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martedì 28 maggio 2013

IL VECCHIO GATSBY


Il grande Gatsby
(USA 1974)
Regia: Jack Clayton
Sceneggiatura: Francis Ford Coppola
Tratto dal romanzo: Il grande Gatsby di F. Scott Fiztgerald
Cast: Robert Redford, Mia Farrow, Sam Waterston, Bruce Dern, Karen Black, Scott Wilson, Lois Chiles, Edward Herrmann, Kathryn Leigh Scott, Patsy Kensit
Genere: classico
Se ti piace guarda anche: Il grande Gatsby (2013), Le regole della casa del sidro, Boardwalk Empire

Vedere Il grande Gatsby nella versione anni '70 firmata da Jack Clayton dopo Il grande Gatsby di Baz Luhrmann è come vedere il giro di prova di un gran premio di Formula 1 una volta terminata la corsa. Se Luhrmann tira ogni marcia al limite, sfrutta ogni cordolo, spinge ad ogni rettilineo come se non ci fosse un domani, Clayton frena prima di ogni curva, non supera mai i limiti di velocità e va spedito quanto una nonnina su una vecchia Panda scassata. E pensare che il mezzo che hanno sotto al culo è lo stesso. È la Ferrari della letteratura americana. È Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald.
Testimonianza visiva delle mie parole sono le due scene in cui Nick Carraway va in auto con Jay Gatsby: un viaggio spericolato e a perdifiato nella versione con DiCaprio al volante, un rassicurante viaggio che al confronto A spasso con Daisy è un action movie ci aspetta invece nella versione con Robert Redford.

"Grazie Gatsby, questo appuntamento è meglio di un'esterna di Uomini e Donne."
Un ottimo confronto/scontro tra le due versioni l’ha già fatto il sito Cinemalato, quindi non starò a replicarlo, anche perché secondo me la pellicola di Baz Luhrmann è in tutti gli aspetti superiore, più grandiosa e figa di quella degli anni ’70. Più che uno scontro, mi limiterò a testimoniare allora il massacro della nuova versione rispetto a quella precedente.

Per prima cosa la regia. Qui non c’è proprio competizione, siamo su due pianeti differenti. Il fu Jack Clayton si limita a girare tutto in maniera molto classica, con stile da sceneggiatone televisivo. Sembra si sia limitato a trasporre quanto scritto da Fitzgerald, senza aggiungere il minimo tocco inventivo. Tutt’altro lavoro lo compie Baz Luhrmann, che ci mette dentro la sua visione, il suo cinema, la sua creatività. Cosa che significa un montaggio dal ritmo elevato, che aumenta notevolmente il coinvolgimento nei confronti della storia, rispetto a una versione dei 70s troppo calma e lenta. Cosa che significa anche l’utilizzo delle tanto contestate canzoni di oggi, applicate a un contesto anni ’20. Una mossa che può aver scandalizzato giusto chi non ha mai visto Moulin Rouge!, e una mossa che rende il suo film più attuale e frizzante.

"Daisy, si può sapere perché hai un preservativo in testa?"
"E che gatsbyta ne so, io?"
Volete un esempio?
Facciamo un paragone. Il grande Gatsby del 1974 suona come quelle cover band di periferia che abbondano nei locali. Quelle tribute band a Vasco, ai Queen, persino ai Negramaro. Vi rendete conto che esistono tribute band dei Negramaro?
Ecco, tali gruppi si limitano a suonare i pezzi imitando il più possibile gli originali. Più sono fedeli, meglio è. La minima variazione viene infatti vista dai fan hardcore come una bestemmia. Baz Luhrmann a fare delle cover del genere non gliene può fregare di meno. Lui ci deve mettere del suo, in una storia. Che riprenda il Romeo + Giulietta di William Shakespeare o un altro grande classico come Il grande Gatsby di Fitzgerald, lui suona la sua musica. Ci regala una interpretazione tutta personale di qualcosa di già famoso, rendendolo nuovo, come se fosse cantato, pardon narrato per la prima volta.
Le scene delle feste del suo film sono esaltanti e, pur proponendo della musica di oggi, anzi proprio per questo, rendono al meglio quello che doveva essere il clima dei party scatenati negli anni ’20. La fredda e precisina messa in scena del film di Jack Clayton non ci fa invece assaporare, se non in minima parte, la trasgressione e la glamourosità di tali eventi. In tal senso, l’elaborazione post-moderna è la scelta migliore per fare gustare a noi pubblico ggiovane di ogggi il clima dell’epoca.
A livello puramente personale, non vedo davvero il senso di riproporre in maniera sterile un film ambientato negli anni ’20 con lo stesso stile degli anni ’20. Per quello c’è già il romanzo, ci sono già le versioni cinematografiche del 1926 e del 1949, oltre a quella del 1974. La versione 2013 è qualcosa di differente, la riproposizione attuale migliore possibile di un classico. Una maniera più efficace di raccontare le storie di ieri con l’occhio di oggi come quello mostrato in Romeo + Giulietta o nel nuovo Il grande Gatsby non riesco a immaginarlo. Io a questo punto farei girare a Baz Luhrmann tutti i classici della letteratura mondiale. La Bibbia in versione Baz Luhrmann? Correrei a vederla subito.

