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venerdì 20 maggio 2016

10 Cloverfield Lane, il sequel meno sequel della Storia





10 Cloverfield Lane
(USA 2016)
Regia: Dan Trachtenberg
Sceneggiatura: Josh Campbell, Matthew Stuecken, Damien Chazelle
Cast: Mary Elizabeth Winstead, John Goodman, John Gallagher Jr.
Genere: claustrofico
Se ti piace guarda anche: The Divide, Room

Una volta andavano di moda i film sui vampiri. Era il lontano 2008 e usciva il primo capitolo della saga di Twilight. E vi sfido a dire: “Ah, bei tempi, allora!”.
Poi toccò agli zombie. Adesso invece vanno troppo forte i film con ragazze...
nude?
No, in trappola.

lunedì 15 febbraio 2016

Breaking Red - La vera storia di Dalton Trumbo





L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo
(USA 2015)
Titolo originale: Trumbo
Regia: Jay Roach
Sceneggiatura: John McNamara
Ispirato alla biografia: Trumbo di Bruce Alexander Cook
Cast: Bryan Cranston, Diane Lane, Elle Fanning, Louis C.K., Michael Stuhlbarg, John Goodman, Helen Mirren, Alan Tudyk, Roger Bart, Sean Bridgers, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Dean O'Gorman, Christian Berkel
Genere: comunista
Se ti piace guarda anche: Saving Mr. Banks, Il ladro di orchidee, Argo

Dalton Trumbo era uno degli sceneggiatori più richiesti e di successo di Hollywood. Tutti volevano lavorare con lui. Era un po' come Aaron Sorkin oggi, solo con meno parole e con uno uno stile più commerciale. Dalton Trumbo era uno degli sceneggiatori più richiesti e di successo di Hollywood, fino a che venne accusato di essere... comunista.

mercoledì 7 maggio 2014

MONUMENTS MEN, UN MONUMENTO ALLA NOIA




Monuments Men
(USA, Germania 2014)
Titolo originale: The Monuments Men
Regia: George Clooney
Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov
Ispirato al libro: Monuments Men. Eroi alleati, ladri nazisti e la più grande caccia al tesoro della storia di Robert M. Edsel e Bret Witter
Cast: George Clooney, Matt Damon, Bill Murray, John Goodman, Jean Dujardin, Hugh Bonneville, Bob Balaban, Cate Blanchett, Dimitri Leonidas, Alexandre Desplat
Genere: military comedy
Se ti piace guarda anche: Storia di una ladra di libri, La vita è bella, Bastardi senza gloria

A dispetto del titolo ingannevole, Monuments Men non è la storia di un gruppo di uomini che di professione fanno le statue, come questo qua…



Monuments Men racconta invece le vicende di un gruppo di uomini valorosi che, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, anziché salvare vite umane decisero di voler salvare le opere d’arte. Quel birbante di Hitler aveva infatti rubato un sacco di cimeli artistici e li aveva fatti nascondere in attesa di piazzarli nel suo museo personale. Nel caso in cui lui venisse ucciso, il Fuhrer aveva dato l’ordine di distruggerli tutti. L’ammericano George Clooney arruola così una squadra di esperti d’arte, soprannominati Monuments Men, per andare nella vecchia Europa a recuperare quante più opere possibili.


Chi chiama a far parte del suo team?
Embè, naturalmente la prima scelta è lui, il massimo esperto d’arte mondiale: Vittorio Sgarbi, che però rifiuta con i suoi soliti modi cortesi.


Dovendo rinunciare a malincuore a Sgarbi, George Clooney convoca allora il suo amichetto Matt Damon, più un gruppo variegato formato da Bill Murray, che dovrebbe essere il simpa di turno ma invece è meno simpa del solito, da John Goodman, che una buona forchetta ci sta sempre bene soprattutto in Europa, da Jean Dujardin, perché è un po’ il Clooney francese, da Hugh Bonneville, poiché a quanto pare George è un fan di quella lagna di Downton Abbey, e da Bob Balaban visto che, a parte Wes Anderson, non se lo fila mai nessuno.
Il Dream Team di attori esperti d’arte americani, dopo un rigido addestramento militare stile Full Metal Jacket (insomma, più o meno…), sbarca in Normandia. Dalla scena del loro arrivo in Europa, possiamo capire che i toni del film sono molto differenti ad esempio da un Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Il modo in cui i magnifici sette affrontano la missione è giusto un filino più sciallato rispetto a quello di Tom Hanks e compagni, che tra l’altro in quell’occasione dovevano salvare il culetto al prezzemolino Matt Damon.

"Bella raga, era dai tempi delle gite al liceo che non mi divertivo così.
Dovremmo andare in guerra più spesso!"

La pellicola di George Clooney fondamentalmente è una commedia. La rappresentazione che qui viene data del secondo conflitto mondiale piuttosto che Salvate il Soldato Damon Ryan ricorda i toni fiabeschi dello Spielberg di un altro film e di un’altra guerra: la World War I del terribile War Horse. Siamo un po’ anche dalle parti del recente Storia di una ladra di libri o, se vogliamo, addirittura de La vita è bella del Benigni. Monuments Men è una pellicola bellica all’acqua di rose, senza sangue, senza violenza, senza l’atmosfera sporca e pericolosa di una guerra. Si tratta sicuramente di una scelta voluta da parte del Clooney, però allo stesso tempo è una scelta discutibile. Non è che il bel George, ora che ha deciso di mettere la testa a posto e sposarsi con l’avvocatessa Amal Alamuddin, si è addolcito troppo?


Dopo un film che dava una rappresentazione spietata della politica come Le idi di marzo, nel suo nuovo lavoro da regista Clooney ha optato per una gran bella storia vera, di quelle positive. Monuments Men è un film classico, d’altri tempi, e da questo punto di vista riesce anche a farsi apprezzare. La partenza poi è pure buona, grazie a una presentazione senza troppi fronzoli dei personaggi e grazie a una sceneggiatura ravvivata da qualche ottima battuta vecchio stampo tipo:

“Ora sono astemio.”
“Da quando?”
“Dalle 9 di stamattina.”

