Cast: Zac Efron, Emily Ratajkowski, Wes Bentley, Jon Bernthal, Shiloh Fernandez, Jonny Weston, Alicia Coppola, Jon Abrahams
Zac Efron è un ragazzo fico e nel film We Are Your Friends ha la parte del dj fico con degli amici fichi che fanno cose troooppo fiche, tipo organizzare party fichi in cui va solo gente fica e se non sei un attore/modello/aspirante filmmaker/blogger di tendenza/trendsetter di robe fiche quei fichi dei buttafuori non ti fanno entrare.
Cast: Félix de Givry, Pauline Etienne, Vincent Macaigne, Hugo Conzelmann, Zita Hanrot, Greta Gerwig, Brady Corbet
Genere: french touch
Se ti piace guarda anche: The Last Days of Disco, Party Monster, 54, La febbre del sabato sera
Bello ballo. Bello sballo. Bello ballo. Bello sballo. Bella balla. Bello sballo. Bella di Twilight balla. Il bello di Twilight si sballa. Bello ballo. Bello sballo. Be-be-be-be bello ballo. Bello sballo.
Nel film Eden si parla di musica da ballo. E di gente che si sballa. E di dj che mettono pezzi radical-chic. Unz unz chic. Unz unz unz chic. Unz unz chic. Unz unz unz chic.
È tutta una questione di ritmo. Tutto è ritmo. Tette e ritmo. Tutto è ritmo. Tette e ritmo. Nel film Eden si parla di tette e ritmo, tette e ritmo, tette e ritmo.
L’estate sta per iniziare e cosa c’è di meglio allora di una bella Guida galattica dedicata alla musica dance, ma la musica dance rigorosamente più tamarra o, come si diceva ‘na vorta, truzza?
Beh, a dirla tutta mi vengono in mente un sacco di cose migliori, però mi sa che per il momento dovete accontentarvi di quello che passa il convento. O meglio, di quello che passa Pensieri Cannibali. E allora, giù i finestrini delle auto e pompate nelle casse ‘sta musicaccia!
Cominciamo con una breve intro per i babbani, ovvero per coloro ai quali della musica dance non è mai fregato un cappero e probabilmente continuerà a non fregarne niente manco dopo la lettura di questa pseudo guida musicale. Il genere dance getta le sue radici nella Disco music anni ’70, che però è tutta un’altra cosa e in futuro probabilmente si meriterà un capitolo di queste guide tutto suo. In questa sede ci occupiamo invece della dance partita a fine anni ’80 e che ha poi vissuto la sua Golden Age negli anni ’90 e primi anni zero, tra house, techno, rave, hardcore, italodance, eurodance e altre vaccate di generi del genere. In pratica, il ramo più trash, più tabbozzo, più zarro, più ignorante della musica elettronica.
I pionieri del genere sono stati i crucchi Kraftwerk e il nostro genio nazionale Giorgio Moroder, con la sua produzione, tanto per dirne una, di “I Feel Love” di Donna Summer che resta ancora oggi avanti anni luce. È però solo con la seconda metà degli anni ’80 che nascono i generi house e techno e dopo il 1986 il mondo non sarà mai più lo stesso. Almeno il mondo dei tamarri.
Gli anni ’90 vedranno poi l’esplosione vera e propria del genere anche a livello commerciale. La club culture entra nelle nostre case di prepotenza e l’Italia, una volta tanto, non se ne sta a guardare. Ci sono infatti un sacco di artistoni nostrani come Gigi D’Agostino, Robert Miles, gli Eiffel 65 e successivamente Benny Benassi che conquisteranno le classifiche mondiali, laddove tanti cantanti melodici hanno sempre fallito, eccezion fatta per Domenico Modugno con la sua “Nel blu dipinto di blu” e pochi altri.
A metà anni ’90, la tamarraggine raggiunge il suo picco assoluto con artisti come Haddaway, Corona, La Bouche, Ice MC, Alexia, Scooter e un sacco di altri che a ripensarci oggi vien voglia di mettersi le mani sulle orecchie, considerata la qualità non proprio altissima delle loro proposte musicali, ma che allo stesso tempo fa anche scendere una mezza lacrimuccia di nostalgia. Senza dimenticare, sebbene forse sarebbe meglio farlo, le mitiche compilation del Dj Albertino del Deejay Time, o quelle ancor più truzze di Tony H e Lady Helena, per non parlare dell’intera programmazione di Disco Radio.
A inizio Anni Duemila il genere vive il suo sussulto finale e raccoglie i suoi ultimi successi. Poi le mode cambiano, il genere house-techno tamarro via via lascia prima le radio e poi pure i club e la musica elettronica prende altre strade. Il truzzo però è un animale duro a morire e negli ultimi tempi il genere ha ritrovato una sua vitalità, con popstar come Lady Gaga, Katy Perry e Rihanna che hanno tirato fuori influenze eurodance all'interno delle loro canzoni e con deejay e produttori come Calvin Harris, David Guetta e Avicii che, rivitalizzando il Gigi Dag sound, stanno spopolando in tutto il mondo, persino negli Stati Uniti spesso allergici alla musica elettronica. Se pensavate che il genere fosse morto e sepolto negli anni Novanta quindi vi sbagliavate, perché il tamarro non muore mai. Soprattutto d’estate.
Lasciando per scelta voluta fuori da questa lista gruppi e artisti elettronici di qualità da me adorati come i vari Chemical Brothers, Prodigy, Daft Punk, Fatboy Slim, Underworld ecc., ecco qui la Top 10 dei pezzi di musica dance maranza preferiti da Pensieri Cannibali, e a fondo post trovate pure una ricchissima playlist Spotify con un sacco di tamarraggine aggiuntiva tutta per le vostre orecchie.