Anche i personaggi nelle mani del regista australiano diventano più intriganti, più vivi, e qui il merito va pure allo strepitoso cast. Dopo averci tanto pompato la figura di Gatsby e averlo avvolto in un’aura di mistero, la prima apparizione di Robert Redford in solitaria è parecchio sottotono. Tutt’altra storia l'arrivo di Leo Gatsby in mezzo alla folla, un ingresso da prima donna in perfetto stile Luhrmann. La pellicola 2013 è poi maggiormente incentrata sul grande personaggio del titolo, grazie a una interpretazione più sentita e sofferta del Peppino DiCaprio rispetto a quella un po’ svogliata del Redford, e grazie a un maggiore spazio a lui dedicato dalla narrazione, con un efficace flashback sulla sua gioventù. Questo avviene forse perché, come sottolinea Valentina Ariete del blog Eyes Wide Ciak, “il regista non si è immedesimato nel protagonista, ovvero lo scrittore Nick (Tobey Maguire), come invece fa Fitzgerald, quanto piuttosto in Gatsby, vero deus ex machina del racconto.”

Nick Carraway a sua volta viene ritratto da Tobey Maguire in versione più nerdosa, come un estraneo che si ritrova catapultato in un mondo non suo, nonostante pure lui sia cresciuto in una famiglia benestante. È un po’ come il Seth Cohen della serie tv The O.C., sebbene più serioso e privo di quell’ironia indie pre-twitteriana. O come una versione più simpatica del Dan Humphrey di Gossip Girl, tanto per restare in ambito di telefilm teen.
Nella versione 1974 c’è invece Sam Waterston, attore rivisto di recente nella serie The Newsroom, pure lui, va riconosciuto, piuttosto efficace nei panni del Carraway.

L’attore che interpreta Tom Buchanan nella vecchia versione sembra invece il comico Will Ferrell, ma non è il padre di Will Ferrell, bensì il padre di Laura Dern, la protagonista di Inland Empire, Velluto blu e Cuore selvaggio di David Lynch. Si tratta di  Bruce Dern, attore premiato un paio di giorni fa al Festival di Cannes come migliore attore. Non male il suo Tom Buchanan, ma convince ancora di più il nuovo Joel Edgerton, che offre la sua migliore interpretazione dopo essere apparso piuttosto imbambolato in film come Warrior o La cosa. Bene anche tutti i personaggi minori, con le fanciulle Isla Fisher, Elizabeth Debicki e Adelaide Clemens più sexy e stilose delle loro antenate colleghe Karen Black, Lois Chiles e Kathryn Leigh Scott. L’unico a perdere il confronto è allora Jason Clarke, parecchio più a suo agio come agente della CIA in Zero Dark Thirty che non come benzinaio sfigato qui, battuto da Scott Wilson, oggi interprete di Hershel Greene in The Walking Dead.

Piccola nota curiosa: la figlia di Daisy che appare in una breve scena è interpretata da una giovanissima Patsy Kensit!

E veniamo proprio a Daisy, il personaggio più controverso. Mia Farrow fisicamente non mi piace proprio e anzi, mi inquieta assai. Sarà per via di Rosemary’s Baby? Non mi sembra possieda quindi il fascino adatto da giustificare che uno come Robert Redford dedichi la sua intera esistenza a conquistarla. Al di là di questo parere estetico soggettivo, la Daisy stronza e parecchio odiosa da lei portata su grande schermo sembrerebbe più fedele a quanto concepito da Fitzgerald.