Più passano i minuti, però, e più il film non riesce a crescere di ritmo. Si può anzi dire che questo è un film dai ritmi sonnacchiosi per gran parte della sua durata. Le missioni dei vari Monuments Men che vanno in giro per l’Europa a recuperare opere si sviluppano in maniera banale, con qualche momento drammatico che non riesce a risultare particolarmente emozionante e con qualche gag più o meno comica che non fa troppo ridere, ma che se non altro consente di destarsi dal dormiveglia in cui si era inevitabilmente finiti.
La classicità a cui ambisce Clooney finisce così per trasformarsi in prevedibilità. Tutto procede senza grossi scossoni, con l’attore/regista che ritaglia qualche momento importante per ogni personaggio, ovviamente anche per se stesso, senza però che nessuno spicchi in maniera particolare. Nonostante i grandi nomi del cast, tutti appaiono parecchio spenti e anonimi, i super divi Clooney e Damon in testa, ma anche l’unica femmena della pellicola, Cate Blanchett. Il problema principale di questo film è che è pure troppo impeccabile nella messa in scena, con nessuno degli attori che compare mai con un capello fuori posto e con le ambientazioni che appaiono finte, ricostruite in studio. L’insieme rimane freddo, senz’anima. Come la copia di un’opera d’arte.

"Oh, finalmente Amazon m'ha mandato la copia di Call of Duty che avevo ordinato.
Tutta questa guerra reale cominciava a stufarmi..."

A mancare sono quindi le emozioni, così come le sorprese. Monuments Men è in pratica l’esatto opposto di Bastardi senza gloria. C’è persino una scena con un tedesco delle SS che viene “braccato” dagli americani per aver nascosto dei quadri in casa sua che sembra una versione a parti invertite degli interrogatori del colonnello Hans Landa nella pellicola di Quentin Tarantino. Laddove quest’ultimo si divertiva a riscrivere la Storia alla sua maniera, Clooney si limita a raccontare la vicenda in maniera professionale quanto piatta, come un professorino liceale. Il suo film ci regala anche un paio di bei momenti, ma nel complesso è parecchio moscio e dimenticabile. Una nota di demerito la merita poi la scena finale, così smielata che farebbe venire un attacco di diabete a Winnie the Pooh.
George, così non si fa, nemmeno Spielberg avrebbe osato tanto.
(voto 5,5/10)

martedì 11 febbraio 2014

A PROPOSITO DI DAVIS, DEL FOLK, DEI COEN, DI CAREY MULLIGAN E DI GATTI




A proposito di Davis
(USA, Francia 2013)
Titolo originale: Inside Llewyn Davis
Regia: Ethan Coen, Joel Coen
Sceneggiatura: Joel Coen, Ethan Coen
Cast: Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, Garrett Hedlund, Ethan Phillips, Robin Bartlett, Max Casella, Adam Driver, Alex Karpovsky, Helen Hong
Genere: folk
Se ti piace guarda anche: Sugar Man, Fratello, dove sei?, I’m Not Here

Se non è mai stata nuova e non invecchia mai, è una canzone folk.
Llewyn Davis

La frase d’apertura del “nuovo” film dei fratelli Coen spiega bene il mio rapporto nei confronti sia del loro cinema che della musica folk. E nuovo va inteso proprio nel senso che dà il protagonista della pellicola, Llewyn Davis. Anche i film dei fratelli da Oscar quest’anno ignorati dagli Oscar sono così. È come se esistessero già da sempre. È come se si rifacessero ogni volta a qualcos’altro. Di riferimenti alla Bibbia è pieno il loro cinema, si veda A Serious Man. Quanto all’Odissea, non parliamone. Sono proprio fissati i Coen. Non contenti di averne fatto la versione musical folk con Fratello, dove sei?, pure qui c’hanno inserito un personaggio chiamato Ulisse.
Quale personaggio?
Questo non ve lo svelo. Anche se la vera Odissea è quella che vive il protagonista.

I film dei fratelli Coen sono come canzoni folk già esistenti che si divertono a reinterpretare nel loro personale modo. L’amore per questo genere di musica emerge qui ancora una volta forte e chiaro, al punto che A proposito di Davis avrebbe potuto intitolarsi A proposito del folk, o in originale Inside Folk anziché Inside Llewyn Davis. Il film è liberamente ispirato alla biografia del musicista e cantore anni ’60 Dave Van Ronk, ma più che raccontare di lui o di quello che ne è il suo alter-ego fittizio ovvero Llewyn Davis, racconta uno stile di vita. Raccontare poi è una parola grossa. Quella scritta dai Coen è dichiaratamente una sceneggiatura priva di una vera e propria trama. È più un girovagare a zonzo insieme al loro protagonista. Un gattonare di casa in casa, di strada in strada, di città in città. Come un vagabondo. Come un micio randagio.

"I'm bringin' sexy back (yeah), them other fuckers don't know how to act.
Penso che ancora non siate pronti per questa musica...
ma ai vostri figli, diciamo ai vostri nipoti, piacerà."

Tutto il fascino, così come anche i limiti del film stanno qui. Per certi aspetti questa è una pellicola poco coeniana in senso stretto, e di questo da loro non-fan non posso che essere felice. I momenti non-sense, pur presenti, qua sono più contenuti.
A parlare qui, più ancora che i personaggi strambi pur sempre presenti, sono le canzoni. Belle, molto belle, soprattutto quelle cantate da Justin Timberlake, alla facciazza di chi tanto lo disprezza perché è troppo pop. Questa è una non storia che parla di musica e della vita del musicista. Non il musicista figo rock’n’roll oh yeah con le groupie attaccate al pene e una pera attaccata al braccio, quanto il lifestyle del musicista folk perdente che cerca di tirare avanti in quel di New York City a inizio anni Sessanta, prima che il genere venisse riportato in auge da un certo Bob Dylan. Sotto questo aspetto, A proposito di Davis è un lavoro assolutamente riuscito. Allo stesso tempo, per quanto il film possa non essere troppo coeniano, Llewyn Davis è invece uno dei più coeniani tra i personaggi presenti nella galleria del loro cinema. È un loser totale, uno che non vuole pensare al futuro, a progettarsi una vita, a essere come dicono gli altri.
Questo per quanto riguarda gli aspetti positivi, tra cui io ci metto dentro decisamente anche l’ottima interpretazione di Carey Mulligan. Ha un ruolo piccolo, però in una manciata di memorabili scene riesce a ritrarre bene il suo personaggio, che è un po’ l’opposto della deliziosa protagonista di An Education; nonostante riprenda il look anni ‘60 con frangetta di quel film, riesce qui a dar vita a una stronza come poche. Eppure, così come successo anche ne Il grande Gatsby, è talmente adorabile che persino nei panni di personaggi odiosi non riesce a farsi odiare del tutto. Oh Carey, quanto sei cara.
"Ma la smettete di chiedermi Father And Son e Wild World?
Vado in giro con un gatto, ma non sono Cat Stevens!"

