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domenica 15 marzo 2015
SONG ONE, LA VERSIONE COVER DI TUTTO PUÒ CAMBIARE
La ballata anti-folk dei cannibali
(Parole & Musica: Cannibal Kid, Kanye West & Paul McCartney)
Ho scritto una ballata folk
per dire che a me la musica folk
ha proprio rotto il cazzooo
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giovedì 18 settembre 2014
SILENZIO, QUI SI FA LA RIVOLUZIONE
“Home Pastorals” (album)
“Seven Songs for Seven Musicals” (progetto audiovisivo)
Negli ultimi tempi c'è un genere che sta spopolando e nessuno sa bene il perché. Mi riferisco al folk. Un tipo di musica per tradizione lontano dalle logiche commerciali, che rifugge il vil denaro e il successo facile, come si può vedere anche nell'ultimo film dei Coen, A proposito di Davis. Adesso però viviamo in tempi strani e il folk ci viene tirato dietro ovunque. C'è la sua versione più mainstream e da stadio offerta dai Mumford & Sons, quella più adolescenziale di Ed Sheeran, quella più fantasiosa degli Of Monsters and Men, quella più pop dei Lumineers, persino la versione electro-danzereccia proposta da alcuni recenti brani del dj Avicii. Insomma, in questi giorni sembra che tutti facciano folk.
Tra le molteplici proposte, una delle più genuine che mi è capitato di sentire è quella degli italiani Moro & the Silent Revolution. Un gruppo che suona un folk-pop estremamente piacevole, ma mai ruffiano. Suona retrò, ma mai antico. Suona in qualche modo attuale, ma mai legato alle mode pseudo-folkeggianti del momento.
Il loro album Home Pastorals, pubblicato da Gamma Pop, propone una serie di brani semplici, giocati su melodie incantate per voce e chitarra che riescono a conquistare in maniera immediata. A colpire è la loro varietà sonora. Pur restando sempre all'interno dell'ambito folk, si passa da pezzi più allegri e spensierati, come “City Pastoral” e la contagiosa "Blamelessness", ad altri venati da una certa malinconia come “Sunkid” e “Golden”.
Non solo musica, comunque. I Moro & the Silent Revolution hanno realizzato un progetto audiovisivo molto affascinante intitolato Seven Songs for Seven Musicals. Di cosa si tratta? Alcune canzoni del loro disco fanno da colonna sonora a una serie di video in cui sono state montate scene tratte da vari film musicali americani girati tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. Un'occasione perfetta dunque per sentire una manciata di pezzi folk come si deve e anche per dare una rispolverata a una serie di vecchie pellicole come All-American Co-ed, American Girl e Lights of Old Santa Fe, che faranno sorridere il pubblico di oggi abituato a effetti speciali e 3D e che invece faranno scendere una lacrimuccia nostalgica agli appassionati del cinema in b/n.
I Moro & the Silent Revolution si distinguono all'interno dell'affollato e inflazionato panorama folk odierno grazie a questo singolare progetto video e grazie alla loro musica, mai derivativa, sempre personale. Se proprio volete dei riferimenti sonori, comunque, ascoltandoli mi hanno riportato vagamente dalle parti di Fleet Foxes, Belle and Sebastian, The Coral, Turin Brakes e Kings of Convenience. Questi ultimi, citati anche dal critico musicale Eddy Cilia nella sua recensione, mi sono tornati in mente soprattutto perché il nome della band mi ha ricordato il titolo del loro album d'esordio, “Quiet Is the New Loud”. In maniera analoga i Moro & the Silent Revolution sono un gruppo che propone una rivoluzione silenziosa, ma che non merita affatto di passare sotto silenzio.
(voto 7/10)
Potete ascoltare e compare l'album “Home Pastorals” sulla pagina Bandcamp della band.
E, già che ci siete, passate a dare un ascolto pure all'EP “Homegrown”, colonna sonora del programma "Orto e mezzo", in onda su Laeffe (canale 50 del digitale terrestre), con cui la band dimostra di saperci fare, eccome, con le soundtracks.
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martedì 11 febbraio 2014
A PROPOSITO DI DAVIS, DEL FOLK, DEI COEN, DI CAREY MULLIGAN E DI GATTI
(USA, Francia 2013)
Titolo originale: Inside Llewyn Davis
Regia: Ethan Coen, Joel Coen
Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen
Cast: Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, Garrett Hedlund, Ethan Phillips, Robin Bartlett, Max Casella, Adam Driver, Alex Karpovsky, Helen Hong
Genere: folk
Se ti piace guarda anche: Sugar Man, Fratello, dove sei?, I’m Not Here
“Se non è mai stata nuova e non invecchia mai, è una canzone folk.”
