, un film splendido da punto di vista cinematografico, musicale, sociologico e umano, e lo scoprirete. Forse vi suonerò esagerato, ma questo è uno di quei film che vi cambiano la vita. Il Dottore Cannibale vi consiglia quindi di recuperarlo, non domani, non tra una settimana, non tra un mese. Subito. Guardatelo ora. Questo è un film che fa bene alla salute, un film che ti sfama l’anima, ti riempie il cuore, ti fa piangere come un bambino. Non piangere per la tristezza. Ti fa piangere di gioia, per aver visto e sentito qualcosa di splendido, di sincero, di autentico e aver finalmente conosciuto Rodriguez, uno dei più grandi misteri nella storia della musica, uno dei più grandi artisti nella storia della musica.
Guardate Sugar Man, vi cambierà la vita. Non vi farà diventare improvvisamente belli, ricchi e famosi, anche perché sono sicuro lo siate già. Vi cambierà la vita nel senso che, dopo averlo visto, vi chiederete come diavolo avete fatto a vivere finora senza conoscere Rodriguez. È un po’ come vivere senza aver mai sentito i Beatles, i Radiohead o i Nirvana. Le canzoni di Rodriguez vi cambieranno la vita, così come l’hanno cambiata a tutti quelli che l’hanno ascoltato. A tutti, tranne forse a se stesso.
(voto 9/10)



sabato 13 luglio 2013

GINNASTE, VITE PARACULE




Ginnaste - Vite parallele
(serie docu-reality)
Rete italiana: Mtv
Ideatori: Carlo Altinier, Stefania Colletta, Antonella Vincenzi
Regia: Sara Ristori
Cast: Carlotta Ferlito, Elisabetta Preziosa, Alessia Scantamburlo, Giulia Leni, Eleonora Rando, Jessica Mattoni e Sara Ricciardi
Se ti piace guarda anche: Make It or Break It, Calciatori - Giovani speranze

Ginnaste, vite parallele.
O diciamo anche: Ginnaste, vite di merda, come indica in maniera più appropriata il sottotitolo della parodia fatta da Caterina Guzzanti nel suo programma La prova dell’otto. Le protagoniste di questa serie docu-reality di Mtv sono delle ragazzine tra i 14 e i 16 anni circa che di professione fanno le ginnaste. E non è una cosa semplice come potrebbe sembrare. Si allenano ore e ore tutti i giorni, per diversi mesi seguono una scuola a parte, in cui spesso si ritrovano a lezione in classi da 2 o 3 persone. Roba che se ti metti a ridere o ti distrai un attimo con il compagno di banco ti sgamano subito. E se vuoi copiare durante un compito in classe, la vedo dura, cara ginnasta. Se a ciò aggiungiamo i normali scazzi, insicurezze e problemi della pre-adolescenza che devono affrontare tutti, ci troviamo di fronte davvero a delle vite di merda. Altroché vite parallele.

Sì, brave, però tiratevela di meno che manco vi sono cresciute ancora le tette.
Il bello di questa serie, non che poi sia così bella, sta proprio qui. Nel vedere come se la passano loro e pensare che c’è qualcuno che sta peggio di te. Ginnaste è insomma niente di più e niente di meno di un guilty pleasure di quelli tipicamente estivi, di marca tipicamente Mtv. Come Jersey Shore, ma con delle bimbeminkia ginnaste al posto dei tamarri (finto)italoammericani.
Una differenza più lieve di quanto si potrebbe immaginare, visto che i dialoghi tra le ragazzine protagoniste sono a livelli base, proprio come quelli di Jersey Shore, oltre che parecchio ingenui. Siamo in pratica ben lontani da una sceneggiatura di Quentin Tarantino, così come le interazioni delle protagoniste con i coetanei sono piuttosto desolanti. Il divertimento massimo di queste ragazze - ma che ragazze? - di queste bambine, o meglio tweens, è guardare video idioti su YouTube e ascoltare canzoni che anche un bimbo di 3 anni considererebbe infantili. Siamo ben lontani dal delirio delle Spring Breakers, insomma.

