Subito dopo aver visto il film Suffragette, il mio primo pensiero è stato: ma il post lo intitolo “Suffratette” oppure “Suffighette”?
Una domanda del genere, accompagnata dall'intenzione di iniziare l'articolo esaltando le Spice Girls, mi ha fatto sorgere il dubbio che forse non ero la persona più adatta per scrivere qualcosa di furbo riguardo a una pellicola come questa, che per altro devo dire non è che mi sia piaciuta molto. Non datemi del maschilista solo perché non ho apprezzato un film sul femminismo. È solo che mi è sembrato parecchio debole a livello cinematografico e la storia, per quanto ammirevole, è raccontata in maniera piatta, poco sentita, poco rivoluzionaria, ed è un vero peccato. Persino la mia adorata Carey Mulligan a questo giro non mi ha emozionato più di tanto, con un'interpretazione per i suoi standard sottotono, oltre che freddina.
"Non sarà la mia interpretazione migliore, però adesso non è che dovete arrestarmi per questo!"
Cast: Lily James, Cate Blanchett, Richard Madden, Holliday Grainger, Sophie McShera, Helena Bonham Carter, Stellan Skarsgård, Ben Chaplin, Hayley Atwell, Nonso Anozie
Genere: melenso, anzi zucchesco
Se ti piace guarda anche: Maleficent, Into the Woods, Once Upon a Time
C'era una volta un blogger che adorava le fiabe.
Non so come si chiamasse, ma di certo di nome non faceva Cannibal Kid. Questo perché Cannibal Kid ha sempre odiato le fiabe. Sempre sempre in realtà no. C'è stato un periodo in cui, se non si può dire che le abbia del tutto amate, le ha se non altro tollerate. Quel periodo risale a non troppi anni or sono, quando prodotti come i primi 2 Shrek o le prime stagioni della serie tv Once Upon a Time avevano portato all'interno del genere una ventata d'aria fresca. Per non dire un vero e proprio tornado, capace di prendere racconti e personaggi della tradizione popolare universalmente noti e proporli in una veste nuova, dotata di una forte ironia e di un'impronta moderna/postmoderna.
Il successo di Once Upon a Time ha però - ahinoi - portato più disgrazie che gioie all'interno del Regno della Fantasia. La serie stessa si è trasformata in una soap-fantasy con sempre meno fantasy e sempre più soap. Dopo aver visto le pure pucciosissime versioni in carne e ossa di Elsa e Anna di Frozen, persino il coraggioso Cannibal Kid ha dovuto cedere e non è più riuscito a proseguire nella visione di Once Upon a Time. Al cinema è stato poi un vero e proprio disastro, con un rifiorire di fiabe per il grande schermo rilette con sempre minore originalità e con risultati via via sempre più disastrosi. Dalla Biancaneve kitsch versione Tarsem a quella pseudo action con Kristen Stewart, fino ad arrivare alla buonista Angelina Maleficent Jolie e all'agghiacciante e inascoltabile musical Into the Woods.
Tratto dal musical: Les Misérables di Claude-Michel Schönberg (musiche) e Alain Boublil (testi)
A sua volta tratto dal romanzo: I miserabili (Les Misérables) di Victor Hugo
Cast: Hugh Jackman, Anne Hathaway, Russell Crowe, Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter, Eddie Redmayne, Amanda Seyfried, Aaron Tveit, Samantha Barks, Daniel Huttlestone, Isabelle Allen
Genere: canta tu
Se ti piace guarda anche: Rent, Nine, Sweeney Todd, Moulin Rouge!
Mi ha sempre fatto ridere questa espressione: I dreamed a dream. Ho sognato un sogno. E per forza, cosa dovevi fare? Incubare un incubo?
Comunque, “I Dreamed a Dream” è il brano più celebre e identificativo di Les Misérables, romanzo di Victor Hugo trasformato in uno dei musical di maggior successo nella storia di Broadway a partire dagli anni ’80, quando era al top della popolarità (non a caso viene spesso citato nel romanzo di Bret Easton Ellis American Psycho). Adesso è finalmente (finalmente?) diventato anche una pellicola cinematografica.
I dreamed a dream. Ho sognato un sogno. Nel sogno, non guardavo questo film ed ero più felice. Avrei potuto impiegare molto ma molto meglio le 2ore e 40minuti della durata del musical. Non so, ad esempio avrei potuto cominciare a giocare a Ruzzle, il gioco di parole che fino a qualche giorno fa non avevo mai sentito nominare e di cui adesso invece tutti parlano. Ovunque. Su Facebook, sui blog, per strada. Sembra di essere finiti nell’alba dei giocatori di Ruzzle viventi. C’è gente al volante che non guarda la strada per giocarci. Ne hanno parlato persino al TG5! A quel TG5 dove di solito la cosa più nuova di cui discutono è il nuovo disco di un nuovo artista emergente, un certo nuovo Vasco Rossi.
