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martedì 16 settembre 2014

THE GIVER – IL MONDO DEI JONAS BROTHERS





The Giver – Il mondo di Jonas
(USA 2014)
Titolo originale: The Giver
Regia: Phillip Noyce
Sceneggiatura: Michael Mitnick, Robert B. Weide
Tratto dal romanzo: The Giver – Il donatore di Lois Lowry
Cast: Brenton Thwaites, Odeya Rush, Cameron Monaghan, Jeff Bridges, Meryl Streep, Katie Holmes, Alexander Skarsgard, Taylor Swift
Genere: disteenopico
Se ti piace guarda anche: Divergent, Hunger Games, Pleasantville

Riuscireste a immaginare un mondo privo di emozioni? Un mondo senza odio, ma allo stesso tempo anche senza amore? Un mondo in bianco e nero, senza colori?
Ci riuscireste?

Certo che sì, perché è già stato fatto. Il film, splendido, era Pleasantville di Gary Ross, il regista del primo Hunger Games.


A volerlo riassumere brutalmente, The Giver – Il mondo di Jonas è la versione teen-fantasy alla Hunger Games di Plesantville, ma a sorpresa non si tratta della nuova pellicola di Gary Ross, bensì di una nuova pellicola adolescenziale dai contorni sci-fi diretta in maniera anonima dal mestierante Philip Noyce. Così come per Hunger Games o per Divergent, che ricorda ancora di più, è un film tratto da una saga young adult di successo, The Giver – Il donatore di Lois Lowry, che ha dato vita anche ad altri tre capitoli letterari che probabilmente non avranno altrettanti seguiti cinematografici, visto che questo ha fatto flop ai botteghini, dove ha raggranellato pochi verdoni. Poco male, visto che, mentre scorrono i titoli di coda, non è che si muoia dalla voglia di scoprire come proseguano le gesta dell'eroico Jonas.

Eroico?
Beh, sì, più o meno. Alla fine è la solita storia del tizio prescelto come Neo di Matrix che deve salvare il mondo dalle tenebre. O in questo caso dal bianco e nero. Il riferimento visivo principale del film, come detto, è Pleasantville, con la differenza che in quel caso l'ambientazione era quella da sitcom anni Cinquanta, mentre qui ci troviamo nel solito ennesimo (ma quanti ce ne sono?) futuro distopico sfigato.
I fan della saga a questo punto diranno che il romanzo The Giver – Il donatore era uscito negli anni '90 e quindi sono gli altri ad aver copiato e probabile che ciò sia vero. Però qui stiamo a giudicare non il libro, che non ho letto, bensì la sua versione cinematografica, arrivata con colpevole ritardo e che ormai appare come un clone meno femminista e con meno azione di Hunger Games e Divergent. Il fatto che il romanzo sia stato scritto precedentemente non ha funzione retroattiva sul film.

Vi siete mai chiesti perché tutte queste storie young adult sci-fi disteenopiche negli ultimi anni stanno spopolando?
Oltre che per arricchire le multinazionali che producono questi film, hanno una funzione benefica sul giovane pubblico a cui si rivolgono. Se il mondo circostante vi sembra brutto, i TG – anzi, i siti di informazione come Huffington Post o Vice o Lercio, perché i TG ormai li guardano solo i vecchi – trasmettono troppe immagini di guerra, e la scuola non va e una Vespa e una donna non avete, tranquilli perché arriva una saga fantasy e vi toglie i problemi. Dopo aver visto Hunger Games o Divergent o adesso The Giver, il nostro mondo non sembra poi tanto terribile. Abbiamo la libertà di scelta. Siamo liberi ad esempio di ascoltare la musica che vogliamo, tranne quando arrivano gli U2 nei nostri iPad e ci ficcano dentro le loro canzoni senza che noi gliel'avessimo chiesto. A parte questo, viviamo fondamentalmente in un mondo libero. Dove c'è la guerra, ma c'è anche la pace. Dove c'è l'odio, ma anche l'amore. Dove ci sono i colori. Dove c'è il sesso.
Una cosa che non c'è nel mondo di Jonas è il sesso.

Dopo che vi ho detto questo, scommetto che anche quella mezza voglia di vedere il film che potevate avere vi è passata, vero?
Però purtroppo è così. Nel futuro distopico immaginato dal film, i bambini vengono al mondo in laboratorio, o forse a portarli è la cicogna?!? Questo è un passaggio che mi devo essere perso.
Niente sesso, siamo young adult, grida questa pellicola. Più che il mondo di Jonas, sembra il mondo dei Jonas Brothers.
Ve li ricordate, i Jonas Brothers?
No, vero?
Eccoli qui.


