Cast: Jason Clarke, Keira Knightley, Josh Brolin, John Hawkes, Jake Gyllenhaal, Michael Kelly, Emily Watson, Sam Worthington, Elizabeth Debicki, Martin Henderson, Naoki Mori, Ingvar Eggert Sigurðsson, Chris Reilly, Robin Wright, Mia Goth, Vanessa Kirby
Genere: montanaro
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Una gita in montagna può essere un'esperienza distruttiva, almeno per il sottoscritto.
Una gita in montagna può però anche rivelarsi un'esperienza istruttiva. Ecco ad esempio le numerose cose imparate dalla visione di Everest:
Tratto dal romanzo: Vizio di forma di Thomas Pynchon
Cast: Joaquin Phoenix, Katherine Waterston, Josh Brolin, Joanna Newsom, Owen Wilson, Jena Malone, Reese Witherspoon, Benicio Del Toro, Eric Roberts, Maya Rudolph, Jordan Christian Hearn, Hong Chau, Michael Kenneth Williams, Sam Jaeger, Timothy Simons, Belladonna, Elaine Tan, Sasha Pieterse, Martin Donovan, Martin Short
Genere: fattone
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Pochi giorni fa è venuta a mancare mia nonna. Aveva 90 anni. Si può dire che raggiunta quell'età la sua vita l'avesse vissuta, in molti l'hanno detto, ed è vero. Nei suoi confronti provo un unico rammarico. I suoi ultimi anni. Cinque anni passati quasi sempre in un letto di una casa di riposo, paralizzata per colpa di un dannato ictus. Lo so che potrà sembrare ingenuo da parte mia. Lo so che significa barare. Lo so che è come giocare a fare Dio, ma io quegli ultimi anni li voglio gettare via. Fare finta che non siano mai esistiti. Cancellare quel capitolo conclusivo dalla sua vita e dalla mia memoria. Anche se non c'è modo di evitare il tempo, il mare del tempo, il mare del ricordo e della dimenticanza, io voglio ricordare solo le cose belle. Voglio ricordare mia nonna come una persona sempre in giro, sempre in movimento, mai ferma in un solo posto, come quel beffardo destino bastardo l'aveva costretta alla fine.
Cast: Mickey Rourke, Josh Brolin, Joseph Gordon-Levitt, Eva Green, Jessica Alba, Bruce Willis, Rosario Dawson, Christopher Meloni, Juno Temple, Powers Boothe, Dennis Haysbert, Jeremy Piven, Ray Liotta, Jamie Chung, Jaime King, Julia Garner, Christopher Lloyd, Marton Csokas, Jude Ciccolella, Alexa Vega, Lady Gaga
Genere: fumettoso
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La recensione cannibale
Sin City – Una donna per cui uccidere è stato il super mega floppone dell'estate americana. Costato $60 milioni, in patria sta facendo fatica a raggiungere quota $15 milioni e nel weekend d'apertura è riuscito a mala pena a entrare nella Top 10 dei film più visti, nonostante la totale assenza di grandi concorrenti. Perché un tonfo così clamoroso?
Per prima cosa, va detto che Robert Rodriguez non è che sia sempre una garanzia al box-office. Già la poco riuscita operazione Machete Kills doveva fargli fischiare le orecchie in tal senso.
Un altro motivo va secondo me ricercato anche nel tempismo. Il tempismo è tutto nella vita e questo Sin City 2 è giunto nel momento probabilmente meno propizio. Dal primo capitolo del 2005 è passato troppo tempo per poterne sfruttare l'hype e allo stesso tempo ne è passato troppo poco perché si possa parlare di riscoperta vintage.
Il problema fondamentale sta però probabilmente nella natura intrinseca del film stesso. Sin City 1 era un cult movie wannabe, ma non era un cult movie vero e proprio. A livello visivo rappresentava qualcosa di nuovo e di davvero fico, un modo di usare la computer grafica per realizzare un cine-fumetto folgorante, anni luce più avanti di quanto visto prima di allora e che avrebbe aperto la strada a 300 e cloni vari. Peccato soltanto che nell'anno 2014 una pellicola girata in questa maniera non faccia più notizia e la sua indubbia bellezza estetica finisca di affascinare dopo appena pochi minuti.
Una volta che viene a mancare l'effetto “WOW!” della realizzazione tecnica del film, Sin City – Una donna per cui uccidere lascia di fronte a ciò che è veramente, e che forse già il primo Sin City era: una pellicola vuota. Terribilmente vuota.
Cast: Kate Winslet, Josh Brolin, Gattlin Griffith, Clark Gregg, James Van Der Beek, Tom Lipinski, Maika Monroe, Brooke Smith, Brighid Fleming, J.K. Simmons, Lucas Hedges, Dylan Minnette, Tobey Maguire
Genere: racconto di formazione
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La giornata dei lavoratori negli USA si festeggia il primo lunedì di settembre. Perché?
Questo, se proprio vi interessa, ve lo potete leggere su Wikipedia.
In Italia invece la Festa del lavoro è tradizionalmente oggi. Solo perché un gruppo di artisti pseudo alternativi possano avere l’occasione di suonare al concertone del Primo Maggio? O per quale altro motivo?
Magari lo sapete già, in caso contrario potete scoprirlo sempre su Wikipedia.
Se vi interessano tutte queste cose, fate insomma che trasferirvi su Wikipedia, così vi fate una cultura. Se invece vi interessa sapere qualcosina sul film intitolato Labor Day e previsto in uscita in Italia, anche se non si sa bene ancora quando, con il titolo Un giorno come tanti, siete nel posto giusto.
