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venerdì 5 febbraio 2016

The Hateful Eight, la recensione odiosa





The Hateful Eight
(USA 2015)
Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Cast: Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Tim Roth, Demián Bichir, Michael Madsen, Bruce Dern, Channing Tatum, Zoë Bell
Genere: tarantinato
Se ti piace guarda anche: Big Bad Wolves, Le iene, Django Unchained, Una vita al massimo


Quentin Tarantino
Cannibal, si può sapere perché diavolo ci hai radunati qua in questo posto sperduto in mezzo alla neve?
Qual è la tua intenzione?
Fare un'orgia?
Oppure vorrai mica farci fuori tutti?

lunedì 4 agosto 2014

L’UOMO LAGNO





The Amazing Spider-Man 2 – Il potere di Electro
(USA 2014)
Titolo originale: The Amazing Spider-Man 2
Regia: Marc Webb
Sceneggiatura: Alex Kurtzman, Roberto Orci, Jeff Pinkner
Cast: Andrew Garfield, Emma Stone, Jamie Foxx, Dane DeHaan, Colm Feore, Felicity Jones, Sally Field, Paul Giamatti, Embeth Davidtz, Campbell Scott, Marton Csokas, Sarah Gadon, B.J. Novak
Genere: superinutile
Se ti piace guarda anche: The Amazing Spider-Man e la trilogia di Spider-Man di Sam Raimi

Esiste qualcosa di più odiato dei film sui supereroi, qui su Pensieri Cannibali?
Sì, la mia nemesi, il mio blogger rivale Mr. James Ford, ma a parte lui non molto altro.
Nonostante la mia avversione nei confronti del genere, da buon supereroe della blogosfera quale mi impegno di essere, continuo in ogni caso a vedere questi filmetti per documentarli ai miei preziosi lettori. Anche perché è un genere di pellicola sempre (inspiegabilmente) popolare e quindi porta visite al sito.
Cancellate quest’ultima frase. Lo faccio SOLO per spirito di sacrificio nei vostri confronti, miei adorati lettori.

"Bambino, se un giorno vuoi diventare come me ricorda sempre che
da un grande potere derivano grandi responsabilità."
"Ma guarda che io sono vestito così solo perché i costumi da Batman eran finiti."
Tra i film sui supereroi, i miei preferiti sono quelli che cercano di stare ai margini del genere come Unbreakable, Scott Pilgrim Vs. the World o il primo Kick-Ass, oppure sul piccolo schermo i Misfits dei primi tempi. Tra i superheroes più “commerciali” il mio preferito resta invece Batman, quello che, tra Tim Burton e Christopher Nolan, ha goduto delle trasposizioni più valide a livello cinematografico. Quello che mi sta più simpatico come personaggio è invece Peter Parker. Al contrario di Bruce Wayne o dell’insopportabile Clark Kent che sarebbero dei figaccioni vincenti anche se di professione non si mettessero a salvare il mondo, fondamentalmente lui è un nerd, un loser, uno sfigato. O almeno lo era. Nello Spider-Man di Sam Raimi la calzamaglia rossoblu (forza Genoa o, se preferite, forza Bologna!) era vestita da un nerdissimo Tobey Maguire, mentre nel primo The Amazing Spider-Man Andrew Garfield ne offriva una reinterpretazione geek. Geek, ovvero l’evoluzione un po’ meno sfigata dei nerd. Seth Cohen di The O.C. docet.
In questo secondo The Amazing Spider-Man la componente nerdosa o geekkosa che dir si voglia è invece del tutto sparita. Peter Parker ha terminato la scuola in maniera super cool, baciando trionfante alla consegna dei diplomi la zoccoletta più popolare del liceo, la sua Gwen Stacy/Emma Stone che è sempre un bel vedere, sebbene io la preferisca e di parecchio in versione rossa. Nei panni di Spider-Man continua poi a fare il figo a ogni occasione, con la sua suoneria personalizzata e con un umorismo da action hero degno di Schwarzy, o più che altro della sua versione simpsoniana Rainier Wolfcastle. In pratica del Peter Parker loser è rimasto poco o nulla.

"Emma, t'ho salvata dalla statale!"
"Ehm, Spidey caro, veramente io lì mi ci guadagno da vivere."
A ciò aggiungiamo un difetto comune a tutti i suoi colleghi in calzamaglia. Una cosa che non sopporto dei supereroi è il loro costante e onnipresente spirito di sacrificio. Sembra che nella vita non vogliano far altro che morire come dei martiri, salvo poi non morire mai. Vogliono sempre sembrare moralmente superiori a noi poveri cristi. Per carità, lo saranno anche, però sono pure odiosi. Non fa eccezione questo nuovo Peter Parker, anche se…

ATTENZIONE SPOILER
…il suo spirito di sacrificio finirà per ritorcersi contro di lui, coinvolgendo la povera Gwen Stacy/Emma Stone in un finale che è la parte migliore del film, visto che sembra evitare il solito banale happy-ending. Essendo questo un blockbusterone commerciale, la conclusione ci regala comunque un segnale di speranza, con una scena patetica ed evitabilissima con tanto di scontro con un ridicolo cattivone interpretato da un irriconoscibile Paul Giamatti. Far finire la pellicola con l’Uomo Ragno trasformato in Uomo Lagno che si strugge per la morte della fidanzata non sarebbe stato meglio?
FINE SPOILER

Nonostante Andrew Garfield sia un attore che mi piace qui non è certo usato al suo meglio e, nonostante Peter Parker mi sia sempre stato simpatico, qua non è proprio il massimo della vita. Pazienza, tanto il personaggio più interessante nei film sui supereroi di solito non è il supereroe di turno, quanto il suo supernemico. E chi abbiamo a ricoprire questa parte in The Amazing Spider-Man 2?
Come potete intuire dal sottotitolo italiano, è lui: Electro.