Non ve li ricordate comunque?
In ogni caso, i Jonas Brothers sono stati un “memorabile” gruppo anch'esso rivolto a un pubblico young adult o meglio proprio teen per non dire tween, che per un breve periodo a cavallo tra il 2006 e il 2010 circa ha spopolato soprattutto negli USA, mentre da noi se li sono per fortuna filati in pochi. Lanciati da Nickelodeon e Disney Channel, i Jonas Brothers erano dei ragazzetti cristiani evangelici che a ogni occasione esibivano i loro anelli di castità, per mostrare al mondo che sarebbero arrivati vergini fino al matrimonio.
Ci sono poi riusciti?
Uno sì, ma solo perché ha deciso di sposarsi a tipo 13 anni o giù di lì. Gli altri due invece hanno ceduto ai peccaminosi piaceri della carne senza sposarsi. Tra l'altro uno di loro, Joe Jonas, si è fatto la country-star Taylor Swift, ai tempi altra paladina degli anelli di castità e oggi rinomato mignotton... pardon, volevo dire esponente del puttanpop.


Taylor Swift che di recente ha intrapreso anche una carriera come attrice e che ha un piccolo ruolo proprio in questo The Giver. Tutto torna. Vi sembrava che parlassi di cose a caso?
Poteva apparire così, e un po' forse lo era, ma tutto torna, nello showbiz americano, così come nei post di Pensieri Cannibali. A non tornare molto è invece la reale utilità di un film come questo. Non che sia inguardabile, per carità, si lascia seguire con piacere per la prima ora e ci sono pure dei riferimenti cinematografici niente male, non so se voluti o meno, come la slitta di Quarto potere, il volo con la bicicletta alla E.T. e i montaggi espressivi di immagini in stile Terrence Malick. La parte conclusiva scivola poi insieme allo slittino del protagonista su territori molto banali e prevedibili, però l'insieme non appare nemmeno troppo malvagio.

Pure il cast si comporta si comporta in maniera decente. Il protagonista Brenton Thwaites non è il massimo della recitazione però qui se la cava meglio che in Oculus e Maleficent, dove faceva proprio la figura del bimbominkia imbambolato. Più promettenti i suoi amichetti Cameron Monaghan in arrivo dalla serie Shameless US e la giovane gnocchetta Odeya Rush, che con quegli occhioni da cerbiatta è una potenziale nuova Mila Kunis. Ci sono poi i veterani Jeff Bridges e Meryl Streep che, per quanto appaiano annoiati, timbrano il cartellino con il loro solito mestiere, più un Alexander Skarsgard in libera uscita dall'ormai terminato – grazie a Dio – True Blood e una Katie Holmes invecchiata, ma azzeccata nella parte della tipa rigida come un palo della luce.

Nonostante la confezione impeccabile e realizzata in maniera professionale, il film oltre a puzzare di deja vu è troppo freddo e non funziona. Non come altri più riusciti e fortunati young adult recenti che ho adrato. Non riesce a creare un vero coinvolgimento come riuscivano a fare Hunger Games, probabilmente per grosso merito di Jennifer Lawrence, e Divergent, probabilmente per grosso merito di Shailene Woodley, e gli mancano le emozioni. Le stesse di cui è privo il mondo di Jonas in cui è ambientato. Gli mancano i colori capaci di rendere una pellicola di medio livello qualcosa di...

SPETTACOLARE.
(voto 6-/10)

domenica 22 settembre 2013

R.I.P.D. – UN FILM DALL’ALDILA’




R.I.P.D. – Poliziotti dall’aldilà
(USA 2013)
Titolo originale: R.I.P.D.
Regia: Robert Schwentke
Sceneggiatura: Phil Hay, Matt Manfredi
Ispirato alla graphic novel: Rest in Peace Department di Peter M. Lenkov
Cast: Ryan Reynolds, Jeff Bridges, Kevin Bacon, Mary-Louise Parker, Stephanie Szostak, James Hong, Marisa Miller, Robert Knepper, Mike O’Malley, Piper Mackenzie Harris
Genere: allegri ragazzi morti
Se ti piace guarda anche: Ghostbusters, Sospesi nel tempo, Ghost, Men in Black
e per altri consigli cinematografici scaricate gratuitamente Muze, la app che vi suggerisce i film che vi potrebbero piacere!

"Bello il tuo costume da Carnevale, Jeff."
"Stavo per dirti la stessa cosa, bamboccio!"

