Eminem è un po’ il Beppe Grillo del rap. Si possono condividere o meno i suoi pensieri, alcune sue frasi e prese di posizione possono essere parecchio discutibili, però ogni volta che si fa sentire non si può ignorarlo. Entrambi sono poi partiti come comici, pure Eminem, che all’inizio era il rapper clown di pezzi ironici e strafottenti come “My Name Is” e “The Real Slim Shady”, e poi via via hanno sempre più voluto essere presi sul serio. Non ogni volta con risultati riusciti, in fondo la loro arma principale è quella dell’ironia, più feroce è meglio è, ma se non altro ci provano a essere qualcosa di più di semplici divertenti cazzari.
Entrambi inoltre sono ricchi, popolari e potenti e potrebbero ritirarsi a condurre una vita tranquilla-la-la e nessun avrebbe da dir loro niente. Perché non lo fanno?
Qualcuno dirà per diventare ancora più ricchi, popolari e potenti e magari un pochino è vero. Però c’è un’altra cosa che tutti e due possiedono e che continua a farli andare avanti: la rabbia.
Eminem è ancora arrabbiato, Dio sia lodato. L’ultimo disco di Jay-Z, per dire di un suo amico-collega rapper, suona ad esempio come il passatempo di lusso di un uomo che dalla vita ha ormai avuto di tutto e di più, persino una Beyoncé come moglie, e non ha più nulla da chiedere o da dimostrare. Buon per lui, meno per la sua musica. Per nostra fortuna, magari meno per la sua, di fortuna, Eminem invece non è un uomo pacificato. Continua ad aver voglia di dimostrare di essere il numero 1, di essere l’hottest MC in the game. Un sacco di artisti questa grinta nel corso degli anni la perdono, lui ce l’ha ancora.
Questa ritrovata forza, che si era andata un po’ a perdere nei suoi precedenti lavori, di cui alcuni come l’ultimo Recovery comunque niente male, emerge chiara nel primo pezzo del suo nuovo disco. “Bad Guy” è un inizio della Madonna. Qui Eminem si mette a nudo, confessa di odiare il fatto di essere sempre considerato il cattivo, il villain della situazione, riprende in maniera autoironica la sua hit storica “Stan”, si cimenta con un pezzone di quelli che sembrano usciti da un disco di qualcuno dei nuovi rapper più lanciati, come Tyler, the Creator e Kendrick Lamar, gioca sul loro stesso territorio e li batte, prendendo il volo in una suite degna di Frank Ocean, o di Justin Timberlake, o (quasi) persino di “Paranoid Android” dei Radiohead. “Bad Guy” è uno dei brani più good nell’intera carriera del rapper e, se tutto il resto del programma fosse a questo livello, adesso potremmo urlare al - Capolavorooo! - . Così purtroppo non è.
“The Marshall Mathers LP 2” fin dal titolo di preannuncia come un sequel del suo album più venduto. Un disco che viene citato a campionato qua e là, ma con cui in fin dei conti a livello musicale non ha nemmeno troppo a che vedere. Probabilmente perché si tratta solo di una mossa di marketing, come ammette lui stesso nella citata “Bad Guy”: “And hey, here's a sequel to my Mathers LP/Just to try to get people to buy/How's this for publicity stunt? This should be fun/Last album now cause after this you'll be officially done.”
Il resto del disco non sarà ai livelli dell’apertura ma è comunque ricco di spunti stimolanti, a dimostrazione di un rapper che continua a essere vivo e vitale. A livello produttivo lo zampino di Dr. Dre si sente sempre meno (giusto in “So Much Better” che ricorda “Guilty Conscience”), mentre la parte del leone la fa Rick Rubin, che ci mette dentro il suo tocco rock, più un respiro da hip-hop old-school alla Beastie Boys, omaggiati più che esplicitamente nel cazzutissimo singolone “Berzerk”, una bomba con cui Marshall prende le distanze dai suoi passati successi e si lancia in qualcosa di retrò eppure nuovo.
Il tocco vintage viene fuori anche nei campionamenti, come quello della 70s “Life’s Been Good” di Joe Walsh nell’auto-retrospettiva “So Far…”, o come quello dell’inno anni Sessanta “Time of the Season” dei mitici The Zombies, trasfigurato da Eminem in “Rhyme or Reason”, una delle sue solite filastrocche cantilenanti che ai reduci del Vietnam potrebbe far storcere il naso ma che in realtà funziona alla grande.
Altri bei momenti arrivano con “Legacy”, che fa scattare invece il momento malinconia e suona come una possibile erede di “Stan”, mentre in “Rap God” Eminem va a ruota libera, con un quasi freestyle degno di una rap battle di 8 Mile.
Non tutto è oro colato, va detto; la rockeggiante “Survival” ad esempio appare buona come soundtrack di un videogame (infatti è presente in Call of Duty: Ghosts), meno in un album, e qualche pezzo non del tutto esaltante viene fuori soprattutto nella seconda parte. Non mancano inoltre le concessioni commerciali, dopo tutto la casa discografica di Eminem questo disco deve pur venderlo, ma sono giusto un paio: “The Monster”, nuovo duetto con Rihanna, tra l’altro spakka, mentre convince un po’ meno “Headlights” con Nate Ruess, il cantante dei fun., una canzone piuttosto lagnosa che ben poco ha a che fare con il resto del programma.
Nel complesso, Eminem se n’è tornato con un album convincente assai, con pochi momenti deboli e molti punti forti. Al di là delle singole canzoni, o del fatto che a livello musicale non si tratti certo di un lavoro rivoluzionario, ciò che emerge con maggiore prepotenza è un’altra cosa: Marshall Mathers ha una gran voglia di dimostrare di essere ancora il migliore della scena rap. Probabilmente non lo è. Kanye West a livello sonoro sta troppo oltre, Drake come songwriter ha una classe superiore, Tyler the Creator e Kendrick Lamar possiedono una freschezza da novellini irreplicabile, 2 Chainz è il più tamarro su piazza e A$AP Rocky oggi come oggi è troppo il più cool. Ma non importa che l’impresa di essere il numero 1 assoluto non gli sia riuscita. Mentre gli altri nomi sul grande campo dell’hip-hop cambiano, lui c’è sempre e probabilmente ci resterà ancora a lungo. Fino a che almeno non verrà a mancargli una cosa: la rabbia.
(voto 7/10)