A interpretare Electro c'è Jamie Foxx, uno che per un breve, brevissimo periodo era sembrato il futuro del cinema e dell'intrattenimento mondiali. Gli era riuscita la clamorosa doppietta Collateral + Ray e per quest’ultimo avevo portato a casa persino l’Oscar. Era apprezzato dal grande pubblico, dalla critica, si era messo pure a fare il cantante e aveva raggiunto la prima posizione dei singoli più venduti negli USA con il pezzo “Slow Jamz” realizzato con i rapper Twista e Kanye West.



Una decina d’anni fa Jamie Foxx insomma dominava, poi è abbastanza sparito, e infine il solito Quentin Tarantino gli ha resuscitato la carriera dandogli la parte di Django, rifiutata da quel furbone di Will Smith, che ha preferito girare After Earth. Bella mossa, Willy!
Adesso a Jamie doppia X gli è piovuto addosso pure il ruolo da cattivone in una grande produzione commerciale, peccato che il suo personaggio faccia schifo. Schifo ai livelli del Venom/Topher Grace di Spider-Man 3.
A parte il fatto che i motivi per cui a un certo punto passa dal venerare l’uomo ragno a odiarlo sono molto pretestuosi, però il suo Electro era un personaggio che avrebbe meritato un approfondimento maggiore. Sarà che il sottotitolo italiano sembrava indicarlo come grande protagonista del film, ma a un certo punto sparisce, un po’ come Jamie Foxx ha fatto nel corso della sua carriera, per poi ricomparire verso la fine. Solo questa volta senza il contributo di Quentin Tarantino, purtroppo.

"Non è giusto! James Franco non l'avevate mica imbruttito così tanto..."
Il regista del secondo (non troppo) Amazing Uomo Ragno resta invece Marc Webb, uno che all’esordio aveva fatto gridare al miracolo in molti, me compreso, con il freschissimo indie-movie (500) giorni insieme, ma che ormai è stato assorbito dalla macchina hollywoodiana e il suo stile visivo, già quasi del tutto assente nel precedente capitolo, è qui del tutto annientato. Webb sembra più che altro voler ripercorrere le orme della trilogia di Sam Raimi. Peccato che questo secondo capitolo non sia all’altezza di Spider-Man 2, il migliore film sull’Uomo Ragno finora realizzato. Se nel primo tempo il mix tra azione e componente d’amore e d’amicizia (con l’arrivo del BFF di Spidey Harry Osborn interpretato dal valido Dane DeHaan) funziona ancora, nel secondo si scivola nel solito banale tripudio di effetti speciali e combattimenti non molto avvincenti.
Come prodotto d’intrattenimento non è nemmeno malaccio, sebbene la durata di questi film sia sempre troppo eccessiva per la mia sopportazione, ma la cosa che emerge con maggiore evidenza è un’altra: l’assoluta inutilità di questa nuova trilogia, realizzata troppo a ridosso della precedente e incapace di dire qualcosa di nuovo o di diverso sul personaggio di Spider-Man. Per vedere il terzo capitolo della serie pare comunque che dovremo aspettare fino al 2018, però di certo non staremo, o almeno io non starò certo, a fremere per l’attesa del ritorno di questo spento Uomo Lagno.
(voto 5,5/10)

mercoledì 29 maggio 2013

DJACCA UNCHAINED


Questo post partecipa all’iniziativa DJANGO WANTS YOU realizzata per l’imperdibile uscita in DVD e Blu-ray di uno dei grandi cult movie dell’anno: Django Unchained di Quentin Tarantino.

Cosa ci potete trovare dentro, oltre allo splendido film?
Ecco i contenuti extra...

DVD
- In ricordo di J. Michael Riva
- La scenografia di Django Unchained
- 20 anni di cinema: la collezione Blu-rayTM Tarantino XX
- La colonna sonora

Blu-ray
- Cavalli e gli stunt
- I costumi di Sharen Davis
- In ricordo di J. Michael Riva - La scenografia di Django Unchained
- 20 anni di cinema: la collezione Blu-rayTM Tarantino XX
- La colonna sonora

Un'uscita quindi davvero da non perdere!
Ma non è finita qui. Per l’occasione, ho anche scritto un raccontino western. Cannibal Kid che si dà al western?
Solo Tarantino può compiere un miracolo del genere. Ecco a voi Djacca Unchained.