Eppure manca qualcosa, qualcosa in grado di trasformare la simpatia/empatia per questo loser, questo Llewyn Davis, e trascinarci davvero “inside”, dentro la sua vita, dentro la sua mente, dentro il suo cuore. Se la passione per la musica folk dei Coen emerge cristallina, così non è per il protagonista. Perché fa musica? È quasi come se la odiasse.
Inoltre la mancanza di una vicenda forte in grado di tenere davvero sulle spine a un certo punto si fa sentire. Più che raccontare una storia, come le ballate folk spesso sanno fare, A proposito di Davis ha un andamento da improvvisazione jazz, non c’è alcuno sviluppo e la trama gira attorno a se stessa. What goes around… comes around, come direbbe Justin Timberlake, qui relegato a un ruolo francobollo in cui non riesce a brillare molto come attore, ma solo come cantante.
Un altro problemino del film è proprio questo. I personaggi minori restano relegati troppo sullo sfondo, si vedano John Goodman e Garrett Hedlund buttati nella mischia a casaccio e incapaci di imporsi.

Alla fine, i Coen non si smentiscono mai. Decidete voi se vada presa più come una cosa positiva o negativa. Nonostante il mio non-amore nei loro confronti, questo film a me comunque è piaciuto. Sì, direi che mi piaciuto. Tra le pellicole dei fratelli registi lo metterei al secondo posto giusto dietro Fargo. I film dei Coen sono sempre un viaggio e questa volta ammetto che il viaggio in loro compagnia è stato per me più piacevole del solito, grazie anche a una fotografia che ricrea perfettamente quel mood alla The Freewheelin’ Bob Dylan, per altro già reso da Cameron Crowe in Vanilla Sky.



Però, c'è sempre un però. Una volta arrivati a destinazione, l’impressione è anche questa volta di non essere andati da nessuna parte, di aver girato a vuoto. Un bel girare a vuoto, ma pur sempre un girare a vuoto. Questo è il cinema dei Coen, un tipo di cinema che mi fa lo stesso effetto del folk, genere che occasionalmente ascolto anche e non mi dispiace, ma che di rado mi prende fino in fondo. L’ultima volta mi è capitato con la musica di Rodriguez scoperta grazie a Sugar Man, quasi un gemello in versione documentaristica di A proposito di Davis. Come una canzone folk, i loro film non invecchiano mai ma allo stesso tempo non dicono niente di nuovo. Così è il loro cinema, prendere o lasciare. E io per questa volta prendo, anche perché questa è una pellicola molto gattosa felina. E come fai a non volere bene a un gatto, o a una Carey Mulligan, o a un povero cantante folk sfigato?
(voto7,5/10)


"Llewyn Davis non funziona, amico! Dovresti trovarti un nome d'arte, qualcosa tipo... Gatto Panceri."

mercoledì 18 dicembre 2013

STEVEN SPIELBERG PER SEMPRE? NO, GRAZIE




Quest'uomo sarebbe uno dei più grandi registi del mondo?
Always – Per sempre
(USA 1989)
Titolo originale: Always
Regia: Steven Spielberg
Cast: Richard Dreyfuss, Holly Hunter, Brad Johnson, John Goodman, Audrey Hepburn, Keith David, Marg Helgenberger
Genere: sdolcinato
Se ti piace guarda anche: Ghost, 4 fantasmi per un sogno, La casa sul lago del tempo, Segui il tuo cuore, Sospesi nel tempo

Steven Spielberg è proprio un tenerone. Lo sapevo già, ma con Always – Per sempre ne ho avuto la conferma definitiva, che non se ne andrà più via da me. Per sempre.
Che poi, a dirla tutta, come al solito i titolisti italiani hanno fatto la loro cacchiata. Always significa infatti “sempre”. Forever sta per “per sempre”. Traduzione cannata, o licenza poetica? Ai posteri e soprattutto ai poster l’ardua sentenza. Anche se credo che il poster di Always non fosse appeso alle pareti della camera manco del fan numero 1 di Spielberg, ovvero Dawson Leery.
Always è un film che andrebbe cancellato per sempre dalla filmografia del regista. Per carità, il troppo celebrato regista americano ha girato delle pellicole persino peggiori, come l’orrido War Horse, però questo Always è un qualcosa di davvero estraneo al suo cinema, qualcosa per nulla nelle sue corde. Alcuni elementi del suo stile sono qui presenti, su tutti un’aurea di buonismo e un finale che più stucchevole non potrebbe immaginare manco la principessa delle fiabe protagonista del film Come d’incanto (di cui a breve mi occuperò). Per il resto, Always è un incontro ravvicinato del terzo tipo con un tipo di cinema che poco gli appartiene.

Una tenera immagine di Steven Spielberg con E.T., il suo primo boyfriend
Nella sua longeva carriera, Steven Spielberg ha girato poche commedie e ancor meno film romantici. C’è un motivo: non ne è capace. A far commedie, perché Spielby è troppo buonista e per far ridere bisogna essere cattivelli, almeno un po’. La dimostrazione l’abbiamo soprattutto nella prima parte di Always, che vorrebbe essere brillante e comica e invece non riesce a strappare manco un sorriso. Se non di derisione. Spielberg riesce persino ad annullare la comicità dell’altrimenti sempre simpatico John Goodman. Per non parlare dei siparietti pseudo comici dedicati alle imitazioni di John Wayne che fanno cascare le balle.
Oltre a essere uno scarpone delle comedy, il registone americano non è buono nemmeno a far pellicole romantiche. Questo probabilmente perché Spielby è un bambinone, è più bravo a raccontare storie fantastiche, fantascientifiche o avventurose (Jurassic Park, La guerra dei mondi e Indiana Jones), a raccontare fiabe (Hook – Capitan Uncino) e qualche volta ma non sempre pure a raccontare la Storia (Schindler’s List, Salvate il soldato Ryan). Se deve parlare d’amore, è più l’amore di un figlio per una madre, come in A.I., o di un bimbo per un alieno, come in E.T..