Ci sono dei film che nascono morti. Non hanno nemmeno bisogno che qualcuno gli spari. Vengono al mondo già spacciati. È il caso di R.I.P.D. – Poliziotti dall’aldilà, film che sembra venuto dall’aldilà. L’idea di partenza pare infatti uno scarto uscito da qualche cassetto polveroso di qualche compagnia di produzione hollywoodiana fallita. Un residuato bellico dagli anni ‘80/’90 lasciato non a decantare, solo a marcire in attesa che qualcuno, sciagurato, lo ritirasse fuori.
Lo spunto ormai superatissimo ci presenta un poliziotto (Ryan Reynolds) ucciso in servizio. Nell’aldilà, viene assegnato al R.I.P.D. (Rest In Peace Department), la sezione poliziesca dei morti che si occupa di scovare ed eliminare per sempre gli spiriti criminali che sono rimasti sulla terra sotto sembianze umane. Come collega gli viene assegnato Jeff Bridges, un burbero sceriffo vissuto (e morto) ai tempi del vecchio West e che quindi avrà un comportamento d’altri tempi.
Gli spiriti di Ryan Reynolds e Jeff Bridges sono però rispediti nel mondo dei vivi non con il loro aspetto d’un tempo, bensì sotto mentite spoglie, in modo che nessuno possa riconoscerli. E così, con una trovata che vorrebbe essere la trovatona spassosa del film, Ryan Reynolds assume le sembianze di un innocuo vecchietto cinese, mentre Jeff Bridges per il mondo dei viventi è un’agente di polizia con l’aspetto mostruosamente sexy di Marisa Miller, super biondazza super bonazza super modella attrice super cagna.


Una topona del genere che si comporta come un vecchio sceriffo del West avrebbe potuto generare delle situazioni parecchio spassose e invece… Invece niente. Il film non fa ridere. Il suo problema principale è questo. Avessero speso qualche soldino in più per dei battutisti migliori, invece di sprecarli per degli effetti speciali da schifo, sarebbe potuta uscire una pellicola di buon intrattenimento. Così invece non va oltre la soglia minima del guardabile. Cosa che è già qualcosa.

"Ancora vestito così? Guarda che la moda western è passata di moda ai tempi del... vecchio West!"

La storia raccontata da R.I.P.D. come accennato è di quelle old-style, va a riportare in vita film come Ghostbusters o anche Sospesi nel tempo di Peter Jackson, con qualche riferimento più che esplicito pure a Ghost, si veda il rapporto di Ryan Reynolds con la moglie e il fatto che sia stato ucciso dal suo collega e migliore amico. Quest’ultimo non è uno spoiler, si scopre subito, in R.I.P.D. almeno. In Ghost no. Ma se non avete ancora visto Ghost che è del 1990 non è colpa mia e per i film vecchi più di 20 anni l’allarme spoiler non esiste più, ok?
R.I.P.D. è una commedia action paranormale che finisce dalle parti di Men in Black e un pochino pure da quelle di Wild Wild West. Stupisce allora, e sono le uniche due cose a stupire di un film per il resto prevedibilissimo, di non trovare come protagonista Will Smith, bensì un ugualmente inespressivo Ryan Reynolds, e con le chiappe sulla sedia di regista non Barry Sonnenfeld, bensì tale Robert Schwentke. Se avete sentito del bagnato addosso, sono io che ho sputacchiato pronunciando il suo cognome. Schwentke ke è il regista del primo Red e che qui esagera parecchio con zoom, riprese concitate e finisce per sembrare un Michael Bay ancor più fatto di ecstasy.

Jeff Bridges: "Sono troppo vecchio per queste stronzate."
Ryan Reynolds: "Pure io."

Nonostante le riprese diano il mal di mare nei momenti più action, nonostante il tono più videogammaro e fumettoso – il film non a caso è tratto da una graphic novel – che cinematografico, il resto della pellicola procede scorrevole. R.I.P.D. è stato massacrato dalla critica americana e largamente ignorato dal grande pubblico mondiale ed entrambi i fatti non stupiscono. Troppo fuori tempo massimo, troppo già visto, troppo prevedibile. L’idea del R.I.P.D., il distretto di polizia dell’aldilà, sarebbe stata magari carina una trentina d’anni fa. Dopo, molto tempo dopo i Ghostbusters e altri film giocati sul tema dei fantasmi, appare superata più di tutte quelle serie crime che usano delle sigle nel titolo, come N.C.I.S. o C.S.I..
C.S.I. quest’anno è arrivato alla 14esima stagione, ma ci pensate? Quando era iniziato, le serie tv bisognava ancora seguirle secondo i voleri di Italia 1, perché Internet c’era già, ma c’era l’Internet a 56kbit che ti permetteva di downloadare una canzone dei Limp Bizkit da Napster nel tempo che adesso ci va per scaricare un film in HD. Che ci volete fare, in quegli strani tempi i Limp Bizkit erano cool.
R.I.P.D. oggi appare come un film più sorpassato di C.S.I. e dei Limp Bizkit e proprio per questo non infastidisce nemmeno troppo. Perché se non altro non ha la pretesa di voler essere qualcosa di nuovo. Si lascia guardare con un certo gusto retrò e non offre manco così tanti momenti trash o ridicoli. C’è qualche scena un sacco kitsch, come le trasformazioni degli spiriti o Mary-Louise Parker che morde il pizzetto di Jeff Bridges (era proprio necessario?), ma c’è anche un Kevin Bacon che come cattivone stereotipatissimo si trova nel suo elemento naturale e una storiella che, benché si sappia già fin dal primo momento come andrà a finire, si fa seguire senza annoiare. Senza annoiare troppo, almeno.
Da un film giunto dall’aldilà come questo, mi aspettavo di ben peggio. Avrei scommesso sarebbe stato uno dei peggiori dell’anno e invece non è poi così terribile. Non so se esserne più soddisfatto o più deluso.
(voto 5+/10)