DJACCA UNCHAINED
Il sole splendeva alto in cielo. Era quasi mezzogiorno. Un tipico mezzogiorno di fuoco. Stavo per avere il mio primo scontro faccia a faccia, o meglio pistola a pistola e me la stavo facendo nei pantaloni. Non per la paura. Non avevo certo paura di quel codardo di James Ford, il mio eterno rivale. Semplicemente, mi scappava la cacca. Non avrei dovuto mangiare tutti quei fagioli alla scorreggiona. Che mi credevo? Di avere il fisico di Bud Spencer? Per fortuna no, non avevo il fisico alla Bud Spencer. Ero più smilzo alla Clint Eastwood. Il caro vecchio Clint, come soleva dire il caro vecchio Sergio Leone, aveva solo due espressioni: una col cappello e una senza. Io, a differenza sua, potevo vantarne ben tre: una quando ero felice, una quando ero triste e poi la terza. Quella che avevo in quel momento. Quella di chi sta sudando freddo perché se la sta per fare nei pantaloni.
Provate a immaginare la scena. Ero lì, in piedi, con una giacca verde come quella che indossa Jamie Foxx in Django Unchained. Una giacca da figo spaziale. No, ho sbagliato, non da figo spaziale. Da figo western. Tutte le donnine del bordello erano scese in strada, oppure attendevano la sfida guardando dalle loro finestre e io ero completamente sudato. Marcio. In qualche modo, mi reggevo ancora in piedi e tenevo la mano sulla fondina, in attesa di estrarre la pistola e sparare a James Ford. Tra noi c’era sempre stata un’accesa rivalità, non ricordo nemmeno bene perché. Forse perché nel West devi avere per forza un nemico, altrimenti non sei nessuno, e noi ci siamo scelti a vicenda.
Da buon burlone quale ero, quale ancora sono, il giorno precedente gli avevo tirato uno scherzetto dei miei, magari giusto un po’ più pesante del solito. Gli avevo sparso della colla su tutta la sella del suo cavallo. Cavallo era una parola grossa. Sembrava più un mini pony. Lui si era seduto sopra come se nulla fosse, aveva fatto i suoi giretti di ricognizione per il colpo che stava preparando e poi, proprio quando si apprestava ad assalire la carovana di un ricco signorotto che stava arrivando in città, si è reso conto di non potersi staccare dalla sella. Il signorotto, accortosi del suo maldestro tentativo, l’ha deriso pubblicamente. James Ford ha subito capito che si trattava di uno dei miei scherzetti. Alcune ore dopo, una volta riuscito a staccare le chiappe dalla sella grazie all’aiuto della sua gang che gli ha gettato addosso dell’acqua calda tra le risate generali, così almeno mi immagino la scena, è venuto a cercarmi e mi ha sfidato a singolar tenzone. Il solito re dei melodrammi. Avremmo potuto sbrigarcela con una gara di bevute al saloon del paese ma no, per lui è sempre tutta una questione di vita o di morte. Io non è che avessi molta voglia né di uccidere, né di essere ucciso, però non mi restava altra scelta. Dovevo battermi, ne andava del mio onore. Non che avessi chissà quale onore da difendere, ma non mi andava di essere deriso a vita da Ford e dalla sua gang. Meglio morire, piuttosto.

E così eccoci lì. Un minuto a mezzogiorno. Uno stereotipato mezzogiorno di fuoco nel West. Faccia a faccia, pistola a pistola e io me la stavo facendo sotto. Non avrei mai dovuto mangiare tutti quei fagioli alla scorreggiona per pranzo. Non mi sarei potuto fare una leggera insalatina salutista? Se non altro, se quello doveva essere il mio ultimo pranzo, sarebbe stato un ottimo ultimo pranzo. Come potete immaginare, visto che state leggendo le mie parole, quello non è stato il mio ultimo pranzo e io sono ancora vivo. Anche il mio rivale James Ford è ancora vivo. Com’è possibile?
Quando le lancette sono passate dalle 11:59 alle 12 in punto, io e Ford ci siamo guardati negli occhi. Io ho messo mano veloce alla fondina, ma il mal di pancia era troppo forte e mi sono paralizzato. Ford di solito era più lento di me, ma evidentemente a pranzo si era tenuto più leggero e così ha estratto la pistola dalla sua fondina prima di quanto sono riuscito a fare io e ha sparato. Ha sparato e mi ha colpito in pieno petto. Sono morto.

Per qualche minuto, tutti hanno creduto che fossi morto. Anche Ford, che se ne è andato via in trionfo con la sua gang. Ora che non aveva più un rivale, era arrivato il momento per lui di andare altrove e cercarsene un altro. È così che va, nel vecchio West. Io però non ero morto. Dopo alcuni minuti in cui sono rimasto svenuto per lo shock, quando ormai la strada si era svuotata e non erano rimasti più nemmeno i vecchietti curiosi, quelli che non hanno niente di meglio da fare se non guardare i lavori in corso o uno scontro tra pistoleri, sono rinvenuto. Mi sono portato la mano al petto. Il proiettile si era conficcato nella finta stellina da sceriffo che tenevo vicino al cuore nella tasca interna della giacca. La mia giacca mi aveva salvato la vita!
Una donnina del bordello che guardava dalla finestra si è accorta che ero ancora vivo e mi ha portato nella sua stanza per medicarmi. Una volta ripreso, mi ha proposto di fare all’amore in cambio di 100 dollari. “100 dollari, e che mi vuoi ammazzare tu?” le ho detto, prima di proseguire: “Anche se ce li avessi, non ho tempo per questo adesso. Ho una vendetta da compiere, donna.”
L’ho lasciata lì, sono andato finalmente a fare la cacca ed è stata un’enorme liberazione. Salito in sella al mio fido cavallo, sono andato alla ricerca del mio nemico Ford. Percorsa qualche miglia, giunta ormai sera, ho visto gli amichetti di Ford bivaccare fuori dal saloon del paese più vicino al nostro. Una volta usciti, sono andati a nanna nella pensione lì accanto. Ho aspettato fino a che in tutto l’edificio non volava una mosca, a parte il pesante russare di Ford.
Ora mi trovo alla sua porta, mano sulla fondina, pistola carica e per cena ho mangiato giusto un’insalatina leggera. Questa volta, niente potrà più fermarmi.
Bang.