I dreamed a dream, dicevo. “I Dreamed a Dream” è un brano di sicuro impatto, non lascia indifferenti. È riuscito persino a trasformare Susan Boyle, e ho detto Susan Boyle, in una superstar mondiale, e ho detto superstar mondiale.
Figuriamoci allora se Anne Hathaway, grazie alla sua intensissima interpretazione nella parte di Fantine e soprattutto di questo brano, non riuscirà a portarsi a casa uno scontatissimo Oscar come miglior attrice non protagonista, dopo aver già vinto ai Golden Globes.
Non fraintendetemi, Anne Hathaway qui è davvero bravissima e l’Oscar sarà anche meritato, non certo un furto. Però non è il genere di performance recitative che preferisco. Troppo sopra le righe. Troppo eccessiva. Un talento troppo sbandierato. Come nel campo delle performance musicali fanno Andrea Bocelli, o Celine Dion o Mariah Carey. Nessuno mette in dubbio che abbiano un gran talento vocale, però io personalmente non riesco a sentirli se non munito di appositi tappi per le orecchie.
Anna Hathaway con la sua intepretazione breve ma intensa, pure troppo, rientra comunque tra le note più positive di questo Les Misérables e la scena in cui canta “I Dreamed a Dream” è impressionante per bravura recitativa. Il regista Tom Hooper invece strabilia parecchio di meno. Si limita a mettere la camera fissa su di lei e a far compiere tutto lo sforzo all’attrice. Così sono capaci tutti. Anche i Vanzina.
"Uh, mamma! Svegliateci quando il film è finito..."
Il film gode di una manciata di altre buone intepretazioni: Hugh Jackman se la cava bene, ma nel suo caso l’Oscar sarebbe davvero eccessivo. Bravi poi Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter (entrambi già nel musical burtoniano Sweeney Todd), protagonisti dei siparietti più divertenti, in grado di alleggerire un pochetto la situazione di un drammone che stava diventando insostenibile e in cui alle disgrazie personali dei miserabili protagonisti si aggiungono pure quelle legate alla Rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche. Va bene il dramma, va bene il melodramma, però Les Misérables più che un semplice drammone è un invito al suicidio.
A colpire in positivo, oltre ad Anne Hathaway, sono soprattutto i volti più nuovi: il bambinetto Daniel Huttlestone è il protagonista del momento musicale più figo, la scena in cui canta convintissimo “Look Down (Beggars)”. Perché sì, questo Les Misérables ha anche dei momenti buoni. Peccato che su 2 ore e 40 minuti ci siano giusto quelle 2 ore di troppo ad appesantire il tutto.
Non male anche l’emergente Samantha Barks, che arrivava già dalle versione concertale del musical. A lei è affidato l’altro brano più celebre de Les Misérables, ovvero “On My Own”. Più celebre almeno per me, visto che lo conoscevo grazie all’interpretazione di Katie Holmes/Joey Potter in Dawson’s Creek. Pensate un po’ voi su quali solide basi poggia la mia cultura.
"Non è il caso che continui a mentire dicendo che sono meglio di Marilyn,
tanto te la smollo lo stesso."
Tra gli altri giovani attori da tenere d’occhio, occhio appunto poi anche ad Aaron Tveit, già intravisto in Gossip Girl, e alla piccola Isabelle Allen, quella dell’inquietante manifesto della pellicola.
Mi ha convinto di meno invece Amanda Seyfried. Amanda sey fregna, okay, ma il musical non mi sembra troppo nelle tue corde. Continua a non dirmi nulla invece Eddie Redmayne, già anonimo protagonista di Marilyn (dove non era Marilyn, ma il giovane che ne era innamorato, nel caso aveste dubbi in proposito). Io sono il primo a sponsorizzare i giovani attori britannici, lui però no. Sarò comunque felicissimo se mi smentirà in futuro, ma di certo anche lui non mi sembra molto a suo agio con il musical e a livello vocale è il più miserabile del cast.
Se la cava a cantare Russell Crowe, d’altra parte è pure il leader di una rockband, i Russell Crowe & The Ordinary Fear of God, però dentro Les Misérables sembra davvero un pesce fuor d’acqua. Non che ci siano numeri di ballo, perché questo è uno di quei musical in cui non è che si balla. Non più di tanto. Si canta, sempre e soltanto. Il roccioso Russell Crowe comunque pare uno che si aggira in scena chiedendosi: “Ao’, io so’ Massimo, er Gladiatò. Che ce faccio in ‘sto musicarello per effeminati?”.
