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mercoledì 7 giugno 2017

I Don't Feel at Home in This Blog Anymore





I Don't Feel at Home in This World Anymore
Regia: Macon Blair
Cast: Melanie Lynskey, Elijah Wood, Devon Graye, David Yow, Jane Levy, Christine Woods


Gente che in auto si crede chissà chi.
Gente che non rispetta le regole.
Gente che non ha educazione.
Che lascia sporcare il suo cane senza pulire, che inveisce contro gli altri, che spoilera libri.
Gente da odiare.
Le giornate di Ruth sono così, la vita di Ruth è così.
Ciliegina sulla torta: le entrano in casa i ladri, rubano le sue medicine, il suo computer e soprattutto il set di argenteria della nonna.
E qui, Ruth, scoppia.

domenica 30 novembre 2014

GOD HELP THE GIRL, E GOD HELP YOU SE NON GUARDATE QUESTO FILM





God Help the Girl
(UK 2014)
Regia: Stuart Murdoch
Sceneggiatura: Stuart Murdoch
Cast: Emily Browning, Olly Alexander, Hannah Murray, Pierre Boulanger
Genere: indie-pop
Se ti piace guarda anche: Tutto può cambiare, Frank, Skins, Submarine

God Help the Girl è la pellicola d'esordio come regista e sceneggiatore di Stuart Murdoch, il cantante e leader dei Belle and Sebastian. Se li conoscete, saprete già a grandi linee cosa aspettarvi da questo film, che in pratica è la versione cinematografica della loro musica. Provoca la stessa identica sensazione di leggerezza.
Se non li conoscete, smettetela subito di ascoltare quella merda di Vasco, che quando lo mettete su il lettore mp3 vi avvisa che danneggia l'udito, e cominciate a sentire della musica decente, per God!

sabato 15 novembre 2014

IN YOUR EYES, CHE FILM DEL KAZAN!





In Your Eyes
(USA 2014)
Regia: Brin Hill
Sceneggiatura: Joss Whedon
Cast: Zoe Kazan, Michael Stahl-David, Mark Feuerstein, Nikki Reed, Jennifer Grey, Steve Howey, David Gallagher
Genere: romfan (romantifantasy)
Se ti piace guarda anche: Ruby Sparks, Barefoot, A to Z

Zoe Kazan non è solo un'attrice. Zoe Kazan ormai è un genere cinematografico a parte. Un po' come Greta Gerwig, la protagonista di Frances Ha che, con la sua sola presenza, segna un film definibile sotto la generica etichetta di “indie-hipster” rendendolo un “Gerwig-movie”. La stessa cosa la fa Zoe Kazan.
A questo punto, la maggioranza della popolazione mondiale si starà chiedendo: ma chi kazan è, questa Zoe Kazan?

Ve lo spiego rapidamente. È una giovanissima attrice che, proprio come Greta Gerwig, sta diventando una delle interpreti simbolo del nuovo cinema indie-hipster americano attuale. Dopo essersi fatta conoscere, almeno nei circuiti cinematografici più alternative e Sundance, con The Exploding Girl, è esplosa poi per davvero con Ruby Sparks, una delle commedie romantiche più deliziose degli ultimi anni, e forse di sempre. L'opera seconda della coppia Jonathan Dayton e Valerie Faris, già autori di Little Miss Sunshine, si segnalava in maniera particolare poiché univa alla romcom tradizionale una fantastica componente fantastica. Lo spunto di partenza della pellicola era che Ruby Sparks, un personaggio immaginario creato da uno scrittore, diventava reale ed entrava nella vita del suo autore. Una commedia indie romantica fantasy che, pur seguendo la scia di Se mi lasci ti cancello, ha aperto la strada al capolavoro assoluto di questo particolare genere, Lei - Her di Spike Jonze, e adesso pure a questo In Your Eyes.

L'idea di partenza di In Your Eyes è anch'essa sci-fi: un ragazzo e una ragazza sono “connessi” tra di loro. È da tutta la vita che sentono uno ciò che prova l'altra, fino a che un giorno riescono a vedere proprio l'uno con gli occhi dell'altra e riescono persino a parlarsi. Come se stessero al telefono insieme, ma senza telefono. I due comunicano a livello telepatico e, in più, riescono a sentire le emozioni dell'altro, nonostante vivano a chilometri di distanza, in due differenti stati degli USA.

"Giuro che non lo sapevo che con la Vodafone Casa
era compreso anche un abbonamento 24 ore su 24 con Zoe Kazan."

Da uno spunto del genere ne poteva nascere una pellicola fantascientifica tradizionale, oppure ne poteva venir fuori una storiella inquietante, di quelle sullo stile della serie britannica Black Mirror. Invece, niente di tutto questo. In Your Eyes preferisce prendere la direzione della indie romcom dei citati Lei, Se mi lasci ti cancello e soprattutto Ruby Sparks. Dopo tutto questo non è un film romantico qualunque. Questo è un "Kazan-movie".

A firmare tale singolare storia c'è uno sceneggiatore d'eccezione: Joss Whedon.
Joss Whedon secondo me è uno che si rompe i coglioni facilmente. Il paparino di Buffy l'ammazzavampiri di recente ha centrato uno dei più clamorosi successi nella Storia del Cinema con The Avengers, film da lui scritto e diretto, il maggior incasso mondiale di sempre dopo Avatar e Titanic. Nonostante questo, mentre lavora al nuovo atteso (non da me) blockbusterone The Avengers: Age of Ultron, il buon Whedon non pensa soltanto a supereroi in latex ed effetti speciali, ma si tiene aperto una valvola di sfogo all'interno del cinema indipendente. La sua ultima opera da regista è stata la sua personale revisione dello shakespeariano Molto rumore per nulla, film a basso budget lanciato leggerissimamente più in sordina rispetto a The Avengers. Ora, il Whedon ha realizzato lo script di questa piccola pellicola indie anch'essa low cost, lasciando la regia all'emergente Brin Hill, alla sua seconda direzione dopo lo sconosciuto Ball Don't Lie. Uno che, va detto, non brilla in maniera particolare. Se la sceneggiatura di Joss Whedon è originale e curiosa a sufficienza, la regia appare infatti piuttosto anonima. Chissà cosa avrebbero potuto fare Michel Gondry o Spike Jonze, con in mano uno script del genere.

Convince a metà pure il cast. Se Zoe Kazan è sempre ottima, il protagonista maschile Michael Stahl-David appare un po' troppo imbambolato. Considerando che il film è tutto basato su loro due, la loro non completa “connessione” impedisce a In Your Eyes di trasformarsi in una visione davvero fondamentale per i nostri occhi. La coppia Zoe Kazan/Michael Stahl-David è discreta, ma non trascinante, non quanto ad esempio Joseph Gordon-Levitt/Zooey Deschanel in (500) giorni insieme, tanto per citare una classica indie-romcom moderna, oppure quanto Billy Crystal/Meg Ryan in Harry ti presento Sally o Richard Gere/Julia Roberts in Pretty Woman, giusto per menzionare delle romcom “commerciali” storiche.
Sullo sfondo si ritaglia uno spazio pure il curioso e variegato cast di contorno composto dalla gnocchetta Nikki Reed di Twilight, Steve Howey il capellone tamarro di Shameless US, David Gallagher di Settimo cielo e persino una resuscitata Jennifer Grey, sì, proprio la Baby di Dirty Dancing qui non più tanto baby e anzi piuttosto old.