lunedì 21 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED MY HEART

Django Unchained
(USA 2012)
Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Cast: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Kerry Washington, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Walton Goggins, James Remar, Nichole Galicia, Don Johnson, Franco Nero, Russ Tamblyn, Amber Tamblyn, Jonah Hill, Zoe Bell, Bruce Dern, M.C. Gainey, Michael Bowen, Quentin Tarantino
Genere: western tarantinato
Se ti piace guarda anche: Django, Gli spietati, Lo chiamavano Trinità, Il buono, il brutto, il cattivo, Bastardi senza gloria

Il bello di Quentin Tarantino è che da una parte sai già cosa aspettarti, da ogni suo nuovo film, e dall’altra sa sempre stupirti. Sorprenderti come il Puffo Burlone con i suoi pacchi esplosivi. Sai già che ti scoppieranno in faccia, ma non puoi fare a meno di aprirli.
Quentin Tarantino può citare, rubare se vogliamo, idee e scene da altri film, dalla Storia, dai cartoni, dai fumetti, ma non imita nessuno. Una pellicola di Tarantino è una pellicola di Tarantino. Ha un suo stile personale, unico. Quando vedi un suo film, sai che è un suo film. Questo però non significa che il Quentin ripeta sempre la stessa pellicola. Tutt’altro. Quentin applica il suo stile a generi e a storie diverse, ultimamente anche a Storie diverse, evolvendosi e cambiando. Se vogliamo, provando persino a maturare. Cosa che continua a non riuscirgli del tutto e ciò è un bene. Tarantino resta sempre un bambinone. Un eterno fanciullo che ha mantenuto intatto il potere di stupirsi e di stupirci ancora e ancora e ancora e ancora.
Django Unchained è probabilmente il suo film più maturo. Allo stesso tempo, è comunque un film cazzaro, spassoso, folle, splatter e divertentissimo. Quentin insomma è come Peter Pan. Un Peter Pan imbastardito. Non crescerà mai. E Dio lo benedica per questo.

Da dove partire, per parlare di un film come Django Unchained?
Non lo, sono emozionato. Davvero. Porcalaputtenabasterda. L’ha fatto di nuovo. It’s Quentin, bitch. Oops, he did it again. Perché sto citando Britney Spears?
Non lo so. Sono andato nel pallone, ecco perché. Mi emoziono io, a dover scrivere di un Mito come Quentin. Mi trasformo in un fan scatenato allo stato terminale.
QUENTIN? DOV’ È? DOV’ È? AAAAAAH! VOGLIO IL SUO AUTOGRAFO!!!

Ricomponiti, Cannibal.
Ricomponiti.

"Ma tu lo conosci quel blogger, Cannibal Kid?"
"Vuoi dire Cannibal Kiiiii? La D è muta."
Dunque. Django Unchained, dicevamo.
Django Unchained è una disamina profonda e acuta sul razzismo che attanagliava l’America Bianca alla vigilia della Guerra di Secessione. Un omaggio al cinema western, allo spaghetti-western in particolare e più ancora nel particolare al Django di Sergio Corbucci con Franco Nero, qui presente in un simpatico cameo. Un film fiume su due (anti) eroi molto particolari per il genere: un tedesco ya e un nero yo. Per quanto poco io me ne possa intendere di cinema western, ed è davvero ma davvero poco, non i due tipici protagonisti di un film western.
Nella seconda pellicola della sua “trilogia storica”, Quentin Tarantino continua a riscrivere la Storia a suo piacimento. Dopo i nazisti di Inglourious Basterds, la sua ultraviolenza prende di mira gli schiavisti e il Ku Klux Klan. Quentin è un Robin Hood che uccide i ricchi per dare ai poveri. Ai poveri intesi come le vittime della Storia.
La Storia vera è andata così?
No, purtroppo no. Ma questo è Cinema, non è Storia. Qualcuno vada a spiegarlo a Steven Spielberg, autore di un Lincoln impeccabile in quanto a lezione di Storia, decisamente più carente in quanto a invenzione cinematografica. Diciamo che se fossero prof. del liceo, Spielberg sarebbe il saccentone di ruolo che sei costretto ad ascoltare in silenzio se no ti sbatte una nota sul diario, mentre Tarantino sarebbe il prof. cazzaro supplente che arriva in classe, fa un paio di lezioni che ti cambiano la vita e ti fanno credere che la scuola sia davvero una cosa utile e poi viene cacciato dall'istituto per aver fatto sesso con una studentessa e sniffato coca nei cessi.
Del proffone Spielberg ci sarà comunque tempo di parlarne, quando? A suo tempo. Non facciamoci prendere dalla foga. Cerchiamo di mantenerci lucidi e non divagare in troppe digressioni. Proprio come fa Tarantino in questo suo ultimo lavoro. Qualche flashback c’è, ma è molto più contenuto rispetto al suo passato. Tarantino è uno che ci sguazza, in flashback e deviazioni di percorso inconsuete, però qui sembra essersi quasi imposto di non eccedere e di provare a seguire un percorso più lineare. Django Unchained è il suo film più lineare. Cosa che non significa assolutamente sia privo di fantasia, come da qualcuno ipotizzato. La sfida anzi è stata quella di provare a domare il suo genio dirompente e schizofrenico. Senza imbrigliarlo. Soltanto, cercando di disciplinarlo maggiormente. Il genio di Tarantino resta sempre un puledro libero di scorazzare dove vuole. Non si è trasformato in un noioso war horse, tranquilli.