"Tutto bene, Anne?"
"No, mi si è rotto il karaoke. E mo' come faccio a esprimermi?"
La pellicola viaggia quindi a corrente alternata, tra intepretazioni, canzoni e scene più o meno apprezzabili. Il tutto tenuto insieme da una cura tecnica impeccabile, abiti e scenografie per carità magnifici, e dalla regia del menzionato Tom Hooper.
Riconosco a Tom Hooper di avere stile, un suo stile. Che poi a me questo stile faccia schifo, è un dettaglio non da poco. Adesso non so bene neanche quali termini tecnici sono più appropriati per descrivere il suo modo di girare. Propone spesso e volentieri delle inquadrature sbilenche, come fosse un Terry Gilliam privo però di tutto il talento visionario. Privilegia poi i primi piani e, come dire?, schiaccia la messa in scena, toglie profondità. Magari è solo un’impressione mia, ma quando guardo un suo film mi sento schiacchiato. Mi sento soffocare. Mi manca il respiro. Sto male fisicamente. È per questo che, dopo la già fastidiosa esperienza de Il discorso del re, quello che ha fatto una gran rapina agli Oscar di due anni fa, non ho mai visto il suo acclamato film d’esordio Il maledetto United, nonostante il Manchester United sia una delle mie squadre preferite. Perché ho paura del suo cinema. Mi fa stare male, maledetto Hooper.
"Al prossimo che si mette a cantare gli faccio saltare le cervella, intesi?"
La regia di Tom Hooper mi ha fatto stare male anche questa volta, nel caso ve lo chiedeste, ma non è la sola cosa ad aver avuto un effetto devastante sulla mia visione del film.
Non ho mai visto il musical da cui è tratto, quindi prendetele come considerazioni basate unicamente come supposizioni, ma un problema di Les Misérables il film è che ha troppo rispetto di Les Misérables il musical. E, per quanto riguarda gli adattamenti, l’eccessiva fedeltà per me non è mai un gran bene. Nel passaggio da un media a un altro vanno operate delle scelte, anche spietate se necessario. Guardando Les Misérables ho avuto l’impressione di un lavoro che a teatro sarebbe funzionato alla grande, ma su pellicola meno. Perché?
Perché questo musical è troppo… musical. Troppo cantato. I dialoghi sono pressoché inesistenti. Una scelta interessante, rischiosa, estrema. Dai risultati però devastanti per la psiche del miserabile spettatore. Terminata la visione del film, mi sono chiesto perché le persone intorno a me parlassero. Parlassero e non cantassero. Se odiate i musical quindi vi consiglio di girare al largo, perché questo film potrebbe farvi lo stesso effetto del sole per i vampiri: provocarvi combustione spontanea.
Per quanto mi riguarda, non sono mai stato un grosso fan dei musical. Ultimamente però ho apprezzato parecchio alcune rivisitazioni originali del genere, come Moulin Rouge! e Dancer in the Dark (che al confronto di questo era quasi una commedia goliardica), così come ho seguito con interesse il Glee dei primi tempi e pure l’altra serie musical Smash e tra poco vi parlerò pure di Pitch Perfect. Non partivo quindi del tutto a digiuno dal genere. Però vi assicuro che, se non siete fan hardcore dei musical, 2 ore e 40 minuti senza pause, tutte cantate, TUTTE cantate, vi faranno impazzire.
Ma perché diavolo cantate seeempreeeeeeeeee?
Vi fa così schifo parlareeeeeeeeee?
Non se ne può davvero piùùùùùùùù
e non mi resta altro che invocare Belzebùùùùùùù
Perché diavolo diavolo diavolo diavolo diavolo diavolo
(tutti in coro) DIAVOLO DIAVOLO DIAVOLO
perché diavolo cantate seeempreeeeeeeeeee?
Qualcuno me lo vuol spiegar?
qualcuno me lo sa spiegar?
La la la la la lalaaa? La la la la la la laaaaa?
Les Misérables ti mando fuori di testaaaaaaa.
Les Misérables ti fa gridare: “Ma bastaaaaaaa!”.
Poi basta. Mi è passata.
Dopo due giorni in cui sono andato in giro per strada a cantare e la gente, tra una partita a Ruzzle e l’altra, mi guardava come se fossi pazzo, alla fine l’ho capito chi sono les misérables del titolo: noi poveri spettatori.
(voto 5/10)
Post pubblicato anche su L'OraBlù, con la nuova locandina minimal firmata da C(h)erotto.
"Tenetemi incatenato, che se no mi scappa un'altra Deliranza!"