Il sex symbol maschile della serie.
Raccontata così, questa docu-reality serie o come cazzo vogliamo chiamarla potrebbe sembrare una noia. Lo è. In vari momenti non è certo il massimo del divertimento, ma sempre meglio di deliranti telegiornali che ormai parlano solo del Papa o di Napolitano, o del Papa e di Napolitano contemporaneamente. Nonostante tutti i limiti di un programma del genere, Ginnaste riesce comunque a essere un ritratto della gioventù, mooolto gioventù, di oggi più sincero di tutte le moccianate in circolazione. Accompagnato da una colonna sonora di basso livello per essere un programma di Mtv, in compenso questo Ginnaste ricorda a tratti certi ritratti bambineschi francesi come Tomboy o, se proprio vogliamo esagerare parecchio, dei film di Hayao Miyazaki.


Ah no, ho sbagliato: è lui.
Le protagoniste della serie sono poi decisamente convincenti nella parte di… loro stesse. Il casting fatto è parecchio variegato e riuscito: c’è la super campionessa di turno Carlotta, quella che se la tira un casino perché c’ha le fan che le chiedono gli autografi e l’amicizia su Facebook, poi c’è la goffa rossa Alessia, la bionda sempre sorridente Giulia, e nella seconda e terza stagione (ebbene sì, sono già arrivate alla terza stagione) ne arrivano anche delle altre tanto per cambiare un po’. Sullo sfondo ci sono inoltre i ragazzini della squadra maschile, che ovviamente sono parecchio più immaturi. Le protagoniste, invece, pur avendo un quoziente altissimo di bimbominkiosità, fanno intravedere lampi di maturità qua e là, soprattutto quando si rendono conto di avere delle vite proprio dure. Sono costrette ad allenamenti quotidiani mortali e ciò non le esonera nemmeno dallo studio e dagli impegni scolastici, hanno la possibilità di girare per tutto il mondo ma non è che vedano un granché a parte le palestre e i loro fidi attrezzi, sono allontanate dalle famiglie in tenerissima età manco fossero atlete cinesi, il loro allenatore è simpatico quanto Daimon di Mila & Shiro e insomma: ginnaste, che vite di meeerdaaaaaaaaaaa
(voto 5/10)



giovedì 26 gennaio 2012

Catfish, o meglio dire mo so' cazfish?

Catfish
(USA 2010)
Regia: Henry Joost, Ariel Schulman
Cast: Yaniv Schulman, Henry Joost, Ariel Schulman, Angela Wesselman-Pierce, Melody C. Roscher
Genere: documentario 2.0
Se ti piace guarda anche: il mondo reale, considerando come dopo aver visto questo film ti staccherai da Facebook, Twitter e pure da Badoo!

Cos’è Catfish?
Catfish è un documentario. O forse un mockumentary, nel senso che la storia che racconta potrebbe essere vera oppure una gran montatura.
E proprio qua sta il nocciolo della faccenda.
Cosa è reale? Cosa non lo è?

Catfish non parla di pesce gatti come il titolo lascia supporre. Anche se in fondo un po’ sì, come scoprirete verso la fine.
Catfish si pone le maggiori domande esistenziali, solo che non le pone in un senso religioso. Qui non si parla infatti di stabilire o meno l’esistenza di Dio, bensì l’esistenza delle persone. Persone con cui abbiamo contatti tutti i giorni attraverso la rete come voi utenti di questo blog e io, fondatore e padrone supremo di questo blog cannibale.
Catfish parte raccontando la storia di un certo Yaniv, un ragazzo che entra in contatto con una ragazzina sulla rete.
Se state pensando a una qualche deriva pedofila, è normale: è la stessa cosa che ho immaginato pure io. Però la storia si evolve in altre direzioni, dalla commedia romantica, al dramma, ad altre cose che preferisco non anticiparvi perché ci sono diverse sorprese e svolte inaspettate.
Aspetta, ‘spetta n’attimo… Stiamo parlando di un documentario o di un thriller?
In teoria è un documentario, girato in maniera molto moderna e 2.0. Questo anzi è “il primo documentario sulla vita 2.0”, così come lo ha definito Chicken Broccoli sul suo blog. E chi poteva consigliarmi un film del genere che parla di persone conosciute in rete, se non una persona conosciuta in rete? Che poi Chicken Broccoli, esisterà veramente? E Cannibal Kid, esisterà veramente?
Catfish è tutto questo e anche molto di più. E forse è tutto vero oppure è tutto falso, come nel “documentario” di Banksy Exit Through the Gift Shop. Geniale quanto questo. Anzi, questo mi sa che è ancora più geniale.