Quentin ha allora provato a raccontare questa volta una storia più lineare, diretta, meno ingarbugliata. Ha ricercato la classicità. Quello che ne è uscito, come al solito, è la sua versione della classicità e questo è un western, sì lo è, ma è la sua versione del western.
Cosa che tradotta significa: piacere godurioso. Piacere godurioso allo stato puro. Anche per chi come me al solo sentire la parola western comincia già a sudare freddo.
Questa volta, Quentin ha tenuto giusto qualche flashback, non troppo numerosi, e ha rinunciato alla struttura a capitoli esibita in Kill Bill e Bastardi senza gloria. Tara però è pur sempre Tara, non si smentisce mai, e quindi pure qui possiamo comunque intravedere delle divisioni piuttosto nette tra le parti del film.

"Sì, mi ha consigliato Prince di vestirmi così, problemi?"
La prima parte è di presentazione ai due protagonisti principali, i Bud Spencer e Terence Hill della situazione, che poi con Bud & Terence non è che abbiano molto a che vedere. Il cruccone è Christoph Waltz, magistrale, gigionissimo, grandioso. Il black cowboy è Jamie Foxx, meno sopra le righe rispetto agli altri attori del cast ma di nuovo in gran spolvero come in Collateral, la pellicola che l’aveva rivelato, e in Ray, la pellicola che gli aveva permesso di vincere il premio Oscar. Da allora la sua parabola era caduta pericolosamente nella fase calante e anche i suoi tentativi di carriera in ambito musicale come cantante R&B, per quanto dignitosi, non sono riusciti più a portarlo a quei livelli. Fino all’arrivo del solito Tarantino, in grado in passato di resuscitare carriere ben più moribonde della sua e a cui questo Django non potrà che fare bene. All’inizio, Tarantino per il ruolo da protagonista voleva Will Smith, ma (per fortuna) a causa di un cachet superiore a quello di Nicole Minetti per una serata in disco non se n’è fatto nulla. Meglio così.
Se uno parlando di presentazione dei protagonisti può pensare a una scena introduttiva di pochi minuti, non ha fatto i conti con la megalomania di Tarantino. La sua è una presentazione con i controcazzi che va avanti all’incirca per un’oretta buona. Bisogna introdurli bene e quindi ci vuole il tempo che ci vuole.
Una delle qualità che ammiro di più di Quentin, oltre alla sua capacità/facilità di creare dialoghi stellari, è che ama i suoi personaggi. Non li butta lì dentro al film a caso. Non li getta in mezzo a una strada come cuccioli spaventati. Lui li ama, i suoi cazzo di personaggi. È anche per questo che gli attori quando lavorano con lui danno sempre il massimo, perché si trovano con dei character che dietro hanno una storia, un contesto, una vita anche all’infuori della pellicola.
"Ci usa come schiavi personali, ma non è razzista come dicono."
Quentin (fuori campo): "ALLORA, ARRIVA QUEL CAZZO DI VINO?"
Dopo una serie di eroine donne, Quentin questa volta è tornato al passato. A quando ai tempi de Le iene era accusato di maschilismo, teoria poi ampiamente demolita a colpi di pistola da Jackie Brown, di sciabola dalla Sposa di Kill Bill, a cazzotti dalla girl band di Grindhouse - A prova di morte e con il fuoco da Shosanna di Bastardi senza gloria. Forse un giorno vorrò smontare anche le accuse di maschilismo rivolte a un altro regista geniale come Lars Von Trier ma, visto che potrebbe risultare un’impresa parecchio impegnativa, per il momento preferisco tornare a occuparmi di Quentin.
In Django Unchained, ci regala allora una lunga intro in cui impariamo anche noi ad amare questi personaggi come fa il regista. C’è spazio inoltre per una scena siparietto esilarante sul Ku Klux Clan, in cui viene utilizzato il Dies irae di Verdi e compare persino Jonah Hill. Un momento comico esilarante, così come allo stesso tempo un’altra grande rivincita e sberleffo del regista contro la Storia e contro ogni razzismo. Alla faccia di chi (non faccio nomi: Spike Lee) ha il coraggio di accusarlo di essere razzista.

"Non è vero che il business delle sigarette elettroniche è destinato
a passare presto di moda. A me piacciono tantissimo!"
Dopo di ché, il film entra nella sua seconda fase. Quella della missione vera e propria. L’apprendista cacciatore di taglie Django, ormai diventato killer spietato, con l’aiuto del suo compare Dr. Schultz vuole riscattare la moglie Broomhilda (che nomi fantastici che ci regala ogni volta il Tara!), ridotta a schiava (sessuale) presso Candyland, la dimora di Calvin Candie, un riccone che si diverte a far combattere gli schiavi di colore. Nella parte di Broomhilda troviamo l’affascinante Kerry Washington, attualmente anche protagonista della serie tv Scandal, protagonista dei momenti più romantici e anche visionari del film, mentre in quella di Calvin troviamo un Leonardo DiCaprio in una delle sue migliori interpretazioni da un po’ di tempo a questa parte. Era forse dalla sua immedesimazione totale nell'Howard Hughes di The Aviator che non vedevo Leo così determinato e convinto, lasciato dal Tarantino a briglia sciolta e dunque in grado di poter osare come non gli capitava da parecchio.
Menzione d’onore va poi a un grandissimo Samuel L. Jackson, attore che da’ il suo meglio con Tarantino e che qui non so perché mi ha ricordato un personaggio dei Boondocks, il cartone che andava in onda qualche anno fa su Mtv.