Dark Shadows
(USA 2012)
Regia: Tim Burton
Cast: Johnny Depp, Bella Heathcote, Eva Green, Michelle Pfeiffer, Helena Bonham Carter, Chloe Grace Moretz, Jonny Lee Miller, Jackie Earle Haley, Gulliver McGrath, Christopher Lee, Alice Cooper
Genere: burtoniano
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Luci e ombre.
Per un film che si intitola Dark Shadows, ci si aspetterebbero più ombre. E infatti è così.
Però partiamo dalle luci: Dark Shadows non fa schifo. Non è una porcheria come Alice in Wonderland. E qui possiamo tirare un sospiro di sollievo. Il film è ad anni luce di distanza dai capolavori di Tim Burton, ovvero Edward mani di forbice, Nightmare Before Christmas e Big Fish. Nemmeno riesce a infilarsi nella seconda fascia, quella di suoi altri grandissimi film come Mars Attacks!, Ed Wood, Il mistero di Sleepy Hollow e La sposa cadavere. Diciamo che Dark Shadows scivola molto più in basso, all’interno della mia classifica burtoniana ideale, e oltre al terrificante Alice supera giusto il suo non richiesto remake de Il pianeta delle scimmie.
Non è tanto, ma è qualcosa per intravedere un segnale di miglioramento. Almeno, qui Tim Burton sembra essersi divertito come un bambino in un parco giochi. Sebbene di certo si sia divertito più lui degli spettatori. Il suo Alice in Wonderland invece non era stato un viaggio nel paese delle meraviglie probabilmente nemmeno per lui, quanto piuttosto un compitino sterile svolto per la Walt Disney Productions. Il legame con la casa di Topolino prosegue anche in questa pellicola, però questa volta il bilanciamento Burton-Disney volge un po’ più a favore del primo, così come dovrebbe capitare anche nel suo prossimo Frankenweenie. Sebbene il fatto che sia ispirato a un suo cortometraggio del 1984 fa sentire puzza di idee riciclate all’orizzonte.
"Che pizza: Tim Burton vuole farci rivedere Alice in Wonderland!"
Per quanto non si possa ritenere una pellicola riuscita, se non altro Dark Shadows permette allora a Burton di rimettere la testa fuori dall’ombra Disney e di mostrare le caratteristiche tipiche del suo cinema. All'interno della casa della pellicola c’è infatti un sacco di Burton, pure troppo. Che il regista dark per eccellenza con Dark Shadows abbia rischiato di diventare una parodia di se stesso?
Il rischio in qualche scena lo corre, soprattutto quelle in cui Johnny Depp versione vampiro gigioneggia ancora più del suo solito. Eppure nel complesso il rischio di scadere nel ridicolo - leggi Deliranza - è qui scampato. Molto bene, allora?
Eh no, perché laddove il film non cade nel penoso e nel ridicolo, allo stesso tempo non accende mai un vero interesse. Se Alice in Wonderland generava più che altro disgusto e ribrezzo, Dark Shadows lascia parecchio indifferenti.
Quale delle due cose è peggiore?
Per un regista spesso estremo e kitsch, forse la seconda.
"Tranquilla Chloe, lo fermo subito io!"
Qualche luce è comunque presente. Due, in particolare: Chloe Moretz ed Eva Green.
Chloe “Hit-Girl” Moretz, dopo la spenta parentesi scorsesiana di Hugo Cabret, pure qui si è trovata a lavorare con un mostro sacro del cinema. Anche in questo caso ben lontano dal suo apice. Se Dark Shadows è più o meno sullo spento livello dell’ultimo film di Martin Cabret, qui almeno la giovanissima Moretz sa illuminare la scena, nelle purtroppo pochissime scene in cui compare. Il suo personaggio della teen ribelle e rockettara è quello potenzialmente più interessante, peccato sia sfruttato male dal confusionario Burton.
L’altra star del film, anzi la star principale e indiscussa del film è Eva Green. In versione strega bionda, la Eva si inserisce alla perfezione nella tradizione delle femme fatale burtoniane, raccogliendo il testimone dalla Kim Basinger di Batman, dalla Micetta Pfeiffer di Batman - Il ritorno, dalla Patricia Arquette di Ed Wood, dalla Alison Lohman di Big Fish, dalla Lisa Marie di Mars Attacks!, della Christina Ricci de Il mistero di Sleepy Hollow e mi scuso personalmente con qualunque altra abbia dimenticato.
Cattiva e sexy allo stesso tempo, la Green è la luce verde del film, l’elemento catalizzatore dell’attenzione di una pellicola per il resto stanca e stancante, ferma come l'ispirazione di Burton alla luce gialla del semaforo.
