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venerdì 17 luglio 2015

Ted 2, lettera aperta a Seth MacFarlane





Ted 2
(USA 2015)
Regia: Seth MacFarlane
Sceneggiatura: Seth MacFarlane, Wellesley Wild, Alec Surkin
Cast: Mark Wahlberg, Ted, Jessica Barth, Amanda Seyfried, Morgan Freeman, Giovanni Ribisi, Sam J. Jones, John Carroll Lynch, John Slattery, Tom Brady, Jessica Szohr, Jay Leno
Genere: ripetitivo
Se ti piace guarda anche: Ted, I Griffin, The Cleveland Show, American Dad, Un milione di modi per morire nel West

Scrivo questa lettera aperta a Seth MacFarlane direttamente dalla pagina web Pensieri Cannibali, molto nota, almeno tra noi orsetti. Il motivo?
Voglio esprimere tutto il mio dissenso nei confronti dell'immagine che le sue due pellicole Ted 1 e Ted 2 danno di noi orsetti. Non siamo tutti così. Non siamo tutti dei maleducati e dei drogati. Insomma, porca puttana, nel periodo d'oro dell'ero ci facevamo, però adesso alcuni di noi sono puliti o quasi. Non è che passiamo tutto il giorno a farci dei bong cantando Maria Salvador. Di tanto in tanto ci facciamo pure di crack. Caro rimbombamico rinconglionito, se vuoi fare un film su noi orsetti, ti invito quindi a documentarti per bene, prima.

giovedì 15 gennaio 2015

LA GUERRA DI MIKE NICHOLS





Mike Nichols è stato un ottimo regista, capace di regalare tre pellicole che, a loro modo, hanno segnato tre generazioni e tre epoche parecchio differenti e distanti tra loro. Solo per questo, un posticino d'onore nella Storia del Cinema se l'è guadagnato. Per questo, e per aver fatto diventare Natalie Portman una spogliarellista con tanto di parrucca rosa, ma questo credo di averlo già detto.

Il laureato, manco c'è bisogno di dirlo, è la pellicola probabilmente più identificativa della generazione degli anni Sessanta. Dustin Hoffman in piscina e a bordo della Alfa Romeo Spider “Duetto”, le canzoni dei Simon & Garfunkel, Mrs. Robinson che è stata forse la prima MILF nella Storia del Cinema, uno dei finali più spettacolari di sempre... Insomma, un vero e proprio cultone.
Altro decennio, tutt'altra musica e tutt'altra storia: Una donna in carriera. Pellicola simbolo dello yuppismo al femminile, della self-made woman che risponde al self-made man di pozzettiana memoria.
Passa il tempo, cambiano le mode, arriva Internet e l'ormai vecchiotto Mike Nichols si adegua. Closer è la commedia romantica, o sarebbe più corretto dire l'anti-commedia romantica definitiva del nuovo millennio, capace di parlare il linguaggio delle chat e riscrivere il genere delle romcom in maniera spietata.
Tre film che hanno saputo fotografare il loro tempo come pochi altri. Tre film notevoli, che per il resto però in comune non è che abbiano poi molto. A questo punto una domanda sorge legittima: Mike Nichols è stato sì un ottimo regista, ma è possibile considerarlo anche un grande Autore?

lunedì 25 giugno 2012

Mad Men, pazzi gli uomini (e le donne) che non lo guardano

Mad Men
(serie tv, stagione 5)
Rete americana: AMC
Reti italiane: Rai 4, Fox, FX, Cult
Creato da: Matthew Weiner
Cast: Jon Hamm, Jessica Paré, John Slattery, Vincent Kartheiser, Christina Hendricks, Elisabeth Moss, January Jones, Kiernan Shipka, Jared Harris, Rich Sommer, Aaron Staton, Robert Morse, Ben Feldman, Jay R. Ferguson, Alexis Bledel, Alison Brie, Christine Estabrook, Julia Ormond, Christopher Stanley, Peyton List, Michael Gladis, Joel Murray, Marten Holden Weiner
Genere: retrò
Se ti piace guarda anche: The Hour, Mildred Pierce, Revolutionary Road