Il personaggio portato nei cinema di oggi da Carey Mulligan è invece quello di una Daisy un attimo più umana. Più tenera. Laddove la capricciosa Mia Farrow ti veniva voglia di scaricarla in mezzo all’autostrada, Carey possiede invece quel fascino da cucciola abbandonata che ti viene voglia di portare a casa con te. In questo senso, l’ossessione di Gatsby nei suoi confronti appare più sensata.

ATTENZIONE SPOILER
La scelta di addolcire un po’ il personaggio di Daisy, tra l'altro, rende ancora più amara e inaspettata la mazzata del finale.
E a proposito del finale, pure in questo caso Luhrmann la sfanga in una maniera migliore rispetto al film di Jack Clayton, che pure poteva vantare una sceneggiatura firmata dal Signor Francis Ford Coppola, evidentemente impegnato più che altro a terminare il compitino in maniera diligente da bravo studente, piuttosto che metterci un po’ di inventiva. Luhrmann decide di tagliare via il personaggio del padre di Gatsby, di cui in precedenza si era fatto a mala pena menzione, che appesantisce la versione del 1974, per concentrarsi sulla grande solitudine di Gatsby e sul suo rapporto con Carraway, il suo unico amico. Una mossa che rende la pellicola ancora più emozionante. Tanti hanno accusato il film di essere freddo, sarà colpa del personaggio di Daisy?, ma a me è sembrato piuttosto l’opposto. È semmai una pellicola molto carica, a livello visivo quanto emotivo, laddove la versione di Clayton è carente sotto entrambi gli aspetti.

In pratica, per quanto guardabile, quello del 1974 è un piccolo Gatsby. È tutto meno. Meno intenso, meno emozionante, meno, molto meno spettacolare. Tranne il sudore. Nella pellicola di Jack Clayton i protagonisti sudano ancora di più, ed è una cosa anche abbastanza disgustosa. A parte questo dettaglio, è tutto troppo meno. O, forse, è semplicemente Il grande Gatsby di Baz Luhrmann a essere tutto troppo più.
(voto 6/10)



E questo è il poster realizzato dal mio grafico di fiducia C[h]erotto (che ovviamente ha anche realizzato il mio nuovo header) su Il grande Gatsby per la serie Minimal Incipit.
Cosa sono i Minimal Incipit?
Una serie di poster in cartone dedicati ad alcuni classici della letteratura, da adesso acquistabili sul sito Minimal Inc.


venerdì 2 novembre 2012

Francis Ford Scoppola

"Voglio del sangue, non un Twix!"
Twixt
(USA 2011)
Regia: Francis Ford Coppola
Cast: Val Kilmer, Bruce Dern, Elle Fanning, Ben Chaplin, Joanne Whalley, David Paymer, Anthony Fusco, Alden Ehrenreich, Don Novello, Ryan Simpkins
Genere: American gothic
Se ti piace guarda anche: Il seme della follia, 1408, Drag Me to Hell

Twixt è un nuovo film sui vampiri con Elle Fanning, la sorellina di Dakota Fanning che ha un ruolo, seppur marginale, nella saga di Twilight. E allora pensi che questa pellicola possa nascere sulla scia della saga creata dalla mente malata di Stephenie Meyer. Poi leggi il nome del regista: Francis Ford Coppola.
WTF?
Retro marcia.
Il pensiero va adesso a capolavori come Apocalypse Now e Il Padrino, robe entrate nella storia del cinema, mica robertpattinsonate. Le aspettative a questo punto si fanno un tantinello elevate. Pure troppo. È meglio abbassarle subito, perché Twixt non è all’altezza di simili capolavori. Nemmeno può competere con il Dracula firmato dallo stesso Coppola negli anni ’90, nonostante la materia trattata.