"Che giallo intenso... chissà cosa stiamo bevendo?"
Steven Spielberg non è bravo invece a raccontare la passione. I suoi film sono l’antitesi del sexy, sono un po’ l’equivalente cinematografico della musica dei Coldplay. Nelle sue pellicole sono rare le scene di sesso, persino in un film con protagonista un latin lover come il Leonardo DiCaprio di Prova a prendermi l’argomento è affrontato in maniera molto misurata. Spielberg è un pudico ed è anche un regista molto freddo e razionale. La passione e le grandi storie d’amore dunque non gli si addicono. Nei suoi film, alcuni più disneyani degli stessi film Disney, spesso il sesso è del tutto epurato. Anche gli attori dei suoi film sono in genere ben poco sexy, a parte il citato Prova a prendermi che infatti Spielberg non avrebbe dovuto dirigere, ma soltanto produrre. Basti ricordare che il suo attore feticcio è Tom Hanks. Cosa c’è di meno sexy di Tom Hanks?

In Always non c’è Tom Hanks, che sarebbe diventato il suo pupillo soltanto qualche anno più tardi, e allora il ruolo da protagonista tocca al suo precedente prediletto, un altro attore che non mi è mai piaciuto ovvero Richard Dreyfuss, già in Incontri ravvicinati del terzo tipo e Lo squalo. Al suo fianco, una Holly Hunter nelle vesti di bomba sexy della pellicola. Peccato solo che sia sexy quanto… Tom Hanks. Suvvia, faccio il gentiluomo, e dico che è un pochino più sexy di Tom Hanks.

"Audrey, è l'alba. Andiamo a fare colazione da Tiffany?"
"Ahahah, che ridere. Chi te l'ha scritta 'sta battutona, Spielberg o Cannibal?"
Al di là di questa accoppiata/scoppiata Dreyfuss/Hunter, raccontare una storia che ha per protagonista un pilota di aerei antincendio non è proprio il massimo della vita. Always è il remake di Joe il pilota (A Guy Named Joe) di Victor Fleming, il regista di Via col vento, e la cosa non stupisce. Il film infatti ha l’odore, ma più che altro la puzza, non tanto di vecchia Hollywood, quanto proprio di vecchio. Parte come una commedia incredibilmente poco divertente e poi si trasforma in un melodramma strappalacrime sovrannaturale alla Ghost che anziché strappare lacrime strappa solo sospiri di pena. Persino Audrey Hepburn, qui alla sua ultima apparizione su grande schermo, non riesce in versione angelica a trascinare la visione dall’inferno al paradiso cinematografico.
A differenza di film come i citati Via col vento e Ghost, Always non affascina e non fa sognare, come il Grande Cinema d’Amore dovrebbe fare. Colpa della male assortita coppia formata da Richard Dreyfuss e Holly Hunter, ma colpa anche e soprattutto di Steven Spielberg. Questo non è proprio il suo genere e spero che di film romantici non ne faccia altri. Per sempre.
(voto 4/10)


venerdì 14 giugno 2013

UNA NOTTE DA LEONI, VERSIONE ANALCOLICA


Una notte da leoni 3
(USA 2013)
Titolo originale: The Hangover Part III
Regia: Todd Phillips
Sceneggiatura: Todd Phillips, Craig Mazin
Cast: Zach Galifianakis, Bradley Cooper, Ed Helms, Justin Bartha, Ken Jeong, John Goodman, Melissa McCarthy, Heather Graham, Sasha Barrese, Jamie Chung, Gillian Vigman, Jeffrey Tambor, Sondra Currie, Oliver Cooper
Genere: analcolico
Se ti piace guarda anche: gli altri Una notte da leoni

"Bravo Cannibal, anche io odio Liam Neeson!"
Ci sono cose che mi fanno incazzare a prescindere: i film sui supereroi, le pellicole con Liam Neeson e i sequel. Pensate un po’ quindi quanto possa essermi piaciuto Taken 2 – La vendetta, seguito del già pessimo di suo Io vi troverò in cui Liam Neeson si comporta come un supereroe.
Con Una notte da leoni 3 per fortuna non mi sono trovato alle prese con un film sui supereroi, Liam Neeson non è presente, però si tratta di un sequel. Di più, del terzo e, se Dio ce la manda buona, conclusivo capitolo di una trilogia. Che poi non doveva essere una trilogia. Una notte da leoni era un film unico e tale doveva restare, era uno spasso totale, una commedia a suo modo originale e con dei personaggi esilaranti e particolari, su tutti il folle (nel senso proprio di malato di mente) Alan, interpretato da un folgorante Zach Galifianakis, per cui si sono subito scomodati paragoni con John Belushi e che probabilmente invece farà la fine dell’altro “nuovo John Belushi”, ovvero Jack Black. Che comunque è pur sempre una fine migliore di quella del vero povero John Belushi.
Considerato il clamoroso successo di quel primo episodio, a Hollywood hanno sentito l’esigenza di farne un secondo, che si limitava ad essere una brutta, stantia e ridicola (ma non divertente) copia carbone del primo, soltanto ambientata a Bangkok anziché a Las Vegas.

"MMMbop, questo Justin Bieber non mi convince. Meglio gli Hanson."
Dopo quel disastroso episodio, ero già intenzionato a mettere una pietra sopra a questa saga, che non doveva essere una saga. L’avventura numero 3 non mi ha fatto certo cambiare idea, ma se non altro va dato atto agli autori un minimo di coraggio in più rispetto al numero 2. Se quello era uno scopiazzamento senza vergogna, in pieno Zucchero style, qui almeno si cerca di variare un minimo la formula.
Attenzione però, perché il cambiamento è più apparente che reale. Questa volta l’avventura non parte con il solito hangover, con i tre protagonisti che si risvegliano in uno stato pietoso dopo una notte di bagordi. Cosa positiva, perché così si evita di fare una copia della copia del primo episodio. Cosa negativa, perché si perde un po’ l’identità e il senso della serie, che si chiama in italiano Una notte da leoni e in originale The Hangover.
In Una notte da leoni 3 non c’è né una notte da leoni, né un hangover, e allora questo film che ca**o l’avete fatto a fare?
Bella domanda, a cui non ho ancora trovato una risposta.