Il problema di Dark Shadows non sta comunque certo negli attori. Johnny Depp non è alla sua migliore intepretazione burtoniana, ma almeno riesce a far dimenticare orrori recenti come The Tourist e il cappellaio matto del già più volte menzionato Alice in Wonderland.
Discorso analogo per altre aficionados del regista come Helena Bonham (ma non troppo bona) Carter e Michelle Pfeiffer, pure loro non ai loro massimi eppure più che valide nelle loro interpretazioni.
Un plauso poi allo spaventoso Jackie Earle Haley, recente Freddy Krueger, uno che con quella faccia non poteva non essere convocato da Burton, mentre il trainspottinghiano Jonny Lee Miller resta troppo nelle shadows e l’emergente quasi esordiente totale Bella Heathcote è la tipica bellezza burtoniana, ma come attrice può e deve maturare ancora parecchio.
"In radio c'è un pulcino, in radio c'è un pulcino...
Hey, non è che il gobbo m'ha messo il testo della canzone sbagliata?"
Luci più che ombre arrivano pure dalla colonna sonora. Davvero belli la maggior parte dei pezzi, in particolare Nights in White Satin dei Moody Blues suonata in apartura, che illude di poterci trovare di fronte a un nuovo cult burtoniano. Così non sarà e si rivelerà solo un’illusione. Un’illusione sonora.
Niente male anche Iggy, Elton John, Percy Faith, Carpenters e i Killers sui titoli di coda. E pure un redivivo Alice Cooper in Wonderland fa la sua apprezzabile comparsata, non solo musicale, bensì proprio a livello fisico, con un cameo.
Il problema di Dark Shadows non sta nemmeno nei personaggi. I personaggi, bene o male, ci sono. Qualcos’altro invece manca del tutto.
Dove sono la storia, dove sono gli sviluppi, dov’è il film?
Dark Shadows si ispira a una serie tv. E si vede. Sembra infatti l’episodio pilota per un remake del telefilm anni '60/'70. Un episodio in cui ci vengono presentati i personaggi, in cui si intravedono i conflitti e le possibili relazioni tra di loro. Solo che un episodio pilota non è una pellicola completa.
Dark Shadows lascia così con l’impressione di aver assistito a un anticipo, a un antipasto. Solo che io sto ancora attendendo che il film, quello vero, cominci.
Cast: Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce, Michael Gambon, Timothy Spall, Jennifer Ehle
Genere: biopic storico
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Trama semiseria
1925. Il figlio di Giorgio V d’Inghilterra, incaricato di fare un discorso pubblico a Wembley, si blocca e non riesce a parlare frenato dalla sua balbuzie. La moglie allora gli ingaggia un coach per aiutarlo a risolvere questo problema, un po’ come accade con i trainer di Mtv Made che in due mesi trasformano un caso umano nel più figo del liceo. Tutto risolto in fretta come nel programma tv? Non proprio: gli anni passano, il guaio permane e quando tocca a lui salire sul trono come Giorgio VI non può proprio farlo da balbuziente. Ah, nel frattempo l’Inghilterra scende in guerra contro la Germania di Hitler, ma questo in confronto alla drammatica balbuzie del re sembra davvero non fregare niente a nessuno…
Recensione cannibale
Può bastare una storia carina a fare un buon film? Direi proprio di no. Soprattutto se la storia in questione è sì curiosa, ma ha anche alcuni risvolti tragicamente ridicoli. La balbuzie è sì un problema non da poco, così come il parlare di fronte a una grande folla è una cosa di cui io stesso ho un gran terrore. Però in quel periodo accadevano anche cose un tantino più preoccupanti di questa. Quali? Il nazismo, ad esempio. Si dirà allora che questa è più che altro una commedia, peccato non faccia molto ridere, ma fino a che i toni rimangono leggeri le cose funzionano ancora. Le note dolenti arrivano quando questa vicenda viene trattata con solennità e drammaticità mentre, soprattutto se vista all’interno del contesto dello scoppio di una guerra mondiale, appare piuttosto irrilevante per non dire idiota.
Nonostante questo, Il discorso del re ha avuto 12 nomination all’Oscar e sembra il principale concorrente a The Social Network per salire sul trono di film re dell’annata. Perché? Davvero difficile da spiegare, se non per la passione dell’Academy a film storici di una noia mortale come Il paziente inglese o Shakespeare in Love, una passione che negli ultimi tempi sembrava essersi esaurita ma che questo The King’s Speech ha riacceso alla grande.
