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sabato 1 giugno 2019

Serial Killer: le serie top e flop di maggio (in leggero ritardo)





Ma di cosa stiamo parlando?
Di serie tv. Serial Killer è la rubrica sui telefilm pubblicata su Pensieri Cannibali con cadenza mensile. In maniera più o meno puntuale, questo mese in maniera un po' meno puntuale del solito. Si parla infatti di quanto visto nel mese di maggio e adesso è l'1 giugno, quindi sorry for the ritardo.

lunedì 16 ottobre 2017

Wind River, il film che metterebbe i brividi pure a Elsa di Frozen





Wind River
Regia: Taylor Sheridan
Cast: Jeremy Renner, Elizabeth Olsen, Jon Bernthal, Kelsey Asbille Chow, Gil Birmingham, Julia Jones, Eric Lange, Matthew Del Negro, James Jordan


Ci sono dei film che sono semplicemente belli. Wind River rientra nella categoria. Adesso non so spiegare bene il perché, o forse ci potrei provare. Potrei dire che racconta di un caso thriller molto appassionante, con un cacciatore che vive letteralmente in culo ai lupi e una giovane recluta dell'FBI che sembra appena uscita da una puntata di Quantico che si ritrovano a investigare sull'omicidio di una ragazza di origine indiana (nel senso di nativa americana), trovata morta in mezzo a chilometri e chilometri di niente, se non neve. Il mistero non è tanto chi l'ha uccisa, ma come cacchio ha fatto arrivare a piedi fino a lì, senza manco aver preso un Uber delle nevi.
Potrei dire questo, ma così sembrerebbe soltanto una versione invernale e ambientata in una riserva indiana di Twin Peaks, e sarebbe un'impressione sbagliata. In questo caso siamo più dalle parti di Un gelido inverno (Winter's Bone), uno dei primi film ad aver lanciato la carriera di Jennifer Lawrence e per questo, ma non solo per questo, sempre sia lodato. Proprio come quella pellicola, fa sentire lo stesso freddo che ti entra dentro e si infiltra nelle ossa.

venerdì 26 settembre 2014

OH MY GOD!ZILLA





Godzilla
(USA, Giappone 2014)
Regia: Gareth Edwards
Sceneggiatura: Max Borenstein
Cast: Bryan Cranston, Juliette Binoche, Aaron Taylor-Johnson, Elizabeth Olsen, Ken Watanabe, David Strathairn, Sally Hawkins, Godzilla
Genere: mostruoso
Se ti piace guarda anche: Transformers, Pacific Rim, gli altri film su Godzilla

Un cantante non è un grande cantante senza grandi canzoni. Pensate ad Adele. Immaginate se dovesse interpretare dei brani scritti da Kekko dei Modà. Altroché Grammy. Vincerebbe una testata.
Lo stesso vale al cinema. Un attore non è un grande attore senza un grande personaggio da interpretare. Vedi Bryan Cranston nei panni di Walt White nella pluripremiata e pluritelegattata serie Breaking Bad e pensi che quell’uomo potrebbe fare di tutto. Quell’uomo si merita tutti gli Emmy ed Oscar del mondo. Quell’uomo è un attore fenomenale.
Poi vedi Bryan Cranston in Godzilla e pensi…
Va beh, ma quand’è che inizia Better Call Saul, lo spin-off di Breaking Bad?

Non che sia degna di un Razzie Award, però l’interpretazione di Bryan Cranston in Godzilla è decisamente anonima. Sembra un attore come tanti. E l’interprete di Walt White – Walt White, cazzo! – non può apparire solo come uno tra tanti.
Con quel parrucchino in testa a metà strada tra Nicolas Cage e Antonio Conte poi non si può vedere!


Sono partito da Cranston, ma il discorso può benissimo essere esteso all’intera pellicola. Pellicola?
Diciamo una rottura di balle durata due ore che parte con ritmi lenti e i soliti drammi famigliari che vorrebbero essere toccanti ma sanno solo di già visto e fino a qua sarebbe ancora una noia tollerabile. Nella seconda parte il film si trasforma invece nel classico action catastrofico, con scene tra Jurassic Park dei poveri (si fa per dire, visto che il budget della pellicola è di $160 milioni) e un film a caso di Michael Bay, giusto un po’ meno concitato e tamarro.
In mezzo a personaggi umani stereotipati e a creature mostruose (che poi il Godzilla del titolo compare meno degli altri due kaiju del kazzo), non sono riuscito a trovare un solo anche vago motivo per provare interesse nei confronti del film. Colpa mia?
Può darsi. O magari è colpa di un’industria che appiattisce tutto e produce una serie di prodotti per il grande pubblico uno uguale all’altro.