“Come disse una volta una persona saggia: l’unica cosa peggiore di non ottenere ciò che desideri, è vedere qualcun altro che la ottiene.”
Roger Sterling (John Slattery)

Spiegare la grandezza di Mad Men a un profano, a chi magari ne ha visto giusto mezzo episodio o appena qualche minuto, è come spiegare l’esistenza di Dio a un ateo.
Tanto per continuare nella non richiesta metafora religiosa, Dio è nei dettagli, così come il diavolo. Lo stesso discorso vale anche per Mad Men. Sono i dettagli di classe, sono i lampi improvvisi di genio, sono gli scarti dalla norma del tutto inattesi a rendere la serie qualcosa all’infuori e all’insopra del resto del panorama. Televisivo quanto cinematografico.

La maggior parte delle serie tv raggiunge il suo picco nel corso delle prime stagioni, poi quasi inevitabilmente va incontro a un declino, più o meno rapido. Ci sono anche alcuni telefilm che il meglio l’hanno dato in là con gli anni: Buffy, ad esempio, ha raggiunto il suo picco di creatività, ironia e genialità solo nel corso della season 6. Ma Mad Men resta un caso a parte. La qualità si è mantenuta paurosamente alta. Sempre. Come mai mi era capitato di vedere in alcuna altra serie. A una prima stagione folgorante, piovuta dal cielo come un meteorite destinato a polverizzare ogni altra cosa fosse in onda in quel momento in tv, sono seguite due stagioni con qualche lievissimo calo fisiologico, ma limitato giusto a una manciata di episodi. La quarta stagione aveva quindi rappresentato una ventata di aria fresca per la serie, una rimescolata a uno show che sembrava vivere di vita nuova. Poteva bastare così? No, perché la quinta stagione si è spinta ulteriormente oltre.

"Oddio, ma come ti sei vestito?"
"Perché tu, invece?"
13 episodi fenomenali, uno più bello dell’altro, in grado di costruire un corpus unico e allo stesso tempo di regalare a ognuno (o quasi) dei personaggi principali il suo momento personale di epifania joyciana. Senza dubbio alcuno, una delle stagioni migliori mai viste di una qualsiasi serie tv e probabilmente la migliore in assoluto per lo stesso Mad Men. Nel complesso persino meglio di quel miracolo di stagione 1. Non pensavo sarebbe potuto succedere e a questo punto mi aspetto una season 6 ancora più incredibile. Perché la sesta sarà anche l’ultima. Scriverà la parola fine a una delle più belle narrazioni di sempre, non solo in campo televisivo ma prendendo in considerazione anche letteratura e cinema e qualunque altra cosa.
Mad Men con la scusa di parlare di un gruppo di pubblicitari ha ridisegnato un decennio, levando via un sacco di stereotipi e di miti sui favolosi anni Sessanta e ha ridisegnato il significato stesso della parola “stile”. In più, ci ha regalato una serie di personaggi meravigliosi, complessi, mutevoli, indecifrabili e proprio per questo umani come raramente è capitato di vedere. Mad Men è come il tonno. Insuperabile.

Per una riflessione più ampia sull’importanza storica avuta da Mad Men nel rivedere oggi il passato (si veda in proposito l’influenza non solo estetica su produzioni come The Help o Mildred Pierce) ci sarà tempo con la stagione finale, per il momento concentriamoci sulla season 5. Una mad season che ha tenuto fede al titolo della serie.

"I dilemmi della vita: sono più gnocca o più brava a recitare o a cantare?"
ATTENZIONE SPOILER
La partenza è stata grandiosa. La doppia prima puntata, season chicken premiere double burger, è stata una lezione autentica di scrittura televisiva. A un occhio mad-men-ateo, sarà potuto sembrare un episodio in cui nulla succede. A me è sembrato un episodio dalla struttura quasi da thriller. L’attesa di un qualcosa che sta per succedere. Tutta la puntata è incentrata su una festa, a casa di Don Draper. Tutta la festa e le discussioni post-festa sono incentrate su un singolo momento, la performance sorprendente e incredibile della neo signora Draper, la francesina Megan, interpretata da una Jessica Paré bomba sexy a livello fisico e da Emmy immediato a livello recitativo. Zou Bisou Bisou, canta Megan/Jessica riecheggiando Gillian Hills e la nostra Sophia Loren, e tutto il resto del mondo scompare. Un momento musicale che da solo vale 3 intere stagioni di Glee.