Mentre alcuni film storici attraverso il passato ci aiutano a capire quello che sarebbe successo dopo, vedi Il nastro bianco di Haneke tanto per dire una pellicola ambientata all’incirca in quel periodo, Il discorso del re sembra invece una storia del tutto scollegata da qualunque collegamento all’attualità. Si può fare eccezione per la vicenda di Edoardo VIII, il re che decide di abdicare in favore del fratello per via di uno scandalo sulla sua vita privata, cosa che a noi italiani può far venire in mente un collegamento con Berlusconi che ad “abdicare” non ci pensa proprio qualunque vicenda lo travolga. Ma questo non credo fosse certo nelle intenzioni della pellicola inglese. Al di là del fatto che cinematograficamente The Social Network è una pellicola di ben altro (e alto) livello, c’è anche da chiedersi quindi se sia più giusto premiare un film che riesce a parlare alla grande della vita di oggi oppure una storiella nel passato della monarchia inglese che poco o nulla a che fare con il presente.
Davvero senza senso poi il fatto che la regia professionale ma anche pomposa e priva di personalità di Tom Hooper sia stata preferita a quella del Christopher Nolan di Inception. Bah.
Bene il cast, ma niente per cui strapparsi i capelli: Colin Firth nel rendere il balbuziente Giorgio VI vince una sfida difficile e quasi certamente vincerà anche l’Oscar, ma allo stesso tempo non è uno di quei ruoli che lasciano un segno nella storia del cinema e lo stesso Firth ha fatto secondo me di meglio in A Single Man. Davvero ottima Helena Bonham Carter nei panni della moglie, così così il sopravvalutato Geoffrey Rush nei panni del logopedista, l’uomo che cerca di aiutare il principino inglese con metodi poco ortodossi (ma nemmeno troppo) a ritrovare la sua voce. Tutto questo, ricordo, mentre nel resto del mondo succedeva una cosa da niente chiamata Olocausto, ma volete mettere con i problemoni di Giorgio VI che deve fare un discorso di ben 2 minuti alla radio?
A tratti sul noioso e sull'odioso andante, Il discorso del re non è nemmeno un bruttissimo film, però dopo aver visto tutte e 10 le pellicole candidate all’Oscar posso dire che questa è di gran lunga quella che mi ha convinto di me. È solo una storiella curiosa raccontata in maniera troppo enfatica che nel finale assume contorni alquanto grotteschi e al limite del ridicolo. All’Academy però amano le storie ruffiane, vedi Forrest Gump, un buon film che però proprio non reggeva e non regge tutt’oggi il confronto con quella pietra miliare di Pulp Fiction. Ma agli Oscar indovinate chi fu a trionfare? E comunque questo discorso del re non vale nemmeno la metà di Forrest e inoltre, dopo lo sguardo originale proposto da Sofia Coppola con il suo Marie Antoinette, rigetta il genere storico concettualmente indietro di decenni, per non dire secoli.
In un’annata strepitosa per il cinema americano come non capitava da anni, con grandissimi film come Black Swan, The Social Network, Inception e Winter’s Bone, vogliamo davvero dare l’Oscar a un film che più che la definizione di “classico” merita quella di “antico” e che sembra furbescamente pensato per vincere… l’Oscar?
Non sono un fan di Harry Potter e un babbano che parla di Harry Potter, ne sono cosciente, rischia di fare la brutta fine di uno che vuole esprimere una libera opinione a un convegno del Popolo della Libertà. In ogni caso corro questo grave pericolo per cercare di analizzare la fenomenologia potteriana e quale diavoleria magica si nasconda dietro al suo enorme successo.
Pillole di trama: Harry Potter non è un ragazzino come tutti gli altri; i suoi genitori erano infatti dei maghi morti per mano del potente e crudele stregone Voldemort. Nello scontro, Harry poppante è riuscito (magia) a sopravvivere e sembra anche sia il Prescelto (come Neo di “Matrix”) in grado di sconfiggerlo.
Harry cresce così con gli odiosi zii babbani (i babbani sono le persone normali, quelli che non hanno poteri), fino a che verrà reclutato nella scuola di magia di Hogwarts. Se nella vita reale è fondamentalmente uno sfigato, a Hogwarts invece rivela subito doti magiche incredibili e dopo poco diventa una specie di nuovo mago Merlino. Con lui a scuola ci sono l’amico imbranato Ron (il personaggio più divertente, cui però dovrebbero dedicare più battute e gag) e la mitica Hermione: è la prima della classe nonostante i suoi genitori siano dei babbani, ha una cotta per Ron (ma probabilmente pure per il suo migliore amico Harry) ed è una nerd totale. Insomma, è il personaggio numero 1 della saga.