Llewyn Davis
La frase d’apertura del “nuovo” film dei fratelli Coen spiega bene il mio rapporto nei confronti sia del loro cinema che della musica folk. E nuovo va inteso proprio nel senso che dà il protagonista della pellicola, Llewyn Davis. Anche i film dei fratelli da Oscar quest’anno ignorati dagli Oscar sono così. È come se esistessero già da sempre. È come se si rifacessero ogni volta a qualcos’altro. Di riferimenti alla Bibbia è pieno il loro cinema, si veda A Serious Man. Quanto all’Odissea, non parliamone. Sono proprio fissati i Coen. Non contenti di averne fatto la versione musical folk con Fratello, dove sei?, pure qui c’hanno inserito un personaggio chiamato Ulisse.
Quale personaggio?
Questo non ve lo svelo. Anche se la vera Odissea è quella che vive il protagonista.
I film dei fratelli Coen sono come canzoni folk già esistenti che si divertono a reinterpretare nel loro personale modo. L’amore per questo genere di musica emerge qui ancora una volta forte e chiaro, al punto che A proposito di Davis avrebbe potuto intitolarsi A proposito del folk, o in originale Inside Folk anziché Inside Llewyn Davis. Il film è liberamente ispirato alla biografia del musicista e cantore anni ’60 Dave Van Ronk, ma più che raccontare di lui o di quello che ne è il suo alter-ego fittizio ovvero Llewyn Davis, racconta uno stile di vita. Raccontare poi è una parola grossa. Quella scritta dai Coen è dichiaratamente una sceneggiatura priva di una vera e propria trama. È più un girovagare a zonzo insieme al loro protagonista. Un gattonare di casa in casa, di strada in strada, di città in città. Come un vagabondo. Come un micio randagio.
"I'm bringin' sexy back (yeah), them other fuckers don't know how to act. Penso che ancora non siate pronti per questa musica... ma ai vostri figli, diciamo ai vostri nipoti, piacerà." |
A parlare qui, più ancora che i personaggi strambi pur sempre presenti, sono le canzoni. Belle, molto belle, soprattutto quelle cantate da Justin Timberlake, alla facciazza di chi tanto lo disprezza perché è troppo pop. Questa è una non storia che parla di musica e della vita del musicista. Non il musicista figo rock’n’roll oh yeah con le groupie attaccate al pene e una pera attaccata al braccio, quanto il lifestyle del musicista folk perdente che cerca di tirare avanti in quel di New York City a inizio anni Sessanta, prima che il genere venisse riportato in auge da un certo Bob Dylan. Sotto questo aspetto, A proposito di Davis è un lavoro assolutamente riuscito. Allo stesso tempo, per quanto il film possa non essere troppo coeniano, Llewyn Davis è invece uno dei più coeniani tra i personaggi presenti nella galleria del loro cinema. È un loser totale, uno che non vuole pensare al futuro, a progettarsi una vita, a essere come dicono gli altri.
Questo per quanto riguarda gli aspetti positivi, tra cui io ci metto dentro decisamente anche l’ottima interpretazione di Carey Mulligan. Ha un ruolo piccolo, però in una manciata di memorabili scene riesce a ritrarre bene il suo personaggio, che è un po’ l’opposto della deliziosa protagonista di An Education; nonostante riprenda il look anni ‘60 con frangetta di quel film, riesce qui a dar vita a una stronza come poche. Eppure, così come successo anche ne Il grande Gatsby, è talmente adorabile che persino nei panni di personaggi odiosi non riesce a farsi odiare del tutto. Oh Carey, quanto sei cara.
"Ma la smettete di chiedermi Father And Son e Wild World? Vado in giro con un gatto, ma non sono Cat Stevens!" |
Eppure manca qualcosa, qualcosa in grado di trasformare la simpatia/empatia per questo loser, questo Llewyn Davis, e trascinarci davvero “inside”, dentro la sua vita, dentro la sua mente, dentro il suo cuore. Se la passione per la musica folk dei Coen emerge cristallina, così non è per il protagonista. Perché fa musica? È quasi come se la odiasse.
Inoltre la mancanza di una vicenda forte in grado di tenere davvero sulle spine a un certo punto si fa sentire. Più che raccontare una storia, come le ballate folk spesso sanno fare, A proposito di Davis ha un andamento da improvvisazione jazz, non c’è alcuno sviluppo e la trama gira attorno a se stessa. What goes around… comes around, come direbbe Justin Timberlake, qui relegato a un ruolo francobollo in cui non riesce a brillare molto come attore, ma solo come cantante.