Il bello di Mad Men è anche quello di saper affrontare tematiche tipiche degli anni ’60, senza per forza voler sviscerare tutto l’argomento con triti e ritriti sermoni. Mad Men preferisce suggerire, offrire spunti. In questa stagione 5 è stata quindi introdotta la tematica dell’integrazione razziale, con le prime segretarie di colore assunte da Draper e soci, si è intravista la fascinazione per le religioni orientali, con il ritorno da guest-star di Paul Kinsey (Michael Gladis) in versione santone, e poi c’è stato il rock’n’roll, con un episodio in cui Don e Harry (Rich Sommer) vanno dietro le quinte di un concerto dei Rolling Stones.
Al proposito, è fondamentale l’uso delle musiche in Mad Men. Le canzoni sono usate con grande parsimonia, in genere una ad episodio, non di più, ma sempre in maniera ma-gi-stra-le. La scena in cui Don Draper ascolta “Tomorrow Never Knows”, probabilmente il pezzo più avanti dell’intera discografia dei Beatles, e poi la toglie dal giradischi prima che finisca la dice lunga, dice tutto, su un uomo d’altri tempi che non riesce ad adattarsi alla modernità e non riesce a cambiare. Il dilemma fondamentale intorno a cui ruota la serie intera è proprio questo: riuscirà mai a cambiare, Don Draper? L’ultimissima inquadratura del season finale ci suggerisce che probabilmente la risposta è un no. Ma staremo a vedere…

"Cosa essere questo?"
Tornando in campo musicale, un altro esempio di quanto bastino poche note per cambiare tutto ce l’ha dato l’episodio in cui Peggy (Elisabeth Moss) abbandona definitivamente la società e si appresta a prendere l’ascensore. È triste perché si lascia alle spalle un pezzo importante della sua vita. Poi partono le note di “You Really Got Me” dei Kinks e la sua espressione cambia improvvisamente, come se davanti a sé vedesse un futuro nuovo ed eccitante, indipendente e molto rock’n’roll.

Che dire poi dell’esaltante stagione vissuta da Roger Sterling (John Slattery)? Scatenato, dirompente, ironico ancor più che in passato, annoiato dalla sua vecchia vita e pronto a lasciarsi l’amarezza del passato alle spalle grazie a una passione tutta nuova: l’LSD. E così Mad Men per un episodio è diventato più visionario del solito, quasi un Twin Peaks Sixties. Una scena grandiosa, quella di Roger sotto LSD, che fa il paio con un momento onirico e thriller con protagonista un Don Draper in versione American Psycho ante litteram.

"Perché ce so' stata poco in 'sta stagione? Ero troppo impegnata a magnà!"
Un po’ sacrificato in questa stagione invece il personaggio di Betty, l’ex signora Draper ora (in)felicemente sposata con un altro uomo e alle prese con dei per lei inediti problemi di peso e di insicurezza fisica. Per la Grace Kelly dei nostri giorni un cambiamento di look radicale, quasi un I Used To Be Fat di Mtv al contrario, coinciso tra l’altro con la gravidanza dell’attrice January Jones.
Betty si è comunque ritagliata un episodio da protagonista ma per il resto, per quanto lo dica con un velo di tristezza, la sua assenza non si è fatta certo sentire più di tanto. Troppo dirompente la nuova Megan per far sentire la mancanza di qualcun altro.
Oltre al numero musicale di cui abbiamo parlato sopra, è stata lei il personaggio in più, la quinta marcia inserita nella Jaguar guidata questa stagione dal creatore Matthew Weiner e dal suo formidabile team di sceneggiatori.
La vitalità  di Megan, la sua gioventù, anche le sue idee a livello creativo, hanno in qualche modo provato a dare una scossa a quel gran musone di Don. Riuscendoci anche, sebbene solo in parte. Rappresentando il nuovo che avanza e che Don fa così tanto fatica ad accettare ma con lei al suo fianco sembra almeno sforzarsi di fare un tentativo.