lunedì 7 marzo 2011

Tron, non ci sono paragon

Tron Legacy
(USA 2010)
Regia: Joseph Kosinski
Cast: Garrett Hedlund, Jeff Bridges, Olivia Wilde, Michael Sheen, Beau Garrett, Serinda Swan, Yaya DaCosta, Elizabeth Mathis, James Frain, Owen Best, Bruce Boxleitner, Daft Punk
Colonna sonora: Daft Punk
Genere: fantascienza
Se ti piace guarda anche: Tron, Matrix, Speed Racer, La storia infinita

Motivi per cui Jeff Bridges è rimasto nel mondo di Tron:
1. La figa
Trama semiseria
Jeff Bridges è sparito per quasi 30 anni dentro il mondo di Tron da lui stesso creato, un mondo che ha ispirato un sacco di film tanto belli (Matrix) quanto brutti (Avatar, i sequel di Matrix), un po’ tutte le pellicole in computer grafica e volendo fare gli esagerati forse persino la social-network-reality in cui viviamo oggi. Perché è rimasto lì dentro, lasciando il povero figlioletto a crescere da solo? La scusa ufficiale è che è rimasto bloccato, quella non ufficiale è che il mondo di Tron è pieno di figa.
In ogni caso Jeff Bridges qui è Dio e suo figlio Garrett Hedlund è Gesù Cristo sceso nella terra di Tron per salvare sia il mondo digitale che il nostro e, già che c’è, cercare di dare pure due colpi a Olivia Wilde che è sempre cosa buona e giusta [la Bibbia, Genesi cit.].

Recensione cannibale
2. Le corse in moto
Gli aspetti più importanti di un film per me sono due: la musica e le immagini. Embé graziarcazzo, direte voi. Parte audio + parte video, non è proprio questo il cinema? Certo, però sono elementi che non bisogna nemmeno dare del tutto per scontatii, osservando come un sacco di pellicole (vedi al reparto commedie italiane) non siano per nulla curate visivamente e ascoltando come molte altre pellicole presentino colonne sonore spesso piatte o banali. Altri elementi che ci possono stare molto bene insieme a questi due capisaldi sono poi anche una sceneggiatura in grado di raccontare una storia interessante con dei dialoghi brillanti e magari pure delle interpretazioni convincenti da parte degli attori. Siccome non sempre si può avere tutto, se ci sono i fondamenti è già abbastanza. E in Tron: Legacy questi fondamenti ci sono, eccome.

3. I Daft Punk
Capitolo colonna sonora, il vero valore aggiunto del film: Daft Punk. Potrei aver detto già tutto, ma cerco di approfondire. I due genioni (non semplici genietti) francesi sono l’elemento che regala il vero 3D alla pellicola, con un’atmosfera epica in grado di competere con lo splendido lavoro fatto da Hans Zimmer per le musiche di Inception. Non contenti di ciò, i due compaiono anche in un cameo, naturalmente nelle vesti di DJ del locale più in del mondo di Tron.
Come per Trent Reznor, l’evoluzione della loro musica verso la composizione di soundtrack per il cinema era un passo del tutto naturale. Se già nel 1999 con The Fragile dei Nine Inch Nails, il Trent gettava le basi per la sua futura carriera che l’avrebbe portato all’Oscar per le musiche di The Social Network, anche i Daft Punk hanno sempre guardato con un occhio più che interessato al cinema. I video per l’album Discovery (2001) hanno infatti dato vita all’anime musicale Interstella 5555 e i due hanno anche diretto un lungometraggio tutto loro, Electroma, mentre Thomas Bangalter (uno dei due Punk) ha realizzato le musiche dei film di Gaspar Noé Irreversible ed Enter The Void. Da bravi nerd usciti da un film di fantascienza quali sono non potevano quindi certo dire di no alla Disney per realizzare le musiche del sequel del seminale Tron. E non potevano certo realizzare un lavoro che fosse meno che grandioso.