Dalla parte di Harry ci sono poi anche il preside della scuola Albus Silente, un tizio che sembra Gandalf ma quando parla è noioso quanto Barbalbero, la sua guida Hagrid, un ciccione barbuto che ho scoperto con somma sopresa NON essere Hurley di “Lost” e Ginny la sorellina di Ron per cui Harry si prende una cotta, mettendo quindi a tacere le insistenti voci su una sua presunta omosessualità.
Contro quel maghetto odioso di Harry ci sono invece tutte le forze del male capitanate da Lord Voldemort, che ha anche alcuni infiltrati all’interno della scuola di Hogwarts: Severus Piton (il sosia ufficiale di Renato Zero, uno che prima o poi sai già che griderà: "Non dimenticatemi!") e Draco Malfoy, il ragazzino anti-Potter per cui faccio il tifo in maniera spudorata.
Harry Potter by J.K. Rowling è un brand talmente forte che può essere paragonato al McDonald’s: se i panini dello zio Mac per un intenditore di cibo sono delle autentiche schifezze, fanno ingrassare, fanno male alla salute e non hanno certo un gusto per palati fini, grazie forse a delle sostanze magiche e dopanti inserite al loro interno creano dipendenza e possono essere considerati buonissimi.
Allo stesso modo i film di Harry Potter sono cinematograficamente poca cosa, presentano trame arzigogolate e ricchi di riferimenti che un babbano fa molta fatica a seguire (“Inception” al confronto è una vera passeggiata) e sono prodotti in serie. Prendi il primo e gli altri ricalcano la stessa struttura. Che poi ogni episodio incomincia con il ritorno alla scuola di Hogwarts saltando a piè pari le vacanze estive dei personaggi, cosa che a me personalmente interesserebbe molto: vorrei vedere ad esempio se Harry al mare si mette la protezione 50 oppure fa una magia per proteggersi dal sole, o se Hermione si esercita con gli incantesimi anche sotto l’ombrellone.
Quando mi sono avvicinato al primo film La pietra filosofale speravo di trovarci dentro la magia dei miei cult infantili, come ad esempio “Mamma ho perso l’aereo” dello stesso regista Chris Columbus, aiutato dall’incantato tema musicale creato dal grande John Williams (Guerre stellari, Indiana Jones, E.T., Jurassic Park e un sacco di altre colonne sonore memorabili); però, pur apprezzandolo in parte non sono riuscito a calarmi al 100% nella storia e nelle sue avventure fantasy come mi era capitato da bambino. Ero diventato troppo grande? Pensavo di sì, però nello stesso periodo la trilogia de “Il signore degli anelli” è riuscito (e senza incantesimi) a farmi tornare bimbo e allora ho capito che il problema era un altro: laddove Peter Jackson era riuscito a creare un mondo cinematografico fantastico, a Harry Potter manca invece un tocco autoriale forte e il continuo cambio di registi ne è la dimostrazione.
Al di là di una questione meramente generazionale, mancano poi in Harry Potter quelle scene davvero “magiche” come la corsa in bici con la luna sullo sfondo di “E.T.” o il volo di Bastian in groppa al drago ne “La storia infinita”. Ammettetelo potteriani: Harry e i suoi amichetti che volano su Londra sopra le loro scope non sono proprio la stessa cosa.
Il secondo episodio La camera dei segreti segue la linea tracciata dal primo capitolo ma è vivacizzato dalla presenza dell’elfo Dobby, un personaggio ambiguo che pur non ai livelli del Gollum tolkeniano diventa il mattatore dell’episodio.
Con Il prigioniero di Azkaban nonostante Gary Oldman comincio ad accusare il colpo e a diventare annoiato dalle avventure sempre uguali dei maghetti di Hogwarts. Alfonso Cuaron, tra la commedia caliente “Anche tua madre” e l’ottimo fantascientifico “I figli degli uomini” si prende l’assegno dalla Warner Bros. ma non sembra del tutto a suo agio con le storie della Rowling.
Dopo una lunga pausa dal mondo potteriano, in occasione dell’uscita dell’ultimo capitolo mi sono quindi recuperato in questi giorni i restanti capitoli.
Ne Il calice di fuoco diretto dal buon mestierante Mike Newell (uno che passa con disinvoltura da “Donnie Brasco” a “Prince of Persia”), Harry partecipa alla Tre Maghi, un torneo che è una sorta di Champions League per giovani stregoni, in cui alla fine a rimetterci le penne è il povero Robert Pattinson. Poco male per lui visto che di lì a poco tornerà in vita come vampiro e diventerà l’idolo teen di “Twilight”, una serie che, nonostante i potteriani lo negheranno fino alla morte, ha maggiori punti di contatto con Harry piuttosto che con Dracula o Buffy.