Se fossimo in un paese normale, un film come Catfish dovrebbe essere proiettato in tv in prima serata e fatto seguire da un dibattito, invece di robe mal girate e già ampiamente discusse come Silvio Forever. Peccato che invece nel paese reale in cui viviamo, possiamo già ritenerci fortunati che La7 proponga qualcosa del genere. Il resto è tutto un Matrix e un Porta a Porta a Porta a Porta a Porta a Porta a Porta a Porta a Porta a Porta a Porta a Porta
sorry
disco incantato
mi sono brunovespizzato

E invece niente. Invece questo film non lo passano in tv e allora dove lo potete trovare? E dove se non su Internet? Purtroppo non sono nemmeno stati realizzati dei sottotitoli italiani e quindi vi dovete accontentare della versione con sottotitoli in inglese. Se però ve la cavicchiate abbastanza con l’English, seguirlo non è nemmeno troppo complesso e la visione, fidatevi di una persona conosciuta in rete, è assolutamente stra-consigliata. Fondamentale direi.

E se Cannibal Kid in realtà non fosse una persona, bensì un pesce gatto?
Catfish è un film che riguarda tutti noi. Dico noi perché se in questo momento vi trovate su questo sito bene o male un po’ di vita (anti?)social 2.0 la fate, che abbiate un profilo Facebook, cinguettiate su Twitter, facciate porno chat su Skype o frequentiate siti di appuntamenti o che diavolo ne so io ma chemmefrega ma chemmemporta saranno pure affari vostri. In ogni caso, se vi interessate di social network, non lasciatevelo sfuggire.
Se invece di Internet e menate varie ve ne sbattete, cercatelo lo stesso. Perché la storia che racconta lascerà con qualche domanda in testa anche a voi e, soprattutto, vi sorprenderà non poco.
Catfish. Guardatevelo. Ve lo consiglia uno che si fa chiamare Cannibal Kid e che forse non conoscerete mai. Forse non è nemmeno una persona reale ma solo un generatore automatico di frasi idiote creato da un qualche Bill Gates cervellone nerd di turno. Ma anche se così fosse, o anzi ancor di più se così fosse: guardate questo film. È un documentario illuminante sulla vita al giorno d’oggi.
Forse anche una riflessione sui massimi sistemi. E non parlo di sistemi operativi.
Catfish. E la vostra vita non sarà più la stessa. Non quella in rete, almeno.
(voto 7,5/10)

mercoledì 30 novembre 2011

Al peggio non c’è mai Bieber

E alla fine l’ho visto. Il giorno è arrivato. Il 2011 volge al termine e non avevo ancora guardato abbastanza film terribili per quest’anno e ho dovuto porre rimedio. E così l’ho visto e non pensavo sarebbe stato tanto atroce. Ma, come dice lo stesso Justin Bieber: Never say never. Mai dire mai.

Justin Bieber: Never Say Never
(USA 2011)
Regia: Jon M. Chu
Cast: Justin Bieber, Usher Raymond, Sean Kingston, Jaden Smith, Miley Cyrus, Scooter Braun
Genere: documinkia
Se ti piace guarda anche: i video di giastinbiber su iutiub!

Premetto una cosa. Questo non è un film.
Lo immaginavate già senza vederlo, eh?
Più che un film vero e proprio, è un documentario autocelebrativo e parecchio amatoriale, nonostante il budget di “appena” 13 milioni di dollari. Che a questo punto ci si chiede chi se li sia intascati e per fare cosa. Un po’ come per The Blair Witch Project: sarà costato appena 60.000 dollari, che per una produzione cinematografica sono un’inezia, però vedendo il risultato finale ci si domanda comunque come abbiano fatto a spenderli.

Il film, pardon documentario per bimbiminkia che per abbreviare chiamerò semplicemente “documinkia”, parte con un agghiacciante rap (o rap le ciap, sarebbe meglio dire citando Scary Movie 3). Perché sentire Justin Bieber rappare è una cosa che ti fa venire voglia di chiamare una gang dal ghetto per fargli un culo come una capanna e che poi chiami il Telefono Azzurro, se si rialza. Perché se già Bieber che canta non se pò sentì, Gangsta Bieber è un insulto alla musica hip-hop!