4. Interventi di chirurgia plastica a basso costo
L’aspetto visivo è poi abbagliante. Io non mi impressiono facilmente per gli effetti speciali, anzi diciamo che sono uno di quegli elementi che di solito considero come un surrogato utilizzato dai produttori per sopperire alla mancanza di idee in fase di sceneggiatura, ma in questo caso sono davvero stupefacenti. Comunque non è tanto questo, è proprio lo stile visuale ad essere estremamente affascinante, grazie a un mega mix che il promettentissimo esordiente Joseph Konianski è riuscito a coniare tra il Tron originale, of course, le navicelle spaziali di Guerre Stellari, le geometrie glaciali di 2001: Odissea nello spazio, del video “All Is Full of Love” di Bjork e del già citato film degli stessi Daft Punk, Electroma, tanto bello a livello visivo e musicale quanto un po’ vuotino a livello di contenuti.

Questo Tron: Legacy rischia di incorrere nello stesso problema? In parte sì, visto che comunque i due aspetti sopra citati sono clamorosamente meglio di tutto il resto, però il film riesce a tenere in maniera sufficiente anche dal punto di vista della sceneggiatura, curata non a caso da Edward Kitsis e Adam Horowitz, ovvero due degli sceneggiatori abituali di Lost. Il primo Tron del 1982 era poi uno di quei film così avanti per l’epoca che le sue tematiche riprese a grandi linee anche da questo sequel riescono a 30 anni di distanza ad essere ancora maledettamente attuali.

5. Un costume fico da jedi
Per dare un tocco di emozione ed umanità in più all’insieme, un aspetto in cui la pellicola originale latitava, i furboni della Disney hanno allora pensato bene di aggiungere a questo giro sull’ottovolante delle corse in moto anche una storia biblica: se Jeff Bridges è il Dio del mondo di Tron, suo figlio Garrett Edlund è chiamato a salvare la situazione come una sorta di Gesù Cristo dell’era digitale. Il rapporto padre/figlio si va quindi ad aggiungere alla riflessione sul rapporto tra creatore e creatura; anche in questo caso, come in molti dei film recenti più premiati (Il cigno nero, The Social Network, Il discorso del re), la lotta non è contro un nemico esterno, bensì contro se stessi: cosa che qui avviene con il personaggio di un Jeff Bridges in versione Zen (ma ricorda pure un mix tra Gandalf del Signore degli anelli, Bruce Willis in Unbreakable e un guerriero jedi) che è l’artefice del suo alter-ego malefico, un Jeff Bridges in versione giovane e botulinizzata. Se le mega produzioni commerciali non sono il terreno ideale di Bridges, va comunque detto che qui se la cava bene e fa dimenticare la sua inquietante apparizione da pelato nel pessimo Iron Man. Il suo figlio cinematografico, il giovane protagonista Garrett Hedlund, per il momento non sembra il massimo dell’espressività ma andrà giudicato meglio più avanti nella versione cinematografica dell’On The Road di Kerouac. E poi c’è Olivia Wilde, volto certo non nuovo a chi ha frequentato The O.C. e Dr. House, ma in grado comunque di stupire in questa inedita veste da stilosissima kick-ass woman. Piuttosto ridicolo invece Michael Sheen in versione biondo platino.
6. La figa

Tron Legacy è riuscito così a superare le mie aspettative, andando a rimescolare con rispetto le tematiche dell’innovativa pellicola originale e aggiungendo al tutto uno stile visivo impressionante, in uno dei film prodotti da mamma Disney che forse più mi ha convinto dai tempi di Alice nel paese delle meraviglie (la versione animata del 1951, non quella di Tim Burton), persino in un finale tanto scontato quanto poetico. Poi, vabbè, un inchino per l’epicità della musica della soundtrack, quella certo non inaspettata. Daft Punk + Tron: non ci sono davvero paragon.
(voto 7+)

lunedì 21 febbraio 2011

Non è un paese per Coen

Il Grinta
(USA 2010)
Titolo originale: True Grit
Regia: Ethan Coen, Joel Coen
Cast: Hailee Steinfield, Jeff Bridges, Matt Damon, Josh Brolin, Barry Pepper, Domhnall Gleeson, Elizabeth Marvel
Genere: western
Se ti piace guarda anche: Il grinta (1969), Non è un paese per vecchi, Un gelido inverno - Winter's Bone
Attualmente nelle sale italiane

Trama semiseria
A una ragazzina di 14 anni hanno ucciso il padre e così lei, invece di andare a caccia di autografi di Billy the Kid (il Justin Bieber del Fast West), cerca di andare a pescare personalmente l’assassino. Non per ucciderlo tarantinianamente con le sue mani, ma per consegnarlo alla giustizia e farlo quindi uccidere dalla legge. Nonostante già di suo sia piuttosto cazzuta come 14enne poco bimbominkia, per poterlo fare ha però bisogno di una mano da parte di uno che abbia “vera grinta” e chi meglio di Jeff Bridges con tanto di parlata “southern"? Ce la farà allora la nostra giovane eroina a portarlo in tribunale o il criminale si farà una legge ad personam per evitare di andare a processo ed essere incastrato dalle solite storie inventate da una minorenne?