Sono partito da Godzilla, ma il discorso può benissimo essere esteso all’intera Hollywood. I grandi studios stanno attenti a ciò che accade intorno a loro. Seguono le pellicole indie, le serie tv più cool in circolazione, quello che capita nei Festival. Seguono tutto e cannibalizzano tutto. Prendono l’attore più fenomenale del piccolo schermo degli ultimi anni, Bryan Cranston, e lo mettono insieme a un paio tra i giovani più promettenti visti sul grande schermo di recente, il Kick-Ass Aaron Taylor-Johnson e la Elizabeth Olsen fenomenale di La fuga di Martha e Silent House. In più, a dirigere il tutto ci mettono Gareth Edwards, uno che con il suo film d’esordio Monsters aveva raccolto un sacco di elogi, assolutamente meritati.

"OOOH, quanto ce l'ha grosso, quel Godzilla...
ehm volevo dire, quanto è grosso, quel Godzilla!"

"OOOH, ce l'ha più grosso di Rocco Siffredi...
ehm volevo dire che è più grosso dei mostri di Pacific Rim!"

Hollywood fa così. Prende i grandi talenti del cinema “piccolo”, il cinema indie, e li fa giocare in serie A. Una serie A a livello di budget, di incassi e di visibilità che corrisponde però a una serie Z in termini di qualità. C’è da chiedersi perché prendere dei talenti del genere per trasformarli poi in dei mestieranti qualunque. Tanto vale a questo punto assumere direttamente un Michael Bay, che sai già che è scarso e il risultato (ai botteghini) te lo porta a casa comunque. Invece no. Per colpa di Hollywood, il Gareth Edwards sorprendente di Monsters al suo secondo film è già diventato l’ombra di se stesso.
Come, e ancora peggio, quanto capitato di recente ad altri promettenti giovani registi, il cui portafogli sarà anche stato profumatamente riempito, ma cui contemporaneamente è stata svuotata del tutto la creatività. Penso a Marc Webb, che all’esordio mi aveva folgorato con lo scoppiettante e delizioso (500) giorni insieme e poi se n’è andato a dirigere gli spenti e poco amazing reboot di Spider-Man. E penso a Neill Blomkamp, autore di una delle migliori pellicole sci-fi recenti, District 9, subito dopo chiamato a fare una banale marketta commerciale per il divo Matt Damon con il banale Elysium.

Tutti registi esordienti scoppiettanti. Tutti già scoppiati al secondo film. A Garreth Edwards è andata ancora peggio rispetto ai colleghi. Ha diretto senza personalità il classico blockbuster di cassetta. Peccato che le cassette ormai siano estinte e sarebbe bello se pure i mostri alla Godzilla lo fossero.
Quello che purtroppo non è estinto è il cinemone mostruoso dei mostroni giganti, dei Transformers, dei Pacific Rim e dei Godzilla. Purtroppo, a quanto pare è questo quello che vuole la ggente. È questo che vuole Hollywood. Solo, non è quello che voglio io.
(voto 3/10)

lunedì 10 marzo 2014

GIOVANI MAGHETTI RIBELLI




Giovani ribelli – Kill Your Darlings
(USA 2013)
Titolo originale: Kill Your Darlings
Regia: John Krokidas
Sceneggiatura: Austin Bunn, John Krokidas
Cast: Daniel Radcliffe, Dane DeHaan, Ben Foster, Jack Huston, Michael C. Hall, Elizabeth Olsen, David Cross, Jennifer Jason Leigh, Erin Darke
Genere: maledetto
Se ti piace guarda anche: L’attimo fuggente, Poeti dall’inferno, Wilde

In questo film, Harry Potter è un giovane ribelle...
buaahahahah
BUAHAHAHAHAH

BUAHAHAAHHAHAHAHAHA

Ok, lasciatemi riprendere un momento. Allora, dicevo che Harry Potter è un giovane ribelle…

BUAHAHAHAHAHAH

No, non ce la posso fare!
Sarebbe un giovane ribelle contro cosa, contro quel cattivone di Voldemort?
Il problema di Daniel Radcliffe è quello tipico di un attore che ha interpretato un ruolo talmente identificativo che poi ce l'ha davvero dura a staccarselo di dosso. Prendiamo ad esempio Mark Hamill.
CHIIIIII?
Ecco, appunto. Mark Hamill chiiiiiii?