Il nuovo è rappresentato anche dal novello creativo assunto da Peggy: si tratta di Michael Ginsberg (Ben Feldman), un personaggio di quelli che per ora rimangono tra le belle speranze non ancora pienamente espresse e che magari troveranno un maggiore spazio nella stagione finale.
Chi ha avuto un maggiore risalto, suo malgrado, è stato Lane Pryce (Jared Harris), l’economista, il Tremonti dello studio pubblicitario, protagonista della svolta più drammatica e traumatica dell’intera storia della serie.

Tra i personaggi femminili più spazio anche per la prosperosa rossa Joan (Christina Hendricks), ora nelle vesti di nuova socia della compagnia e pure di madre single. E ricordo che siamo sempre negli anni ’60 e non è che allora fosse una cosa così comune e socialmente accettata. Forse nemmeno oggi lo è ancora.

L’altro grande personaggio femminile venuto fuori sempre più in questa stagione è Sally Draper, la figlioletta di Don ormai diventata una piccola donna che sta cominciando ad accettare il divorzio dei genitori. A interpretarla troviamo una Kiernan Shipka giovanissima fenomena che se continua così si candida al titolo di prossima Kirsten Dunst, piccola star ai tempi di Intervista col vampiro e Jumanji poi maturata alla grande come vergine suicida, o di nuova Natalie Portman, bimba prodigio all’epoca di Leon e poi trasformatasi in un cigno (nero). Sperando invece che non faccia la fine tossica di Lindsay Lohan o di Macaulay Culkin o caschi nel dimenticatoio come Haley Joel Osment.
Haley Joel chiii?
Piccolo spazio curiosità: l’altro figlio di Don, Bobby, è stato interpretato nelle precedenti stagioni da Jared Gilmore, che adesso è diventato l’(insopportabile) Henry di Once Upon a Time. Fine piccolo spazio curiosità. L’ho detto che era piccolo.

"No, non la voglio conoscere tua mamma Lorelai. Quella non tace un secondo!"
E chiudiamo questa lunga quanto meritata disamina dell’universo Mad Men con il mio personaggio preferito, enorme Don Draper escluso: Pete Campbell (Vincent Kartheiser). Opportunista, insensibile, spesso bastardo in passato, nei nuovi episodi ha trovato una nuova e inedita dimensione umana, grazie all’amore. Per quanto si tratti di amore adultero, altrimenti non sarebbe il vero Pete Campbell. Molto bella e tragica la relazione con Alexis Bledel, figlia per amica di Una mamma per amica, qui nelle vesti di tentatrice e Mad Woman nel senso letterale del termine, visto il suo ricovero in manicomio. Le fanno pure l’elettroshock. Anche qui, la serie ci ricorda che siamo negli anni ’60 e queste cose allora le facevano. Che le facciano pure oggi?
Nemmeno un trattamento con elettroshock può farci comunque guarire da una passione folle. Quella per Mad Men. Già in passato serie fenomenale, adesso diventata una serie mastodontica.
E infine, tanto per chiudere con una citazione pubblicitaria di quelle che avrebbe potuto tirare fuori un Don Draper: che mondo sarebbe, senza Mad Men?
(voto alla stagione: 9,5/10)


martedì 28 giugno 2011

Che min**ia guaddi?

I guardiani del destino
(USA 2011)
Titolo originale: The Adjustment Bureau
Regia: George Nolfi
Cast: Matt Damon, Emily Blunt, John Slattery, Anthony Mackie, Terence Stamp, Michael Kelly, Anthony Ruivivar, Shohreh Aghdashloo, Jon Stewart
Genere: fantaromantico
Se ti piace guarda anche: Non lasciarmi, Gattaca, Matrix, The Manchurian Candidate