Top 10 – Le canzoni di dance tamarra preferite da Pensieri Cannibali
10. Snap “Rhythm is a Dancer”
9. Rednex “Cotton Eye Joe”
8. Vengaboys “We Like to Party! (The Vengabus)”
7. Double You “Please Don’t Go”
6. Alexia “The Summer Is Crazy”
5. Gigi D’Agostino “L’Amour Toujours”
4. Ace of Base “Beautiful Life”
3. Haddaway “What Is Love”
2. Corona “The Rhythm of the Night”
1. Robert Miles “Children”
Ed ecco la tamarrissima playlist dance di Pensieri Cannibali su Spotify
Il suo 2013: ha pubblicato il suo secondo notevolissimo disco "Overgrown", che oltre a essere stato apprezzato da Pensieri Cannibali si è pure portato a casa il Mercury Prize 2013, il premio al miglior album britannico dell'anno, e gli ha fatto pure guadagnare una nomination come miglior nuovo artista ai prossimi Grammy Awards 2014.
Se ti piace lui, ti potrebbero piacere anche: The xx, Bon Iver, Rhye, Jai Paul
È in classifica: perché dopo un esordio folgorante si è ripetuto con un secondo disco ancora migliore, tra le cose più belle sentite quest'anno.
Il suo discorso di ringraziamento: "Basta, sono stufo di ricevere premi!"
Dicono di lui su cinguettator James Blake il tennista@FedererSucks79
Ma m'ha rubato il nome, questo bimbominkia #JamesBlakeSonoIo
Il suo 2013: ha contribuito come guest vocalist al pezzone "Giorgio by Moroder" dei Daft Punk, che l'ha fatto ritornare alla ribalta mondiale alla tenera età di 73 anni. Ricercatissimo per collaborazioni, remix e festival musicali internazionali, lo storico compositore, dj e producer italiano ha anche realizzato un brano nuovo, "Racer".
Se ti piace lui, ti potrebbero piacere anche: Daft Punk, Blondie, Kavinsky, Donna Summer
È in classifica: perché è l’ispiratore e la special guest-star della canzone più devastante, originale, goduriosa, epica, emozionante e spaziale dell’anno: “Giorgio by Moroder”.
Il suo discorso di ringraziamento: "Denghiu, Cannibal."
Dicono di lui su
cinguettator
Giorgio Moroder@GiovanniGiorgioMoroder
My name is Giovanni Giorgio, but everybody calls me Giorgio. And everbody tells me my English is veri terribol.
Altroché Mariano Apicella. Pare che Berlusconi, chiuso nella sua villa di Arcore, in questi giorni ascolti solo “Immunity”.
Si tratta del nuovo album dell’artista elettronico Jon Hopkins, compositore della colonna sonora di Monsters, collaboratore di Brian Eno per la soundtrack di Amabili resti e dei Coldplay per gli arrangiamenti di vari loro pezzi, di recente autore anche di un brano con Natasha Khan alias Bat For Lashes per il nuovo film con Saoirse Ronan "How I Live Now".
“Immunity”, sembra che Berlusconi non voglia altro.
(voto 6,5/10)
Lo ascolta anche Alfano!
UPDATE
Ecco il nuovo videomessaggio di Berlusconi.
Prima questione: si dice Bloody Beetroots al singolare o si dice i Bloody Beetroots al plurale?
La questione è complessa, visto che dietro a questa sigla si cela il dj e producer italiano Sir Bob Cornelius Rifo, from Bassano del Grappa. Nelle foto dei live e dei dj set le facce, anzi i volti mascherati da Venom di solito sono però due, visto che c’è anche il compare Tommy Tea e insomma è un po’ come per i Nine Inch Nails. I Nine Inch Nails, su cui avremo modo di tornare a proposito del nuovo album, sono Trent Reznor, però sono anche un gruppo, se non altro dal vivo e quindi si dice al plurale. Ma per la sigla Bloody Beetroots come si fa? Si usa al singolare o al plurale?
Boh, la prima questione resta in sospeso.
Seconda questione: l’album d’esordio del/dei Bloody Beetroots “Romborama” del 2009 è uno dei dischi più importanti di musica elettronica degli ultimi anni?
Probabilmente sì. La sua attitudine punk mista a un sound electro misco all’house misto a una sana dose di follia rave era qualcosa di davvero sconvolgente e inebriante. Di certo è uno degli album “italiani” più interessanti e originali da molto tempo a questa parte.
Terza e più importante questione: com’è il secondo album, il nuovo “HIDE”?
Bah. La forza dirompente del debutto se n’è andata a puttane, per lasciare spazio a un suono tamarro non proprio convincente. La prima parte del disco in particolare è pessima e fa temere il peggio.
C’è una tamarrata di techno-rock con Tommy Lee che non se pò sentì. I brani più pop sono il tentativo di commercializzare il Bloody Beetroots sound, con risultati ben poco convincenti che oscillano tra una versione di serie B di Calvin Harris (“Chronicles of a Fallen Love”) e un suono house dozzinale da club fighetto di Milano (“Runaway”). A ciò aggiungiamo l’inascoltabile disco-opera “The Furious”, più ridicola che epica, e in “Out of Sight” l’ospitata prestigiosa di un Paul McCartney che si trova a suo agio a cantare sulla base del Sir Rifo come Papa Bergoglio ospite su un disco di Marilyn Manson. Che potrebbe anche essere un’idea…
Che altro, che altro?
Ci sono brani che vorrebbero essere l’imitazione, ma finiscono per suonare come la parodia dei Daft Punk (“Please Baby” con quell’altra mummia, pardon “ospite prestigioso” di Peter Frampton).
Tutto male, allora?
Ho già massacrato questo album brutalmente a sufficienza, quand’ecco che nella seconda parte a sorpresa si riprende, almeno un pochino, almeno a tratti. Quando evita di uscirsene con forzate collaborazioni poco azzeccate, il Rifo torna su sentieri sonori che più gli competono, con un'electro house maggiormente cattivella rispetto ai primi innocui brani, si senta la notevole cavalcata elettronica “Albion with Junior” o la bastarda “The Source”, e gli riesce pure il momento lentone con “Glow in the Dark” cantata da Sam Sparro.
Nel finale le cose precipitano di nuovo e spunta fuori persino una evitabile versione gabber e in English di “Volevo un gatto nero”, trasformata in una truzzata che persino il Gigi D’Agostino dei tempi migliori (o dovrei dire peggiori?) si sarebbe imbarazzato a dare alla luce. È allora che è chiaro, limpido, cristallino. Che si dica Bloody Beetroots al singolare o al plurale questo non l’ho ancora capito, ma che il suo/il loro nuovo album sia una delusione, su questo non ho alcun dubbio.