"Elle, se reciti la parte della vampira come Kristen Stewart, ti gonfio la faccia
fino a fartela diventare come quella di Val Kilmer!"
Twixt trattasi di un Coppola chiaramente minore. Minore ma non figlio di un Dio minore come lo Scorsese di Hugo Cabret o Tim Burton degli ultimi film, precisiamo. Un Coppola in via sperimentale, come del resto lo è stato un po’ in tutta la sua carriera, sempre alla ricerca di una sfida nuova e differente da quanto fatto in precedenza. Un Coppola più moderno, alle prese con la tematica teen vampiresca che oggi tanto va di moda?
Sì e no.
Perché Twixt è una pellicola visivamente moderna, parzialmente girata in digitale, con un occhio, ma solo uno, teso alle nuove tendenze, grazie a un gioco nei colori di tipo fumettistico da qualche parte tra 300 e Sucker Punch, eppure il suo spirito guarda al passato. Alle storie gotiche. Ad Edgar Allan Poe, persino presente in prima persona tramite il volto di Ben Chaplin. Gotico di recente tornato (suo malgrado) alla ribalta con altre due pellicole, The Woman in Black con Daniel “Harry Potter” Radcliffe e The Raven con John “nuovo Nicolas Cage” Cusack, due delle visioni peggiori dell’annata, con cui Twixt per fortuna ha ben poco cui spartire, atmosfere a parte.
"Ma non è vero che mi sono gonfiato, ho solo
messo su quei 2 o 3 chili... Avrò mangiato troppi Twix?"
La presenza della vampira teen con l’apparecchio per i denti Elle Fanning e degli altri pallidi emo kids c’è, ma risulta decisamente marginale e sullo sfondo. Come se Coppola avesse voluto dire ai suoi produttori: vi sforno una pellicola che piacerà ai giovinastri emo ah yeah, e poi invece li avesse ingannati, relegandoli a un ruolo persino troppo sacrificato. Quando invece quello dei personaggi ggiovani è un punto che, sotto lo sguardo del “vecchio” Coppola, sarebbe stato molto interessante sviluppare.

Il Ford non James bensì Francis Coppola ha preferito allora concentrare tutte le sue attenzioni sul vero, unico e solo grande protagonista della vicenda: Hall Baltimore, uno scrittore di romanzi stregoneschi, una sorta di Stephen King di serie B, in tour in una cittadina misteriosa per promuovere il suo ultimo e non di gran successo libro. A interpretarlo troviamo un Val Kilmer ingrassatissimo, anche lui con una carriera allo sbando e alla ricerca del grande rilancio in stile Mickey Rourke con The Wrestler. Obiettivo solo sfiorato ma non centrato in pieno, perché se Kilmer qui risulta parecchio calato nella parte e offre una delle sue migliori interpretazioni di sempre, allo stesso tempo non riesce a convincere fino in fondo. Cosa che d’altra parte non ha mai fatto, a parte Top Gun. È pur sempre Val Kilmer, mica Al Padrino…

"Azz, se il mio ultimo libro sta avendo meno successo di quello di Cannibal
non è proprio un bel segno..."
La pellicola regala atmosfere dark affascinanti e splendidamente curate da un Coppola in buon spolvero e la storia è molto classica, quanto intrigante: il suddetto Hall Baltimore si imbatte nel caso misterioso di una ragazzina morta impalata come una vampira, dietro cui si nascondono altri misteriosi misteri di bambini morti, e la sua stessa figlia è morta in misteriose circostanze poco misterioso tempo prima. Hall decide così di scrivere un nuovo libro insieme allo sceriffo, un tipo stralunato quanto tutti gli altri personaggi della cittadina. A tratti la pellicola sembra aprirsi a momenti visionari e inquietanti, senza però riuscire a raggiungere livelli lynchiani. Hall Baltimore/Val Kilmer si muove in bilico tra fiction e realtà quasi come Sam Neill ne Il seme della follia di John Carpenter, ma quello che manca al film è una vera evoluzione nella storia e nei personaggi.
Il finale, in particolare, per quanto ironico e beffardo, appare buttato via in maniera troppo veloce, per un film che dura appena un’oretta e venti, meno della metà dei grandi capolavori del passato del Coppola. Un Coppola come detto minore, anche a livello di minutaggio, eppure comunque vivo, sperimentale, inquieto. Twixt sarà anche una delle sue pellicole meno riuscite e compiute, però almeno a tratti riesce ad affascinare e il protagonista, l’appesantito Kilmer, fa parecchia simpatia. Un esperimento curioso, destinato al fallimento, a cui comunque voler bene. Le vie del grande cinema passano pure di qui, per strade minori ma non minorate.
(voto 7-/10)


sabato 8 settembre 2012

Un film che non si può rifiutare. Oppure sì?