Un altro problemino del film è proprio questo. I personaggi minori restano relegati troppo sullo sfondo, si vedano John Goodman e Garrett Hedlund buttati nella mischia a casaccio e incapaci di imporsi.
Inoltre la mancanza di una vicenda forte in grado di tenere davvero sulle spine a un certo punto si fa sentire. Più che raccontare una storia, come le ballate folk spesso sanno fare, A proposito di Davis ha un andamento da improvvisazione jazz, non c’è alcuno sviluppo e la trama gira attorno a se stessa. What goes around… comes around, come direbbe Justin Timberlake, qui relegato a un ruolo francobollo in cui non riesce a brillare molto come attore, ma solo come cantante.
Un altro problemino del film è proprio questo. I personaggi minori restano relegati troppo sullo sfondo, si vedano John Goodman e Garrett Hedlund buttati nella mischia a casaccio e incapaci di imporsi.
Alla fine, i Coen non si smentiscono mai. Decidete voi se vada presa più come una cosa positiva o negativa. Nonostante il mio non-amore nei loro confronti, questo film a me comunque è piaciuto. Sì, direi che mi piaciuto. Tra le pellicole dei fratelli registi lo metterei al secondo posto giusto dietro Fargo. I film dei Coen sono sempre un viaggio e questa volta ammetto che il viaggio in loro compagnia è stato per me più piacevole del solito, grazie anche a una fotografia che ricrea perfettamente quel mood alla The Freewheelin’ Bob Dylan, per altro già reso da Cameron Crowe in Vanilla Sky.
Però, c'è sempre un però. Una volta arrivati a destinazione, l’impressione è anche questa volta di non essere andati da nessuna parte, di aver girato a vuoto. Un bel girare a vuoto, ma pur sempre un girare a vuoto. Questo è il cinema dei Coen, un tipo di cinema che mi fa lo stesso effetto del folk, genere che occasionalmente ascolto anche e non mi dispiace, ma che di rado mi prende fino in fondo. L’ultima volta mi è capitato con la musica di Rodriguez scoperta grazie a Sugar Man, quasi un gemello in versione documentaristica di A proposito di Davis. Come una canzone folk, i loro film non invecchiano mai ma allo stesso tempo non dicono niente di nuovo. Così è il loro cinema, prendere o lasciare. E io per questa volta prendo, anche perché questa è una pellicola molto gattosa felina. E come fai a non volere bene a un gatto, o a una Carey Mulligan, o a un povero cantante folk sfigato?
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domenica 15 dicembre 2013
MAN OF THE YEAR 2013 – N. 2 RODRIGUEZ
Rodriguez
(USA, Messico 1942)
Nome completo: Sixto Díaz Rodríguez
Genere: misterioso
Il suo 2013: intorno a lui e alla sua misteriosa figura è costruito il film Sugar Man, vincitore quest'anno del premio Oscar per il miglior documentario. Per l'occasione la sua musica è ritornata popolare... ehm, "ritornata popolare" magari non è proprio la definizione più precisa, visto che non lo è mai stata, purtroppo.
Se ti piace lui, ti potrebbero piacere anche: Bob Dylan, Cat Stevens, Nick Drake, Donovan
È in classifica: perché è uno dei più grandi artisti nella Storia della Musica. Non sto scherzando e non sto esagerando. Guardate il film Sugar Man e capirete. Capirete perché va considerato al pari, se non pure a un livello superiore, di gente come Bob Dylan, Jimi Hendrix o Elvis. Quello che non capirete invece è perché sia tanto sconosciuto. In ogni caso, guardate Sugar Man. Non è un ordine, è solo un consiglio che arriva dal profondo del mio cuore.
Il suo discorso di ringraziamento: "Un riconoscimento nei miei confronti dall'Italia? Ah, ma allora lì non ascoltate solo quelle porcate di Vasco e Laura Pausini, incredibile!"
Dicono di lui su
cinguettator
One Direction @1D1rect10n
Siamo diventati famosi noi e non #Rodriguez? #CheMondoDiMerda
Susan Boyle @susyboyle
Sono diventata famosa io in 5 minuti con un video virale e non #Rodriguez? #CheMondoDiMerda
PSY @gangnamstyle
Sono diventato famoso io e scopo come un tolo in gilo pel il mondo glazie a canzone idiota e non #Lodliguez? #CheMondoDiMelda
Belen Rodriguez @farfallina84
Sono diventata famosa io per la mia farfallina e non #Rodriguez senza Belen davanti? #CheMondoDiMerda
Cecilia Rodriguez @sorelladibelen
Sono diventata famosa io per via di mia sorella e non #Rodriguez il cantante? #CheMondoDiMerda
Sixto Rodriguez @officialrodriguez
Tranquilla Cecilia @sorelladibelen. Nemmeno tu sei famosa.
martedì 19 novembre 2013
PINEAPPLEMAN, L’INDIE FOLK CHE ARRIVA DALL’ITALIA (MA CHE DAVERO?)