"Che fai?"
"Sto bruciando tutte le copie di Twilight che ho trovato. Mi spiace, cara Nikki."
"Perché ti spiace? Fai solo bene!"

In Your Eyes è allora un film carino, molto cariiino, fa sentire bene senza essere troppo ruffiano, scorre via che è un piacere ed è una visione assolutamente consigliata. Eppure da una sceneggiatura firmata da Joss Whedon mi aspettavo qualcosina in più. Il suo tipico senso dell'umorismo qui è poco presente e, se l'idea di partenza è piuttosto particolare, lo sviluppo è un po' troppo prevedibile e standard. Poteva essere un cult, invece non lo è. Però consoliamoci perché, da uno spunto tanto strambo, poteva anche uscirne un film del cazzo. Invece ne è venuto fuori un gradevolissimo film del Kazan.
(voto 6,5/10)

venerdì 17 ottobre 2014

CITY ISLAND E IL MIO PROBLEMA CON IL CINEMA INDIE





City Island
(USA 2009)
Regia: Raymond De Felitta
Sceneggiatura: Raymond De Felitta
Cast: Andy Garcia, Julianna Margulies, Ezra Miller, Dominik García-Lorido, Steven Strait, Emily Mortimer, Alan Arkin
Genere: indie movie
Se ti piace guarda anche: Little Miss Sunshine, American Beauty, I ragazzi stanno bene, Il calamaro e la balena

Vi chiederete quale sia il mio segreto più nascosto, il più personale, il più segreto dei miei segreti, ma prima mi presento. Mi chiamo Cannibal Kid e abito a City Island.
Non ci credete?
Fate bene. In realtà abito a Casale Monferrato e non nella parte di New York City con gli italoamericani che sembrano usciti da Jersey Shore. Che non è che ci sia poi tutta 'sta differenza, visto che anche la mia città è piena di elementi che potrebbero far parte del reality di Mtv. A dirla tutta è un po' tutto il mondo ormai a somigliare a Jersey Shore. Tamarri senza ritegno sbucano fuori da ovunque. Questo City Island risulta allora un incrocio tra Jersey Shore e un film indie.

Il mio segreto più grande è che mi sono un po' stufato di tutti questi film indie. Ebbene sì. Non è che adesso mi sono convertito al mainstream e comincio a esaltare le pellicole sui supereroi o i “capolavori” di Michael Bay. Resto pur sempre un hipster kid radical-chic. È solo che ci sono troppi film che si somigliano anche in ambito alternativo. L'unico problema di City Island è giusto questo. Mentre lo vedevo, ho avuto una costante sensazione di deja vu, di aver visto qualcosa del genere già troppe volte. Colpa mia che di questo genere di pellicole non me ne perdo una e colpa mia che ho recuperato questo con troppo ritardo e così ha finito per ricordarmi magari anche film che sono usciti dopo.
Ma di cosa parla, City Island?

"Uno strip club...
qualcosa mi dice che tra i clienti ci troverò anche Cannibal Kid."
Il film scritto e diretto in maniera presumibilmente ricca di spunti autobiografici da tale Raymond De Felitta ci racconta la vita di una famigghia di italo americani in quel di... City Island, come avete fatto a indovinare?
Dietro l'apparenza da famiglia media, ognuno dei personaggi nasconde qualcosa, un segreto più o meno inconfessabile. Innanzitutto il padre, Andy Garcia, un secondino con la passione per la recitazione e pure con un figlio tenuto nascosto. Poi la madre Julianna Margulies, che vivrà una specie di relazione all'infuori del matrimonio. Quindi il figlio strambo Ezra Miller, che ha una passione per le BBW (Big Beautiful Women) e infine la figlia Dominik García-Lorido, che nel tempo libero fa la spogliarellista. La classica famiglia post-American Beauty in cui grattando sotto la superficie si vanno a scovare parecchi scheletri nell'armadio e una palata di weirditudine. Il tutto realizzato con uno stile vagamente indie, vagamente Sundance Festival.
Tipicamente indie anche la scelta del cast, con il ripescaggio di una vecchia gloria che ormai non si fila più nessuno, Andy Garcia, una stella del piccolo schermo che cerca di costruirsi una credibilità sul grande schermo come Julianna Margulies di E.R. e The Good Wife, e un gruppetto di giovani emergenti chi più (Ezra Miller) chi meno (la tettuta Dominik García-Lorido e il muscoloso Steven Strait) di belle speranze, con il bonus di un'ottima e sottovalutata attrice britannica come Emily Mortimer e di una vecchia garanzia come Alan Alda, la cui carriera è stata resuscitata proprio da uno dei simboli supremi del cinema indie del nuovo millennio, ovvero Little Miss Sunshine.

Anche la trama procede tra stramberie e situazioni spinte al limite come qualunque indie movie degli ultimi anni che si rispetti. Per il resto, a parte questo senso di già visto che mi ha accompagnato nel corso della visione, non c'è nulla che non vada in City Island, se non il fatto che i due protagonisti Andy Garcia e Julianna Margulies proprio non sono riuscito a farmeli piacere, per quanto le loro interpretazioni siano impeccabili. Sarà che per me un film con protagonista Garcia parte già con l'Andy-cap (pessima battuta, lo so lo so).

"Hey Cannibal, le tue battute sono peggio di quelle di Paolo Ruffini!"

City Island è una pellicola ben scritta e recitata, una visione più che gradevole che scorre tra qualche sorriso e qualche momento riflessivo, il tutto comunque all'insegna della leggerezza e con il pregio di non sfociare mai nel melodrammone gratuito, nonostante alcuni risvolti nella trama lo avrebbero consentito. Una commedia indie media, se vogliamo anche un pochino sopra la media, la cui unica pecca non è da attribuire alla stessa, ma a me.
Ho raggiunto la mia quota limite di film indie. Almeno per il momento mi sa che devo prendere una pausa dal genere, altrimenti la sensazione di deja vu non mi lascerà mai. Che palle, a questo punto mi sa che mi toccherà una robusta dose di filmacci di Michael Bay o di altri pessimi action consigliati dal mio blogger rivale Mr. James Ford per poter ricominciare ad apprezzare i film alternative hipster come si deve.
(voto 6+/10)

giovedì 16 ottobre 2014

COSÌ VICINI VICINI A CRISTINA DONÀ





Cristina Donà "Così vicini"
Cristina Donà l'ho sempre vista un po' come la nostra PJ Harvey. Lo so, è un paragone e come tutti i paragoni è limitativo e va preso per quello che è. Ciò non toglie che le ho sempre accomunate parecchio, non ci posso far niente. Sarà per via di quella loro vena da rockettare ribelli che le aveva contraddistinte negli anni '90. D'altra parte quello era il decennio della rabbia esistenziale e non poteva essere altrimenti. Seguendo l'ordine naturale delle cose, entrambe sono poi cresciute, dirigendosi verso un sound differente, più delicato, più riflessivo. Tutte e due hanno tirato fuori maggiormente la loro vena cantautorale, sempre senza rinunciare alla loro più che gradita anima indie. Nessuna delle due cantanti ha mai ceduto al lato pop/commerciale della musica. Non hanno ceduto alle forze del Male. Le chitarre elettriche hanno lasciato via via spazio ad arpeggi di acustiche e ad accompagnamenti pianistici, certo, ma entrambe non si sono mai vendute a produzioni radiofoniche o a qualcosa in cui non hanno creduto fino in fondo.