Dio Kanye è diventato papà. La madre del bebé non è la Madonna, è Kim Kardashian. Non proprio la stessa cosa. È da lei che il rapper sabato scorso ha avuto una piccola baby girl, ma non è l’unico figlio che ha visto nascere in questi giorni. Il suo altro bebè è il suo nuovo album, che ha chiamato “Yeezus” e che è stato partorito dallo stesso Kanye West. Questo sì che è un miracolo!
Come mai un titolo poco impegnativo del genere? A spiegarlo è stato lo stesso Kanye in un’intervista: “Simply put, West was my slave name. Yeezus is my god name.”
Dopo aver realizzato il disco più importante del nuovo decennio insieme al nuovissimo “Random Access Memories” dei Daft Punk, ovvero il capolavoro “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”, un album in grado di portare la musica hip-hop a un nuovo livello, questa volta West è andato ancora oltre. Il suo nuovo lavoro “Yeezus” è un puro delirio, è sperimentale come nessun disco rock ha più osato essere da parecchi, parecchi, ma parecchi anni a questa parte, e ne è uscita una roba che non è nemmeno definibile come hip-hop. Ci sono molte parti rappate, è vero, ma non è per nulla il classico disco hip-hop. È un oggetto misterioso che sembra provenire da un futuro lontano e che al suo interno contiene di tutto e di più: le produzioni dei Daft Punk così come la supervisione di Rick Rubin (storico produttore non solo rock, ma anche del rap 80s di Beastie Boys, Public Enemy, LL Cool J e Run-DMC), sintetizzatori alla Suicide e R&B, una folle attitudine punk, o meglio post-punk, e allucinate atmosfere rap-horror alla Death Grips o alla Tyler, the Creator. E persino industrial alla Nine Inch Nails.
Di tutto e di più, al punto da sembrare persino troppo per un disco solo. Nonostante questo, non disperate. Non perdete la Fede in Dio Kanye. Ascolto dopo ascolto, Yeezus walks with us e ci rivela in pieno i suoi piani divini.
E ora, vai di autopsia del disco track-by-track
L’apertura con “On Sight” è all’insegna dell’elettronica più spinta, con un beat fornito dai divini Daft Punk. Rispetto al loro ultimo “Random Access Memories”, questo sound devastante sembra rispolverato dall’era del loro precedente lavoro “Human After All”. In ogni caso, una roba potentissima. Il delirio può avere inizio.
“Black Skinhead” campiona il ritmo di “Beautiful People” di Marilyn Manson, trasfigurandolo in un tribal-rap selvaggio e malato. C’è ancora lo zampino dei Daft Punk, c’è persino qualche eco di “Disturbia” di Rihanna però riletta in una chiave molto più disturbata, in quello che è il brano di maggiore impatto di un album che, come vedremo, si rivelerà arduo da decifrare. Se non altro al primo ascolto, perché già a partire dal secondo comincia a diventare famigliare. Non dico easy, dico famigliare.
"Black Skinhead" è un pezzo enorme, appena uscito e già diventato colonna sonora (perfetta) di un trailer. Mica di un film a caso, bensì di The Wolf of Wall Street, il nuovo di Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio. Per una pellicola yuppie del genere, chi meglio del rapper yuppie Kanye?
“I Am a God”: fin dal titolo, Kanye West dimostra tutta la sua enorme modestia. D’altra parte, il rapper è già pronto per partire con il suo “Resto umile World Show” personale. Musicalmente siamo dalle parti della follia più completa, tra sintetizzatori, urla terrificanti, un ritmo che cresce sempre più e un’atmosfera che farebbe cacare sotto persino Dario Argento. Che sia la soundtrack della sua vita da incubo con Kim Kardashian? Ma poi di che cosa parlerà un genio come Kanye West con una decerebrata (con tutto il rispetto per i decerebrati) come la Bagashian? Probabilmente non parlano. Trombano come conigli e basta.
Alla fine dell’incubo, firmato ancora Daft Punk, la salvezza finale per l’American Psycho Kanye Bateman arriva sotto forma della voce salvifica di Bon Iver.
Non c’è un cazzo da fare: he is a god. O, meglio ancora, he is God.
“New Slaves” è l’inno minimal dell’album. Padre Kanye West fa il suo sermone anti-razzismo sopra una distesa di bassi, con l’aiuto di Frank Ocean. “Fuck you and your Hampton house, I'll fuck your Hampton spouse. Came on her Hampton blouse and in her Hampton mouth”. Kanye Unchained contro tutto e contro tutti. Fuck yeah.
“Hold My Liquor” è aperta dalla voce di Justin Vernon al secolo Bon Iver, ormai immancabile e onnipresente al fianco del rapper. Che Kanye tradisca la Kardashian con lui? Non solo Bon Iver, comunque, perché arriva anche il featuring del lanciatissimo rapper Chief Keef, in un pezzo rap alcolico non troppo distante dai sentieri del precedente “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”, solo ancora più dark.
“I’m In It” si sviluppa come un nuovo incubo, tra urla, trombette da stadio, lampi melodici, accenni dancehall reggae forniti dal featuring di Travis Scott. In fondo in fondo, si tratta di una romanticissima dichiarazione d’amore nei confronti della compagna Kim Kardashian, o qualcosa che nel mondo di Kanye più si avvicina a una tenera serenata: “Your pussy's too good, I need to crash. Your titties, let 'em out, free at last.”
“Blood on the Leaves” va di campione di “Strange Fruit” di Nina Simone che canta il classico di Billie Holiday ed è uno dei pezzi più accessibili, relativamente accessibili, della raccolta. Per quanto possa esserlo un jazz autotunizzato da Kanye e con una base di Hudson Mohawke dei TNGHT. Un frullato di suoni post-moderno che sarebbe suonato perfetto nella colonna sonora de Il grande Gatsby di Baz Luhrmann. Fanno sempre in tempo a girarne un sequel ambientato ai giorni nostri e intitolato Il grande Kanye, con Kim Kardashian che potrebbe rendere il personaggio di Daisy Buchanan ancora più insopportabile di quanto possa averlo concepito Fitzgerald.