Ogni tanto mi arrivano le mail di band che mi contattano per farsi recensire. Cosa che mi lusinga sempre perché significa che c’è qualcuno a cui interessa la mia opinione. Really?
Molti di questi gruppi suonano però un mainstream rock italiano tra Ligabue e Vasco, tra Le Vibrazioni e i Negrita e non è che siano proprio il massimo, almeno per i miei gusti. Se quindi preferisco non parlare di loro sul mio blog non è per snobismo, ma è solo che non mi va di stroncare dei gruppi emergenti e sconosciuti. Mi sembra una crudeltà gratuita e inutile. Ben altro conto è invece massacrare quegli artisti già strapopolari che una bella stroncatura, quando fanno un disco da schifo, se la meritano tutta. Vero, Lady Gaga?
In mezzo a queste bande di rockone italiano non troppo entusiasmante, sempre a mio modesto e soggettivo parere, ogni tanto arriva qualche piacevole sorpresa. Una di queste sono i PineAppleMan, band di 6 elementi che si sono presentati come una band indie pop con venature folk, ma secondo me si sbagliano.
Oddio, non di molto. Secondo me sono infatti una band folk con venature indie pop. C’è differenza?
Sì, perché l’aspetto folk, acustico, intimo è la prima cosa che emerge, almeno ascoltando i tre brani che compongono il loro primo EP e che potete sentire sulla loro pagina Bandcamp. Per darvi un riferimento, a me ricordano i Fleet Foxes, gruppo di indie-folk statunitense che apprezzo particolarmente, e qualcosina dei Grizzly Bear, di Bon Iver e pure dei primi Arcade Fire, però fin dai primi istanti emergono con un sound loro. Un folk che getta uno sguardo Oltreoceano, ma lo fa con personalità e senza scimmiottare nessuno.
Vi invito quindi a dare un orecchio ai tre brani della IndieFolkBand PineAppleMan su Bandcamp, o almeno al primo, quello che preferisco, “Love in Japan”, un pezzo dalle atmosfere intense, che suona quasi come una preghiera e che vi prego di ascoltare qui sotto.
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mercoledì 3 ottobre 2012
Mumford & Ronf
Mumford & Sons “Babel”
Genere: ronf-folk
Provenienza: Londra, Inghilterra
Se ti piace ascolta anche: Bob Dylan, Simon & Garfunkel, una banda locale che suona alla festa di paese
L’incisione perfetta su disco.
Della noia.
(voto 4/10)
Genere: ronf-folk
Provenienza: Londra, Inghilterra
Se ti piace ascolta anche: Bob Dylan, Simon & Garfunkel, una banda locale che suona alla festa di paese
L’incisione perfetta su disco.
Della noia.
(voto 4/10)
"I Mumford & Sons sono la mia band preferita!" |
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venerdì 24 giugno 2011
Magica magica Emmy
Genere: acoustic
Provenienza: Londra, UK
Se ti piace asolta anche: Laura Marling, Gemma Hayes, The Pierces
Attendevo con grande curiosità questo secondo album di Emmy la Grande, dopo quella meraviglia acustica di esordio che è stato un vero e proprio primo amore già al primo ascolto e infatti non a caso si chiamava “First love”.
Con il virtuoso “Virtue”, Emmy si dimostra davvero una Grande e le sue nuove canzoni si ritagliano con una facilità impressionante un nuovo spazio nel nostro stupido piccolo fragile impressionabile cuoricino malandato. Una deliziosa conferma che fa il paio con Laura Marling, altra voce & chitarra (arricchite però da atmosfere più languide) della nuova Inghilterra.
Non mancate di ascoltarla. A meno che non siate morti dentro.
(voto 8)
E a proposito di Laura Marling... ecco che pure lei sta per tornare con un nuovo terzo album, previsto per settembre. Questa è l'affascinante anteprima: siete già pronti per l'autunno?