Mark Hamill è meglio conosciuto come Luke Skywalker nella saga di Guerre stellari, per il resto cos’ha fatto?
Boh.
Per carità, tanto di cappello a lui che sarà ricordato almeno per una cosa nella vita. Mica è da tutti. Tornando al nostro protagonista di giornata, credo che Daniel Radcliffe sia destinato a fare la stessa fine di Hamill. Da un ruolo entrato nell’immaginario collettivo è anche possibile scostarsi. Leonardo DiCaprio ad esempio è riuscito, sebbene non senza fatica, a levarsi di dosso l’etichetta di teen idol che gli è stata appioppata con Titanic. Ci sono però due condizioni necessarie perché ciò avvenga:
1) Essere un ottimo attore
2) Compiere le scelte recitative giuste

Per quanto riguarda il punto numero 1, il nostro (nostro? diciamo pure vostro) Daniel Radcliffe non mi sembra proprio appartenere alla categoria. Imbambolato come pochi, ha solo due espressioni: una con gli occhialetti tondi e una senza occhialetti tondi.
Per quanto riguarda il punto numero 2, Radcliffe ci sta provando a staccarsi dai ruoli da maghetto sfigato, di questo gli va dato atto. Ad esempio in The Woman in Black aveva il ruolo di un padre. Peccato solo che apparisse del tutto inappropriato per non dire ridicolo in una parte del genere, visto che dimostrava (e dimostra ancora adesso) circa 8 anni. 9 al massimo. Persino come teen mom sembrerebbe troppo infantile.
Con Giovani ribelli – Kill Your Darlings, Daniel Radcliffe si lancia in una nuova difficile sfida, interpretando il ruolo del poeta della beat Generation Allen Ginsberg. Bene, un ruolo del tutto differente rispetto a quello nella saga di J.K. Rowling… O forse non del tutto?
Vediamo la trama del film. 

Harry, pardon Allen è un ragazzo che riesce a entrare in una prestigiosa scuola.
Hogwarts?
No, la Columbia University. Qui stringe amicizia con altri due studenti. Hermione e Ron?
No, purtroppo niente Emma Watson, in questo film, ma mannaggia. I suoi nuovi amichetti sono il futuro giornalista Lucien Carr e il futuro scrittore William Burroughs. Nella parte del primo c’è Dane DeHaan, quello di Chronicle, nella parte del secondo c’è Ben Foster. Loro sì due ottimi attori, sorry Potter. All’elenco dei membri del cast ci aggiungiamo pure la (quasi) sempre impeccabile Elizabeth Olsen che fa dimenticare lo scivolone nell’orrido remake americano di Oldboy, e Jack Huston di Boardwalk Empire, qua impegnato a ritrarre un Jack Kerouac più efficace di quello visto nel recente On the Road (sebbene in quel caso fosse un alter ego dello scrittore).
Inoltre nel corso del film Michael C. Hall (sì, Dexter in persona), dice ad Allen Ginsberg che potrebbe salvare il mondo. Proprio come quelli della scuola di Hogwarts facevano con Harry Potter. In pratica, alla faccia del cambio radicale di ruolo, questa pellicola è una specie di rilettura beat generation di Harry Potter. O qualcosa di simile.

"Non ti posso dare questo drink, Harry, se prima non mi mostri un documento."
Per altri versi, Giovani ribelli si dirige invece dalle parti del racconto di formazione, quello a metà strada tra L’attimo fuggente e Il giovane Holden, e in questo avvince e convince. Fa respirare l’eccitazione tipica dell’adolescenza, di chi scopre le cose per la prima volta, di chi entra in contatto con delle personalità ricche di carisma, di chi vuole lasciare una traccia importante nel mondo. Non per salvarlo, come Harry Potter, ma per cambiarlo a suon di parole con il proprio personale stile di scrittura.
Il regista John Krokidas riesce a rendere bene questo fermento culturale, attraverso inserti visionari e invenzioni stilistiche che ricordano Le regole dell’attrazione, un montaggio veloce e una colonna sonora che mixa il jazz del periodo con sonorità moderne di Tv on the Radio, Bloc Party e titoli di coda coi Libertines. La pellicola è un interessante esperimento che unisce un certo classicismo tipico del racconto di formazione tradizionale con un gusto post-moderno e, pur non raggiungendo i livelli sublimi di un Baz Luhrmann, è coraggioso abbastanza da farsi apprezzare. Tutto questo nella prima valida parte. Nella seconda spenta metà, il film si concentra invece su una vicenda dalle tinte thriller non particolarmente affascinante, accantonando il cuore della pellicola, ovvero il rapporto tra i protagonisti e la loro dirompente forza artistica e creativa.

La pecca principale della pellicola comunque sta in lui, Harry, volevo dire Daniel Radcliffe. Per quanto qui mi pare sia alla sua migliore prova interpretativa finora, non riesce ad annullarsi dietro al suo personaggio. Non riesce mai a diventare Allen Ginsberg e resta sempre un Harry Potter che cerca di fare il poeta maledetto. Un grave difetto, perché con un protagonista migliore ci saremmo trovati probabilmente di fronte a un gioiellino, mentre così abbiamo una pellicola “solo” gradevole, che comunque non è poco.
Kill your darlings?
No, kill Harry Potter!
(voto 6/10)

Non c'entra niente con il film, però questa foto è troppo fantastica e non potevo non condividerla con voi, miei adorati lettori.