“Guilt Trip” è un altro viaggio totale dentro la mente malata di Kanye, con la partecipazione straordinaria di Kid Cudi. Nonostante il titolo no, non ha niente a che fare, almeno non credo, con il film “Parto con mamma - The Guilt Trip” con Seth Rogen e Barbra Streisand. Apparentemente un brano minore del disco, in realtà conduce delicatamente (più o meno delicatamente) dritti per dritti verso il grande finale.
“Send It Up”, ancora una volta prodotta dai due genietti francesi Daft Punk, ti entra dritta in testa. II rap del futuro passa per di qua, per sta roba che non è manco più hip-hop. E che cos’è?
Kanye West con questo album si propone come il Messia di una musica nuova. Il rap così come lo conoscevamo è solo un lontano ricordo, le concessioni pop sono state del tutto accantonate, l’elettronica qui proposta non ha niente a che vedere con la dance tradizionale, e insomma questo disco sta alla musica commerciale come American Psycho sta a una commedia romantica.
“Yeezus” è un disco punk, è un disco electro, è un disco dark, è un disco minimal ed è un disco hardcore. È un lavoro notevole, estremo, a tratti, molti tratti geniale, che sposta i confini dell’hip-hop, ma in generale della musica di oggi, più in là. Oltre. Solo il tempo potrà dirci quale sarà la sua importanza, per ora comunque non si può certo accusare Dio Kanye di non aver avuto coraggio o di essersi adagiato sulla sua popolarità. Dentro “Yeezus” non troverete manco un accenno di un singolo commerciale o di un brano radiofonico, un po’ come nel recente e altrettanto folle “Shaking the Habitual” dei The Knife. L’unica mezza concessione melodica arriva solo con la conclusiva “Bound 2”, scritta con John Legend, che al suo interno contiene la voce di Charlie Wilson della The Gap Band e un paio di campioni irresistibili da “Bound” della poco conosciuta band anni ‘70 Ponderosa Twins Plus e dalla splendida “Sweet Nothin’s” di Brenda Lee. Gran finale, per un disco che non è un disco è una bomba.
“Yeezus” potrebbe essere il “Kid A” della musica hip-hop?
“Yeezus” potrebbe essere il “Kid A” della musica hip-hop.
Apparentemente niente, eppure grazie ai DPG trovano adesso un punto di comunione. “And Punk Was With God” è infatti il titolo del nuovo EP dei DPG, gruppo techno punk con sede a Castelfiorentino, in provincia ebbene sì dal nome del paese non l’avreste mai detto, di Firenze.
Una volta fatta questa premessa, dimenticatela. Dimenticate tutto. I DPG non sono un gruppo di Christian Rock né tantomeno di Christian Punk e con le altre band italiane in circolazione hanno ben poco a che vedere. Lo dico come nota positiva. Molto positiva.
Se uno pensa a un gruppo fiorentino, il primo nome che viene in mente è quello dei Litfiba. Ma i DPG non hanno niente a che fare con i Litfiba. Grazie a Dio. Quel Dio che qui se ne va a braccetto con il punk. E con il post-punk. I DPG hanno un bel suono post-punk, che mi ricorda i Public Image Ltd., il fenomenale gruppo che Johnny Rotten ha messo su dopo i Sex Pistols. Altre band che mi sono balenate alla mente durante l’ascolto dei 5 ipnotici brani di questo convincente EP sono Liars, Alec Empire, The Rapture e Soulwax. Questo giusto per citare qualche spirito che mi è sembrato affine, ma ciò non toglie che i DPG dimostrano di possedere un sound tutto personale, che mischia ritmi elettronici vicini alla techno con un’attitudine bastarda e punk. Musica che fa muovere la testa su e giù, su e giù, che vedrei bene suonata in un club underground di Berlino. Musica poco italiana che però sarebbe bello sentire più suonata anche dalle nostra parti. In attesa che ciò avvenga, probabilmente nell’anno del duemilaecredici, mi sparo questi DPG a un volume così alto come se non ci fosse un domani. E, soprattutto, come se non ci fossero dei vicini di casa.
(voto 7/10)
Potete ascoltare e scaricare il nuovissimo EP dei DPG su Bandcamp, insieme anche al loro primo lavoro “In the Beginning There Was Punk…”, con la modalità name your price, ovvero potete offrire quanto volete.
Di seguito vi propongo il mio pezzo preferito dall’EP, dal titolo che se riesci a sillabarlo correttamente vinci subito una gara di spelling: “Mamihlapinatapai”
I Primal Scream sono un gruppo che ho sempre amato particolarmente e che allo stesso tempo ho sempre trovato molto sfuggente. Nel senso che la loro musica per me ha un permanente alone di mistero e di impenetrabilità addosso, cosa che contribuisce solo ad aumentarne il fascino. Ogni volta che penso di averli capiti, di essere riuscito ad afferrarli, ecco che loro mi sfuggono via dalle mani e mi escono con qualcosa di diverso e imprevisto. Che poi nella loro musica a guardare bene c’è un impronta rock’n’roll molto classica. Se c’è un gruppo di degni eredi dei Rolling Stones in circolazione, sono sicuramente loro. Allo stesso tempo, i Primal hanno però anche un’anima più elettronica, innovativa, che li porta altrove rispetto alle altre rock band tradizionali in giro. I loro dischi, almeno quelli più riusciti, sono un gran calderone di suoni e influenze diverse, che posso ascoltare e riascoltare più volte, ma scoprendoci dentro sempre nuovi aspetti. È come se non riuscissi mai a conoscere fino in fondo un loro album. E ciò è stupendo.
I primi due album “Sonic Flower Groove” del 1987 e l’omonimo “Primal Scream” del 1989 tra shoegaze e atmosfere dilatate guardano già al futuro, verso gli anni Novanta e oltre, con un sound indie non distante da molti gruppi cool di oggi. Niente male entrambi, ma sono solo un antipasto di ciò che la band di Bobby Gillespie avrà in serbo per noi da lì in poi.
“Screamadelica” è il loro primo capolavoro. Un album fondamentale dal sound molto baggy, psichedelico, ipnotico e pure house, che getta le basi per una parte di Britpop così come soprattutto di una buona fetta di musica elettronica degli anni ’90, risultando fondamentale per band come, per dirne un paio, Chemical Brothers e Daft Punk, mica dei cretini. E poi “Higher than the Sun” ancora oggi che pezzo della Madonna è?