Il padrino
(USA 1972)
Titolo originale: The Godfather
Regia: Francis Ford Coppola
Cast: Marlon Brando, Al Pacino, James Caan, Robert Duvall, Richard S. Castellano, Diane Keaton, Abe Vigoda, Talia Shire, Gianni Russo, John Cazale, Simonetta Stefanelli, Franco Citti Roman Coppola, Sofia Coppola
Genere: mafioso
Se ti piace guarda anche: Il padrino – Parte II, Il padrino – Parte III, I Soprano, Quei bravi ragazzi, Scarface, Boardwalk Empire

“Cannibal Kid ha intenzione di parlare male de Il padrino? Amuninne picciotti, andiamo a dargli una bella lezione!”
Calma, raga, volevo dire: picciotti. Calma. Non è che abbia proprio intenzione di parlarne male. Nessuno, nemmeno io, mette in dubbio che Il padrino sia una pietra miliare del Cinema, o che sia recitato in maniera sontuosa, o che la regia del Coppola senior sia degna di ogni riverenza. Dico solo che a me personalmente non ha emozionato molto. Non ha toccato il mio cuoricino poco avvezzo a farsi coinvolgere da questi mafiosi. Quindi calma, picciotti.
Premettiamo una cosa: a me le storie di Mafia non piacciono. C’è poco da fare, non mi coinvolgono. Così come i western, i film sulla Mafia a me proprio non dicono nulla. Sarà per la presenza eccessiva di stereotipi sugli Italo-americani o perché non fanno altro che ammazzarsi per vendetta o per uno sgarro, o chissà perché. Il padrino quindi non l’avevo mai manco visto tutto. Avevo iniziato, poi mi ero rotto, ci avevo riprovato, mi ero fermato e quindi niente.
Adesso è stata la volta buona per vederlo. Finalmente visione integrale. A un anno di distanza da Apocalypse Now, con calma, sto scoprendo i grandi capolavori di Francis Ford Coppola. Tra un anno, con calma, magari sarà la volta pure del padrino – Parte II. Laddove però Apocalypse mi aveva fatto esclamare: “Wow!”, questo Padrino m’ha lasciato emotivamente molto più impassibile.
E dopo aver detto questo, m’è stata recapitata una testa di cavallo nel letto. Chissà come mai…



Tolto il sangue dalle lenzuola, ritorno a scrivere. A mio rischio e pericolo.
Narrativamente, Il Padrino è un film grandioso. Tratto dal romanzo omonimo di Mario Puzo, che ha lavorato a fianco di Coppola anche alla sceneggiatura, presenta una struttura sontuosa, con le storie dei vari personaggi che si intrecciano in maniera fluida eppure imprevedibile, e con una serie di svolte e di colpi di scena notevoli.
La sequenza iniziale del matrimonio della figlia del padrino è costruita in maniera impeccabile. Attraverso l’alternarsi delle immagini della festa con quelle dei vari personaggi, facciamo conoscenza con la famigghia, e in particolare con un Marlon Brando magistrale.
Cosa succede poi?
La notoria scena della testa di cavallo consegnata nel letto…
Una sequenza di enorme tensione, quasi horror, che certo non ha lasciato indifferente nemmeno me.
E poi, ancora, che altro succede?
C’è l’attentato a Don Vito Corleone. Dopo manco tre quarti d’ora, il film rischia di perdere il suo protagonista, il padrino del titolo. Il bello della sceneggiatura del padrino è proprio la sua imprevedibilità. Tutto può succedere, tutti possono morire, regola d’oro riscoperta di recente anche dalle serie tv, come Game of Thrones.