Nel corso di questa scena le finestre di casa mia sono andate in frantumi.
Chissà perché...
Comunque, dicevamo che ‘sto filmino delle vacanze è praticamente un documentario che ripercorre i primi anni della breve vita di Justin Bieber. Breve vita non perché sia morto, purtroppo dirà qualcuno (ma non io, sono mica così cattivo, io come detto sopra gli manderei giusto qualcuno per dargli una bella lezione…), ma perché ha solo 17 anni. E già gli hanno dedicato un documentario. Pensate cosa gli dedicheranno tra qualche anno. Dite che tra qualche anno manco uno se lo cagherà più di striscio? Probabilmente avete ragione. Preghiamo.

Nei vari spezzoni montati insieme alla ben’e meglio dal registone di Step Up 2 e Step Up 3D John M. Chu, tanto il pubblico di età media sui 4 o 5 anni un documentario non l’avrà mai visto, fanno vedere le immagini di quando Justin era bambino e tutti lo elogiano come se poi sarebbe diventato un genio, il nuovo Gesù Cristo salvatore dell’umanità. E invece poi che ha fatto?
La sua più grande hit è una canzone di merda come questa, ecco cos’ha fatto


"Nun me poteva capità un fijo da Lazio piuttosto che un Justin Bieber?"
Più che un film o un docu-film o un minkiafilm che dir si voglia, sembra più che altro una puntata di 16 anni e incinta, con la giovane madre di Justin che racconta di come sia stato difficile tirare su un figlio del genere ecc… No, in realtà niente di questo.
Tutti parlano sempre benissimo di lui e nel “film” (ma dobbiamo proprio continuare a chiamarlo film?) hanno solo parole strapositive e non c’è neanche un ombra. Non so, droga, alcool, Selena Gomez che si fa una striscia, sesso con animali… Niente di tutto questo.

Di scene da paura che manco negli horror ce ne sono parecchie, ma la cosa più spaventosa in assoluto sono le giovanissimissime fan, delle bambine di non più di 8 o 9 anni (e mi sono tenuto sull’alto) urlanti, costantemente urlanti, disperatamente urlanti, che se ne escono con frasi tipo “Penso a Justin Bieber il 99% del mio tempo”, “Diventerò suo marit-ehm, sua moglie” e cose del genere. Tanto che a fine film ciò che rimane in testa non sono (grazie a Iddio) le canzoni del baby divo, ma le urla delle fan che rimangono impresse in maniera raggelante quasi quanto gli spari del film Elephant.
Comunque è possibile che non abbiano trovato nessuno che dicesse: “No, a me Justin Bieberon fa proprio schifo”? Intervistano persino la maestra elementare che gli aveva insegnato fino a molto tempo fa, cioè circa un paio di mesi fa, e pure lei ne parla come se in classe avesse avuto il figlio segreto di Madre Teresa di Calcutta e Gandhi.

"So' Hanna Montana, nel film ce sto pure io che se no
i bimbiminkia si scordano di me. Non dimenticatemi!"
Comunque, ma come cazzo me so' vestita?"
Oltre ad essere realizzato in maniera parecchio amatoriale, roba che i programmi medi di Mtv di solito sono fatti molto ma molto meglio (persino Jersey Shore!), non ci si è nemmeno sforzati di tirare fuori non dico una sceneggiatura o una trama, ma pure una vaga, vaghissima linea narrativa. Ci sono spezzoni di concerti intermezzati a so(a)porifere scene di vita quotidiana ed è tutto random. Questo Never Say Never, se non lo aveste ancora capito, è un vero scult che su IMDb viene premiato con una impressionante media voto di 1.4. E ricordo che su IMDb il voto minimo è 1 e non 0, quindi è davvero difficile fare di peggio. Persino Chicken Park di Jerry Calà arriva a un miracoloso 2.0.