Dopo la parentesi più puramente rock’n’roll e stonesiana di “Give Out But Don’t Give Up”, valido ma che non mi ha mai esaltato più di tanto, con il successivo “Vanishing Point” realizzano un altro autentico capolavoro di inafferabilità. A 15 anni di distanza, è ancora un’auto lanciata a folle velocità che non riesco a fermare. Pazzesco come ad ogni ascolto mi sembri un disco nuovo, fresco d’uscita. Un album cinematografico come pochi, che al suo interno contiene anche “Trainspotting”, un brano composto indovinate per quale film, e realizzato come se fosse una seconda colonna sonora non ufficiale del cult movie 70s Punto zero - Vanishing Point.
Il successivo “XTRMNTR” è un altro album enorme, con un sound da devasto che ancora oggi pare provenire dal futuro. Niente male, per una band rock’n’roll dalle semplici influenze stonesiane.
Dopodiché, i Primal calano, ma lo fanno progressivamente. “Evil Heat” non è al livello dei lavori precedenti, ma è ancora una bella botta, con dentro una bomba come “Miss Lucifer” che si mangia tutti i gruppi techno-rock da Playstation del mondo a colazione, il mattino dopo un rave sfrenato.
A questo punto, i Primal tirano fuori il loro album più deboluccio, “Riot City Blues”, rock country tradizionale, naturalmente stonesiano ma non troppo ispirato. Va un po’ meglio nel 2008 con “Beautiful Future”, che contiene l’esaltante “Can’t Go Back” e una notevole varietà sonora, tra pop, rock ed elettronica. Il tutto però suona troppo pulito e precisino rispetto ai loro standard.
Primal Scream "More Light"
Dopo due dischi sottotono e dopo questa lunghissima premessa, eccoci arrivare infine e finalmente al loro ultimo album, “More Light”. Ve lo dico subito (subito? ma se il post è già iniziato da mezz’ora!): si tratta di un lavoro degno dei loro migliori. Lo si capisce fin dall’apertura ipnotica e accattivante, che ricorda ai più sbadati l’anno in cui ci troviamo.
L’ispirazione, quella vera, è tornata. L’effetto che provoca l’ascolto è quello dei loro album più riusciti. Ti porta in un’altra dimensione, ti colpisce nel suo insieme con il suo potere enigmatico. Un mare di suoni che ti trascinano in un fiume di dolore (la stupenda “River of Pain”), ti fanno muovere la testa come pochi altri rocker oggi (“Culturecide”, “Hit Void”, “I Want You”), ti accompagnano figosi a visitare una città invisibile (“Invisible City”), ti portano dentro un film di Quentin Tarantino (“Goodbye Johnny”), ti fanno fare un trip acido da acido (“Sideman”) ti regalano il blues più cool dell’anno (“Elimination Blues”), ti cullano con una ninna nanna (“Walking with the Beast), ti fanno sentire come se nel mondo tutto per una volta può andare bene (It’s Alright, It’s Ok”) e alla fine ti hanno stordito talmente tanto che non c’hai capito niente e vuoi riascoltare il disco da capo, anche se sai già che nemmeno questa volta riuscirai ad afferrarlo nella sua interezza, perché i Primal Scream sono così. Per me sono così. Il gruppo più inafferrabile della mia vita.
Nuovo dei Daft Punk ascoltato, continuamente pisello toccato!
Basterebbe questa frase per rendere tutta la goduria e l'eccitazione provocata dall’ascolto di “Random Access Memories” ma, se siete incontentabili e volete saperne qualcosina di più, via alla recensione track-by-track.
“Give Life Back to Music”
C’è già tutto nel titolo del primo pezzo. I Daft Punk ridanno vita alla musica. Ridanno eccitazione alla musica, grazie anche a tutto l'hype e all'attesa di quelle che per un disco non si sentivano da parecchio tempo. Lo fanno con un pezzo super disco anni Settanta, con tanto di chitarrina alla Chic che è ‘na chiccheria assoluta. Quando ho sentito partire la voce robotica, poi, mi sono venute le lacrime. Primo pezzo, e ho già gli occhi lucidi. Per una maledettissima voce robotica. Non sono normale. Ma non sono normali nemmeno loro. I Daft Punk sono riusciti a dare vita ai robot. “Human After All” annunciavano con il titolo del precedente album e adesso lo dimostrano per davvero, con il loro lavoro più umano.
“The Game of Love”
È un lentone. È un pezzo romantico che riprende il discorso che i Daft Punk avevano lasciato in sospeso con i brani più emotivi di “Discovery”. In fin dei conti, questo “Random Access Memories” è il suo vero successore. Del primo album capolavoro “Homework” e del terzo controverso “Human After All”, che pure io ho apprezzato parecchio, c’è giusto qualche eco robotica, così come dal lavoro sulla colonna sonora di Tron: Legacy è derivata una notevole abilità nel costruire atmosfere cinematiche. Tra i loro lavori precedenti, però, “RAM” ricorda soprattutto “Discovery” e di certo la cosa non spiace.
“Giorgio by Moroder”
Vai Moroder!
Mentre Giorgione nostro parla, i Daft Punk dispiegano sotto una basetta disco ultracool delle loro. Pazzesco come siano riusciti a trasformare un’intervista in un inno dance totale. Un inno dance di classe, quasi una risposta stilosa dei Daft Punk a quella tamarrata di “Barbra Streisand” dei Duck Sauce. Nella parte finale, arrivano degli archi epici che trasformano il brano in una suite da brividi, con un finale da altro mondo.
Chi si è dichiarato deluso dall’album, si vada a risentire per bene questo pezzo e poi vedà un po’…
Epocale.
“Within”
Piano da musica classica, da Notturni di Chopin suonato, dalla guest-star Chilly Gonzales. Il tutto condito da una voce da robot crooner. Frank Sinatra dall’Aldilà è stato riportato in vita sotto forma di robot e canta per noi questa ballata.