Recensione cannibale
Non si può certo dire che il western sia il mio genere, né tantomeno che i Coen Brothers siano tra i miei registi prediletti, quindi la mia percezione di questo film può risultare drasticamente differente da chi invece ha il poster dei due registi appeso in camera o da chi mastica western da lunga data (io personalmente l’unico West che conosco è Kanye).
Riguardo ai Coen il problema è che fondamentalmente non li capisco. Non parlo di capire a un livello superficiale la trama. Parlo di riuscire a entrare davvero nel cuore della loro opera che film dopo film compone un mosaico unico, per alcuni molto affascinante ma per me impenetrabile. C’è chi non riesce a entrare nel cinema di Lynch, o in quello di Tarantino, io non ci riesco con i Coen. Sarà una questione culturale, i loro film sono infatti pieni di riferimenti biblici (vedi la citazione in apertura del film) che entrano in un orecchio e mi escono dall’altro e il loro umorismo mi arriva (come quando la bambinetta commercia col tizio molto più anziano di lei), mi sfiora, mi può far sorridere ma non mi fa esclamare: “Geniale!” come alle battute di Tarantino o dei Misfits. Sarà una questione generazionale, visto che da Il grande Lebowski allo sconclusionato A Serious Man le loro pellicole sono innervate di un forte spirito hippie anni Sessanta che rispetto ma che non fa parte del mio DNA, frutto di una mutazione genetica post-yuppie ormai privata di qualsiasi valore. Sarà una questione cinematografica, visto che il loro è un modo di girare dal respiro molto classicheggiante, dalla puzza di vecchia America, da vecchio western che in questo film i due Coen hanno infine potuto esplorare esplicitamente e non sotto mentite spoglie, come successo in Non è un paese per vecchi. Sarà che i Coen sono bravini, ma non fanno per me. Un po’ come i White Stripes: si sono separati? Amen, vivo bene lo stesso.
Saranno tutte queste cose messe insieme.

Fatte tali premesse più o meno doverose, ho comunque trovato Il Grinta una pellicola piuttosto buona. La storia è raccontata quasi con i toni della favola western, più chiara e semplice rispetto alla gran parte dei film coeniani che mi sia capitato di vedere. Sì, i riferimenti alla Bibbia ci sono sempre (e daje) e la trama se vogliamo è un filo ruffiana, cosa che spiega l’enorme successo commerciale della pellicola negli Usa, in grado a sorpresa di far tornare in auge un genere che ha probabilmente avuto la sua ultima hit con l’ormai lontano Balla coi lupi (mio obiettivo giudizio personale: che menata di film!). Però in questo western c’è una grande rivelazione.

La giovane protagonista interpretata dalla sorprendente Hailee Steinfield è irresistibile nel suo essere una 14enne matura e spavalda in grado di mercanteggiare con grande astuzia insieme a persone molte più anziane di lei e persino di reggere testa a uno come Il grinta. Se nell’originale costui era John Wayne, nel remake/non-proprio-remake coeniano è per forza di cose il Drugo e ormai anche premio Oscar Jeff Bridges. La sua parlata del Sud è spettacolare e il film merita per questo di essere visto in inglese, anche perché non ho idea di come possa essere stata resa in italiano. Forse si saranno inventati qualche stratagemma assurdo tipo una parlata del Sud Italia con doppiaggio di Aldo Baglio, chissà?
Piuttosto assurda la scelta dell’Academy di nominare la Steinfield tra le non protagoniste e Jeff Bridges tra i protagonisti, visto che il personaggio principale del film è la ragazzina, però i meccanismi degli Oscar sono difficili da comprendere quasi quanto le votazioni di Sanremo, quindi meglio non farsi troppe domande al proposito.
Alla insolita coppia si unisce poi in questa caccia al criminale anche lo sceriffo repubblicano Matt Damon con tanto di capello leccato, non inguardabile come il Javier Bardem di Non è un paese per vecchi, ma certo che i Coen devono voler parecchio del male ai loro attori glamour per conciarli così.
Il grinta, la bambinetta molto adulta e lo sceriffo leccato cercano così di mettersi sulle tracce dell’assassino del padre della bambina, fino a che lo trovano ed è… non ve lo dico, però è un altro attore coeniano, per me il migliore del lotto.