martedì 6 maggio 2014

IL CUORE SPEZZATO DI LYKKE LI




Lykke Li “I Never Learn”
Benvenuti nel club dei cuori spezzati. Dopo il best-seller “21” di Adele, è il turno della cantante indie-pop svedese Lykke Li di mettere a nudo la sua anima, con un disco costruito sulle ceneri della sua ultima relazione finita. Male.
Più che un album normale, sembra un greatest hits. Ogni canzone è un gioiello, un potenziale singolo, un piccolo capolavoro che riesce a farsi canticchiare fin dal primissimo ascolto, allo stesso tempo senza risultare una ruffianata commerciale o radiofonica. I brani presenti in “I Never Learn” suonano fin da subito come classici moderni, pezzi che conoscevamo già, solo non lo sapevamo ancora. È come stare in un sogno, “Just Like a Dream”. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie e contemporaneamente aleggia anche un certo senso di speranza primaverile. Emerge la voglia di vedere il lato positivo, la “Silver Line”.

L’autrice di “I Follow Rivers”, il pezzo che ha accompagnato i balli di Marion Cotillard in Un sapore di ruggine e ossa e di Adèle Exarchopoulos ne La vita di Adele, ha tirato fuori “solo” la raccolta di canzoni più bella concepibile come colonna sonora di una storia d'amore terminata. Crogiolandosi nel dolore di una ferita che fa più male di un “Gunshot”, intonando una preghiera per essere amata ancora ma in modo differente, “Love Me Like I’m Not Made of Stone”, e poi promettendo di non innamorarsi mai più, “Never Gonna Love Again”. Costruendo un muro tra sé e il mondo, il muro di una persona che non imparerà mai dai propri errori, che continua a ripetere “I Never Learn” prima che parta il più bel tappeto d’archi mai sentito dai tempi di “Bitter Sweet Symphony”. Lykke Li si convince così di dover far crescere nel suo petto un cuore d’acciaio, un “Heart of Steel”, e finire per andare ad accucciarsi tra le coperte da sola, “Sleeping Alone”, restando però consapevole che non c’è riposo per chi non ha un cuore, non c’è pace per i cattivi, “No Rest for the Wicked”.
Quanto a noi, non possiamo che augurare a Lykke Li di innamorarsi di nuovo e, se il dolore le fa questo effetto creativo, di trovare un’altra persona che le spezzerà il cuore in tanti piccoli pezzi. Tanti piccoli pezzi di cuore capaci di tramutarsi in tanti grandi pezzi musicali.
(voto 8+/10)

sabato 3 maggio 2014

GUIDA GALATTICA ALLA MUSICA BRITPOP




Indovinello: qual è quell’animale che cento ne pensa e cento ne fa?
Esatto, il Cannibale. Un animale strano, selvatico, che non pago di aver creato già classifiche e liste assortite di tutti i tipi, come la serie della vergogna e quella della crescita, adesso ha ideato un modo nuovo per propinarvi le sue Top 10.
Questa volta la scusa è di fare delle Top Dieci dedicate ad alcuni generi e sottogeneri musicali, rivisti sempre attraverso l’ottica cannibale, ovvio. Ad aprire le danze ci pensa un genere con cui l’animale Cannibale è stato allevato: il Britpop.


Se da buoni babbani non sapete cos’è, vi dico brevemente che è stata quella scena musicale sviluppatasi in Gran Bretagna – dal nome l’avreste mai detto? – nel corso degli anni ’90. Le radici del genere si possono trovare nei 60s, con band fondamentali come Beatles, Rolling Stones e Kinks, così come nel glam-rock 70s di David Bowie, ma un’influenza enorme l’hanno giocata anche gruppi successivi come Smiths e Stone Roses.
Da queste basi, nel corso degli anni ’90 e a partire dal 1993-94 circa, in tutto il Regno (Unito) c’è stato un enorme fermento musicale e sono salite alla ribalta un sacco di band dal suono pop-rock, che oggi potremmo definire indie-rock, ma che allora chiamavamo Britpop. Tra i primi a ottenere una grande notorietà ci sono stati gli Suede con il loro look androgino e il loro sound glam, ma l’apice della popolarità il genere l’ha toccato con la rivalità epica tra Blur e Oasis, alimentata da sfide a colpi di grandi canzoni e di battibecchi verbali, puntualmente riportati dalle riviste inglesi più cool del periodo, NME e Melody Maker.
Da lì in poi la scena si è ingigantita, sono nate un sacco di band cloni, non solo in Gran Bretagna ma ovunque, persino in Italia, dove c’erano i Lunapop che prendevano in prestito pezzi dagli Ocean Colour Scene, i Super B che scimmiottavano i Blur, Daniele Groff che imitava (malamente) gli Oasis. Qualcuno se li ricorda?
Verso la fine degli anni ’90 l’interesse nei confronti della scena, come per tutte le scene, è scemato, e il Britpop è passato di moda ma ora, a 20 anni di distanza, è tempo di revival. Per fare un tuffo in quel periodo potete dare un’occhiata alla serie My Mad Fat Diary e dare un ascolto alla mia playlist su Spotify, nonché alla mia immancabile Top 10 qui sotto.



Top 10 canzoni Britpop (secondo Pensieri Cannibali)

10. Charlatans “One to Another”



9. Elastica “Connection”



8. Supergrass “Alright”



7. Bluetones “Slight Return”



6. Mansun “Wide Open Space”



5. The Verve “Bittersweet Symphony”



4. Oasis “Live Forever”



3. Pulp “Disco 2000”



2. Blur “The Universal”



1. Suede “Beautiful Ones”

martedì 1 aprile 2014

I PIXIES HANNO FATTO UN ALBUM NUOVO E NO, NON È UN PESCE D'APRILE




Pixies “Indie Cindy”
I Pixies sono tornati, con il loro primo album da 23 anni a questa parte. Una delle più importanti band alternative o indie-rock che dir si voglia della Storia, nonché uno dei migliori gruppi in generale di sempre di nuovo in azione e non è manco un pesce d'aprile?
Finalmente una bella notizia…
O almeno questo è ciò che ho pensato prima di aver ascoltato l’album. Indie City altro non è che la raccolta dei pezzi già presenti nei loro tre EP usciti negli ultimi mesi e intitolati con grande fantasia EP1, EP2 ed EP3. Tre EPs tutt’altro che eccezionali messi insieme e ora l’impressione che è emersa chiara, ascoltando le varie canzoni una in fila all’altra, è quella di una delle peggiori reunion di sempre. Black Francis e compagni suonano spenti, svogliati, vecchi. Sembrano una pessima cover band dei Pixies che furoreggiavano tra fine anni ’80 e primissimi anni ’90. Un’ombra della formazione che ci ha regalato capolavori totali come “Where Is My Mind?”, “Monkey Gone to Heaven”, “Gigantic”, “Here Comes Your Man” e molte altre. Qui le uniche canzoni a salvarsi, quasi quasi, sono “What Goes Boom” e la title-track “Indie Cindy”. Il resto suona a metà strada tra il tragico e il deprimente e l'assenza della bassista Kim Deal pesa come un macigno. È una auto pugnalata al cuore dirlo, ma i Pixies sono un gruppo senza più niente da dire e niente da dare. Una delusione totale. Se Kurt Cobain, loro storico grande fan, fosse ancora vivo, dopo aver sentito questo album andrebbe subito a suicidarsi.
(voto 4/10)