Nonostante tutte le lodi sperticate e le parole solo benevoli nei suoi confronti, il ritratto di Justin Bieber che viene fuori da questo pseudo-film è impietoso: un tipo ossessionato dal look e soprattutto dalla sua inconfondibile frangetta e per cui la musica è giusto un optional. I suoi capelli sono molto più importanti delle canzoni: non sono io a dirlo, ma è ciò che emerge dal documentario.
Non una migliore impressione suscitano le persone che lo circodano, un branco di sanguisughe che gli gravitano intorno cercando di sfruttarlo e spremerlo al più possibile per fare soldi e per far gridare più ragazzine possibile ai concerti. Se sua madre è una teen mom, suo padre è un tamarro scatenato poco più adulto del figlio, mentre i suoi amici sembrano usciti da una versione per tween lobotomizzati della serie tv Entourage. Ma soprattutto Justin figura come un pupazzo senza potere decisionale comandato a bacchetta dal suo curatore di immagine personale, un tipo esaltatissimo che o è cocainomane o è un malato di mente, e una signora a capo del suo staff. L’unica figura vagamente umana che emerge da questo spettacolo impietoso popolato da zombie con le $ al posto delle pupille degli occhi sembra essere il suo manager Scooter (ma che razza di nome ha, santiddio?), il solo che fa emergere qualche emozione mentre parla. Ma probabilmente è solo l’unico in grado di recitare decentemente di tutta la “pellicola” (le virgolette sono sempre d’obbligo).

Le canzoni che accompagnano la durata di questo strazio fanno veramente pena (c’era forse bisogno di dirlo?), sono non-musica con non-basi elementari e non-testi agghiaccianti infarciti di buoni sentimenti alla Settimo cielo. Al confronto i Jonas Brothers sono i nuovi Metallica, Jesse McCartney l’erede di Marilyn Manson e High School Musical una visione vietata ai minori.
Justin Bieber è il vuoto più totale, pure se paragonato ai fenomeni teen pop del passato: le Spice Girls ad esempio almeno promuovevano il girl power, i Take That avevano una manciata di canzoni valide e un fenomeno come Robbie Williams, negli *N SYNC per quanto tutti immagine emergeva già il talento di Justin Timberlake, i Tokio Hotel giocavano con l’ambiguità sessuale e i poteri da supersaian dei capelli del cantante…
Nel fenomeno Justin Bieber non c’è nemmeno niente di tutto questo, solo un bambinetto con la frangetta da bambinetta che sa cantare e ballare. Però non come una (giovane) persona di vero talento, ma solo come un fenomeno da baraccone di quelli che sembrano usciti da un talent-show alla Io canto o Ti lascio una canzone. Come una scimmietta ammaestrata.

Chiudo rispondendo a un paio di domande che probabilmente vi sarete fatti fin dall’inizio del post.
Com’è che Justin Bieber è diventato famoso?
Si è fatto strada nei concorsi locali e poi hanno cominciato a caricare i suoi video su YouTube, ma il vero artefice del suo lancio nell’Olimpo musicale è stato il cantante r’n’b Usher. Ecco, è lui che dovete ringraziare!
E l’altra domanda: com’è che tu, Cannibal, hai visto questo film?
A parte quanto detto all’inizio e a parte il mio solito perverso senso di masochismo che mi porta a guardare pellicole e programmi tv abominevoli oppure ad ascoltare musica agghiacciante, il motivo principale è che mi piace cercare di comprendere i fenomeni della cultura pop, siano essi di alto, medio, basso o bassissimo (come in questo caso) livello.

E cos’ho capito, allora?
Dopo questa a suo modo illuminante visione, l’aspetto più interessante non è tanto Bieber in sé, personaggio di una pochezza con pochi pari, ma le vere protagoniste del film e del suo successo: le fan. Un branco di bambine giovanissime che grazie alle nuove tecnologie hanno contribuito al successo virale del loro idolo su Internet, saltando il passaggio per gli altri canali tradizionali. Quella porcheria di Baby postata sopra, per dire, è il video più visto di tutti i tempi su YouTube con oltre 667 milioni di visualizzazione, al momento e schiacciando play avrete contribuito ad aumentarle ulteriormente.
Una rivoluzione nel marketing in grado di aprire un segmento nuovo: se i teenager hanno cominciato a diventare il target commerciale principale della civiltà occidentale (leggi americanizzata) dagli anni ’50 in poi, negli ultimi anni abbiamo visto l’emergere dei tween, e ora siamo addirittura arrivati ai pre-tween, bambini e in questo caso soprattutto bambine appena uscite non dal passaggino ma quasi ancora in fasce e in grado di diventare l’elemento più prelibato del mercato. Perché è di questo che si tratta. La musica qua è del tutto dimenticata. It’s all about the money, money, money.
Speriamo sia un addio...
La cosa più triste è l’immagine dei bambini che ne esce fuori. Una volta creature innocenti e pure e oggi vittime pure loro del sistema capitalista fin da un’età sempre più precoce. È questo ciò che ha fatto Justin Bieber, e soprattutto gli strateghi stragisti del marketing dietro di lui, ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero: ha portato via loro la verginità.
(voto: zero assoluto)