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mercoledì 22 giugno 2011
Boni, state boni. Anzi state Bon Iver
Genere: new folk
Provenienza: Eau Claire, Wisconsin, USA
Se ti piace ascolta anche: Band of Horses, St. Vincent, Florence and the Machine, Antlers, Sufjan Stevens, The National, Kanye West
Il folk è un genere cui in genere mi approccio generalmente con una certa delicatezza generale. Se ascoltato nei momenti giusti può infatti regalare ottime sensazioni, altrimenti rischia di annoiare terribilmente. Con Bon Iver comunque non si corre questo rischio, certo non con questo nuovo omonimo album che va oltre le convenzioni del genere e ci regala una meraviglia da amare e venerare qualunque siano i vostri ascolti prediletti.
Devo innanzitutto premettere che Bon Iver ha una voce molto particolare, per me fantastica (basti sentire il falsetto di “Minnesota, WI” che vola dritto in Paradiso Città), qualcun altro potrà trovarla magari fastidiosa. Passato questo test vocale, se vi piace bene se non vi piace cazzi amari vostri, il disco va in direzioni molto fantasiose e varie, cosa che non tutti i cantautori classici sanno fare. Forse perché Bon Iver non è un cantautore classico, bensì l’evoluzione della specie. Dopo la prima meraviglia firmata Justin Vernon alias Bon Iver “For Emma, forever ago”, uscito nel 2007, qui infatti si va oltre: l’apertura di “Perth” ad esempio lambisce i territori del rock, mentre l’influenza della recente collaborazione con Kanye West si fa sentire tra gli arrangiamenti in vari momenti.
Comunque il buon Bon Iver non abbandona nemmeno la tipica ballata voce/chitarra/e pochi altri cazzi, e quando lo fa è quasi magia Johnny. Anzi è proprio magia: ascoltare quella meraviglia di “Holocene” per credere. Il finale di “Beth rest” sembra addirittura una ballatona uscita dagli anni ’80.
Solo folk, dunque? Naaah, molto di più.
(voto 7/8)
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domenica 1 maggio 2011
Jukebox DeLorean, Cat Stevens
Per il mio ormai consueto viaggio musicale con la DeLorean, ho scelto un pezzo secondo me indicato per commentare questa assurda settimana dedicata a matrimoni reali e a beatificazioni…
Cat Stevens “Wild World”
Anno: 1970
Autore: Cat Stevens
Genere: ballatona folk
Provenienza: Londra, Inghilterra
Album: Tea for the Tillerman
Canzone sentita anche in: Skins, Nip/Tuck
Coverizzata tra gli altri da: Jimmy Cliff, Maxi Priest, Mr. Big
Nel mio jukebox perché: viviamo proprio in un Wild World, c’è poco da fare
Testo liberamente tradotto
Sai, ho visto un bel po’ di ciò che il mondo può fare
e mi si spezza il cuore in due
perché non ti ho mai voluta vedere triste, ragazza
non fare la cattiva ragazza,
ma se vuoi andartene fai molta attenzione
spero ti farai un sacco di buoni amici là fuori
ma ricorda di fare attenzione perché c’è anche un sacco di male
oh baby, baby, è un mondo selvaggio
è dura andare avanti solo con un sorriso
oh baby, baby, è un mondo selvaggio
ti ricorderò sempre come una bambina, ragazza
Qui c’è anche la splendida versione cantata dal cast di Skins nel gran finale della stagione 1.
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martedì 15 febbraio 2011
Last night a PJ saved my life
PJ Harvey “Let England Shake”
Genere: altro
Provenienza: Yeovil, England
Se ti piace ascolta anche: Joanna Newsom, Sonic Youth, Bat for Lashes, Soap & Skin, Cocteau Twins
Pezzi cult: “Let England Shake”, “The Glorious Land”, “All and everyone”
La cosa che più mi piace di PJ Harvey è che a ogni disco sembra diversa, suona diversa, canta diversa. È diversa. E per chi come me odia gli artisti che clonano se stessi a ogni uscita in una versione ogni volta più vecchia e trista non ci può essere cosa migliore.
PJ parte quindi verso direzioni differenti da quelle con cui ci aveva lasciati con l’ultimo “White Chalk”, disco sinistro e oscuro che io personalmente adoro: il perfetto ascolto per la notte. Il nuovo “Let England Shake” non è un disco più luminoso, però ha un atmosfera del tutto altra. È fortemente bellico, getta in mezzo a un campo di guerra, invita a una scossa, a un “Dai, cazzo!”, non solo i suoi conterranei inglesi ma tutto quel mondo in bambola paralizzato tra crisi economica e politica devastata. Una chiamata alle armi dolce e sinistra allo stesso tempo.
"Let England Shake" è un album che si ama (o almeno, io ha amato) fin da subito per la sua obliquità e forza ma che per un giudizio più completo richiede di parecchi ascolti, tanto non ci si annoia di certo visto che ogni volta si scoprono nuovi dettagli curiosi.