giovedì 13 marzo 2014

LE LUCI ALLA FINE DELLA CENTRALE ELETTRICA




Le luci della centrale elettrica “Costellazioni”
Meno male che è arrivato “Costellazioni”, il nuovo disco de Le luci della centrale elettrica, lo pseudonimo dietro cui si celano le parole sempre efficaci, insieme alla voce ormai inconfondibile, di Vasco Brondi. Il Vasco de ‘noantri, noi “diversi”, noi popolo indie.

Meno male che è arrivato così almeno l’Italia avrà altro di che (s)parlare all’infuori de La grande bellezza. Più che l’Italia, noi piccolo popolo indie dello Stivale, mentre il resto del paese continuerà a scannarsi tra grande bellezza sì e grande bellezza no o, peggio, tra Renzi sì e Renzi no.

Meno male che è arrivato perché il Vasco B, il Vasco per me davvero di serie A, è sempre un piacere risentirlo. Piaccia o meno, il suo stile così immediatamente riconoscibile è una delle poche cose originali e affascinanti capitate alla musica italiana negli ultimi anni. E poi altroché Vasco. Il Brondi è il nuovo Rino Gaetano, e diciamolo.

Meno male che è arrivato perché i dischi precedenti de Le luci li abbiamo consumati e mandati a memoria, ma ormai hanno fatto il loro tempo e avevamo bisogno di parole nuove, adatte a questi tempi di crisi sempre più in crisi. Vasco B risponde presente con una serie di testi ancora una volta spettacolari, fotografie perfette delle nostre vite, liriche rap cantate con stile da cantautore, poesie moderne che come le scrive lui, non c’è nessun altro in circolazione. Non dalle nostre parti. Non ai nostri tempi.

Meno male che è arrivato perché, insieme a dei nuovi notevolissimi testi, il Brondi è in continua crescita anche a livello musicale. Senti un suo pezzo e capisci subito che è lui, che sono loro, Le luci della centrale elettrica. Ciò nonostante, questa volta sono stati aggiunti ulteriori colori alla tavolozza sonora, capaci di andare oltre l'irreplicabile urgenza espressiva dell’esordio "Canzoni da spiaggia deturpata" e del già maggiormente variegato “Per ora noi la chiameremo felicità”. Dentro “Costellazioni” c’è un gusto più vicino al pop, come nel ritornello da tormentone indie del primo singolo “I destini generali”, con quel “pa pappa papapa” da stadio che riecheggia il “po poppo popopo” dei White Stripes featuring Tifosi italiani ai Mondiali 2006. C’è l’electro-funk sculettante “Ti vendi bene”, che nei locali più hipster quest’estate si potrebbe addirittura ballare, gridando “Dai tutti sul dancefloor con Le luci!”. C’è la quasi allegra e quasi hip-hoppara stile Beck di una volta “Questo scontro tranquillo”. C’è spazio per un assalto rock come “Firmamento”. C’è la sorprendente e toccante ballatona al piano “I Sonic Youth”, il pezzo con cui può sventolare gli accendini al vento senza vergogna chi è cresciuto con Sonic Youth e Smiths, anziché Venditti e Baglioni.

Meno male che è arrivato perché “Costellazioni” è un disco divertente. A suo modo. Nonostante i prevalenti toni solenni e le musiche tendenti a dir poco al melodrammatico, i testi riescono a regalare anche un sorriso ironico, come nella preghiera indie “Padre nostro dei satelliti”, per cui Vasco B meriterebbe di essere fatto Santo Subito.

Meno male che è arrivato “Costellazioni” perché è un disco in cui, aldilà del suo apparente pessimismo cosmico, Vasco Brondi fa intravedere delle luci alla fine del tunnel esistenziale in cui stiamo viaggiando.

Meno male è arrivato il nuovo disco de Le luci della centrale elettrica, perché è un bel disco. Un gran bel disco.
(voto 7,5/10)

venerdì 13 dicembre 2013

COTTA ADOLESCENZIALE 2013 – N. 6 GRETA GERWIG



Greta Gerwig
(USA 1983)
Genere: indie-hipster
Il suo 2013: ha interpretato e co-sceneggiato insieme al regista Noah Baumbach lo splendido indie movie Frances Ha ed è stata la straordinaria protagonista del video live di "Afterlife" degli Arcade Fire diretto da Spike Jonze.
Se ti piace lei, ti potrebbero piacere anche: Chloe Sevigny, Amy Adams, Allison Mack, Evan Rachel Wood, Kate Winslet, Lena Dunham
È in classifica: ha un irresistibile fascino impacciato e molto alternative.
Il suo discorso di ringraziamento: "Invece di un discorso di ringraziamento che non sono capace di fare, vi regalerò un balletto dei miei. Dite che non sono capace a fare manco quelli, eh?"

Dicono di lei su
tetter
Noah Baumbach @noahsebastianbach
Ma usate ancora Twitter, sfigati? Il futuro sono #Instagram e soprattutto #Tetter.


Adam Driver @adamoguidatore
@gretagerwig, sarai anche finita tra le cotte adolescenziali, ma resti sempre troppo #undateable!





lunedì 9 dicembre 2013

FRANCES HA RUBATO IL MIO CUORE




Frances Ha
(USA 2012)
Regia: Noah Baumbach
Sceneggiatura: Noah Baumbach, Greta Gerwig
Cast: Greta Gerwig, Mickey Sumner, Michael Zegen, Adam Driver, Grace Gummer, Michael Esper, Justine Lupe, Patrick Heusinger
Genere: indie
Se ti piace guarda anche: Girls, Damsels in Distress, Manhattan, Io e Annie
Uscita italiana prevista: aprile 2014 (forse)

Mi sono innamorato.
Di chi?
Mi sono innamorato di Frances Ha.
Ci sono le recensioni razionali, e poi ci sono quelle che iniziano come sopra e capite già che non lo saranno. Per niente. Tutti i film ovviamente possono essere visti in maniera più o meno soggettiva, ma questo è un caso a parte. Se alla fine della visione di Frances Ha senti le farfalle allo stomaco e vorresti che la pellicola non fosse finita, che non finisse mai e vorresti solo continuare a vedere per sempre cosa la protagonista Frances combinerà, vuol dire che il film ha funzionato. Vuol dire che ti sei innamorato.