P.S. Ma quanto moralizzatore sto diventando?

sabato 10 settembre 2011

Nano Forever

Silvio Forever
(Italia 2011)
Regia: Roberto Faenza, Filippo Macelloni
Cast: Silvio Berlusconi, Gheddafi, Papa Wojtyla, Marco Travaglio, Antonio Cornacchione, Roberto Benigni, Dario Fo, Raimondo Vianello, Mike Bongiorno, Patrizia D'Addario, Rosa Bossi Berlusconi
Genere: documentario
Se ti piace guarda anche: Videocracy, Draquila, Citizen Berlusconi, Il caimano

Era tipo dai tempi in cui il televisore era in bianco e nero che non guardavo un film in tv, quindi complimenti a Mentana e a La7 per aver creato un vero evento mediatico, peraltro attraverso una pellicola che qualitativamente si è rivelata quel che si è rivelata. Tra i film più o meno legati al favoloso mondo Berlusconì (Il caimano, Videocracy, Draquila…), questo fa infatti la stessa figura del quasi omonimo Batman Forever all’interno della filmografia sull’eroe pipistrello della DC (DC Comics, non Democrazia Cristiana).

Problema numero 1 del film? La voce narrante che imita la parlata berlusconiana è qualcosa di persino più odioso e insopportabile dell’orginale. Roba che ci fa una gran forza di volontà per andare avanti nella visione già solo dopo i primi 5 minuti e mi ha fatto chiedere: “Ma perché cazzo sto guardando un film su Berlusconi, vederlo delirare al Tg già non mi basta?”. La risposta del mio io masochista è stata: “No che non mi basta. Ne voglio ancora e ancora e ancora…”

Silvio Forever non può essere definito Cinema. È un documentario di qualità nemmeno televisiva. Basta guardare un qualsiasi speciale di Mtv, o un servizio ad esempio di Annozero, per rendersi conto della cura molto maggiore nella selezione delle scene e delle musiche. Questo è semplicemente un collage di interviste e filmati già noti che non presenta niente di nuovo, molte scene sono infatti rintracciabili già da mo’ in rete, ma soprattutto non si capisce cosa voglia dire e dove voglia andare a parare. Non è contro Berlusconi (per essere un’autobiografia non autorizzata è infatti ben poco coraggiosa) e non è nemmeno pro Berlusconi (anche se qualcuno l’ha definito un film di propaganda), però più che dare l’impressione di imparzialità, che sarebbe una dote apprezzabile per un’indagine di carattere giornalistico, dà piuttosto l’impressione di mancanza di personalità e di visione.

E se come indagine appare deboluccia oltre che poco originale, nemmeno come film biografico regge un granché. Della vicenda Berlusconi infatti ciò che è degno di maggiore attenzione non è tanto il personaggio, un italiano medio che più medio del medio non si può con l’unica dote da teleimbonitore, tanto che ci sorprende di come Roberto Da Crema in Italia non sia diventato Presidente della Repubblica. La cosa più interessante, perché è stato veramente tra i fatti più incredibili nella storia d’Italia, è l’ascesa di Forza Italia: una campagna di marketing geniale che in soli 3 mesi ha lanciato e portato al potere un partito come se fosse un nuovo brand commerciale. In questo modo il Berlüska ha cancellato la politica delle idee e ha dimostrato come nell’epoca del consumismo anche un partito possa essere venduto tanto quanto qualunque altro prodotto, aggiungendo alla formula un pizzico (o molto più che un pizzico) di esaltazione da tifo sportivo, messa ben in evidenza fin dal nome. Qui però la genialità, la diabolica genialità, ce l’hanno più che altro avuta i suoi strateghi, mentre lui principalmente c’ha messo i soldi (tanti tanti tanti tanti) e la faccia (da culo).
Poi c’è qualche altra chicca, come l’intervista alla madre che dice sicura “Ma non vedrete mai mio figlio con delle donnine patane, no no no,” o come la comparsa di Veronica Lario cui viene amputata una mano nel film Tenebre di Dario Argento.
Per il resto è impressionante la ciclità della storia che si ripete, dai processi alle frasi che Berlusconi continua a proporre a mo’ di mantra, alla gente che continua a votarlo nonostante tutto. Però è una vicenda che già, ahinoi, conosciamo bene e a cui il montaggio amatoriale di questa produzioncina non aggiunge niente di rilevante. Un film insomma che si dimostra di una mediocrità e superficialità sconcertante. Proprio come il suo protagonista.
L'unica domanda che lascia è: ma questo Forever prima o poi finirà?
(voto 3/10)