Tra le cose da notare di questa pellicola ci sono i capelloni assurdi di Harry e c’è la scena del ballo, forse il mio momento preferito dell’intera saga, con Jarvis Cocker dei Pulp che a sorpresa sbuca fuori e si mette a cantare supportato da Jonny Greenwood (chitarra) e Philip Selway (batteria) dei Radiohead!
Con L’ordine della fenice arriva il nuovo regista David Yates, visivamente il meno dotato del lotto eppure da apprezzare per il suo tentativo di cambiare almeno un po’ le carte in tavola, visto che i primi 4 episodi sono tutti uno la copia dell’altro. E così si ritorna a dare un po’ di spazio al mondo babbano, con qualche scena a Londra, c'è Helena Bonham Carter e i personaggi si fanno un pochino più adulti, anzi adolescenti e cominciano a fornicare tra loro. Aspetti che hanno fatto storcere un po’ il naso ai fan hardcore della saga, ma che arrivano come una boccata d’ossigeno per chi fa fatica a reggere 2ore emmezza di sproloqui sulla magia che sembrano arabo.
La vena teenager viene però fuori ancora di più nel successivo Il principe mezzosangue, a mio parere il film più divertente della serie.
Harry è praticamente circondato da tipe: dopo essersi fatto una asiatica nel capitolo precedente, c’è una tizia che vuole rimorchiarlo in un bar a Londra, nel mondo babbano quindi e non in quello magico dove è una specie di rockstar. Peccato che arrivi quel rompimaroni di Silente a portarlo via in una delle sue stupide missioni magiche: Harry invece di incazzarsi come una iena per essersi perso una scopata assicurata se ne sbatte allegramente, felice di tornare al suo mondo magico. Ecco, tra tanti incantesimi, pozioni, elfi, maghi e cose strambe, questa è certo la cosa più assurda di tutte. Un sedicenne in preda agli ormoni che si comporta così non è normale, ma d’altronde uno che se ne va in giro con una civetta a voi sembra normale?
Ne Il principe mezzosangue finalmente veniamo a scoprire poi qualcosa di più sul cattivone supremo di tutta la saga: Berlusc… ehm, Voldemort, che da ragazzino era una sorta di incrocio tra Samara di The Ring e Carrie sguardo di Satana, e anche Harry per la prima volta è in qualche modo attratto dal lato oscuro. Peccato che il maghetto sia sempre tutto perfettino e buono al 100% e non venga dato davvero spazio alla sua potenziale malvagità, cosa che prima o poi capita a tutti i veri eroi, da Frodo a Spider-Man. Persino a quella lagna di un Clark Kent di “Smallville” che quando indossa l’anello nero diventa finalmente cattivo e finalmente interessante. Capisco che il target di riferimento potteriano sia principalmente (ma non solo) quello dei bambini, però la distinzione tra bene e male è troppo definita e assoluta.
Qual è dunque il grande fascino esercitato da questa saga? Finora forse non sono riuscito a spiegarlo, eppure anche per un babbano come me ritrovare quei tre, Harry Hermione e Ron, tutti insieme di nuovo a ridere per una battuta che non fa ridere nessuno e che capiscono solo loro è comunque qualcosa di stranamente emozionante, cui si resta affezionati e che commuove persino, perché in questi 10 anni è stato bello vederli crescere di film in film come fratellini o sorelline. Anche se Emma Watson negli ultimi tempi comincio a non vederla più tanto come una sorellina.
In Harry Potter c’è quindi un ingrediente segreto, come nella Coca-Cola o nei panini del McDonald’s, una droga che crea dipendenza e realizza la magia. E poi se i potteriani sono incuriositi soprattutto dallo scoprire come finirà lo scontro tra Potter e Voldemort (e avendo letto 1.000 volte i libri lo sanno già benissimo), noi babbani continuiamo a seguire questa saga fantasy per avere risposta alla nostra principale domanda: ma Harry e/o Ron alla fine se la trombano Hermione?
(Potteriani, non rispondete alla domanda please che se no mi rovinate tutta la sorpresa!)
Harry Potter e la pietra filosofale, 2001, regia: Chris Columbus (voto 7+)
Harry Potter e la camera dei segreti, 2002, regia: Chris Columbus (voto 6/7)
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, 2004, regia: Alfonso Cuaron (voto 6)
Harry Potter e il calice di fuoco, 2005, regia: Mike Newell (voto 6+)
Harry Potter e l'ordine della fenice, 2007, regia: David Yates (voto 6,5)
Harry Potter e il principe mezzosangue, 2009, regia: David Yates (voto 7+)
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