La prima parte de Il Grinta è davvero molto accattivante, anche per gli anti-western come me, mentre la conclusione scivola tra una serie di duelli e di colponi di scena prevedibili, fino al più classico dei finali coeniani che può voler dir tutto, ma che (come già in A Serious Man o Non è un paese per vecchi) per me finisce solo a dire che il mondo è una sequenza casuale di fatti senza alcun senso e abbiamo praticamente buttato due ore a seguire una (bella) storia per niente.
Il tempo ci sfugge e a volte anche il senso delle cose.
(voto 6,5 ma aggiungete un punto se siete fan dei Coen e un altro se amate i western)

Scena cult: Jeff Bridges fa volare giù dalle scale un bambino con un calcio, senza alcuna ragione

domenica 15 agosto 2010

Cuore matto (replica)

I used to be somebody, now I am somebody else

Crazy Heart
Regia: Scott Cooper
Cast: Jeff Bridges, Maggie Gyllenhaal, Colin Farrell, Robert Duvall, Ryan Bingham

Il film biografico sulla vita di Little Tony? No. È la storia di Bad Blake. Professione: cantante country un tempo di successo e ora un mezzo fallito. Insomma, se togliamo il country potrebbe effettivamente sembrare proprio la storia del piccolo Tony.

“Crazy Heart” è l’agrodolce lenta ballata di una vecchia star della musica country sul viale del tramonto, perennemente alcolizzato, che si ritrova a suonare in bowling sperduti nel deserto e va in giro con una polverosa Chrysler che non parte.
Una pellicola che ha dei punti forti molto forti. La recitazione, innanzitutto. Jeff Bridges s’è messo in saccoccia un Oscar sacrosanto, dimostrandosi un gran professionista nell’arte della fattanza. Si veda in proposito oltre al celeberrimo Grande Lebowski, anche la sua piccola spassosa parte in “Tideland” di Terry Gilliam.
Maggie Gyllenhaal non ha avuto la statuetta, ma ha comunque ottenuto la sua prima prestigiosa nomination, meritata anch’essa visto che è in grado di illuminare la scena, oltre cha la vita del povero Bad Blake. E poi c’è un ottimo, come al solito sottovalutato, Colin Farrell. Il suo personaggio è Tommy Sweet, la nuova sensazione della musica country diventata un po’ fighetta (Tommy ad esempio non beve e sembra avere una vita perfettamente sotto controllo) che ormai ha rubato la scena al nostro scalcinato ma tutt'altro che finito protagonista. Tra i due vi è un rapporto conflittuale che però non è ben spiegato e il confronto tra vecchia e nuova generazione avrebbe meritato un maggiore spazio.

L’altro punto forte è la colonna sonora, cantata in gran parte dallo stesso Bridges. Come a dire “Sono bravo a fare il fattone, ma pure a cantare non me la cavo male.” Una chicca per gli amanti del country made in Usa in grado di conquistare comunque anche i matti cuori profani. Non è un caso se ad aggiudicarsi la seconda statuetta dorata è stata la canzone originale “The Weary Kind” scritta da T-Bone Burnett e dal giovane Ryan Bingham, che nel film ha anche una particina nel ruolo di un turnista di Bad Blake.

Tra le note negative del film, che purtroppo ci sono, vi è una regia standard che non concede guizzi. Sì, ci vengono mostrati dei bei paesaggi, ma questo è più merito delle affascinanti distese americane che non del regista, l’esordiente Scott Cooper. Una mano più esperta, old-school, in questo caso avrebbe giovato.
La storia poi soprattutto nella parte finale, senza svelare niente, avrebbe potuto osare di più. Invece rimane ferma a un bivio con il cambio in folle e il freno a mano tirato, indecisa su quale direzione prendere.

“Crazy heart” sarebbe potuto essere il cult movie del country per eccellenza. Pur fermandosi a un passo dall’obiettivo, resta comunque una visione più che consigliata grazie a recitazione & musiche eccellenti. Soprattutto, grazie a un cuore. Matto ma ben pulsante.
(voto 7+)

venerdì 30 aprile 2010

Omo de fero

In occasione della pompatissima uscita di “Iron Man 2”, vi propino la mia rece del pompatissimo “Iron Man 1”

Iron Man
(USA, 2008)
Regia: Jon Favreau
Cast: Robert Downey Jr., Gwyneth Paltrow, Jeff Bridges, Terrence Howard, Leslie Bibb

Quando ho problemi a prender sonno metto su “Iron Man” e mi addormento sereno come un pupetto con a fianco il suo amato orsetto Teddy. Un effetto soporifero talmente incisivo che ci ho messo tipo due mesi per riuscire a finire di vederlo tutto.

I meriti di un tale capolavoro del sonno? Principalmente di Jon Favreau. Chi cazzo è Jon Favreau, vi chiederete voi? Questa sì che è una domanda ragionevole. Jon Favreau era già un pessimo attore. Il suo unico ruolo in qualche misura da ricordare è stato infatti appena quello di guest-star in una manciata di episodi di “Friends” nelle vesti del fidanzato miliardario di Monica che a un certo punto sclera, gli prende il pallino della boxe e sul ring se le prende di brutto. Fine dei suoi ruoli memorabili. Non contento di ciò, si è riciclato come registone. E deve avere degli amici davvero potenti a Hollywood, visto che dopo robe come “Elf” e “Zathura” gli hanno consegnato sulla fiducia un budget da 200 milioni di dollari per girare “Iron Man”. Nonostante il suo stile registico lo faccia rimpiangere persino come attore e faccia apparire Michael Bay come un novello Kurosawa, il film è stato un successo di pubblico e inspiegabilmente anche di critica. Vabbè… Per me invece questo “Iron Man” riporta i film di supereroi nel Medioevo cinematografico, dopo che Sam Raimi e Christopher Nolan avevano rivitalizzato Spider-Man, Batman e l’intero genere.
(Jon Favreau è anche il nome di un talentuoso autore dei discorsi per Barack Obama. Per fortuna non si tratta della stessa persona, altrimenti Obama parlerebbe come W. Bush)