Con Marlon Brando ancora in vita ma ricoverato malconcio in ospedale, cominciamo a coinvolgerci allora più per le vicissitudini del figlio, Al Pacino. Poco dopo, questi commette un omicidio e viene costretto a lasciare la città, per andare in esilio per un tempo indefinito. E così ci siamo giocati i due protagonisti principali a manco metà della durata della pellicola?
Non esattamente, visto che le attenzioni si concentrano quindi sull’esilio siciliano di Al Pacino. E qui, grazie anche al magnifico tema musicale di Nino Rota, abbiamo la parte più coinvolgente da un punto di vista dei sentimenti, grazie al colpo di fulmine di Al Bacino per una picciotta locale, l’attrice romana Simonetta Stefanelli che poi nella vita reale s’è sposata non con Al Bacino ma con Michele Placido e insieme hanno avuto Violante e pure Brenno e poi hanno divorziato e adesso Michele Placido si è risposato con una ragazza più giovane di sua figlia Violante e chissà cosa ne pensa Violante Placido di chiamare matrigna una che ha sette anni in meno di lei e chissà cosa ne pensa suo padre di un film da schifo come The American interpretato dalla figlia e insomma la famigghia Placido dev’essere ancora più interessante di quella del padrino.

Tornando live sul film, quella siciliana e romantica è una parte che avrebbe magari meritato un ulteriore sviluppo, però siamo pur sempre dentro una pellicola criminale e quindi si ritorna a sparare, a far saltare in aria, a uccidere.
Il bello del padrino è questo, come detto. Tutto può succedere. Tutti possono morire in qualunque momento. Però alla fine è anche il suo limite, il limite emotivo di una pellicola che ci presenta i vari personaggi della famigghia, ma non ci fa avvicinare, mai fino in fondo, a nessuno di loro.
In mezzo a una lunga scia di morti e di vendette, assistiamo comunque alla cosa più notevole della pellicola: la progressiva trasformazione di Al Pacino in Al Padrino.

Film splendido, magistrale, enorme?
Certo, certo, certo.
Capolavoro?
Assolutamente sì. Solo, non è un cult cannibale.
Volete farmene una colpa? Volete davvero farmene una colpa?
Un’altra testa di cavallo m’avete consegnato?


Certo che voi picciotti siete belli vendicativi!
(voto 8-/10)

Post pubblicato anche su L'orablu



mercoledì 3 agosto 2011

Twilight Coppola

Vampiri, streghe, misteri assortiti.
Non ci troviamo in un episodio delle saghe di Twilight, True Blood o The Vampire Diaries, ma nel nuovo film di Francis Ford Coppola. Sì, proprio lui.
Prima di gridare all’orrore, l’orrore, gustatevi il nient’affatto scontato trailer.
Mi sa che ne vedremo delle belle in questo Twixt

lunedì 27 giugno 2011

Apocalypse Wow

Apocalypse Now
(USA 1979)
Regia: Francis Ford Coppola
Cast: Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Dennis Hopper, Laurence Fishburne, Harrison Ford, Frederic Forrest, Sam Bottoms, Scott Glenn, Francis Ford Coppola, Colleen Camp, Linda Carpenter, Cynthia Wood
Genere: odissea nella guerra
Se ti piace guarda anche: La sottile linea rossa, Full Metal Jacket, Platoon

Per la serie: anche la rivalità con il mio blogger-nemesi Mr. James Ford può portare a qualcosa di buono. Dopo una discussione con quel guerrafondaio sui film di guerra, genere cinematografico che io in genere non amo molto, ho deciso di recuperarmi Apocalypse Now (in goduriosa versione Redux), che colpevolmente ammetto di non aver mai visto. Fino a pochi giorni fa.
Avevo fatto male? No, perché secondo me i film vanno gustati al momento giusto della propria vita e magari fatta qualche anno fa questa visione non mi avrebbe sconvolto così tanto. E invece si vede che era arrivata l’ora giusta. L’ora “Apocalisse ora”.


La cosa che più ha colpito di questo film (tra l’altro appena uscito in Blu-Ray per quegli sbadati come me che se l’erano perso) non è stata tanto la tanto celebrata interpretazione di Marlon Brando o il risolvimento finale, perarltro grandiosi. È tutta la lunga prima parte, quella dell’attesa che cresce, quella che pur non trattandosi di un thriller monta su una suspence incredibile, quella del grande mistero che avvolge la figura del Colonnello Kurtz prima ancora di poterlo vedere: sentiamo la sua voce registrata, leggiamo il suo curriculum vitae bellico, ne sentiamo parlare ma rimane un punto interrogativo avvolto in una nuvola.
Attraverso gli occhi del protagonista Martin Sheen, il padre di quel degenerato di Charlie (che non fa surf, ma si fa solo delle gran pornostar e delle gran piste di coca), ci troviamo di fronte all’orrore l’orrore della guerra in Vietnam. Non attraverso scene di puro pietismo o espedienti da lacrime facili, né tanto meno attraverso quella retorica tronfia ed epica che attraversa tanti war movies, e neanche con una prevedibile condanna della guerra. No no. Niente di tutto ciò, bensì tutta la follia dei soldati americani. Più che un film sulla guerra o sulla violenza, lo definirei quindi un film sulla follia umana.