Frances Ha è un film sull’amore, ma non è una commedia romantica. Non è una storia d’amore tradizionale. Non è una storia d’amore etero, non è una storia d'amore lesbo e non è nemmeno tanto una storia d’amore. A pensarci bene, non è nemmeno un film proprio sull’amore amore comunemente inteso. È più una storia d’amicizia, però ciò non rende bene l’idea. Frances è innamorata della sua migliore amica Sophie, solo non in un senso sessuale, né romantico. È una persona su cui può contare, con cui ha un’intesa particolare.
Capito?
No, vero?
È una cosa difficile da spiegare, per provarci passo la parola direttamente a lei, la protagonista del film Frances:

È quella cosa quando sei con qualcuno e tu lo ami e lui lo sa e anche lui ti ama e tu lo sai. Ma sei a una festa e tutte e due state parlando con altra gente, poi guardi in fondo alla sala e i vostri sguardi si incrociano, ma non in maniera possessiva o con l’intenzione di fare sesso, ma perché quella è la tua persona in questa vita.

Non avete ancora capito?
Allora non vi resta che guardare questo film che provoca lo stesso effetto. Lo guardi e sai di amarlo. Però non è che te lo vorresti scopare. Lo ami e basta. Ami tutto di questo film.
La protagonista, per prima cosa. Greta Gerwig è la nuova fenomena del cinema indie americano, già splendida rivelazione nell’horror The House of the Devil e poi protagonista di quel sottovalutato gioiellino di Damsels in Distress. Un’attrice che si fonde in un tutt’uno con il suo personaggio, l’originalissima, folle Frances. Un’attrice, ma anche una sceneggiatrice, che qui firma a 4 mani con il regista Noah Baumbach uno degli script più freschi e frizzanti degli ultimi tempi. Nonostante tutti questi talenti, il suo vero sogno, il sogno di Greta non ha a che vedere tanto con il cinema, ma è quello di fare la ballerina, come la Frances del film. Non è che sia proprio un fenomeno come la Nina del Cigno nero, eppure ha uno stile tutto suo, molto personale, messo in mostra già nel mitico balletto della Sambola in Damsels in Distress, così come anche nel pazzesco video live agli YouTube Awards di “Afterlife” degli Arcade Fire diretto da Spike Jonze.



Come fai a non amare Greta Gerwig?
Come fai a non voler uscire con la sua “undateable” Frances?
E poi, una volta investito da quest’ondata di amore, oltre a Greta/Frances cominci ad amare anche tutto il resto. Tutto ciò che rende questo film da semplice film indie tra i tanti a Film Indie per eccellenza. E così ami anche la trama/non-trama che sembra quella di un episodio allungato di Girls, un episodio bellissimo di Girls. L’episodio definitivo di Girls.
Credo che potrei essere la voce della mia generazione, o almeno una voce di una generazione,” diceva Lena Dunham nella puntata pilota di Girls e così è stato. La sua serie tv sta già facendo scuola, anche all’interno del nuovo cinema alternative americano. Perché, vedete, Frances è uno dei personaggi più singolari mai visti su schermo, e non solo su schermo, eppure allo stesso tempo riesce pure lei a farsi simbolo universale di un’intera generazione, proprio come la Hannah/Lena Dunham di Girls. La generazione dei 20/30enni incasinati di oggi. La mia generazione. Una generazione precaria. Una generazione multitasking che si trova a fare un sacco di cose differenti senza riuscire a portarne a termine manco mezza. Una generazione fottuta. Laddove però Girls, per quanto scritto alla grandissima, dà spesso un senso di incompiutezza, qui Greta Gerwig, grazie probabilmente all’aiuto della mano ormai esperta di Noah Baumbach, riesce a trovare una quadratura, a chiudere il cerchio con un (doppio) finale splendido.

Pur partendo da uno stile hipster alla Girls, Frances Ha possiede comunque uno slang e un linguaggio tutti suoi, e percorre anche altre strade. A livello visivo, Noah Baumbach sceglie di fotografare una New York City in bianco e nero che riporta esplicitamente alla mente Manhattan di Woody Allen, il tutto però con una spruzzata profumata di Nouvelle Vague, messa in evidenza dallo stile registico, narrativo, così come anche dalle numerose splendide musiche di Georges Delerue, Jean Constantin, Antoine Duhamel e altri compositori transalpini recuperate da varie pellicole anni ’60 tra cui I quattrocento colpi, più un’aggiunta di David Bowie con “Modern Love” che non fa mai male.

Ami la colonna sonora, dunque.
Ami pure i personaggi comprimari. Magari Sophie (Mickey Sumner) non tanto, perché è così egoista ed è così cattiva nei confronti della povera Frances che le vuole tanto tanto bene. Ecco, Sophie magari è l’unica cosa del film che non ami.
Sophie, sei una bruttona!
Sì, l’ho detto.

Sophie: "Credevi forse non avrei letto quello che hai scritto su di me, maledetto d'un cannibale?"

E poi ci sono i coinquilini della nostra (nostra? della “mia”) Frances: Holly e Benji… volevo dire Lev e Benji, il primo interpretato dall’Adam Driver proveniente – guarda caso – dalla serie Girls e il secondo dal volto nuovo Michael Zegen. E ami pure loro.

E ancora, ami la regia non invasiva ma funzionale al racconto di Noah Baumbach, uno che già aveva fatto cose niente male come Il calamaro e la balena e Lo stravagante mondo di Greenberg, pellicole che però lasciavano un po' con l’amaro in bocca e che erano un filino deprimenti. Frances Ha invece no. Nonostante la sua forte componente intellettualoide e sfacciatamente radical-chic, è una visione leggera come un palloncino che si libra in volo e che non puoi fare a meno di continuare a seguire con lo sguardo, fino a che non scompare all’orizzonte. Quando ciò accade, ti prende una sensazione triste ma allo stesso tempo buffa, che ti lascia con un sorriso ebete stampato in faccia. È questo che ti fa l’amore. È questo che ti fa Frances Ha. Tutto qua.
(voto 9/10)



sabato 7 dicembre 2013

MAN OF THE YEAR 2013 – N. 12 JAMES BLAKE



James Blake
(Inghilterra 1988)
Genere: cantautore electronico
Il suo 2013: ha pubblicato il suo secondo notevolissimo disco "Overgrown", che oltre a essere stato apprezzato da Pensieri Cannibali si è pure portato a casa il Mercury Prize 2013, il premio al miglior album britannico dell'anno, e gli ha fatto pure guadagnare una nomination come miglior nuovo artista ai prossimi Grammy Awards 2014.
Se ti piace lui, ti potrebbero piacere anche: The xx, Bon Iver, Rhye, Jai Paul
È in classifica: perché dopo un esordio folgorante si è ripetuto con un secondo disco ancora migliore, tra le cose più belle sentite quest'anno.
Il suo discorso di ringraziamento: "Basta, sono stufo di ricevere premi!"


Dicono di lui su
cinguettator
James Blake il tennista @FedererSucks79
Ma m'ha rubato il nome, questo bimbominkia #JamesBlakeSonoIo



martedì 19 novembre 2013

PINEAPPLEMAN, L’INDIE FOLK CHE ARRIVA DALL’ITALIA (MA CHE DAVERO?)