Ci sono delle marcette pop inquiete, delle filastrocche perfette per tempi malati come “The Glorious Land” con tanto di trombetta militare e una “The words that maketh murder” che riecheggia sinistramente “Surfin’ Bird” dei Trashmen, o una “Written in the Forehead” che suona come la sua versione malata di certo pop 60s radiofonico di oggi tipo Eliza Doolittle. E ci sono poi momenti di quiete almeno apparente (l’incantata “All and everyone”, “Hanging in the Wire”), che rendono l’album ancora più vario e vivo.
Al suo ottavo disco in proprio, PJ si conferma una DJ molto varia nelle sue scelte e un ascolto fondamentale per i nostri tempi. E soprattutto riesce ancora a sorprendere con un album che non solo parla di guerra, ma è anche una bomba.
(voto 8+)
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sabato 12 febbraio 2011
DeVotchKa Absolut
Stasera potete decidere se
a) bere vodka
b) ascoltare i DeVotchKa e il loro splendido nuovo album "100 Lovers"
c) bere vodka ascoltando in tranquillità i DeVotchKa
d) sboccare vodka e ripigliarvi domattina ascoltando i DeVotchKa: funziona!
giovedì 27 gennaio 2011
Il re è morto, lunga vita ai Decemberists
Decemberists “The Kings is Dead”
Genere: country folk
Provenienza: Portland, USA
Se ti piace ascolta anche: Damien Rice, Rilo Kiley, Counting Crows, New Pornographers, Bright Eyes
La settimana scorsa al numero uno della classifica Billboard americana c’erano i Cake, questa settimana i Decemberists. Si può imputare la clamorosa doppietta indie a una mancanza di uscite da parte dei nomi forti della musica cosiddetta “commerciale”, però intanto sono cose che in Italia ad esempio mica succedono manco per sbaglio (l’ultima sorpresa è stata forse “Forma e sostanza” dei CSI al numero 1 nel 1997) e che invece negli Usa ormai capitano sempre più spesso, vedi anche gli exploit nel recente passato di Vampire Weekend, Arcade Fire o Death Cab For Cutie. Cose che non si vedevano dall’esplosione della scena grunge e alternative rock dei primi ’90.
Quanto al dischetto in questione, i Decemberists dopo le ambizioni da rock opera in parte riuscite del precedente azzardato “The Hazards of Love”, ritornano verso i loro ambienti prediletti con una serie di ballate folk, ora ancora più country e profondamente americane che in passato. Disco stavolta non troppo coraggioso, ma fatto di una serie di canzoni tra il piacevole e l’ottimo, con picchi personali registrati nell’irresistibile “Rox in the box”, nella delicata “January Hymn”, nella damienriceiana “Rise to me” e nella r.e.m.mmiana “Down by the water”.
Questo è l’American (indie) dream.
(voto 7)
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domenica 2 gennaio 2011
Album 2010 - n. 10 Laura Marling "I Speak Because I Can"
Laura Marling "I Speak Because I Can"
Genere: best folk in town
Provenienza: Hampshire, Inghilterra
In classifica perché: lei parla perché può, noi ascoltiamo perché non si può non rimanere rapiti dalle sofferte storie folk di questa giovane ragazza
Se ti piace ascolta anche: Emmy the Great, Noah and the Whale, Mumford & Sons, Bombay Bicycle Club, Villagers, Lissie
Pezzo cult: "Devil's Spoke"
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venerdì 31 dicembre 2010
Album 2010 - n. 15 She & Him "Volume Two"
She & Him "Volume Two"
Genere: pop retrò
Provenienza: Somewhere, USA
In classifica perché: “Una mente come la tua bene aperta può creare tutto un nuovo mondo” dice Zooey Deschanel (cantante degli She & Him, nota del blogger) nel film Un ponte per Terabithia. Anche dischi come questo possono farlo.
Se ti piace ascolta anche: Rilo Kiley, M. Ward, Tilly and the Wall, Connie Francis, Peggy Lee
Pezzi cult: "In the sun", "Over it over again"
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Genere: pop retrò
Provenienza: Somewhere, USA
In classifica perché: “Una mente come la tua bene aperta può creare tutto un nuovo mondo” dice Zooey Deschanel (cantante degli She & Him, nota del blogger) nel film Un ponte per Terabithia. Anche dischi come questo possono farlo.