domenica 3 luglio 2011

The Doors are strange

Sono passati 40 anni da quel 3 luglio 1971, giorno della scomparsa (qualunque significato questa parola possa avere) in quel di Parigi di Jim Morrison, leader dei The Doors, cantante e poeta. Io non sono tanto per le date, le celebrazioni e gli anniversari vari, visto che di solito nemmeno li ricordo, però quando ce vo’ ce vo’.

When you’re strange: A film about the Doors
(USA 2009)
Regia: Tom DiCillo
Cast: Jim Morrison, Ray Manzarek, Robby Krieger, John Densmore
Genere: documentario
Se ti piace guarda anche: The Doors, Quasi famosi

La versione originale di questo documentario sui Doors è narrata dalla voce di Johnny Depp, a noi ce tocca Morgan. Sono cose della vita, vanno prese un po' così e visto che, per fortuna o purtroppo, siamo in Italia ce tocca pure cità Eros Ramazzotti.
Morgan a parte, che comunque come narratore non infastidisce a fa pure la sua porca figura, il film di Tom DiCillo è un’ottima visione, anche per i non fan hardcore di Jim Morrison e soci. Certo, se vi fanno schifo i Doors questo documentario potete benissimo risparmiarvelo, però se vi fanno schifo i Doors io fossi in voi una visita dal medico la andrei a fare. Così, per sicurezza.
Immaginando che il materiale d’archivio non fosse poi così corposo, dopo tutto negli anni Sessanta non è che chiunque avesse un iPhone o una videocamera digitale con cui filmare qualunque cosa, il lavoro DiCillo si lascia seguire molto bene e riesce a coinvolgere in pieno. Non ci sono particolari colpi di genio registici, né colpi di scena sorprendenti (purtroppo sappiamo già come va a finire la storia), eppure il film riesce a raccontare quel periodo di fermento che è stata la fine dei 60s evitando di essere troppo didascalico.
E poi è sempre bello rivedere il movimento giovanile di quegli anni in azione. In particolare fa riflettere vedere come chi idolatra quegli anni e quello spirito, oggi in realtà si comporti in una maniera del tutto opposta: all’ora chi aveva più di 30 anni era visto come un potenziale nemico, adesso chi ha meno di 30 anni è visto come un potenziale nemico… Things change.


Protagonista assoluto del film è of course Jim Morrison, con la sua parabola tra alti e bassi molto tradizionale e comune a qualunque pellicola rock che si rispetti, però è una parabola sempre maledettamente affascinante, soprattutto quando c’è la possibilità di vedere questo personaggio in azione in prima persona e non interpretato da altri, con tutto il rispetto per il pur valido Val Kilmer dell’ottimo The Doors di Oliver Stone. Un pregio del lavoro realizzato dal regista di Johnny Suede è inoltre quello di aver saputo ritagliare un ruolo importante anche agli altri membri della band e a parlare non solo del Re Lucertola come personaggio, ma di focalizzarsi pure sugli aspetti strettamente sonori, dando largo spazio alle canzoni.
Perché la musica dei Doors e la poesia di Jim Morrison rimarranno per sempre come le porte della percezione: infinite. E oltre.
(voto 7,5)


Essendo domenica, per l’ormai consueto appuntamento Jukebox DeLorean e la canzone dal passato della domenica, ecco il mio pezzo preferito in assoluto dei Doors, in grado di superare la concorrenza persino della splendida People are strange e della The End resa ancora più memorabile da Apocalypse Now.