Non avete il libero arbitrio,
avete l’impressione del libero arbitrio

Quando ti imbatti in adattamento cinematografico da un racconto di Philip K. Dick ti aspetti di vedere un film di fantascienza più o meno tradizionale, magari venato da qualche sottotrama thriller per renderlo più ammiccante al grande pubblico. E invece no. I guardiani del destino è una storia romantica. A renderlo fantascientifico ci pensa il fatto che il protagonista sia un politico simpatico (o quasi), un tipo a posto, uno che ispira fiducia e non disprezzo. Sì, avete capito bene: davvero una cosa dell’altro mondo. L’avete mai visto un politico che è anche una brava persona? Ma non è finita qui, perché il suddetto protagonista è uno che antepone l’amore alla carriera. Siamo abituati agli scandali sessuali dei Berlusconi, dei Marrazzo, degli Strauss-Kahn e invece qui ci troviamo di fronte a un politico romantico, uno che incontra una tipa sull’autobus e poi per ribeccarla prende lo stesso autobus per tre anni di seguito.
Ed è qui che capisci che si tratta di pura fantascienza.

Giusto in un film di fantascienza può capitare di incontrare
la donna della vita in un cesso per uomini...
Questa volta i distributori italiani ce l’avevano dura con il titolo originale, impronunciabile anche per un inglese madre lingua: The Adjustment Bureau. E allora hanno deciso per un I guardiani del destino e possiamo ringraziare il cielo che non l’abbiano chiamato I guardoni del destino. Che poi forse a guardare bene sarebbe anche stata la scelta più azzeccata.
La storia è infatti quella di un politico candidato al senato degli Stati Uniti che però proprio nella serata in cui perde le elezioni incontra la donna della sua vita, una tipa stralunata interpretata da una Emily Blunt valida, anche se io per un personaggio del genere avrei visto molto meglio una Zooey Deschanel. Così come per la parte del protagonista avrei visto meglio qualcun altro.

Matt Damon l’ho sempre considerato un Leonardo DiCaprio di serie B: quando una parte la rifiuta lui, ecco che ai produttori di solito viene in mente di chiamare il Damon. Ché poi ha diversi buoni e anche ottimi film in curriculum, però faccio fatica a ricordare una sua prova recitativa che mi abbia davvero convinto: forse solo in The Departed, paradossalmente proprio accanto a DiCaprio. Dopo aver intepretato in maniera poco credibile l’uomo che sussurrava ai morti in Hereafter, il per nulla indemoniato Damon si trova qui più a suo agio nella parte dell’uomo politico giovane e rassicurante, una specie di Matteo Renzi in salsa yankee. Però a me resta sempre in testa il pensiero che con un altro attore il film ne avrebbe solo guadagnato…

Un momento Black Swan...
Lasciati da parte comunque i presupposti per trovarci di fronte a un fanta-thriller politico alla The Manchurian Candidate, il film segue la strada inaspettata e riuscita di una fantascienza sentimentale ed è qui che i guardiani/guardoni del destino entrano in gioco. Sono infatti loro che cercheranno di ostacolare la storia d’amore tra Matt Damon ed Emily Blunt. Perché? A voi scoprirlo, però un po’ li capisco: anch’io avrei ostacolato la scelta di questi due attori in favore di altri. Con Leo DiCaprio e quel peperino di Zooey Deschanel la storia sì che avrebbe fatto scintille. Così ci dobbiamo accontentare di una pellicola ottima, godibile e ben sopra la media.
A convincermi in pieno è invece il cast di contorno, con i cosiddetti guardiani del titolo interpretati da Anthony Mackie, per me il nuovo Denzel Washington (ho esagerato? E allora dico che potrebbe anche diventare meglio di Denzel Washington) e il grandioso John Slattery, il bianco di capelli di Mad Men. E su questo blog ogni volta che si cita Mad Men si fa un inchino di riverenza.
Se i guardiani del destino agiscono in una maniera che ricorda l’agente Smith di Matrix e la storia è una fantascienza intrisa di romanticismo tra Non lasciarmi e Gattaca, quello che manca è però un tocco d’autore forte. George Nelfi dirige con mano sicura (ho sempre voluto scrivere questa frase!), ma senza troppa personalità. Però può migliorare e per intanto ha realizzato un’opera d’esordio ben al di sopra della media e ben più interessante di quanto fatto da molti altri più blasonati colleghi.
E adesso cosa fai ancora su questo blog?
Che minchia guaddi?
Smettila di fare il guardone del destino e vai a vedere I guardiani del destino.
(voto 7+)


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