Se ti piace ascolta anche: Rilo Kiley, M. Ward, Tilly and the Wall, Connie Francis, Peggy Lee
Pezzi cult: "In the sun", "Over it over again"
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Album 2010 - n. 16 Agnes Obel "PhilHarmonics"
Agnes Obel "Philharmonics"
Genere: pop folk autunnale
Provenienza: Danimarca
In classifica perché: contiene le linee di piano più belle sentite quest'anno e la sua voce sottile fa tutto il resto
Se ti piace ascolta anche: Bat For Lashes, Florence and the Machine, PJ Harvey, Bjork, Fever Ray, Soap & Skin, Sia, Yael Naim, Aimee Mann
Pezzo cult: "Riverside"
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giovedì 30 dicembre 2010
Album 2010 - n. 17 Ellie Goulding "Lights"
Ellie Goulding "Lights"
Genere: pop-folk electro
Provenienza: Londra, Inghilterra
In classifica perché: ha una voce talmente bella che potrebbe anche cantare il repertorio di Apicella e renderlo magico. Ma non è questo il caso, visto che ci sono pure delle ottime canzoni
Se ti piace ascolta anche: La Roux, Little Boots, Frankmusik, Ladyhawke, Marina & the Diamonds, Bat for Lashes
Pezzi cult: "Under the sheets", "The Writer"
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domenica 26 dicembre 2010
Album 2010 - n. 30 John Grant "Queen of Denmark"
John Grant "Queen of Denmark"
Genere: ballate d'autore
Provenienza: Denver
In classifica perché: suona come un classico uscito dai 70s sospeso tra pop e folk
Se ti piace ascolta anche: Czars, Midlake, David Bowie, Villagers, Agnes Obel
Pezzo cult: "I wanna go to Marz"
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lunedì 27 settembre 2010
Disco killer
Charles Manson “Air”
Un disco che vi farà e pezzi… le orecchie.
Charles Manson, sì quel Charles Manson quello pazzo quello killer, ha registrato un disco anzi una serie di dischi. Il primo è appena uscito e, anche mettendo da parte i (legittimi) pregiudizi che si possono avere sulla sua adorabile personcina, è musicalmente una ciofeca. Se registrassi nella mia cameretta un disco con una chitarra e un microfono difficilmente uscirebbe qualcosa di peggiore. E io sto stonato come ‘na campana e ho abbandonato le lezioni di chitarra dopo meno di un mese ed è stato anni fa.
Per questo album atroce si merita qualche anno extra di galera, altroché “Air”.
(voto 1-)
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mercoledì 17 marzo 2010
Parlo perché posso
Periodo grandioso, questo, per la musica folk al femminile. C’è n’è in tutte le varianti e per tutti i gusti, tra il triplo folle disco pieno di magie nascoste di Joanna Newsom, il nuovo album spettacolo degli She & Him di cui vi parlerò a breve, l’Opera a 360° di Anais Mitchell esaltata dall’amico blogger Bird Antony, la versione più pop del genere Amy MacDonald e quindi Laura Marling.
Mi piace fin dal titolo, il secondo lavoro della cantantessa folk Laura Marling. In mezzo a tanta gente che parla solo perché ha la lingua, lei dice “Parlo perché posso”. Questo è avere le idee chiare. Lei sì che può parlare.
Il suo esordio “Alas I cannot swim” di un paio di primavere orsono era davvero folgorante. Ora Laura alla veneranda età di 20 anni (è nata nel 1990!) sembra aver già raggiunto la maturità più completa. Da bionda si è tramutata in mora e si è fatta dare una mano per le registrazioni da specialisti in atmosfere folkloristiche come Mumford & Sons e Noah & the Whale.
Voce, chitarra acustica, qualche arco e pochi altri orpelli. Quanto basta per creare una tensione sonora notevole e costante. Quanto basta per farne un album di quelli che durano nel tempo. Raramente ascolto dischi così spesso. Eppure c’è qualcosa nella musica di Laura Marling che mi ammalia come solo pochi altri artisti sono in grado di fare.
Canzoni come “Rambling man” o “Devil’s spoke” le si immagina scritte da chi ha vissuto una vita lunga molto lunga e molto vissuta. Invece questa ragazzina ne sa già parecchie a 20 anni 20 e non ha paura di dirlo.
I speak because I can.
Trovate il (meraviglioso) disco QUI
Mi piace fin dal titolo, il secondo lavoro della cantantessa folk Laura Marling. In mezzo a tanta gente che parla solo perché ha la lingua, lei dice “Parlo perché posso”. Questo è avere le idee chiare. Lei sì che può parlare.
Il suo esordio “Alas I cannot swim” di un paio di primavere orsono era davvero folgorante. Ora Laura alla veneranda età di 20 anni (è nata nel 1990!) sembra aver già raggiunto la maturità più completa. Da bionda si è tramutata in mora e si è fatta dare una mano per le registrazioni da specialisti in atmosfere folkloristiche come Mumford & Sons e Noah & the Whale.