Ogni tanto mi arrivano le mail di band che mi contattano per farsi recensire. Cosa che mi lusinga sempre perché significa che c’è qualcuno a cui interessa la mia opinione. Really?
Molti di questi gruppi suonano però un mainstream rock italiano tra Ligabue e Vasco, tra Le Vibrazioni e i Negrita e non è che siano proprio il massimo, almeno per i miei gusti. Se quindi preferisco non parlare di loro sul mio blog non è per snobismo, ma è solo che non mi va di stroncare dei gruppi emergenti e sconosciuti. Mi sembra una crudeltà gratuita e inutile. Ben altro conto è invece massacrare quegli artisti già strapopolari che una bella stroncatura, quando fanno un disco da schifo, se la meritano tutta. Vero, Lady Gaga?

In mezzo a queste bande di rockone italiano non troppo entusiasmante, sempre a mio modesto e soggettivo parere, ogni tanto arriva qualche piacevole sorpresa. Una di queste sono i PineAppleMan, band di 6 elementi che si sono presentati come una band indie pop con venature folk, ma secondo me si sbagliano.
Oddio, non di molto. Secondo me sono infatti una band folk con venature indie pop. C’è differenza?
Sì, perché l’aspetto folk, acustico, intimo è la prima cosa che emerge, almeno ascoltando i tre brani che compongono il loro primo EP e che potete sentire sulla loro pagina Bandcamp. Per darvi un riferimento, a me ricordano i Fleet Foxes, gruppo di indie-folk statunitense che apprezzo particolarmente, e qualcosina dei Grizzly Bear, di Bon Iver e pure dei primi Arcade Fire, però fin dai primi istanti emergono con un sound loro. Un folk che getta uno sguardo Oltreoceano, ma lo fa con personalità e senza scimmiottare nessuno.
Vi invito quindi a dare un orecchio ai tre brani della IndieFolkBand PineAppleMan su Bandcamp, o almeno al primo, quello che preferisco, “Love in Japan”, un pezzo dalle atmosfere intense, che suona quasi come una preghiera e che vi prego di ascoltare qui sotto.



lunedì 18 novembre 2013

SKYPE FERREIRA




Sky Ferreira “Night Time, My Time”
E se Sky Ferreira fosse una Miley Cyrus uscita da un mondo alternativo?
Considerando che è una delle giovani cantanti più lanciate del momento, che fa parte anche lei della leva del 1992 (ma perché, si dice ancora leva?), e soprattutto che le piace devastarsi e mostrarsi nuda, fin dalla copertina del suo album d’esordio, direi che il paragone ci può stare.
Sky Ferreira però è anche altro e molto più di questo. Anche perché lei non ha sviluppato la malattia che costringe Miley a tirare fuori la lingua in ogni occasione, almeno se non è in compagnia della diretta interessata (vedi foto a destra). Povera Miley, è malata, non è mica colpa sua.
Sky Ferreira è pure una specie di Courtney Love di nuova generazione. Di recente è stata fermata per possesso di eroina insieme al suo Kurt Cobain ovvero Zachary Cole Smith, il cantante della indie-band DIIV, gruppo il cui precedente nome era Dive, preso proprio, guarda caso, da una canzone dei Nirvana. Potete quindi capire che Sky Ferreira è un po’ una versione hardcore della già di suo piuttosto hardcore (almeno a livello sessuale) Miley “Banana Montanal” Cyrus. E poi c’è qualcos’altro. Sky Ferreira ha anche una voce sexy che ricorda Shirley Manson dei Garbage e un faccino innocente alla Emma Watson (come mi aveva fatto notare Alma Cattleya). E poi, poi ci sono le canzoni.

Prima di conoscere Miley Cyrus.

Dopo aver conosciuto Miley Cyrus.

Se il paragone con la povera malata Miley Cyrus vi ha fatto storcere il nasino e rizzare i capelli, tranquilli. Come musica, è tutta un’altra musica. Sky Ferreira fa pur sempre pop, però il suo è un pop deviato, strambo, alternative. Il suo è un pop di quelli che difficilmente sentirete in radio. Non oggi. Tra due o tre anni, forse, un sacco di popstar avranno copiato il suo sound e venderanno gigamiliardi di copie (ma perché, i dischi si vendono ancora?), al punto che è già sbucato fuori un suo clone commerciale, tale Margaret, ma oggi il suono di Sky Ferreira è ancora troppo alieno ed estremo per i capoccia delle radio.

Come sia o come non sia il sound che va sulle radiofrequenze (ma perché, esistono ancora le radiofrequenze?), “Night Time, My Time” (titolo che cita una frase di Laura Palmer in Twin Peaks), l’album d’esordio di Sky Ferreira dopo una manciata di singoli ed EPs, è il suono del pop del 2013. Di come dev’essere il pop del 2013. Un pop un po’p bastardo con echi degli Sleigh Bells (“Heavy Metal Heart”) e addirittura dei Suicide, omaggiati apertamente nella nipponica e delirante “Omanko”. Un pop perfetto incrocio tra romanticismo e disincanto, tra rock ed electro, tra Garbage e Madonna, come nel numero d’apertura “Boys”. Un pop 80s come quello di “24 Hours”, che sembra essere recuperata da una colonna sonora di un film di John Hughes, uno di quelli ambientati tutti in 24 hours come Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare, Una pazza giornata di vacanza o Breakfast Club.



Un pop stellare come “Nobody Asked Me (If I Was Okay)” che – Ciao a tutti! – ora come ora mi sembra la canzone più figa dell’universo.



Un pop non ruffiano e smielato e banale bensì raffinato e riflessivo e intimista come nell’ipnotica “I Blame Myself”. Un pop che non si consuma subito ma cresce con gli ascolti come “Ain’t Your Right”. Un pop cui basta una chitarrina sputtaneggiante e un ritornello che non va più via per mandarti in Paradiso, come capita con “You’re Not the One”. Un pop che non è pop, è rock come “I Will”. Un pop che non è pop per niente come “Night Time, My Time”, una spettrale ballad in slow-motion tra Zola Jesus e Radiohead con cui Sky, dopo averti mandato su in Paradiso, ti spinge giù tra le viscere dell’Inferno.

Sky Ferreira forse è la Miley Cyrus alternativa, o forse è il frutto dell’amore tra Courtney Love e Madonna, o forse è solo una cometa destinata a bruciare in fretta e di cui tra un paio di anni non sentiremo più parlare.
Per intanto però chissenefrega, questa cometa ha tirato fuori il disco pop definitivo del 2013, un disco con cui oggi dà merda alle varie e sorpassate colleghe (chi ha detto Gaga?) e con cui vola più in alto di tutte nello sky del pop.
(voto 8+/10)



lunedì 28 ottobre 2013

ARCADIO

  

Arcade Fire “Reflektor”
Arcadio, che disco!
Il nuovo doppio album degli Arcade Fire, “Reflektor”, è un’opera mastodontica. Già solo per la durata: 85 minuti. Al giorno d’oggi ci va del coraggio ha tirare fuori un lavoro della durata del genere. Gli Arcade Fire, grazie allo status di cult band (meritatamente) guadagnato con i tre lavori precedenti, il fondamentale “Funeral”, il notevole “Neon Bible” e il mio preferito “The Suburbs”, sono tra i pochi a poterselo permettere, a poter richiedere ai fan, così come ai detrattori, un impegno del genere.