"Cannibal, io pel vendetta svaligiale tua casa."
Todd Phillips a questo giro ha allora avuto le palle di provare a fare qualcosa di diverso? Come detto, apparentemente sì. La prima parte della pellicola promette quasi bene. Sembra concentrarsi soprattutto sulla figura di Alan, quello psicopatico di Alan, l’unico personaggio davvero interessante di questa serie, visto che Mr. Chow (Ken Jeong) non lo si regge più e si spera per tutto il tempo che venga fatto fuori in maniera brutale. I will let you down, I will make you hurt.
A morire è invece il padre di Alan e ciò sembra portare una maggiore introspezione al film. Ci troviamo forse dentro una versione più matura delle altre due notti da leoni?
No. È solo un’illusione. Dopo i primi minuti, Una notte da leoni diventa la solita notte da leoni, solo senza droghe, alcool, figa, deliri, tatuaggi e insomma mica tanto una notte da leoni. Una versione annacquata, analcolica di Una notte da leoni. La struttura narritava sembra cambiata, ma non lo è molto. Come al solito, ci ritroviamo con Bradley Cooper, Ed Helms e Zach Galifianakis chiamati a salvare il loro amico sfigato Justin Bieber Bartha. E pure qui a non mancare è la solita razione di avventure più o meno criminali, con John Goodman chiamato questa volta nella parte del cattivone di turno. In pratica, in questo terzo capitolo manca il meglio del primo episodio, ma non manca il peggio del secondo. Per fortuna almeno le scenette con gli animali questa volta sono contenute al minimo, giusto nella primissima evitabile scena di decapitazione di una giraffa, ma almeno non c’è più la scimmietta cagaminkia della notte in Thailandia. Baby steps. Piccoli progressi.

"Dici che lo vinciamo il Cannibal Award per la scena più sexy dell'anno?"
A livello di risate, siamo lontani dal primo episodio e le cose vanno giusto un cicinin meglio rispetto all’Hangover II. A livello di figa, qui siamo messi invece peggio, visto che Jamie Chung compare in appena mezza scena per circa cinque secondi. Io comunque non ho ancora capito dai tempi del precedente capitolo come fa Ed Helms a stare con Jamie Chung. Capirei stesse con Bradley Cooper, ma con lui no.
A rendere questo terzo episodio un filo migliore del secondo è allora il tentativo, seppure solo abbozzato, di variare un minimo la formula, oltre al fatto di dare maggiore spazio ad Alan e al ritornare sui passi del primo episodio, apparizione di Heather Graham compresa, riuscendo a dare una chiusura al cerchio sulle note di “Dark Fantasy” di Kanye West. Il + del voto se lo merita però + che altro per la divertente partecipazione di Melissa McCarthy, la cui carriera era iniziata come personaggio minore nella serie Una mamma per amica e oggi dopo Le amiche della sposa è una delle attrici comiche più lanciate di Hollywood.

Questo Una notte da leoni 3 è allora un film perfettamente inutile, che non cambia niente. Continuo a pensare che la prima pellicola dovesse rimanere un unico da non replicare, e le cose che mi fanno incazzare a prescindere rimangono le stesse di sempre: i film sui supereroi, le pellicole con Liam Neeson e naturalmente i sequel.
(voto 5+/10)

P.S. Grazie alla scena dopo i titoli di coda il voto cambia. In peggio.
(voto 5-/10)



sabato 16 marzo 2013

DI NUOVO IN GIOCO CON CLINT TIMBERLAKE

Di nuovo in gioco
(USA 2012)
Titolo originale: Trouble with the Curve
Regia: Robert Lorenz
Sceneggiatura: Randy Brown
Cast: Clint Eastwood, Amy Adams, Justin Timberlake, John Goodman, Matthew Lillard, Scott Eastwood, Robert Patrick, Bob Gunton, Matt Bush, Jay Galloway
Genere: vecchini alla riscossa!
Se ti piace guarda anche: Promised Land, Gran Torino, Space Cowboys, Moneyball

Diciamolo subito: Di nuovo in gioco non è la pellicola celebrativa del ritorno in campo di Silvio Berlusconi alle ultime elezioni. Di nuovo in gioco è una celebrazione della terza età. E pure in questo caso non una celebrazione della terza età di Berlusconi. Si tratta di una pellicola vecchio stile che trasuda spirito classico da vecchia America da tutti i pori. Niente di più, niente di meno. Se si parte con la giusta predisposizione mentale e con la mano sul petto mentre passano le note dello Star-Spangled Banner, allora ci si può anche godere a sufficienza la visione. In molti invece sono rimasti alquanto delusi, aspettandosi di vedere qualcosa ai livelli delle migliori pellicole girate da Clint Eastwood. Il fatto è che questa, per quanto pellicola al 100% intrisa di eastwoodismo, non è una pellicola girata da Clint Eastwood, ma porta la firma dell’esordiente Robert Lorenz. Per quanto Lorenz sia stato assistente alla regia e collaboratore del texano dagli occhi di ghiaccio già da lunga data, non è il texano dagli occhi di ghiaccio.

"Questa sera dovevo andare a fare sesso con Justin Timberlake.
Ma ho preferito rimanere al computer a leggere Pensieri Cannibali.
Non riesco più a farne a meno!"
Il vecchio Clint qui si limita (si fa per dire) a essere il protagonista assoluto del film, tornando davanti alla macchina da presa per la prima volta dal suo Gran Torino del 2008. Con un personaggio, nel caso ve lo stiate chiedendo, praticamente uguale. Clint Eastwood fa la solita parte del tipo vecchio stile che non riesce a stare al passo coi tempi. Un talent scout che ignora l’uso (e forse l’esistenza) dei computer, e anziché alle statistiche e ai software come quelli del Jonah Hill di Moneyball, preferisce affidarsi all’esperienza diretta. Alla prova sul campo. A ciò che gli dicono i suoi occhi malconci (pure lui con la congiuntivite?) o le sue già più affidabili orecchie.
Clint è Clint e a fare il Clint se la cava sempre. Però, e lo diceva anche Sergio Leone mica io, non è che sia l’attore più espressivo del mondo. È un po’ l’antenato di Ben Affleck: attori dalle due espressioni (con o senza il cappello Clint, con o senza Matt Damon Ben), che il loro meglio lo danno dietro la macchina da presa piuttosto che davanti.