venerdì 7 marzo 2014

OLDBOY, OLDREMAKE




"Un remake di Oldboy? Ma che davero?"
Oldboy
(USA 2013)
Regia: Spike Lee
Sceneggiatura: Mark Protosevich
Ispirato al manga: Old Boy di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi
Cast: Josh Brolin, Elizabeth Olsen, Samuel L. Jackson, Sharlto Copley, Michael Imperioli, Hannah Ware, Pom Klementieff, Lance Reddick, James Ransone, Max Casella, Rami Malek, Hannah Simone, Grey Damon
Genere: revenge
Se ti piace guarda anche: Oldboy (2003), Io vi troverò, Taken – La vendetta

Ci sono due tipi di remake:
- I remake inutili
- I remake inutili e schifosi

Veramente non erano questi i due tipi di remake che volevo individuare. Ci sono altri due tipi di remake:
- I remake fatti per questioni temporali, ovvero quando si copia prende un film vecchio e lo si riadatta ai tempi moderni.
- I remake fatti per questioni geografiche, ovvero si stupra prende un film di un altro stato e lo si riadatta in base alla propria cultura e agli usi e costumi del proprio paese. E con proprio paese intendo in genere gli Stati Uniti d’America.

Oldboy di Spike Lee appartiene a quest’ultimo tipo di remake. Di certo non al primo, visto che è il rifacimento di un film recentissimo, l’omonimo Oldboy del 2003 di Park Chan-wook. Si è passati così da un’ambientazione sudcoreana e da un tipo di revenge movie molto orientale, a un thriller molto americano.
La domanda è: perché?
Io in generale sono contro i remake. Nella maggior parte dei casi si tratta di prodotti che cercano di sfruttare senza troppi sbattimenti l’idea brillante avuta da qualcun altro. A essere gentili si può parlare di rielaborazione creativa.
Ma rielaborazione creativa stocazzo!
Chiamiamo le cose con il loro nome: furto o, per essere più eleganti, scopiazzamento.

"Dopo questo film, per la vergogna non esco più da qui."
Nell’arte del remake gli americani sono dei professionisti. Stanno diventando quasi peggio dei cinesi. Battuta razzista taaac, alla faccia del politically correct alla Fabio Fazio. In alcuni casi, l’operazione può anche avere un senso. Homeland ad esempio è ispirata a una serie israeliana, The Killing a una danese. Considerando che il grande pubblico difficilmente avrà visto gli originali, ci può stare.
Il film sudcoreano Oldboy non sarà stata un campione di incassi, però è un piccolo grande cult piuttosto noto. Era uscito persino nelle sale italiane. Ricordo che a vederlo c’ero io insieme a quattro gatti, ma se non altro era arrivato anche nei nostri cinema. Si tratta inoltre di un film d’autore, di nicchia, non è una pellicola che sembrava prestarsi a un adattamento commerciale. Infatti questo remake si è dimostrato un flop mostruoso.
Non si capisce poi il passare da un Autore cinematografico dalla sua forte impronta stilistica come Park Chan-wook a un altro Autore, un grande Autore, almeno fino a qualche anno fa, come Spike Lee. Perché un regista con una carriera ancora brillante, il suo ultimo film degno di nota, Inside Man, risale al non lontano 2006, decide di cimentarsi con una pellicola a suo modo perfetta, efficace e non migliorabile?
È un mistero destinato a non trovare risposta.

I remake in genere sono inutili, questo appare quindi ancora più inutile già in partenza. Lasciamoci però alle spalle, per quanto possibile, il ricordo del film originale. L’ho visto una sola volta, una decina d’anni fa, e non l’ho più rivisto. Non perché non mi fosse piaciuto, tutt’altro. Mi aveva davvero angosciato nel profondo, come poche altre pellicole. L’inquietudine presente in quel film qui è invece del tutto evaporata. Spike Lee non dirige male. Tecnicamente il suo lavoro è valido e in alcuni passaggi rende omaggio all’originale. A mancare è l’atmosfera, è quel non so che che rende un film unico, speciale, irreplicabile e irremakeabile (ho inventato una nuova parola, americani non copiatemela, per favore). Quelle parti grottesche, al limite del kitsch, che rendevano così speciale l’originale, avevano un senso all’interno del loro contesto orientale. Scopiazzate malamente qui all’interno di un contesto pulitino e precisino da thrillerino medio americano appaiono solo delle forzature ridicole. Questo remake è ridicolo. L’originale faceva star male fisicamente, tanto intenso com’era. Questo rifacimento fa ridere, al massimo. A un certo punto semplicemente stufa.