“Instant Crush”
L’attacco del pezzo mi ricorda “Last Christmas” dei Wham!, solo che qui a cantare non c’è George Michael, bensì Julian Casablancas degli Strokes, con una voce filtratissima e daftpunkizzatissima. “Instant Crush”, cotta immediata per questo album e per il contagioso e allo stesso tempo malinconico ritornello della canzone. Come una “Last Christmas” adatta per tutti i santi giorni dell’anno e non solo per il periodo delle feste natalizie.
“Lose Yourself To Dance”
Primo pezzo con Pharrell Williams alla voce, pulita, senza troppi effetti. Dal titolo potete già immaginarvi tante cose…
Più che una canzone, è un perdersi nella musica, nel ritmo, nel ballo. Un pezzo ipnotico che porta via. L’equivalente in musica dell’ecstasy, senza dover assumere ecstasy. Non necessariamente.
“Touch”
Toccatevi. Questo disco è un invito a toccarsi. È talmente godurioso, che bisogna toccarsi. Viene automatico. Guest-star del pezzo è Paul Williams, compositore premio Oscar per Il fantasma del palcoscenico che regala al brano un tocco teatrale e melodrammatico, prima che il tutto si trasformi in una splendida cavalcata disco in stile Blondie, e poi muti ancora, diventi una nuova ballad robotica con un che di religioso e spirituale. Religioso e spirituale alla maniera dei Daft Punk, come nella “Veridis Quo” presente su “Discovery”.
Pregate, o toccatevi. O toccatevi pregando. Fate ciò che volete. “Random Access Memories” è fantasia, creatività, potere all’immaginazione. Questa è musica per il popolo della vera libertà.
“Get Lucky”
“Like the legend of the Phoenix”, i Daft Punk hanno resuscitato la disco music dalle sue ceneri, dandole nuova forza, nuova dignità. E hanno resuscitato anche Nile Rodgers e la sua chitarrina Chic, e pure Pharrell Williams, producer geniale negli ultimi tempi un po’ appannatosi, ora tornato in gran forma e che ci regala qui la sua interpretazione vocale migliore. La versione radio la conoscevamo già, ma con la album version lunga 6 minuti si gode ancora di più. Lucky noi.
Quando un giorno saremo vecchi e grigi e ci chiederanno qual era il suono del 2013, noi risponderemo “Get Lucky”. Poco importa che sia lo stesso suono dei 70s da febbre del sabato sera. Questa è la hit dell’anno, di qualsiasi anno.
“Beyond”
Si tira il respiro, con un mid-tempo tripposo e cinematografico. A cantare, ancora una voce robotica. A incantare, ancora una voce robotica. Come sono riusciti a rendere umani i robot i Daft Punk in questo disco, nessuno mai.
“Motherboard”
Non una sinfonia. La madre di tutte le sinfonie. Ancora meglio: la scheda madre di tutte le sinfonie.
“Fragments of Time”
Pezzo pop dance bello paraculo, con cui la DeLorean dei Daft Punk questa volta si sposta più verso gli 80s che i 70s. A me ricorda un po’ “Somebody’s Baby” di Jackson Browne. Guest-star di turno è il producer Todd Edwards, che già aveva lavorato con i due alieni francesi (ma sono più alieni o più francesi?) su “Face to Face” presente in “Discovery”. Ve l’avevo detto io che “RAM” è l’erede ideale di “Discovery”.
“Doin’ It Right”
Come guest-star in questa canzone c’è Panda Bear, ovvero Noah Benjamin Lennox degli Animal Collective, e cosa succede quando un animale collabora con dei robot alieni?
La fine del mondo, ecco cosa succede, sotto forma di una cantilena che si ficca in testa e non ci lascerà, credo per molto tempo.
“Contact”
Suite da titoli di coda epica e futuristica. Il finale si trasforma in un delirio. Un delirio perfettamente orchestrato dai due maestri Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter.
I contatti con gli alieni, gli incontri ravvicinati del terzo tipo per adesso sono finiti qui. Chissà quanto ci faranno aspettare i Daft Punk in futuro per un loro nuovo album, ma adesso non ha importanza. “RAM” è uno di quei dischi che suoneranno e risuoneranno a lungo e che divideranno i fan e la critica tra adoratori e detrattori. Chi ha detto che questo non è l’album dell’anno, comunque, ha ragione. Questo non è l’album dell’anno, è l’album del millennio, anche se forse dopo un solo ascolto è un po' prematuro dirlo.
E chi pensa che i robot e i computer non abbiano sentimenti, adesso dovrà ricredersi, perché in questa RAM batte un cuore. Il nostro.
Buonasera, cari ascoltatori e ben sintonizzati sulle frequenze di Radio Cannibale.
Beccatevi anche il jingle:
“Raaadio Cannibaleee, la tua radio da Casaaaleee!”
Ed eccoci qui quest’oggi a parlare di un’interessante etichetta discografica italiana, più precisamente di Bari, la Minus Habens Records, specializzata in suoni elettronici e dischi dal forte sapore cinematografico. Ci occuperemo in particolare di tre delle sue ultime uscite e quindi non perdiamo ulteriormente tempo in introduzioni e mettiamo sul piatto questi dischi e lasciamoli (de)cantare.
Elastic Society “Be Strong”
Il primo disco che ci andiamo a sentire quest’oggi su Radio Cannibale è del musicista e producer Alberto Dati aka Elastic Society. Nel brano che dà il titolo all’album “Be Strong”, che vede la partecipazione di General Levy, possiamo ascoltare influenze alla Sud Sound System, ma non è soltanto che una tra le tante radici sonore rintracciabili qui dentro. Tra echi di Groove Armada, Basement Jaxx, Chemical Brothers, Mouse on Mars, Crookers e Major Lazer, tanto per dirne alcuni, a farla da padrone sono i bassi paurosi e qualche bella sonorità dubstep.
Il disco esplora in maniera elastica diverse soluzioni e correnti della musica elettronica e l’ascolto assomiglia al giro in un luna park. Non su una giostra sola, ma su tutte, o quasi. Annoiarsi? Impossibile.
Il brano più fico, almeno a modesto parere del vostro dj Cannibale? “Start It Right” con il featuring di Dirtyboogie e Fonky-T, una party track allucinata ed esaltante. Con la traccia finale, “Like I Never Did”, il nostro Elastic Society dimostra però di saperci fare anche con i ritmi più dilatati, grazie pure all’ottima ospite Miss Mykela, la cui voce ricorda quella di Katy B.