"Allora, com'è 'sto nuovo disco di Justin?"
"Mi secca dirlo, ma quel giovinastro ha del talento, li mortacci sua!"
Di nuovo in gioco gioca tutte le carte della pellicolona commerciale americana. Non solo la tematica sportiva, ben presente e nemmeno troppo noiosa anche per coloro ai quali, come me, a sentire parlare del baseball si fanno due balls grosse così. C’è infatti anche l’immancabile storiona romantica, ed è qui che scendono in campo i due top players: Amy Adams e Justin Timberlake.
Così come quello del vecchio Clint, anche i loro più giovani personaggi sono parecchio stereotipati: lei è un’avvocatessa di città super concentrata sul lavoro e super impegnata che nella vita di provincia, nelle uscite al bar del paese a giocare a biliardo e nelle partite di baseball locale riscoprirà i piccoli piaceri della vita. Che poi sono i migliori.

"Ragazzo, il tuo disco mi è anche piaciuto ma non provare a toccare mia figlia,
altrimenti il tuo prossimo album te lo faccio cantare tutto in falsetto..."
Justino invece ha la tipica parte dell’ex giocatore a cui le cose non sono andate per il verso giusto sul campo e allora prova a reinventarsi talent scout. Imparando, of course, dal Maestro Clint. Se però il rapporto tra Clint e Justin non è caratterizzato più di tanto, a convincere maggiormente è la relazione tra Amy e Justin. Grazie alle loro brillanti interpretazioni, i loro due personaggi sulla carta stereotipati prendono vita. Ormai entrambi sono una conferma: Amy Adams è sempre impeccabile, non ha ancora girato un film che mi abbia trascinato completamente, però è sempre… impeccabile, sì è la parola più giusta per descriverla.
Il Timberlake pure lui ormai si sta costuendo una solida carriera cinematografica, a parte giusto il poco riuscito In Time, in cui in versione action-hero alla Will Smith non sembrava del tutto a suo agio. Per il resto se la cava più che bene in tutto: nella commedia romantica (Amici di letto), nel drammatico con brio (il sommo The Social Network), come comico (vedi la sua recente comparsata al Saturday Night Live), è pure un grande ballerino e il suo nuovo album è parecchio fico. Alla faccia di chi lo considera solo un cantantucolo mainstream, ha tirato fuori un disco con ben poche concessioni al pop che va per la maggiore oggi e c’ha infilato dentro delle suite R&B da 7-8 minuti l’una che non sono proprio il massimo del commerciale.



Tornando al film: sport, rapporto padre-figlia, rapporto mentore-allievo, un pizzico di storiella d’amore… c’è davvero tutto, forse perfino troppo, ma in fin dei conti Di nuovo in gioco va accettato per quello che è: classicità americana allo stato puro, scontato quanto gradevole, lieto finalone compreso. Una palla non curva da prendere (ovviamente con il guantone da baseball) o lasciare.
(voto 6,5/10)


lunedì 28 gennaio 2013

FLIGHT: ALLACCIATE LE CINTURE, IL PILOTA E' STRAFATTO

"Hey, chi è quel pallone gonfiato? Mi sembra di conoscerlo..."
Flight
(USA 2012)
Regia: Robert Zemeckis
Sceneggiatura: John Gatins
Cast: Denzel Washington, Kelly Reilly, Don Cheadle, Bruce Greenwood, Nadine Velazquez, Tamara Tunie, Brian Geraghty, John Goodman, James Badge Dale, Melissa Leo
Genere: alcolizzato
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Si prega i gentili passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza. Sono previste turbolenze e un viaggio non tra i più sereni. Il rischio che questo post precipiti nel vuoto totale è altissimo. Ma tranquilli, a parte questo non c’è niente di cui preoccuparsi. Prendete pure uno stuzzichino e fatevi un cicchetto. Pure il capitano se l’è fatto.
Un cicchetto? Diciamo anche più di uno.

"Ah, ecco chi è: Cannibal Kid. Sì, è proprio lui."
Denzellone Washington è un pilota che passa una nottata di sesso, droga, alcool e rock’n’roll con un’assistente di volo. Dico assistente di volo perché hostess potrebbe essere considerato dispregiativo. Come dire spazzino anziché operatore ecologico. O puttana invece di escort. O ladro invece di politico.
C’è gente sensibile in giro e quindi bisogna stare attenti a come e a quali parole usare.
Dopo una nottatina del genere non proprio tranquilla, Denzellone si presenta al lavoro in veste di sobrio e affidabile Capitano stile Schettino. Solo che governa un aereo di linea e non una nave da crociera. Fine delle differenze tra i due, fondamentalmente.
Capirete quindi che il volo da lui capitanato potrebbe non andare a finire nel migliore dei modi…

Che cosa mi aspettavo da un film come Flight?
Mi aspettavo un volo tranquillo, la classica vicenda moralista in perfetto stile hollywoodiano, diretta in maniera impeccabile dalla garanzia Robert Zemeckis e in parte è proprio così. In parte invece riesce a essere anche un viaggio più sorprendente, turbolento e movimentato.
Come un volo Ryanair.
Flight riesce a tenerti incollato sulla tua poltroncina con la cintura bene allacciata dall’inizio alla fine, nonostante la durata oltre le due ore. Cosa che non è capiti con tutti i film. Io pensavo già di mettere in conto un po’ di noia, invece niente noia.
La parte iniziale scaraventa subito nel cuore della vicenda. Se le scene di incidenti aerei, da Lost a Final Destination, riescono spesso a impressionare, qui Robert Zemeckis ci regala (ma tante grazie!), un’altra sequenza che ci rimarrà per sempre nella memoria e si ripresenterà davanti ai nostri occhi ogni volta che saliremo su un aereo. O anche solo quando penseremo di prenotare un volo sul sito di qualche compagnia low-cost.
Il picco di tensione la pellicola ce lo fa vivere dunque all’inizio, ma il resto della vicenda ci tiene in volo ad alti livelli insieme al protagonista Denzel Washington. Non possiamo alzarci per sgranchirci le gambe. Non possiamo slacciarci la cintura di sicurezza nemmeno per un istante, che non si sa mai. Dobbiamo restare seduti accanto a lui e vedere cosa combina. Non ci si può alzare fino all’arrivo, anche se si vorrebbe andare a fare sesso ad alta quota in bagno con la protagonista femminile, Kelly Reilly.
Che figa è Kelly Reilly?
Di jessicachastaniane proporzioni, ecco che tipo di figa è.