"Svegliati Josh, il film è quasi finito."
"Uff, lasciami ronfare fino ai titoli di coda..."
Sto comunque continuando a paragonare le due pellicole. Prendiamo allora Oldboy US version come un film a sé stante. Facciamo finta di non aver mai visto il lavoro di Park Chan-wook. Anche in questo caso, l’Oldboy di Spike Lee è una pellicola penosa, che fa acqua da tutte le parti, con una trama che non si concentra tanto sugli aspetti psicologici del protagonista, ma diventa il solito banale giallo investigativo. Senza avere una degna capacità nella costruzione della tensione.
Malissimo poi il cast. Sulla carta non è nemmeno niente male, alla prova dei fatti i risultati sono disastrosi. Josh Brolin, attore che dai Goonies a W. di solito mi piace parecchio, qui è del tutto fuori parte, inadeguato anche a un livello fisico a dar vita a un personaggio del genere. Sembra un elefante che si muove in una cristalleria, laddove il grande Choi Min-sik con il suo aspetto più minuto danzava leggiadro come una ballerina ninja.
Elizabeth Olsen, alle prese con il personaggio femminile principale, è irriconoscibile. In film come La fuga di Martha, Red Lights e Silent House sembrava destinata a essere la migliore attrice dei prossimi 20 anni, qui pare un’attrice pronta per le fiction Mediaset dei prossimi 20 anni, al fianco dell’immancabile Gabriel Garko, ovvio. Come cattivoni ci sono invece Samuel L. Jackson, che quando non recita per Quentin Tarantino perde un buon 50% delle sua capacità e in questo caso perde fino a un 90% del suo potenziale, e Sharlto Copley, attore che aveva avuto la botta di culo ad avere il ruolo da protagonista in District 9, mentre per il resto è un attorucolo e qui risulta persino tremendo. Ma roba che al confronto ad avercene, di Gabriel Garko…

Vogliamo salvare qualcosa?
NO!
Questo film non s’aveva da fare, e non è finita qui, perché il risultato è persino inferiore alle più catastrofiche attese. Più che all’originale, di cui sembra una parodia, finisce per somigliare a schifezze con Liam Neeson come Io vi troverò e Taken – La vendetta. Oldboy firmato Spike Lee è in pratica la versione americana e soprattutto la versione scazzata di un grande film sudcoreano. Un caposaldo del genere revenge movie che a questo punto grida: “Vendetta!”.
(voto 2/10)

lunedì 12 novembre 2012

Un film a luci rosse (ma non è quello che pensate, sporcaccioni)

Red Lights
(Spagna, USA 2012)
Regia: Rodrigo Cortés
Sceneggiatura: Rodrigo Cortés
Cast: Cillian Murphy, Sigourney Weaver, Robert De Niro, Elizabeth Olsen, Burn Gorman, Joely Richardson, Toby Jones, Craig Roberts
Genere: paranormale
Se ti piace guarda anche: Il sesto senso, The Prestige, Insidious, Medium

Avete presente il mago Otelma, il Divino Mago Otelma?



Mmm, no. Forse ho sbagliato esempio.
Rifacciamo: avete presente Giucas Casella?



Bene, in Red Lights Robert De Niro interpreta la parte del Giucas Casella di turno. Un sensitivo barra illusionista barra mago in grado di compiere trucchi incredibili e stupefacenti, come guarire le persone, intrecciare le dita e piegare cucchiai come il bambino pelato di Matrix.



Dicevamo… Robert De Niro è Giucas Casella Simon Silver, un sensitivo non vedente che torna alla ribalta dopo oltre 30 anni che era la gente a non vederlo. Sulle scene. Un’assenza arrivata dopo la misteriosa morte del giornalista che metteva in discussione la veridicità della sua “magia”, avvenuta proprio durante una sua performance.
Simon Silver questa volta si troverà però di fronte ad altre persone che nutrono qualche (legittimo) dubbio sui suoi poteri mentali paranormali.

"Mamma, papà, sono sconvolta! Sicuri di NON avermi adottata?"
È qui che entra in gioco la squadra capitanata da Sigourney Weaver, che ormai compare in più film (non sempre riusciti) di Robert De Niro, e formata da Cillian Murphy (28 giorni dopo, Batman Begins) qui tornato a rispolverare un’ottima interpretazione dopo un po’ di film (non sempre riusciti), e poi anche da Elizabeth Olsen. La sorellina delle odiose gemelle Olsen dimostra come il talento non sia una questione genetica o, nel caso lo sia, in quel caso lei è stata adottata. Elizabeth Olsen, per quanto qui abbia solo un piccolo ruolo, si rivela ancora una volta l’attrice rivelazione dell’anno, dopo le stupefacenti prove in La fuga di Martha e Silent House.
I tre formano una squadra speciale per smascherare i medium truffatori. Che poi, secondo la teoria di Sigourney Weaver, tutti coloro che hanno a che fare con il paranormale sono dei truffatori e quindi possono essere smascherati. Ce la faranno anche con il Divino Simon Silver?