Elastic Society propone quindi una via personale ai suoni dubstep in voga oggi soprattutto nel Regno Unito, in un disco da ascoltare a volume rigorosamente e paurosamente ALTO.
(voto 7/10)
Andrea Senatore/Giovanni Sollima “De/Nucleo”
Ci siamo esaltati e abbiamo ballato (malissimo) sulle note di Elastic Society, ora prendiamo un attimo fiato con la seconda proposta musicale del giorno. Solo su “Raaadio Cannibaleee, la tua radio da Casaaaleee!”.
Il progetto De Nucleo vede protagonista il violoncello di Giovanni Sollima, che una manciata di giorni fa (credo l’1 maggio ma non ne sono sicuro) abbiamo visto al concerto del Primo Maggio, più il tappeto sonoro fatto di sintetizzatori, piano e ritmi imbastito da Andrea Senatore.
Cosa ne è venuto fuori? Ne è venuto fuori un intrigante mix di musica classica ed elettronica dal respiro cinematografico. Alcuni brani li vedrei bene come accompagnamento per un thriller, mentre alcuni passaggi, come l’inquietante attacco di “Oniro”, sarebbero l’ideale all’interno di un horror. Qualche momento sarebbe invece più adatto per un film in costume di quelli però dal gusto moderno, come Marie Antoinette di Sofia Coppola.
Tra atmosfere da colonna sonora e un’elettronica alla Massive Attack, il suono è molto rilassante. Per fortuna però non si scade nel chill-out dozzinale da Buddha Bar o da aperitivo milanese cool, anche se alla lunga bisogna ammettere che ci si annoia un po’. Giusto un pochino.
Il pezzo più folle e allo stesso tempo riuscito del lotto? Sicuramente “Ade”. Laddove in altri brani le orchestrazioni e il tappeto elettronico non sembrano mescolarsi al 100%, qui la fusione è davvero perfetta. Se qualche regista è alla ricerca della soundtrack per un suo nuovo lavoro, qui potrebbe trovare pane per i suoi denti. E musica per il suo film.
(voto 6/10)
Ivan Iusco “Water”
La musica procede non-stop, qui sulle frequenze di: “Raaadio Cannibaleee, la tua radio da Casaaaleee!”. Procediamo con “Water”. Per quanto scontato possa essere dirlo, il disco di Ivan Iusco va giù come un bicchiere d'acqua fresca. Colpiscono in particolare le atmosfere anche in questo caso molto cinematografiche. Non a caso, Ivan Iusco collabora spesso con il mondo del cinema e ha realizzato le colonna sonore di film come Mio cognato, L’amore ritorna e LaCapaGira, ma anche di Ho voglia di te, tratto da un libro di Federico Moccia. Ahi ahi ahi, Iusco, ma che mi combini?
Al di là della carriera come compositore di soundtracks, Ivan Iusco è il fondatore e il direttore artistico dell’etichetta discografica protagonista qui su Radio Cannibale quest’oggi, la Minus Habens Records.
Quanto al suo ultimo parto musicale “Water”, si apre come meglio non potrebbe. Le orchestrazioni dell’iniziale “The Swan” ci conducono in un posto incantato. Non di soli brani strumentali (comunque a mio avviso i migliori) vive questo disco. In tre brani è infatti presente la voce di Betty Lenard, una Alanis Morissette più melodica, trip-hop e meno pop-rock oriented. In altre tre canzoni, lo special-guest vocale è invece Nav-Vii, che conduce il disco verso un suono più hip-hop, ma comunque un hip-hop molto onirico e poco gangsta yo. La prima parte dell’album e la seconda risultano un po’ scollate tra loro, viste le notevoli differenze presenti nello stile dei due ospiti vocali, ma a tenerle insieme ci pensano i suoni sognanti, cinematici e trip-hopposi di Ivan Iusco.
E con le atmosfere raffinate disegnate da questo autore accompagnate dalla voce di Betty Lenard vi saluto. Per oggi è tutto.
“Raaadio Cannibaleee, la tua radio da Casaaaleee!”
Magari dite di no, ma in realtà li avete già sentiti, in qualche modo.
La loro hit “Pass This On” passava persino in radio qualche annetto fa ed è stata usata in alcuni film come lo splendido Les Amours Imaginaires (titolo inglese Heartbeats, vedi canzone successiva) e nel meno, molto meno splendido Elles.
(aperta parentesi questa è una delle canzoni più belle del nuovo millennio chiusa parentesi)
La loro “Heartbeats” rifatta in versione acustica da Jose Gonzalez è stata poi usata in un celebre poetico spot Sony.
La cantante dei Knife, Karin Dreijer Andersson, meglio nota come Fever Ray che è anche più facile da pronunciare, nel 2009 ha pubblicato un disco solista stellare e un suo pezzo, If I Had a Hearth è ora usato come sigla della notevolissima serie tv Vikings.
La Karin ha poi prestato la sua particolare voce anche alla karina ma diciamo pure splendida "What Else Is There?" dei Royksopp.
Niente?
Non li avevate mai sentiti comunque?
Adesso potete dire di conoscerli. E adesso è arrivato anche il loro nuovo allucinante album.
The Knife “Shaking the Habitual”
Genere: psyco
Provenienza: Stoccolma, Svezia
Se ti piace ascolta anche: Fever Ray, Bjork, Zola Jesus, Crystal Castles, Grimes, Portishead, Radiohead
Quando si dice mantenere fede agli impegni presi. I misteriosi The Knife hanno intitolato il loro nuovo disco “Shaking the Habitual” e non l’hanno fatto a caso. Non sono il solito gruppo che annuncia di fare qualcosa di diverso e poi ripropone una misera rimasticatura di quanto già fatto in passato. I The Knife scuotono davvero l’abituale. Il loro disco è folle, rivoluzionario, un uragano di suoni e rumori che si abbatte su e contro tutto ciò che conoscevamo, un’evoluzione di quanto sperimentato con il precedente “Tomorrow, In a Year”, le musiche realizzate per un’opera teatrale basata, guarda caso, su L’origine della specie di Charles Darwin.