"Kelly, io ci sto provando a fare un discorso serio senza guardarti le tette.
Davvero, ci sto provando... ma è umanamente impossibile!"
E che film è, Flight?
Una pellicola su un disastro aereo, si direbbe a un’occhiata da terra. Una pellicola sulla classica storiona dell’eroe americano che salva la situazione nella maniera più incredibile possibile. Fosse un film con Will Smith, probabilmente sarebbe così. Ma questo è un film con Denzel Washington e le cose sono un pochino diverse.
Flight è un viaggio sì, ma dentro la vita di un uomo con dei problemi. Un alcolizzato che non vede il figlio da una vita. Un eroe che forse non è un eroe bensì è il responsabile di una strage.
Flight è il racconto di un disastro sì, ma di un disastro umano più che aereo. Il film vola ad alta quota soprattutto quando si concentra sulle debolezze del protagonista e Denzel Washington è bravissimo a dargli vita in tutta la sua complessità. Quando uno vede candidato agli Oscar il nome di Denzel Washington potrà anche pensare: “Che fantasia, l’Academy!” però in effetti la sua nomination ci sta tutta. È davvero grandioso.
Fanno un figurone pure i comprimari, la bellissima ma pure bravissima già citata Kelly Reilly, un Don Cheadle (guardatelo anche nella strepitosa serie tv House of Lies!) perfetto avvocato, una Nadine Velazquez ignuda, un grandissimo James Badge Dale in versione malato terminale e un John Goodman idolo come procuratore di droga personale del protagonista.

"Meno male che al meteo davano giusto due gocce...
La volta in cui ci azzeccano, mi sa che fanno nevicare."
Riguardo al regista Robert Zemeckis, con lui ho un rapporto conflittuale. Gli sarò sempre eternamente grato per avermi regalato Ritorno al futuro, un film anzi una saga fondamentale per me e credo non solo per me. Con altri suoi film come Forrest Gump e Cast Away, complice l’insopportabile Tom Hanks, il rapporto è invece decisamente meno d’amore. Riguardo ai suoi ultimi esperimenti d’animazione Polar Express, La leggenda di Beowulf e A Christmas Carol il rapporto è proprio inesistente, manco li ho guardati. L’avevo insomma un po’ perso di vista, lo Zemeckis, ma qui l’ho ritrovato in ottima forma, soprattutto nella prima parte dove, oltre alla notevole scena dell’incidente aereo, ci regala anche qualche inaspettato momento “tossico” con Kelly Reilly.

La sceneggiatura nominata anch’essa ai premi Oscar di John Gatins è di quelle hollywoodianamente impeccabili, con ottimi dialoghi e un ritmo narrativo sempre elevato. Tra gli aspetti non del tutto convincenti c’è invece la colonna sonora. Per essere bella è bella, però è parecchio scontata: Rolling Stones, Marvin Gaye, Joe Cocker, Red Hot Chili Peppers, Beatles. Tutte ottime canzoni, ma già strasentite e pure strausate in altre pellicole.
Laddove il film va a finire dentro nubi pericolose è però soprattutto proprio dove era riuscito a tenersi a distanza per quasi tutta la sua durata, ovvero dentro le nubi del moralismo. Per una pellicolona americana del genere, era impensabile che non si finisse proprio lì. E infatti…

ATTENZIONE SPOILER
Il finale del film è moraleggiante, c’è poco da fare. Però comunque la scelta del protagonista di smettere finalmente di bere e decidere ancor più finalmente di dire la verità non coincide con un’illuminazione divina, piuttosto con la volontà di cambiare per sé e per il figlio. Il film inoltre non ci mostra le droghe o l’alcool come qualcosa di sbagliato perché è la società che ci dice che sono sbagliati e non si usano e basta, perché se no si è dei cattivoni. La morale del film è che è possibile liberarsi da ciò che ci tiene imprigionati, nel caso del Denzellone dal suo alcolismo.
Delle paternali ne faremmo sempre volentieri a meno, però visto che in una pellicolona hollywoodiana come questa non potevano proprio farcela mancare, alla fine quella che hanno tirato fuori non è nemmeno tanto male e ce la portiamo casa, mentre finalmente possiamo togliere la cintura ed essere sollevati per essere arrivati a destinazione sani e salvi. Con un viaggio più movimentato, ma anche più interessante, di quanto ci saremmo aspettati al check-in.
(voto 7,5/10)


venerdì 16 novembre 2012

Cogito Argo sum

"Oh, ma qua poster di Lady Gaga non ne hanno?"
Argo
(USA 2012)
Regia: Ben Affleck
Sceneggiatura: Chris Terrio
Ispirato a un articolo di: Joshuah Bearman
Cast: Ben Affleck, Bryan Cranston, Alan Arkin, John Goodman, Victor Garber, Tate Donovan, Christopher Denham, Scoot McNairy, Kerry Bishé, Clea DuVall, Rory Cochrane, Kyle Chandler, Chris Messina, Zeljko Ivanek, Titus Welliver, Farshad Farahat, Taylor Schilling
Genere: arguto
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"...E non c'è manco uno che mi chiede l'autografo. Ma dove sono finito?"
Fino a poco tempo fa, quando pensavi a Ben Affleck pensavi a Ben Affleck il sex symbol, Ben Affleck ‘o sciupafemmene che passa da J.Lo a Jennifer Garner, Ben Affleck l’attore modesto. L’attore modesto e dall’espressività limitata che però ti dava l’impressione di avere qualcosa in più da offrire. Sarà per quella sceneggiatura da Oscar scritta a quattro mani insieme all’amichetto Matt Damon, quella per Will Hunting - Genio ribelle, il film che ha rivelato entrambi. Che dopo ce l’ha messa tutta, per farsi dimenticare di essere uno sceneggiatore da Oscar, intepretando filmetti come Pearl Harbor, Daredevil o Amore estremo. E invece, il Ben aveva una carta inaspettata da giocarsi, quella da regista.
Contro ogni aspettativa, Ben Affleck esordiva ben bene, con il thriller parente di Mystic River, Gone Baby Gone. Al che pensavi che vabbé, un film decente può riuscire a chiunque. È riuscito persino a Ligabue, con l’esordio Radiofreccia, non c’è da stupirsi troppo sia venuto fuori a Ben Affleck.
Con il secondo film, lo splendido The Town, i dubbi che a Ben il primo colpo non fosse uscito per puro caso arrivavano. Si aveva semmai l’impressione che con l’esordio fosse persino andato con il freno tirato, mentre per le strade di The Town Affleck scorrazzava che è un piacere.
Se un indizio può non voler dire niente e due indizi possono rappresentare un semplice caso, al terzo non c’è più spazio per i dubbi. Il terzo è una prova. Argo è una prova.
Prova di cosa?
Prova che Ben Affleck è un dannato grande regista. Uno dei migliori in circolazione negli USA al momento.
Chi l’avrebbe detto? Probabilmente nemmeno lui stesso, visto che con autoironia, attraverso un dialogo presente nel film, schernisce la sua nuova professione:

“Si impara a fare il regista in un giorno?”
“Perfino una scimmia impara a fare il regista in un giorno.”