Poco convinto pure il cast: Gwyneth Paltrow in questo blockbusterone è a suo agio quanto il marito Chris Martin lo è a cantare un mezzo death metal;
Jeff Bridges è ai minimi sindacali e in versione little Lebowski pelata proprio non si può vedere. A salvarsi tra le macerie è dunque il solo Robert Downey Jr., ma pure lui ha fatto di molto meglio. Il suo Tony Stark è un playboy miliardario senza scrupoli che all’inizio sembra quasi un personaggio interessante. Peccato che dopo appena pochissimi minuti avviene subito la svolta hollywoodiana buonista che fa perdere anche quel minimo interesse per il suo uomo di ferro.
Lo so, in “Iron Man 2” c’è Scarlett Johansson ed è il motivo per cui prima o poi potrei finire per vederlo. Inoltre potrebbe sempre tornare utile se finisco il Valium e lo Xanax…
(voto 3,5)

lunedì 15 marzo 2010

Cuore matto

I used to be somebody, now I am somebody else

Crazy Heart
Regia: Scott Cooper
Cast: Jeff Bridges, Maggie Gyllenhaal, Colin Farrell, Robert Duvall, Ryan Bingham

Il film biografico sulla vita di Little Tony? No. È la storia di Bad Blake. Professione: cantante country un tempo di successo e ora un mezzo fallito. Insomma, se togliamo il country potrebbe effettivamente sembrare proprio la storia del piccolo Tony.

“Crazy Heart” è l’agrodolce lenta ballata di una vecchia star della musica country sul viale del tramonto, perennemente alcolizzato, che si ritrova a suonare in bowling sperduti nel deserto e va in giro con una polverosa Chrysler che non parte.
Una pellicola che ha dei punti forti molto forti. La recitazione, innanzitutto. Jeff Bridges s’è messo in saccoccia un Oscar sacrosanto, dimostrandosi un gran professionista nell’arte della fattanza. Si veda in proposito oltre al celeberrimo Grande Lebowski, anche la sua piccola spassosa parte in “Tideland” di Terry Gilliam.
Maggie Gyllenhaal non ha avuto la statuetta, ma ha comunque ottenuto la sua prima prestigiosa nomination, meritata anch’essa visto che è in grado di illuminare la scena, oltre cha la vita del povero Bad Blake. E poi c’è un ottimo, come al solito sottovalutato, Colin Farrell. Il suo personaggio è Tommy Sweet, la nuova sensazione della musica country diventata un po’ fighetta (Tommy ad esempio non beve e sembra avere una vita perfettamente sotto controllo) che ormai ha rubato la scena al nostro scalcinato ma tutt'altro che finito protagonista. Tra i due vi è un rapporto conflittuale che però non è ben spiegato e il confronto tra vecchia e nuova generazione avrebbe meritato un maggiore spazio.

L’altro punto forte è la colonna sonora, cantata in gran parte dallo stesso Bridges. Come a dire “Sono bravo a fare il fattone, ma pure a cantare non me la cavo male.” Una chicca per gli amanti del country made in Usa in grado di conquistare comunque anche i matti cuori profani. Non è un caso se ad aggiudicarsi la seconda statuetta dorata è stata la canzone originale “The Weary Kind” scritta da T-Bone Burnett e dal giovane Ryan Bingham, che nel film ha anche una particina nel ruolo di un turnista di Bad Blake.

Tra le note negative del film, che purtroppo ci sono, vi è una regia standard che non concede guizzi. Sì, ci vengono mostrati dei bei paesaggi, ma questo è più merito delle affascinanti distese americane che non del regista, l’esordiente Scott Cooper. Una mano più esperta, old-school, in questo caso avrebbe giovato.
La storia poi soprattutto nella parte finale, senza svelare niente, avrebbe potuto osare di più. Invece rimane ferma a un bivio con il cambio in folle e il freno a mano tirato, indecisa su quale direzione prendere.

“Crazy heart” sarebbe potuto essere il cult movie del country per eccellenza. Pur fermandosi a un passo dall’obiettivo, resta comunque una visione più che consigliata grazie a recitazione & musiche eccellenti. Soprattutto, grazie a un cuore. Matto ma ben pulsante.
(voto 7/8)


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