Qui dentro non c’è niente di normale, dal tribal-pop da manicomio “A Tooth for an Eye” al trip pazzesco del singolo ammazzaradio nel senso che in radio non lo sentirete mai “Full of Fire”, mentre “A Cherry on Top” sembra uscita fuori da un club del silencio lynchiano, “Without You My Life Would Be Boring” è disco-pop per flauti, “Wrap Your Arms Around Me” è la fine del mondo nel senso che quando arriverà la fine del mondo io mi aspetto un suono del genere. E questi ultimi due sono ancora tra i pezzi più accessibili di tutto il disco, rendetevi conto.
"Noi Knife abbiamo un sound davvero affilato, ahahah!"
E poi ancora ci sono i rumori malati di “Crake”, i rumori horror di “Freaking Fluid Injection”, i 20 minuti di ambient music di “Old Dreams Waiting to Be Realized”, pronti per diventare la colonna sonora di un film di fantascienza non ancora girato. Qualcuno storcerà il naso, ma questo è ciò che io chiamo “Shaking the Habitual”. Dopo aver messo alla prova la nostra pazienza, i Knife ci premiano con il pezzo capolavoro dell’album: “Raging Lung”, quanto di più immediato possiate trovare qua dentro.
Ma non è finita: “Networking” è elettronica spinta oltre ogni limite, come immagino vorrebbe suonare Thom Yorke sia con i Radiohead che con gli Atoms for Peace ma è dai tempi di “Kid A” che non riesce a fare, non in maniera così estrema e libera. Discorso analogo per la successiva “Stay Out of Here”, pronta per essere suonata in qualche club sadomaso o, nell’anno 3000, anche nelle discoteche tradizionali. Suona tutto talmente strambo che il pezzo di chiusura, “Ready to Lose”, che strambo sarebbe su qualunque altro disco, con il suo stile molto Fever Ray, sembra quasi normale. Ho detto quasi. Qui infatti non ci troviamo di fronte a una raccolta di canzoni, bensì a un viaggio nell’ignoto, all’equivalente musicale di film come Enter the Void o Holy Motors.
Fin da ora è questo il candidato più autorevole al titolo di disco dell’anno. Magari non il più bello in assoluto, ma con buona probabilità il più importante e coraggioso. I The Knife non sono normali, queste non sono canzoni abituali, ascoltarle fa male e “Shaking the Habitual” è un capolavoro per malati di mente. Infatti lo adoro.
Se ti piace ascolta anche: Hurts, Soulsavers, gli ultimi Massive Attack
Certo che se vi chiamate Depeche Mode e siete veramente i Depeche Mode (ma a questo punto non ne sono tanto sicuro), dovete davvero impegnarvi per tirare fuori una fetecchia di disco come questa.
Il funesto presagio era giunto già con il primo estratto “Heaven”, forse il singolo più debole nell’intera pluritrentennale carriera della band britannica. Purtroppo, non era solo un presagio. Il pezzo in effetti delinea la rotta dell’intero lavoro, musicalmente arido, moscio, con suoni elettronici buttati lì in mezzo a caso, ombra sbiadita del glorioso passato che fu. E se a un primo ascolto il disco vi sembrerà deboluccio tranquilli, perché a un secondo e poi a un terzo le cose andranno ancora peggio. Non volendo fare troppo i catastrofisti, va riconosciuto che qualche canzone si salva: “Slow” e…
Aspettate…
No, niente. Basta così.
Qualche altra canzone come la spenta “The Child Inside” o “Soothe My Soul”, la brutta copia di “Personal Jesus”, era invece del tutto evitabile, mentre il resto della track list passa tra la mediocrità assoluta e il dimenticabile.
Se devo scegliere una sola parola per descrivere “Delta Machine” è: triste. Non un triste bello. Un sacco di dischi tristi sono splendidi. Questo è triste nel senso che rende tristi sentire quanto dozzinale sia diventato il sound di una band che negli 80s e pure nei 90s è stata fondamentale. Adesso invece se ne sono usciti con un disco che più che da Depeche Mode, è da Depeche Modà.
(voto 5/10)
Qualcosa di buono questo ultimo disco “Delta Machine” comunque ce l’ha: mi ha fatto rivalutare persino i loro ultimi già poco fenomenali lavori (l’ultimo davvero interessante è stato Ultra nel 1997). E mi ha fatto venire voglia di fare una mia top 10 personale delle loro canzoni che preferisco.
Il passato: membro della post-hardcore band From First to Last, da solista ha pubblicato gli EP My Name Is Skrillex, Scary Monsters and Nice Sprites, More Monsters and Sprites, Bangarang
Il suo 2012: l’EP Make It Bun Dem After Hours
Il futuro: il suo primo album vero e proprio?
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Perché è in classifica: perché ha sdoganato (o $puttanato?) la musica dubstep
Lo si ami o lo si odi, piaccia o meno, Skrillex è una delle figure più importanti della musica contemporanea. Il 2012 è stato l’anno dell’esplosione commerciale del dubstep, del suo sdoganamento presso il grande pubblico, anche se in Italia è una materia ancora alquanto sconosciuta alle orecchie dei più.
Negli ultimi tempi ormai si sono messi tutti a fare dubstep. Ma tutti tutti: dai Muse a Justin Bieber, da Taylor Swift ai Negramaro, dai Korn a Rihanna. Che poi la musica dubstep offre anche ben altri tipi di sonorità, capitanata sul lato più alternative da Burial, però la dubstep nel senso più facile e commerciale del termine è quella che corrisponde al sound di Skrillex. C’è poco da fare, è lui quello ha sdoganato il genere, seppure nella sua accezione più club-oriented e tamarra. Il tutto senza aver ancora mai realizzato un album vero e proprio, ma solo una serie di EP e di collaborazioni con artisti vari, dalla sua girlfriend Ellie Goulding a uno a caso dei figli di Bob Marley ad addirittura i Doors. O quel che ne è rimasto, dei Doors. Perché ormai tutti fanno dubstep, con buona pace dello spirito di Jim Morrison (che tanto non è morto e starà ballando la musica di Skrillex in qualche locale di Parigi).
E il video perfetto per un Natale in stile dubstep…
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