"A me gli occhi!"
Ehm... cioè... dicevo così, per dire..."
Red Lights è un film che se non gli si domanda di essere un capolavoro o qualcosa di totalmente originale può regalare delle soddisfazioni. A firmare regia e sceneggiatura ritroviamo quel furbacchione di Rodrigo Cortés, regista spagnolo molto discusso per la sua prova precedente, quel Buried - Sepolto tutto ambientato dentro una bara salutato da alcuni come una genialata e sbeffeggiato da altri. A me aveva fatto alquanto cacare, però questa è tutta un’altra storia, tutta un’altra pellicola. Pure questa furbetta, ma in un senso positivo.
Dopo aver “dilatato” la scena di Kill Bill con La Sposa sepolta nel film precedente, i riferimenti dello spagnolo sembrano essere questa volta il David Fincher anni ’90 per la costruzione dell’atmosfera thriller e soprattutto il primo M. Night Shyamalan per il modo di affrontare la tematica del paranormal (non activity). Red Lights è il classico thrillerone di quelli come negli ultimi tempi non se ne fanno più molti. Un po’ fuori moda come film, quindi, eppure se vi fate coinvolgere dai meccanismi della storia regala una visione avvincente e tesa. Non tutto gira al meglio, la sceneggiatura ha qualche momento di calo, il finale punta troppo sull’effettone sorpresa, peccato arrivi con dieci e passa anni di ritardo sul Sesto senso e simili, Robert De Niro una volta era il punto di forza di qualunque pellicola mentre oggi appare solo l’ombra del grande attore che è stato, però per me Red Lights è da luce verde. Cosa che significa: procedete pure con la visione, ma attenti, perché le cose non sono ma.̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̨̨̨̨̨̨̨̨̨̨ come sembrano e se credete di avere lo schermo sporco, forse non è davvero cos.̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̸̨̨̨̨̨̨̨̨̨̨.
(voto 7/10)


mercoledì 31 ottobre 2012

Halloween Night: Silent House

"Da dove proviene questo suono fastidioso?"
Silent House
(USA, Francia 2011)
Regia: Chris Kentis, Laura Lau
Cast: Elizabeth Olsen, Adam Trese, Eric Sheffer Stevens, Julia Taylor Ross, Adam Barnett, Haley Murphy
Genere: one shot
Se ti piace guarda anche: La casa muta, Paranormal Activity, The Blair Witch Project