Il Colonnello Kilgore interpretato da Robert Duvall è il numero uno. Un capo supremo. Un folle supremo. Un cretino supremo. Un annusatore di Napalm al mattino. Un’anticipazione fuori di testa del Colonnelo Kurtz. Il senso senza senso della guerra in Vietnam, ma in fondo di qualunque guerra, sta tutto nella scena in cui invita i suoi soldati a fare surf mentre dal cielo piovono missili. Cos’altro ci deve dire di più Coppola? Omini che giocano alla guerra. La guerra come divertimento. La guerra come droga, ci confermerà poi in seguito Kathryn Bigelow con il suo The Hurt Locker da Oscar (tiè Avatar!). La guerra come casa, ci dice quel Martin Sheen che dal Vietnam non riuscirà mai a venirne fuori. La sua testa rimarrà per sempre lì.
Le donne presenti nel film cercano di ridare umanità ai soldatini deumanizzati dalla guerra, ma ci riescono? Mi sa proprio di no. Le conigliette di Playboy compaiono come una fantasia che improvvisamente si materializza, come un’oasi in mezzo al deserto, e come tali vengono trattate, con il soldato che invece di godersi la compagnia della fanciulla le mette una parrucca per farla sembrare la coniglietta di un altro mese. Una fantasia che diventa realtà, ma continua ad essere vissuta come una fantasia: effetto di una guerra che ha fatto perdere ai soldati qualunque concetto di cosa sia la vera realtà.

Un’Odissea lunga e avvincente, soprattutto sorprendente, che ci porta a sprofondare sempre più in un’Apocalisse spaventosa e allo stesso tempo stranamente estremamente affascinante e, tra una cavalcata delle Valchirie entrata nella leggenda e un formidabile Dennis Hopper che probabilmente ha recitato del tutto strafatto, Martin Sheen arriva infine all’uomo-obiettivo della sua missione segreta (si fa per dire, segreta). Il colonnello Kurtz appare un uomo stanco, proprio come Silvio Berlusconi in questi giorni. Una persona che ha davvero visto e fatto di tutto e che ormai sembra stufo persino della venerazione che lo circonda. Al di là del fatto che il personaggio interpretato da Marlon Brando sia molto più profondo e intenso nelle sue riflessioni esistenziali e adotti una via comunicativa ben lontana dai proclami Dux-style del Berlusca, i due mi sembrano davvero simili. Hanno violato le leggi comunemente accettate e se ne sono create di proprie, creandosi un seguito che si avvicina al fanatismo religioso, eppure non ce la fanno più. Sono arrivati a fine corsa e hanno bisogno di qualcuno che abbia il coraggio e la prontezza di staccar loro la spina, qualcuno che faccia smettere di battere il loro cuore di tenebra. Kurtz lo troverà nel capitano Willard, l’altro invece lo sta ancora cercando.

In questa Disneyland bellica che ci mostra un Vietnam inedito tra surfisti, conigliette, colonnelli impazziti e soldati psicopatici, Francis Ford Coppola fa un uso estremamente moderno del montaggio e della colonna sonora, con una The End dei Doors che assume il ruolo di protagonista assoluta, suggerendoci come l’inizio sia in realtà la vera fine del film e viceversa, e questa è una cosa che forse sarà stata detta da moltissime altre analisi sulla pellicola, o forse è solo un viaggio mentale che mi sono fatto io.
Forse Martin Sheen nemmeno c’è mai stato in Vietnam.
Forse è tutto un sogno post-alcolico che ha vissuto nella sua stanzetta di motel.
Forse invece ci siamo andati noi, in Vietnam, a uccidere i colonnelli Kurtz delle nostre esistenze.
(voto 10)


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