The Doors “You’re lost little girl”
Anno: 1967
Genere: psychedelic pop song
Provenienza: Los Angeles, California, USA
Album: Strange Days
Canzone sentita anche in: When you’re strange, The Doors
Nel mio jukebox perché: ha un sound malinconico che influenzerà molto la musica di Jeff Buckley e dei primi Radiohead

Testo liberamente tradotto
Sei persa, piccola ragazza
sei persa
dimmi chi sei tu?
Penso tu sappia cosa fare
Impossibile? Sì, ma è vero
Penso tu sappia cosa fare, ragazza
sono sicuro tu sappia cosa fare


OkNotizie

sabato 26 febbraio 2011

Silvio ForNever

Il vostro prossimo film dell'orrore preferito

(grazie a Maruzza per la segnalazione)

domenica 23 gennaio 2011

I’m still here: la vera finta storia di Joaquin Phoenix

I’m still here
(USA 2010)
Regia: Casey Affleck
Cast: Joaquin Phoenix, Antony Langdon, Sean “P. Diddy” Combs, Casey Affleck, Ben Stiller, David Letterman
Genere: (finto) documentario
Se ti piace guarda anche: Exit through the gift shop, Borat

All’apice della sua carriera, dopo la nomination agli Oscar per l’interpretazione di Johnny Cash in Walk The Line – Quando l’amore brucia l’anima, l’attore Joaquin Phoenix fa un annuncio shock: “Mi ritiro dal mondo del cinema, non reciterò più”. La notizia fa il giro del mondo, c’è chi avanza l’ipotesi che si tratti di una burla, chi pensa si sia fumato il cervello. La prima tesi si rivelerà la più esatta, sebbene pure la seconda potrebbe avere inciso in qualche modo nell'intraprendere questo folle progetto.
Joaquin Phoenix si è infatti buttato in un atto di recitazione estremo, cancellando in pratica la sua vita e la sua carriera per diventare una sorta di versione parallela di se stesso, per trasformarsi in un Joaquin Phoenix stronzo, sbruffone, la classica star di Hollywood che ha perso la testa e vuole gettarsi in una cosa nuova e del tutto inattesa: diventare una stella dell’hip-hop.


A riprendere questa metamorfosi c’è il cognato Casey Affleck (sposato con Summer Phoenix), conosciuto sul set di Da morire di Gus Van Sant (quello con una Nicole Kidman over the top). Affleck jr. segue passo passo l'amico mentre distrugge tutto ciò che ha creato come attore, presentandosi strafatto, scontroso e in pessima forma alle interviste per quello che è annunciato come il suo ultimo film, Two Lovers, e andando al David Letterman Show con una barbona da homeless e senza quasi spiccicar parola, tanto che Letterman lo saluta dicendo: “Grazie per non essere stato con noi stasera”.


Ma come se la cava JP nella inedita veste da rapper? Naturalmente è ridicolo, prova a farsi produrre da Diddy (o Puff Daddy, se preferite) senza riuscirci, ha un look totalmente anti hip-hop, fa qualche esibizione freestyle come Eminem in 8 Mile solo che i risultati non sono esattamente gli stessi. In pratica un suicidio mediatico, il suo. Ma tutto fa parte dei piani del documentario, come è stato svelato di recente e come d’altra parte era ampiamente prevedibile.

(Canzone cult: “I’m Still Here”, Joaquin Phoenix)

L’idea di Casey Affleck e Joaquin Phoenix era piuttosto buona, ma in un presente in cui fiction e reality sono sempre più mischiati non era certo nemmeno così sorprendente e infatti che fosse tutta una farsa già era facile da immaginare. Il film (finto) documentario ha qualche momento divertente, i rap strappano diverse risate e Joaquin Phoenix-barbone è strepitoso; l’impressione è però che i due si siano cimentati nell’impresa con un buon spunto iniziale, ma senza poi capire dove andare a parare. Non ci sono infatti particolari riflessioni sul ruolo della popolarità, sul rapporto con i media o sui meccanismi della celebrità come invece avviene in un altro finto documentario ben più riuscito come Exit Through the Gift Shop del genio della street-art Banksy, e si finisce allora più dalle parti di un Borat: demenziale, ma poco altro. E se Casey viene considerato quello bravo a recitare nella famiglia Affleck, quello buono a dirigere sembra invece Ben.
Pur facendosi guardare con un certo interesse, I’m still here puzza quindi di occasione mancata allo stesso modo in cui Joaquin Phoenix doveva puzzare nell’anno di riprese di questo documentario.
(voto 6)

Il disvelamento

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