Pensavo che Silent House fosse il solito ennesimo horrorino ambientato in una casa, una di quelle che vorrebbero essere spaventose e poi non lo sono manco lontanamente. Invece, Silent House è una specie di Arca russa in versione paura. L’intera pellicola è infatti girata con un unico piano sequenza. Una scena sparata tutta di fila, sebbene qualche elaborazione in fase di montaggio credo proprio ci sia stata. Una sola e unica sequenza che ci getta in un incubo senza pause. Il film è dunque originale nella realizzazione, più che nella trama. La storia non presenta chissà quali rivelazioni fenomenali, trattandosi di una vicenda famigliare tesa e ben orchestrata, ma niente che non si sia mai visto prima.
Al termine della pellicola, però: colpo di scena. Ho cercato informazioni sul film e ho realizzato che l’originalità della sua messa in scena è molto relativa, visto che si tratta del remake di un recentissimo horror uruguayano, La casa muda. Prima della visione di un film, soprattutto se è un thriller-horror, cerco sempre di saperne il meno possibile, e quindi mi era sfuggito questo “dettaglio” mica da poco.
"Facciamo luce per cercare meglio..."
Ma, comunque, un film uruguayano???
Perché, in Uruguay fanno film?
A quanto pare sì, e a quanto pare per limitare le spese li girano con un solo pianosequenza, tutto in presa diretta, buona la prima che così si risparmia!
Ho trovato Silent House parecchio originale, finalmente un horror originale dopo tanti tutti uguali e alla fine scopro che l’idea gli americani l’hanno rubata? La cosa non sorprende certo, visto che negli ultimi tempi vanno a caccia di idee in tutto il mondo, dalla Danimarca di Forbrydelsen ispirazione per la serie tv The Killing alla Francia dei thriller Pour Elle (diventato The Next Three Days), Anthony Zimmer (coverizzato con l’orrido The Tourist) e Crime d’amour (che diventerà Passion nelle sapienti mani di Brian De Palma). Tanto per citare giusto un paio di nazioni. E ora, vanno a scippare persino l’Uruguay.
Il merito dell’originalità va dunque alla pellicola sudamericana, grazie allo spunto davvero geniale di realizzare un horror con un solo piano sequenza. Idea azzeccatissima, considerando come una ripresa senza stacchi e continua, come se stessimo assistendo all’orrore in diretta, sia perfetta per un film de paura.
"Ecco cos'era quel rumore: Justin Bieber!"
Il remake americano, un instant remake visto che è arrivato a pochi mesi di distanza dall’originale, ha invece il merito di aver replicato l’idea e averlo fatto in maniera impeccabile.
Non avendo visionato la versione uruguagia, evito i confronti diretti e mi limito a sottolineare come questo Silent House in versione americana sia (per fortuna) lontano dagli altri horrorini americani in circolazione. La regia procede senza sbavature a costruire una escalation di tensione notevole e si inventa anche qualche bella trovata per spezzare la monotonia del piano sequenza che dopo un po’ inevitabilmente rischia di annoiare (ad esempio con l’espediente dei flash della macchina fotografica a spezzare il buio), anche se magari pure queste idee sono state copiate dall’originale. Ma vabbè, non indaghiamo oltre…
"Justin Bieber, smettila di cantare, ti prego!"
Il merito maggiore della pellicola è però l’intepretazione davvero mostruosa della protagonista, Elizabeth Olsen. Se avete visto l’ottimo La fuga di Martha (e se non l'avete visto, che ca**o aspettate?) non vi stupirete. Pure lì offriva infatti un’interpretazione a dir poco super-lativa. Qui non è affatto da meno, anzi. Il piano sequenza è una prova dura per un regista, figuriamoci per un’attrice che praticamente sta davanti alla macchina da presa per tutto il tempo. Se a ciò aggiungiamo l’evoluzione del suo personaggio nel corso della vicenda e gli elementi di follia presenti, questa è una prova di recitazione letteralmente pazzesca. E pensare che questo è il suo primo film, mentre La fuga di Martha è il suo secondo e a questo punto questa qui potrebbe rivelarsi una delle migliori attrici dei prossimi 50 miliardi di anni. Giusto per fare un tantino gli esagerati. E pensare che Elizabeth è la sorella delle scimmiette gemelle Olsen, Mary-Kate ed Ashley, due che insieme non raggiungono nemmeno la metà di un millesimo del suo talento.
Se non avete compreso ciò che ho detto, prendete una calcolatrice.
Capito, adesso? I conti vi tornano?
"Ueeeh, ueeeh. Justin, qualunque canzone, ma Baby proprio no!"
Per terminare questo piano sequenza di post, Silent House è insomma un horror teso, tesissimo, parecchio coinvolgente e che offre una prova recitativa eccezionale. Cosa che nel caso di un horror è davvero raro dire, visto che spesso le donne nelle pellicole di questo genere vengono trattate come carne da macello o, al più, come tette che scappano dal mostro di turno. E questo vale per classici del genere come Halloween con Jamie Lee Curtis, quanto per trashate più recenti come Piranha 3D e variazioni simili. Invece qui troviamo una Elizabeth Olsen che fa paura sì, tanto è brava a reggere la scena dall’inizio alla fine. L’altro grande pregio è l’originalità della scelta del piano sequenza. Su tutto però si cela l’ombra della pellicola originale. Se l’avete vista, questo potrebbe sembrarvi giusto un furbo instant remake fotocopiato. Se ve l’eravate persa (dopo tutto, ma chi se li guarda, i film uruguayani?), Silent House probabilmente sarà anche per voi, così come è stato per me, il trip horror perfetto per questo Halloween.
(voto 7/10)
Post pubblicato anche su L'orablu.

giovedì 31 maggio 2012

La f*ga di Martha

La fuga di Martha
(USA 2011)
Titolo originale: Martha Marcy May Marlene
Regia: Sean Durkin
Cast: Elizabeth Olsen, John Hawkes, Sarah Paulson, Hugh Dancy, Brady Corbet, Christopher Abbott, Julia Garner, Louisa Krause, Maria Dizzia
Se ti piace guarda anche: Un gelido inverno, Kynodontas, …e ora parliamo di Kevin, Persona, Funny Games, Sleeping Beauty

Non è che si può sempre trovare le parole giuste per tutto.
Per un film come La fuga di Martha, troppe parole sono persino superflue. E alcune sono solo sbagliate.
Già mi immagino in molti pronti a usare parole come: “noioso”, “lento”, o “ma non succede niente”.
Non succede niente? Non ci sono esplosioni, inseguimenti o invasioni aliene, è vero, però se con “niente” intendete un film capace di scavare in maniera magnifica dentro una vita, dentro un personaggio, allora in tal caso avete ragione: in questo Martha Matta Marcy May Marlene non succede un bel niente.