La storia si evolve quindi in una maniera che non vi sto a raccontare, ma che ci regala nuove scene, battute, momenti mitici, qualche sequenza splatter, una delle morti più esilaranti nella storia del Cinema e molto altro. Nella parte finale Tarantino conferma inoltre, oltre a un talento da dialoghista che non ha eguali, di essere diventato un maestro, il Maestro assoluto nella costruzione della tensione. Come già avvenuto in Bastardi senza gloria. La parte a Candyland, che a qualcuno potrebbe sembrare lenta, è lenta. Tarantino infatti vuole rallentare i ritmi, per preparare così al meglio il crescendo finale, super violento e tarantiniano, ma pure più sentimentale del solito, anche se già con la conclusione materna di Kill Bill ci aveva mostrato il suo lato inaspettatamente cuccioloso e tenerone.
Dentro questo Django Unchained c’è poi davvero tanta ma tanta di altra roba buona, così tanta che è da vedere e basta. Vedere per Credere (nel senso religioso del termine) in Dio Quentin.

"Certo che c'è davvero una bella taglia su quel Fabrizio Corona latitante..."
Vogliamo tirare fuori un paio di note negative, che se no poi mi si accusa di essere troppo di parte, cosa che con Tarantino sono assolutamente? E allora le dico: Quentin compare qui pure come attore e conferma che quello non è il mestiere che gli riesce meglio. No. Inoltre, la canzone realizzata per l’occasione da Ennio Morricone non è certo neanche lontanamente tra le migliori composizione del Maestro italiano e la voce di Elisa…
Uff! Davvero c’è Elisa che canta in un film di Tarantino?
Perché?
Peeeeeeeeeeeeeerché???
Quando l’avevo sentita all’interno della colonna sonora, prima della visione, la loro “Ancora qui” mi aveva fatto una pessima impressione, ma inserita all’interno del contesto del film ci può stare ancora (qui). Poteri miracolosi di Tarantino. Anche se il pezzo rimane probabilmente il peggiore mai usato in una sua soundtrack, è riuscito a farlo suonare in maniera decente.
"Aaah, la tauromachia!"
Fortuna che il resto della colonna sonora è come al solito oltre ogni livello di coollaggine, con le atmosfere western vecchio stampo del mitico tema di Django di Luis Bacalov che si accompagnano in maniera naturale a nuovi pezzi hip-hop e R&B firmati per l’occasione da Anthony Hamilton, John Legend, Rick Ross e altri (peccato per l’assenza di Frank Ocean, che aveva scritto una ballatona apposta per il film ma che alla fine non è stata utilizzata).
I brani black e rap si adattano alla perfezione al cinema di Tarantino, forse il regista più hip-hop in circolazione. Come un dj, Quentin “ruba” e campiona generi e idee dal passato, rielaborandoli in una maniera del tutto personale e facendoli suonare come nuovi. Come un MC, poi, Quentin riempie i suoi film di parole, con una serie di dialoghi infuocati, ricchi di citazioni, riferimenti e naturalmente un linguaggio “parental advisory explicit content”, proprio come i testi rap.

Non va dimenticata comunque anche la bellissima “I Got a Name” di Jim Croce, usata in uno dei momenti più riflessivi del film. Perché sì, il nuovo Tarantino è anche riflessivo. Ci parla di schiavitù nella maniera più vera e meno accademica possibile e ci regala un western che è molto di più e di altro rispetto a un western.
È più maturo, come dicevamo in apertura, ma non è troppo maturo. Perché alla fine Tarantino Unchained cambia ma rimane sempre lo stesso: il buon vecchio figlio di buona donna scatenato che conoscevamo, amavamo e ameremo per sempre.
(voto 9/10)

Post pubblicato anche su L'OraBlù, con tanto di nuova locandina firmata C(h)erotto.



giovedì 23 agosto 2012

Horrible Bossi

Come ammazzare il capo e vivere felici
(USA 2011)
Titolo originale: Horrible Bosses
Regia: Seth Gordon
Cast: Jason Bateman, Charlie Day, Jason Sudeikis, Kevin Spacey, Jennifer Aniston, Colin Farrell, Jamie Foxx, Julie Bowen, Meghan Markle, Donald Sutherland
Genere: commedia criminale (nel senso che è un crimine fare uscire una commedia che non faccia ridere)
Se ti piace guarda anche: C’è chi dice no, Dead Boss, Il grande capo

Come al solito, i titolisti italiani non c’hanno preso un granché. Più azzeccato era il titolo originale: Horrible Bosses, che almeno ci forniva precise indicazioni riguardo alla horrible qualità del film.
Una traduzione fedele sarebbe potuto comunque essere: Come fare un film da schifo e vivere felici. E invece no.

Se con un film come l’italiano C’è chi dice no c’era ben poco da ridere, gli americani al momento non se la passano meglio di noi e questo Come ammazzare il capo e vivere felici dimostra come la crisi della commedia sia internazionale quanto quella economica. Così come la crisi delle idee. Le due poco divertenti farse partono infatti dallo stesso identico presupposto, che in un periodo come quello attuale non sorprende di certo.
Odiate il vostro capo? Arrivereste fino al punto di ucciderlo, talmente è insopportabile?
Innanzitutto, dovreste già ringraziare il cielo (e magari anche quello stro**one del reverendo Camden di Settimo cielo) perché un capo ce l’avete, cosa che significa che anche un lavoro ce l’avete. E non è mica poco, oggi come oggi come oggi come oggi come oggi come oggi scusate, mi sono incantato.