“Reflektor” è un album pieno. Strabordante, quasi. Già solo dentro la title track, il pezzo che apre il lavoro e che è anche stato scelto come primo singolo, ci sono più cose di intere discografie di altre band. C’è il sound degli LCD Soundsystem che emerge prepotente e che mostra fin da subito in maniera chiara lo zampino di James Murphy, il produttore dell’intero lavoro, che qui ricopre un po’ il ruolo decisivo avuto da Nigel Godrich su “Ok Computer” dei Radiohead o da Brian Eno sugli album della trilogia berlinese di David Bowie. E a proposito di David Bowie, ecco a un certo punto comparire proprio il Duca Bianco come guest-vocalist a sorpresa del pezzo. All’interno del brano c’è poi anche una forte influenza dei Talking Heads e c’è un andamento ritmico danzereccio. Si potrebbe quasi pensare a una svolta dance per gli Arcade Fire, ma così non è. I bassi pulsano di più, lo zampino LCD di James Murphy si fa sentire lungo tutta la lunga durata del lungo lavoro, eppure c’è anche altro, tanto altro.



In “Here Comes the Night Time” gli Arcade Fire regalano al termine dream-pop un significato nuovo; in “Normal Person” emerge l’anima più rockettara della band; l’attacco di “Joan of Arc” è ‘na figata totale e pure il suo evolversi non è niente male, "You Already Know" sembra uscita dritta dai Suburbs del disco precedente e “Flashbulb Eyes” è un pezzo frizzante che regala all’insieme una piacevole leggerezza. Questo giusto per citare alcune delle chicche presenti.
Non tutte le note sono però positive. I 10 minuti strumentali della ghost track “We Exist” sono ad esempio qualcosa di davvero necessario? I don’t think so. Nel secondo disco appare anche qualche altro momento che sembra un mero riempitivo e un albumone che dura 85 minuti non aveva bisogno di riempitivi, semmai di uno sfoltimento. La reprise “Here Comes the Night Time II” ad esempio non suona come qualcosa di fondamentale. La psychedelica “Awful Sound (Oh Eurydice)” fa un po’ troppo comunità hippie e con il resto del menù c’azzecca quanto cavoli a merenda. La sognante “It’s Never Over (Oh Orpheus)” è talmente sognante che a un certo punto rischia di far addormentare. In “Porno” il tocco di James Murphy diventa talmente invasivo che sembra di ascoltare un pezzo degli LCD Soundsystem con Win Butler guest-vocalist, piuttosto che un pezzo degli Arcade Fire prodotto da James Murphy.
Il secondo disco di questo doppio lavoro, per quanto sia il più coraggioso e distante dal suono abituale degli Arcade Fire, appare allora meno convincente, con la band non del tutto a suo agio con un nuovo sound. O forse è solo ancora troppo presto per una valutazione definitiva. “Reflektor” è un super album molto ambizioso, che necessita ancora di altri ascolti per essere decifrato, compreso e amato in pieno, ma che al momento suona come qualcosa di affascinante, eppure non riuscito fino in fondo. Nonostante il giudizio per ora resti in bilico, è proprio verso la fine che gli Arcade Fire mettono a segno il colpaccio della vittoria, la meravigliosa “Afterlife”, un brano immenso da ascoltare per tutta la vita, da qui fino all’Aldilà.
(voto 7,5/10)



venerdì 25 ottobre 2013

IL POCO SORPRENDENTE ALBUM NUMERO 2 DE I CANI




I Cani “Glamour”
È uscito il nuovo disco de I Cani.
Che poi al giorno d’oggi dire che un disco è uscito è alquanto anacronistico e quasi quasi potrebbe essere un buon tema per una canzone dei Cani.
Che poi dire i Cani al plurale non è propriamente correttissimo, visto che più che una band vera e propria è il progetto individuale di tale Niccolò Contessa, romano de Roma.
Comunque, com’è questo nuovo disco dei Cani, anzi del Cane?
Dopo Il sorprendente album d’esordio de I Cani, a mancare qui è proprio l’effetto sorpresa, che rappresentava un buon 90%, facciamo anche un 99%, della forza di quel disco. Il poco sorprendente secondo album de I Cani suona pressappoco come il primo, soltanto un po’ più rock e un po’ più suonato, e un po’ meno hipster electro oh yeah. Suona anche più prodotto e meno indie.
I Cani allora si sono venduti? Sono diventati commerciali? Adesso passeranno anche su Radio Deejay One Nation One Station?
Non credo. I Cani hanno continuato a proseguire sulla stessa strada del lavoro precedente e qui sta anche il limite principale del nuovo disco. Scappato via di casa l’effetto sorpresa, restano delle canzoncine indie-rock oggi meno indie e più rock che in passato, bruttine a livello musicale e in cui la cosa più interessante sono sempre i testi. Come per Vasco Brondi e le sue Luci della centrale elettrica, anche Niccolò Contessa ha ormai definito uno “stile canino” (non intendo Alessandro Canino, non è caduto così in basso) immediatamente riconoscibile. Con la differenza non da poco che Le luci della centrale elettrica avevano tirato fuori un secondo album al livello del primo, o quasi.
Dopo l’ormai famigerata “Wes Anderson” e le numerose citazioni presenti sul disco numero 1, non mancano pure in questo secondo album de I Cani vari riferimenti, tutti più o meno hipster e radical-chic, da WhatsApp fino a Vera Nabokov, ché dedicare un pezzo al marito Vladimir sarebbe stato troppo scontato, dal Premio Tenco a Thurston Moore, passando per Pasolini e Jay-Z, Pasolini e Jay-Z, Pasolini e Jay-Z, ok, l'abbiamo capito: Pasolini e Jay-Z.
Più che un disco Glamour, un disco hipster. Il problema, oltre alla mancanza dell'effetto sorpresa e dell'affiorare di una certa maniera, cosa al secondo disco un pochino prematura, è che I Cani ormai sono troppo famosi e quindi è ora di sparare a zero su di loro. Già c’era chi gli sparava addosso ai tempi del sorprendente album d’esordio, figuriamoci adesso che hanno tirato fuori un dischetto mediocre. Oggi come oggi non c’è davvero niente di più hipster che dire: “A me I Cani stanno sui coglioni.”
Attenti a farlo. I Cani saranno anche famosi tra gli hipster e altri quattro cani gatti, o quattro poveri stronzi (per citare il pezzo "Non c'è niente di twee"), però, se andate per strada a dire una cosa del genere, rischiate che qualcuno i cani ve li sguinzagli contro…
(voto 5/10)


Potete ascoltarvi tutto il disco su Spotify che fa molto ma molto hipster.




lunedì 17 giugno 2013

UNA BUONA E UNA CATTIVA NUOVA DAL FRONTE NATIONAL


The National “Trouble Will Find Me”
Sul nuovo album dei The National ho una notizia buona e una cattiva da comunicarvi.
Partiamo da quella cattiva: “Trouble Will Find Me” è il solito disco dei The National. Chi si aspettava qualche novità, qualche variazione nelle atmosfere, un passo in una direzione maggiormente rock o al contrario una più verso il pop, o qualche sperimentazione elettronica, o addirittura un disco dubstep, resterà deluso.