"Signore, mi spiace ma questo coso pieno di cocaina è leggermente illegale.
Se però se lo infila nel didietro, faccio finta di non aver visto niente..."
Un grande merito dell’Affleck regista è quello di sapersi scegliere delle belle storie da raccontare. Dopo i romanzi da cui erano tratti i suoi due film precedenti, a ispirare questa sceneggiatura impeccabilmente firmata dall’esordiente Chris Terrio è invece un articolo. Una storia talmente da film da essere vera.
A cavallo tra il 1979 e il 1980, 6 diplomatici americani si ritrovano rifugiati politici dell’ambasciata canadese in Iran. Il governo degli USA vuole farli tornare in patria, ma come fare, vista la delicatissima situazione in quel paese?
"Certo che come produttore sei proprio braccine corte, Ben. Non solo
il pranzo ce lo dobbiamo fare sugli scalini con la roba del McDonald's,
ma hai pure usato i buoni sconti, hai usato. Te credo che J.Lo t'ha lasciato!"
ATTENZIONE SPOILER
È qui che arriva Ben Affleck bello fresco, in versione consulente della CIA, e propone un’idea singolare e folle per riportarli negli Stati Uniti: organizzare le riprese di un finto film di fantascienza, intitolato per l’appunto Argo, e fingere che i 6 facciano parte della troupe, giunta in Iran per dei sopralluoghi per le location. Ce la faranno i mezzi del cinema a riuscire laddove la politica sembra fallire?

Lo scopriremo con Ben Affleck che ci terrà la manina attraverso i vari registri della pellicola. Dopo una prima parte prettamente politica, Argo diventa una visione con vari spunti divertenti e una serie di battute scoppiettanti. Perché Argo è un film di fantascienza all’interno della finzione narrativa della pellicola stessa, mentre l’Argo firmato da Ben Affleck è una pellicola politica e spionistica, ma trova pure il tempo di concedersi qualche sberleffo nei confronti di Hollywood e dei suoi meccanismi. Sberleffo e al contempo una celebrazione di Hollywood, visto che la missione è organizzata con l’aiuto di un paio di producers cinematografici, due gigionissimi Alan Arkin e John Goodman, i migliori di un cast ricchissimo e mega-telefilmico.

"Siamo troppo retrò in questa foto, altroché Instagram!"
Accanto al Ben Affleck protagonista, che tra Argo e The Town si dimostra attore più convincente quando si auto dirige, compaiono infatti un sacco di volti proveniente perlopiù dal mondo delle serie tv: Bryan Cranston di Breaking Bad qui come in Drive e Detachment si ritaglia solo un ruolo marginale, però almeno fa dimenticare una serie di comparsate in pellicole dimenticabili come Larry Crowne e Total Recall; sfilano poi Tate Donovan di The O.C. e Damages, Clea DuVall attualmente guest-star di American Horror Story Asylum, Kyle Chandler di Friday Night Lights, Titus Welliver Uomo in nero di Lost, Chris Messina di Damages e The Mindy Project, e questo solo per citarne alcuni. Occhio poi pure a una manciata di rivelazioni indie da tenere appunto d’occhio: Christopher Denham, di recente visto nel notevole Sound of My Voice, Scoot McNairy di Monsters e la gnocchetta Kerry Bishé vista in Red State.
Ma è un cast talmente ricco che si farebbe prima a nominare chi non è presente. Matt Damon, ad esempio. Che Ben & Matt negli ultimi tempi non siano più BFF come una volta?

"Ma stiamo girando Argo il finto film all'interno del vero film, oppure Argo
il vero film ispirato a un fatto reale? Non ci capisco più niente neanch'io..."
Oltre a un gran cast, a una splendida cura nella fotografia, nei costumi e persino nelle pettinature tardo ’70, a funzionare è il ritmo. Ben Affleck sa come tenere il tempo. Dopo averci divertito con la parte dedicata al dorato mondo di Hollywood, ci scaraventa in una parte finale al cardiopalma, in cui la tensione raggiunge gli stessi livelli delle puntate migliori delle migliori serie spionistiche dell’ultimo decennio, Homeland e 24.
Ben Affleck sembra quindi ricalcare le orme del suo altro amichetto, George Clooney, che non a caso figura tra i produttori di questo Argo. Entrambi sex symbol, entrambi attori non fenomenali, eppure migliorati pure in questo campo negli ultimi tempi. Da quando fanno i registi. Che poi fare i registi è la cosa che riesce loro meglio. A parte fare gli sciupafemmene in giro. Almeno Ben, viste le voci che circolano sul conto del bel George…

E allora Ben Affleck, gran figlio di una buona donna, did it again. E se un indizio può non voler dire niente e due indizi possono rappresentare un semplice caso, al terzo non c’è più spazio per i dubbi. Il terzo è una prova. Argo è una prova. Anzi, come prova basterebbe la sola grandiosa scena di montaggio alternato tra la conferenza stampa tenuta da un’attivista iraniana e quella tenuta dai producers del finto film Argo, un magistrale alternarsi di realtà e fiction, nonché di due diversi approcci al mondo, che racchiude tutta la grandezza del vero film Argo.
Ah, ho dimenticato una cosa fondamentale: cosa vuol dire Argo?
Argo vaffanculo se non lo guardate!
(voto 8/10)

Post pubblicato anche su L'orablu.

martedì 24 gennaio 2012

The Artist: la recensione muta







































The Artist
(Francia, Belgio 2011)
Regia: Michel Hazanavicius
Cast: Jean Dujardin, Bérénice Bejo, cane, John Goodman, James Cromwell, Missy Pyle, Malcolm McDowell
Genere: d'altri tempi
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