Mettiamo però il caso che il vostro capo sia davvero odioso a livelli insopportabili e abbiate deciso di andare fino in fondo ai vostri propositi e sopprimerlo. Questo film vi viene in aiuto proponendovi tre esempi pratici.
Nel primo, Kevin Spacey interpreta il capo più stro**o e pezzo di me**a che si possa immaginare, in una sorta di ironico ribaltamento del suo ruolo in American Beauty in cui era lui a mandare “a fanguuulo!” il capo. Il povero Jason Bateman, che si sforza in tutti i modi di fare carriera all’interno della sua azienda e pure di far ridere, in entrambi i casi senza successo, è quindi in qualche modo giustificato nel volerlo fare fuori. Una decisione estrema, certo, però possiamo capirlo.

Il secondo caso è quello di un irriconoscibile Colin Farrell in versione incompetente figlio di papà che riceve la ditta in eredità dal papino e la gestisce di cacca, prefendo spassarsela berlusconianamente andando a escort. Un comportamento che può essere più o meno condivisibile, ma fino a che non decide di scendere in politica non deve mica renderne conto a nessuno, no? Insomma, qui Colin Farrell è una testa di C, ma meritarsi una pena di morte, così, solo perché è un pirla? Non lo so, mi sembra eccessivo…
Jason Sudoku Sudeikis, forse basterebbe che ti facessi un paio di birrette insieme a lui, e scopriresti che il "povero" Colin non è poi così malaccio come sembra. Però, vabbè, caro il mio Sudeikis hai un cognome greco e quindi si può anche capire che tu in questo determinato periodo storico sia piuttosto incacchiato con il mondo. E quindi possiamo arrivare a comprendere e perdonare pure te.

"Do you remember Mike Tyson?"
Il terzo caso è quello di Jennifer Aniston, dentista sexy che molesta in tutti i modi possibili e non possibili il suo assistente, interpretato dal poco conosciuto ma anche poco promettente Charlie Day. A lui, tutte queste avance e tutti questi riferimenti sessuali espliciti non stanno proprio bene, visto che è già innamorato della sua fidanzata con cui si sta per sposare.
Stiamo però parlando di Jennifer Aniston. E per di più di Jennifer Aniston in versione dentista sexy e ninfomane!
Chi è che si merita di morire?
Lei?
Leeeeeeeei?
Jennifer Aniston dentista sexy e ninfomane merita di morire?
Io la sentenza di morte la firmerei piuttosto nei confronti del Charlie Gay Day, visto che in una situazione così paradossale sarebbe parecchio facile far ridere e invece l’unica che riesce a strappare qualche risata è proprio la Aniston, in gran forma fisica e anche comica, cosa che invece non si può certo dire del resto del cast.

Kevin Spacey ad esempio per tutto il tempo della pellicola indossa l’espressione incazzosa non di chi deve interpretare un capo bastardo, ma di chi si sta chiedendo: “Ma come ho fatto a ridurmi dall’essere il villain de I soliti sospetti e 7even al cattivo boss di questa porcheria?”
Colin Farrell strappa un paio di sorrisi giusto per il trucco da sfigato che gli hanno messo addosso, ma il suo personaggio è davvero troppo stereotipato, così come gli altri. Va bene che siamo dentro una commedia e gli stereotipi sono sempre un buon modo per far ridere in maniera facile, però come la mettiamo che qui da ridere c’è davvero poco?
D’altra parte una pellicola in cui l’invenzione più divertente è quella della parola “bismamma” utilizzata al posto di nonna, non ha certo molte carte da giocare.
Il peggio sono però i tre protagonisti. Se nell’italiano C’è chi dice no un qualche moto di empatia nei confronti dei personaggi si riesce ad averlo, qui i tre Qui, Quo, Qua risultano meno simpatici dei loro capi ed è un peccato soprattutto per Jason Bateman che al cinema, a parte Juno, non riesce proprio a trovare un ruolo al livello di quelli avuti nelle serie tv Arrested Development e, per i più nostalgici, nel telefilm anni ’80 La famiglia Hogan.

Anzi no, devo correggermi. Il peggio è Jamie Foxx in versione killer comico (?): per lui i tempi d'oro di Collateral sono davvero molto lontani.

Altre critiche da aggiungere? Per il momento no.
E così siamo giunti alla fine della storia tragicomica che vi ho appena raccontato e che si chiama: come ammazzare questo film e vivere felici.
(voto 5/10)

lunedì 7 febbraio 2011

Party col folle

Parto col folle
(USA 2010)
Titolo originale: Due Date
Regia: Todd Phillips
Cast: Robert Downey Jr., Zach Galifianakis, Michelle Monaghan, Jamie Foxx, Juliette Lewis, RZA, Danny McBride, Charlie Sheen, Jon Cryer
Genere: road trip
Se ti piace guarda anche: Terapia d’urto, Road Trip, Una notte da leoni

Trama semiseria
Robert Downey Jr. si trova sull’East Coast per lavoro e sta per tornare dritto dritto a Los Angeles dalla mogliettina che di lì a poco partorirà. Peccato che sul volo beccherà un certo Zach Galifianakis che ovviamente gli farà perdere le staffe e lo farà cacciare dall’aereo. Invece di finire in Terapia d’urto come Adam Sandler con Jack Nicholson, Robert Jr. sarà costretto a un road trip in macchina con lo stesso tizio che l’ha fatto entrare in lista non-fly. E questo significa: canne assicurate! Perché avete mai visto Galifianakis in un ruolo in cui non si stona di brutto?