Veniamo alla notizia buona: “Trouble Will Find Me” è il solito disco dei The National. Cosa che significa che è il solito grande disco. La band è ispirata, continua a scrivere canzoni splendide nella sua usuale maniera. Non mancano il cantato profondo, indolente e allo stesso tempo da brividi del cantante Matt Berninger, un Leonard Cohen moderno, così come rispondono “Presente!” le consuete ballate suonate con piglio leggermente rock. Ai loro classici del passato come “Fake Empire”, “Mistaken for Strangers” e “Bloodbuzz Ohio”, più “The Rains of Castamere” suonata per la serie Game of Thrones, a questo giro si aggiunge un’altra ricca manciata di brani meravigliosi. Su tutti l’uno-due d’apertura d’applausi e da lacrime composto da “I Should Live in Salt” e “Demons”, più l’ondeggiante singolo “Sea of Love” e una “I Need My Girl” che rimane incollata in testa.



Con questo nuovo lavoro ancora più che in passato, i The National mi ricordano da vicino i R.E.M., una indie band diventata famosa suo malgrado, quasi contro voglia. I The National a livello international non sono altrettanto popolari, e a meno che non tirino fuori una “Losing My Religion” probabilmente non lo diventeranno mai, però ogni loro album è una garanzia. Un po’ come quelli dei R.E.M. prima che la band finisse R.I.P..
Niente che possa rivoluzionare il panorama sonoro mondiale, soltanto una galleria di canzoni che sai già ti emozioneranno. Questo è ciò che sanno fare i The National. Questo è il loro nuovo album. Questa è la notizia cattiva, ma soprattutto quella buona.
(voto 7,5/10)



domenica 2 giugno 2013

PRIMAL SCREAM, MUSICA DA URLO




I Primal Scream sono un gruppo che ho sempre amato particolarmente e che allo stesso tempo ho sempre trovato molto sfuggente. Nel senso che la loro musica per me ha un permanente alone di mistero e di impenetrabilità addosso, cosa che contribuisce solo ad aumentarne il fascino. Ogni volta che penso di averli capiti, di essere riuscito ad afferrarli, ecco che loro mi sfuggono via dalle mani e mi escono con qualcosa di diverso e imprevisto. Che poi nella loro musica a guardare bene c’è un impronta rock’n’roll molto classica. Se c’è un gruppo di degni eredi dei Rolling Stones in circolazione, sono sicuramente loro. Allo stesso tempo, i Primal hanno però anche un’anima più elettronica, innovativa, che li porta altrove rispetto alle altre rock band tradizionali in giro. I loro dischi, almeno quelli più riusciti, sono un gran calderone di suoni e influenze diverse, che posso ascoltare e riascoltare più volte, ma scoprendoci dentro sempre nuovi aspetti. È come se non riuscissi mai a conoscere fino in fondo un loro album. E ciò è stupendo.

I primi due album “Sonic Flower Groove” del 1987 e l’omonimo “Primal Scream” del 1989 tra shoegaze e atmosfere dilatate guardano già al futuro, verso gli anni Novanta e oltre, con un sound indie non distante da molti gruppi cool di oggi. Niente male entrambi, ma sono solo un antipasto di ciò che la band di Bobby Gillespie avrà in serbo per noi da lì in poi.
“Screamadelica” è il loro primo capolavoro. Un album fondamentale dal sound molto baggy, psichedelico, ipnotico e pure house, che getta le basi per una parte di Britpop così come soprattutto di una buona fetta di musica elettronica degli anni ’90, risultando fondamentale per band come, per dirne un paio, Chemical Brothers e Daft Punk, mica dei cretini. E poi “Higher than the Sun” ancora oggi che pezzo della Madonna è?



Dopo la parentesi più puramente rock’n’roll e stonesiana di “Give Out But Don’t Give Up”, valido ma che non mi ha mai esaltato più di tanto, con il successivo “Vanishing Point” realizzano un altro autentico capolavoro di inafferabilità. A 15 anni di distanza, è ancora un’auto lanciata a folle velocità che non riesco a fermare. Pazzesco come ad ogni ascolto mi sembri un disco nuovo, fresco d’uscita. Un album cinematografico come pochi, che al suo interno contiene anche “Trainspotting”, un brano composto indovinate per quale film, e realizzato come se fosse una seconda colonna sonora non ufficiale del cult movie 70s Punto zero - Vanishing Point.



Il successivo “XTRMNTR” è un altro album enorme, con un sound da devasto che ancora oggi pare provenire dal futuro. Niente male, per una band rock’n’roll dalle semplici influenze stonesiane.



Dopodiché, i Primal calano, ma lo fanno progressivamente. “Evil Heat” non è al livello dei lavori precedenti, ma è ancora una bella botta, con dentro una bomba come “Miss Lucifer” che si mangia tutti i gruppi techno-rock da Playstation del mondo a colazione, il mattino dopo un rave sfrenato.



A questo punto, i Primal tirano fuori il loro album più deboluccio, “Riot City Blues”, rock country tradizionale, naturalmente stonesiano ma non troppo ispirato. Va un po’ meglio nel 2008 con “Beautiful Future”, che contiene l’esaltante “Can’t Go Back” e una notevole varietà sonora, tra pop, rock ed elettronica. Il tutto però suona troppo pulito e precisino rispetto ai loro standard.

Primal Scream "More Light"
Dopo due dischi sottotono e dopo questa lunghissima premessa, eccoci arrivare infine e finalmente al loro ultimo album, “More Light”. Ve lo dico subito (subito? ma se il post è già iniziato da mezz’ora!): si tratta di un lavoro degno dei loro migliori. Lo si capisce fin dall’apertura ipnotica e accattivante, che ricorda ai più sbadati l’anno in cui ci troviamo.



L’ispirazione, quella vera, è tornata. L’effetto che provoca l’ascolto è quello dei loro album più riusciti. Ti porta in un’altra dimensione, ti colpisce nel suo insieme con il suo potere enigmatico. Un mare di suoni che ti trascinano in un fiume di dolore (la stupenda “River of Pain”), ti fanno muovere la testa come pochi altri rocker oggi (“Culturecide”, “Hit Void”, “I Want You”), ti accompagnano figosi a visitare una città invisibile (“Invisible City”), ti portano dentro un film di Quentin Tarantino (“Goodbye Johnny”), ti fanno fare un trip acido da acido (“Sideman”) ti regalano il blues più cool dell’anno (“Elimination Blues”), ti cullano con una ninna nanna (“Walking with the Beast), ti fanno sentire come se nel mondo tutto per una volta può andare bene (It’s Alright, It’s Ok”) e alla fine ti hanno stordito talmente tanto che non c’hai capito niente e vuoi riascoltare il disco da capo, anche se sai già che nemmeno questa volta riuscirai ad afferrarlo nella sua interezza, perché i Primal Scream sono così. Per me sono così. Il gruppo più inafferrabile della mia vita.
(voto 8/10)



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