Voce, chitarra acustica, qualche arco e pochi altri orpelli. Quanto basta per creare una tensione sonora notevole e costante. Quanto basta per farne un album di quelli che durano nel tempo. Raramente ascolto dischi così spesso. Eppure c’è qualcosa nella musica di Laura Marling che mi ammalia come solo pochi altri artisti sono in grado di fare.
Canzoni come “Rambling man” o “Devil’s spoke” le si immagina scritte da chi ha vissuto una vita lunga molto lunga e molto vissuta. Invece questa ragazzina ne sa già parecchie a 20 anni 20 e non ha paura di dirlo.
I speak because I can.
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mercoledì 3 marzo 2010
I'm lovin' it
And you’re singing the songs, thinking this is the life and you wake up in the morning and your head feels twice the size l’abbiamo canticchiata tutti.
Io ho consumato l’album d’esordio di Amy MacDonald appena uscito nel 2007, già parecchio prima che la scovassero appena pochi mesi fa le radio commerciali italiane e Simona Ventura (che l’ha ospitata a “Quelli che il calcio” che in un impeto pippobaudiano l’ha presentata quasi come una SUA scoperta). Non lo dico per tirarmela (vabbè, giusto un poco) ma solo per dire che nell’epoca di internet non è più necessario aspettare i porci comodi dei tempi della discografia (perché, esiste ancora?) italiana.
Il suo secondo album “A Curious Thing” non è stato quindi concepito in fretta e furia per sfruttare l’onda lunga del successo tardivo, ma è nato nei tempi giusti e ci porta una MacDonald con un suono rinnovato e canzoni ispirate.
Il primo singolo “Don’t tell me that it’s over” tenta una strada più rockeggiante alla Cranberries, con un ottimo accompagnamento d’archi che ricorda (così come il titolo) la mia amata “Tell me where it hurts” dei Garbage. Anche la successiva “Spark” si dirige sulla stessa riga.
Il pezzo successivo annuncia “I got no roots” e invece Amy torna alle radici folk con una ballata delicata nel suo stile.
“Love love” ha un ritmo allegro che ammicca agli 80s, ma sotto pelle si intravede l’impronta country. L’avrei vista bene reinterpretata da Johnny Cash.
Il disco prosegue con canzoni notevoli che ho l’impressione consumerò per lungo tempo, proprio com’era successo ai tempi del primo album. Alla faccia dei panini McDonald’s da consumersi fast entro 15 minuti, la musica di Amy MacDonald va gustata con calma, assaporando lentamente tutte le sfumature delle sue storie di gioventù folk. Parappapapa. I’m lovin’ her.
Il disco è QUI
Io ho consumato l’album d’esordio di Amy MacDonald appena uscito nel 2007, già parecchio prima che la scovassero appena pochi mesi fa le radio commerciali italiane e Simona Ventura (che l’ha ospitata a “Quelli che il calcio” che in un impeto pippobaudiano l’ha presentata quasi come una SUA scoperta). Non lo dico per tirarmela (vabbè, giusto un poco) ma solo per dire che nell’epoca di internet non è più necessario aspettare i porci comodi dei tempi della discografia (perché, esiste ancora?) italiana.
Il suo secondo album “A Curious Thing” non è stato quindi concepito in fretta e furia per sfruttare l’onda lunga del successo tardivo, ma è nato nei tempi giusti e ci porta una MacDonald con un suono rinnovato e canzoni ispirate.
Il primo singolo “Don’t tell me that it’s over” tenta una strada più rockeggiante alla Cranberries, con un ottimo accompagnamento d’archi che ricorda (così come il titolo) la mia amata “Tell me where it hurts” dei Garbage. Anche la successiva “Spark” si dirige sulla stessa riga.
Il pezzo successivo annuncia “I got no roots” e invece Amy torna alle radici folk con una ballata delicata nel suo stile.
“Love love” ha un ritmo allegro che ammicca agli 80s, ma sotto pelle si intravede l’impronta country. L’avrei vista bene reinterpretata da Johnny Cash.
Il disco prosegue con canzoni notevoli che ho l’impressione consumerò per lungo tempo, proprio com’era successo ai tempi del primo album. Alla faccia dei panini McDonald’s da consumersi fast entro 15 minuti, la musica di Amy MacDonald va gustata con calma, assaporando lentamente tutte le sfumature delle sue storie di gioventù folk. Parappapapa. I’m lovin’ her.
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