All’inizio della visione si rimane un po’ confusi. Ci si chiede cosa sta capitando. Ma, tempo qualche minuto di pazienza, il film “lento” e “noioso” prende vita insieme alla sua protagonista.
Attraverso uno splendido montaggio di due piani temporali separati, conosciamo Martha, ragazza che ha qualche problema di psiche e di comportamento e non si capisce perché. Lo scopriremo con calma, con quella calma di chi ha la pazienza di vedere un film crescere piano piano, fino a quasi esplodere. E non intendo un’esplosione letterale. Quella lasciamola alle pelli(para)cule di Michael Bay.
Qui siamo da un’altra parte. Un cinema indie molto Sundance, festival a cui è stato presentato nel 2011 e dove l’esordiente Sean Durkin s’è guadagnato meritatamente il premio alla regia. E qui si distingue il mondo: quelli che amano il fracassone/fracassapalle cinemone commercialone e quelli che preferiscono pellicole più silenziose, che ti entrano dentro in punta di piedi.
Quanto era patetica, quest’ultima frase?
Per carità, ci si può divertire con un blockbusterone fracassone e poi godersi l’intimità di un film come questo. Però La Fuga di Martha non è per tutti i palati. È una pellicola davvero davvero davvero ma davvero molto indie. Molto Sundance. Molto autoriale. Ha un montaggio alternato su due piani che mi ha ricordato …e ora parliamo di Kevin e per un discorso dell’educazione/sottomissione anche il greco Kynodontas, contiene una splendida scena-citazione da Persona di Ingmar Bergman, ma soprattutto mi ha fatto tornare alla mente Un gelido inverno - Winter’s Bone. Difficile spiegare perché. Tira la stessa aria. C’è un simile, straordinario, lavoro naturalistico nella costruzione dei personaggi realizzati da Jennifer Lawrence là, e dall’esordiente Elizabeth Olsen qui.
Pazzesca, in tutti i senti, la sua interpretazione.
Pazzesco poi che un’attrice così fenomenale e affascinante sia sorella di quegli sgorbi anti-recitazione delle gemelle Olsen. Mary-Kate ed Ashley, divenute famose negli anni ’80/primi ‘90 come baby protagoniste della sitcom Gli amici di papà (in 2 intepretavano 1 bambina sola). Poi sono cresciute e sono divenute queste due zombie qua…

"Perché non ci chiamano per The Walking Dead?
Non abbiamo nemmeno bisogno di trucco."

E insomma, non si capisce bene come o perché, ma Elizabeth è la loro sorella b(u)ona. Come Cenerentola in mezzo alle sorellastre. Speriamo che questa interpretazione sia solo l’inizio di una folgorante carriera e la mezzanotte per lei scocchi il più tardi possibile.
Da sottolineare anche la sorella in, questo caso cinematografica, della protagonista. Una Sarah Paulson vista qua e là in vari film e serie tv (American Horror Story e Abbasso l’amore tra gli altri) qui in grado di tratteggiare con cura il personaggio più difficile: la sorella infatti non sa quello che poco a poco noi spettatori vediamo. Non comprende i motivi del particolare stato emotivo e psicologico della sorella e finisce ATTENZIONE SPOILER per cedere al conformismo. A ciò che le impone la società, ovvero il marito yuppie du. Come uno spettatore abituato al cinema di Michael Bay, non ha la pazienza per cercare di capire la sister. E così decide di mandarla via. Eliminare, emarginare ciò che non comprendiamo.
Nel super-cast super-indie della pellicola, da tenere d’occhio anche Christopher Abbott, attualmente nel cast della tv serie super-indie pure questa Girls, e Brady “faccia da pazzo” Corbet, visto nel remake americano di Funny Games, pellicola qui ricordata in una sequenza.

Tornando al parallelo con Un gelido inverno, in entrambe queste indie-perle troviamo John Hawkes. Strepitoso. Mi faceva pensare a qualcuno e poi, leggendo la recensione di Alessandro Giovannini, mi è venuto in mente: è una sorta di fratello di Vincent Gallo. E, come lui, sa pure cantare e ci regala una perla per voce e chitarra.


Il suo personaggio è quello di un uomo a capo di una sorte di comune hippie, una misteriosa fattoria-setta che non ha tanto i contorni religiosi. Tende più a essere una negazione dei valori consumistici dominanti. Un ritorno a una vita semplice in campagna. Detto così può sembrare una cosa piuttosto positiva e ammirevole, ma presto scopriamo che ha anche contorni più inquietanti. Altrimenti che setta sarebbe?
La crescita di questa sorta di leader, o guru spirituale che sia, è notevole minuto dopo minuto. Di lui non si rivela mai più di tanto, eppure la sua ombra incombe minacciosa. La tematica della setta non assume comunque mai i contorni cronachistici. Non c’è nemmeno un discorso di tipo moralistico, o una condanna. Il regista e sceneggiatore di questa perla di pellicola lascia la massima libertà di interpretazione allo spettatore. Forse pure troppa libertà, con un finale sospeso che fa rimanere spiazzati ma che riflettendoci su non è così campato per aria, come invece è il finale di questo post che termina così
(voto 8/10)


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