Recensione cannibale
Apertura dedicata al titolo italiano e per una volta non ho da parlarne male. Il titolo originale “Due Date” significa “scadenza”; mantenuto tale e quale da noi avrebbe assunto un significato però del tutto diverso e tradotto letteralmente avrebbe fatto pena. La decisione del doppiosenso di “Parto col folle” appare allora azzeccata e in linea con lo spirito della pellicola, persino più del poco entusiasmante originale, quindi per una volta un plauso ai nostri bistrattati titolisti. Ma che non si abituino troppo in fretta, ché Se mi lasci ti cancello è ancora difficile da cancellare dalla mia memoria.

Al di là di questo fatto davvero più unico che raro nel mondo della distribuzione cinematografica italiana, Parto col folle non si segnala per alcun altro elemento originale. La trama è infatti un sapiente miscuglio (scopiazzamento?) di Terapia d’urto con la coppia Sandler/Nicholson, più altri elementi dalle pellicole precedenti firmate da Todd Phillips. Il regista specializzato in comedy americane torna, dopo l’enorme successo di Una notte da leoni, sul luogo del delitto del suo esordio Road Trip, una pellicola ispirata da sue vere vicissitudini personali che Phillips evidentemente non ha ancora del tutto rimosso e che continua a tormentarlo nel sonno.

Il suo nuovo Parto col folle però pur seguendo quel modello non ne raggiunge gli stessi effetti comici, anche perché la sequela di gag e sketch sa di già visto in più occasioni. Gli splendidi paesaggi americani sarebbero poi potuti essere stati sfruttati meglio. A funzionare è però l’improbabile coppia formata dal sempre irresistibile Zach Galifianakis e dal divo Robert Downey Jr., un ottimo attore che però nella scelta dei suoi copioni negli ultimi tempi sta occhieggiando più al successo di pubblico che alla qualità: fino a che non fa la fine di Johnny Depp in The Tourist possiamo però ancora considerarlo salvo! Occhio, però. Sono quindi loro due la forza di un film che per il resto propone la solita galleria di personaggi strambi interpretati da una serie di cammeo illustri o quasi: c’è la rockstar Juliette Lewis in versione spacciatrice, il rapper RZA addetto alla security dell’aeroporto, un Jamie Foxx sempre più lontano dai tempi di Collateral e persino un momento Due uomini e mezzo con il bunga-bungattore americano Charlie Sheen.

Ci sono poi alcune gag in teoria politically scorrect, come Robert Downey Jr. che dà un cazzottone in pancia a un bambino e ha un duello con un tizio paraplegico, una scena di sega di gruppo padrone/cane, così come una visionaria sequenza da fattoni sulle note di “Hey You” dei Pink Floyd, però anche queste danno un forte senso di dejavu. Sarà che nell’ultima 15ina d’anni, diciamo dall’avvento di South Park in poi, tali espedienti sono stati usati un po’ da chiunque e quindi non sortiscono più tutta questa ilarità, né tantomeno scandalizzano.

Comunque il film si lascia guardare, a tratti fa sorridere, la coppia di protagonisti suscita simpatia e quindi è la classica sufficienza. Risicata, ma pur sempre un 6 in pagella che ti tiene lontano dagli esami di riparazione (ma, mi chiedo: esistono ancora gli esami di riparazione?) e ti consente di partire tranquillo per le vacanze. Magari insieme a un folle, che così è più divertente.
(voto 6)

Canzone cult: Band of Horses, “Is there a ghost”

venerdì 10 settembre 2010

...and justice for all (Giustizia privata)

Giustizia privata
Titolo originale: Law Abiding Citizen
(USA, 2009)
Regia: F. Gary Gray
Cast: Gerard Butler, Jamie Foxx, Leslie Bibb, Josh Stewart, Gregory Itzin, Colm Meaney, Viola Davis, Michael Irby
Links: imdb, mymovies

Il titolo italiano di questa pellicola gioca a tirare fuori l’anima più leghista e giustizialista insita nello spettatore e, in parte, lo fa anche la pellicola. Al povero Gerard Butler viene infatti sterminata la famiglia da due pazzi criminali; nel processo che segue, se a uno verrà data la pena di morte, l’altro (che ha patteggiato) se la cava con appena qualche anno di galera. Dieci anni più tardi, Butler deciderà così in stile giustiziere della notte (ma anche del giorno) di farsi giustizia da solo, andando pure a caccia dell’avvocato che aveva permesso il patteggiamento. Una giustizia che si fa in modi spesso oltre ogni limite dell’inverosimile.

Tra i meriti della riuscita della pellicola vi è una regia precisa (pur senza guizzi particolari) che guarda come modelli per l’atmosfera thriller storici degli anni ’90 come Il silenzio degli innocenti e 7even (sebbene rimangano modelli irraggiungibili). La tensione è però regalata soprattutto dal faccia a faccia tra i due protagonisti: pregevole l’interpretazione dello spartano Gerard Butler (che per la gioia del pubblico femminile compare spesso e volentieri ignudo come mammà l’ha fatto), così così invece Jamie Foxx, per me davvero bravo solo nel capolavoro Collateral.
Thriller ben costruito, con una sceneggiatura di solido mestiere, seppure con alcuni spunti piuttosto prevedibili, più un sapore di già visto che non molla dall’inizio alla fine. Il film comunque ha dentro una cattiveria superiore alla media tra le pellicole americane del genere, peccato solo che il finale tiri il freno a mano anziché spingere con coraggio sul piede dell’acceleratore.
(voto 6,5)

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