Un giorno come tanti è un film come tanti?
No. Magari una volta. Oggi, e con oggi intendo non il Primo Maggio bensì il presente, non è una pellicola di quelle che si vedono tanto spesso. È un racconto di formazione più di quelli tipici degli anni ‘80/’90. Quei film come L’uomo senza volto, L’attimo fuggente o Stand by me. Non a caso è ambientato proprio negli 80s, più precisamente nel 1987, durante il weekend del Labor Day. Io sono un appassionato delle pellicole che come collocazione temporale vanno indietro in quel periodo, come Donnie Darko o Take Me Home Tonight, però va detto che per questo film il regista Jason Reitman ha fatto una scelta differente. Non ha puntato sulle canzoni e sugli abiti dell’epoca. Non ha inserito molti riferimenti espliciti a quel periodo. Jason Reitman ha deciso di raccontarci una storia quasi fuori dal tempo, ambientata nel passato, ma girata con uno stile da pellicola indie intimista odierna (e con odierna intendo sempre del presente, non del Primo Maggio). Niente Duran Duran, allora. Niente Madonna o Michael Jackson o capelli cotonati o inguardabili abiti iper-colorati. Manca qui la goduriosità dei superficiali anni ’80. Quella potete proprio scordarvela. Un giorno come tanti – Labor Day punta su altri elementi. Quali?
Questa è una risposta che NON potete trovare su Wikipedia, ma solo su Pensieri Cannibali.
"Sono un ricercato internazionale peggio di Dell'Utri, però chissene,
giochiamo a baseball!"
Il film parte da uno spunto thriller, che qualche regista sadico avrebbe potuto virare verso il genere splatter horror e invece Jason Reitman no. La pellicola inizia con il bruto Josh Brolin, un assassino appena evaso di prigione, che prende in ostaggio un ragazzino (l’emergente Gattlin Griffith, che sì, si chiama proprio Gattlin) e sua mamma (la solita brava Kate Winslet). Se a questo punto vi aspettate una serie di torture o un’adrenalinica pellicola ad alta tensione, di quelle con gli ostaggi e un’agente dell’FBI prossimo alla pensione che cerca di farli uscire tutti sani e salvi, pure in questo caso vi sbagliate. Quindi in questo film non ci sono canzoni 80s, né capelli cotonati e manco delle scene di tortura. E cosa c’è, allora?
C’è una storia d’amore. Vi viene in mente la Sindrome di Stoccolma? In questo caso avete ragione. Questo film è l’inno supremo alla Sindrome di Stoccolma. La casalinga disperata Kate Winslet, che non vede un bigolo da parecchio tempo, si innamora del bel (insomma, si fa per dire) assassino Josh Brolin che ha rapito lei e il figlio, ma l’ha fatto in maniera assai delicata, da vero e proprio gentiluomo. Al fascino del criminale è davvero difficile resistere e Kate Winslet manco ci prova. Dimenticando di essere sequestrata da un omicida ricercato in tutta la città, lo ospita a casa sua e si mette a disegnare cuoricini sul suo diario e sulle mutandine come una teenager in love.
In Un giorno come tanti c’è una storia d’amore, ma non solo. Il punto di vista è quello del figlio di Kate Winslet e questa è allora anche e soprattutto, come dicevamo all’inizio, una vicenda di formazione. Il ragazzino in quei giorni di inizio settembre del weekend del Labor Day 1987 vive un’esperienza che cambierà per sempre la sua vita. Innanzitutto perché non capita tutti i giorni di essere presi in ostaggio da un assassino, e soprattutto da un assassino che si rivela pure un uomo gentile e premuroso e che si vuole fare sua mamma. Allo stesso tempo, entrano in gioco anche altri fattori. I suoi genitori sono divorziati e, finalmente, ha l’opportunità di vedere sua madre felice, capace di riprendere in mano la sua vita per la prima volta da quando il marito l’ha abbandonata per correre dietro alla segretaria, un classico. Inoltre, il ragazzino protagonista vivrà la sua prima cotta pre-adolescenziale, grazie all’arrivo in città di una bambinetta (l'attrice rivelazione Brighid Fleming) che, nonostante abbia tipo 12 anni, sta già attraversando una fase di depressione giovanile pre-grunge. Pure lui, così come sua madre con il bandito, non potrà resistere al fascino della ribelle.
Un giorno come tanti parte allora come un thriller come tanti e poi diventa qualcosa di totalmente differente. Una pellicola in grado di avvolgere a sé lo spettatore con i suoi ritmi lenti e capace di toccare il cuore, anche dei meno sensibili, grazie a una parte finale che vi sembrerà o una ruffianata colossale, oppure vi farà piangere come vitelli.
Perché si dice piangere come vitelli?
La risposta a questa domanda non la trovate su Wikipedia, bensì su questo piccolo e non so quanto attendibile sito, La stradaweb.it.
Pensieri Cannibali risponde invece a un altro quesito. Un giorno come tanti è un film che va visto?
Sì, magari proprio oggi, in questo Labor Day italiano.
Ispirato al manga: Old Boy di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi
Cast: Josh Brolin, Elizabeth Olsen, Samuel L. Jackson, Sharlto Copley, Michael Imperioli, Hannah Ware, Pom Klementieff, Lance Reddick, James Ransone, Max Casella, Rami Malek, Hannah Simone, Grey Damon
Genere: revenge
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Ci sono due tipi di remake:
- I remake inutili
- I remake inutili e schifosi
Veramente non erano questi i due tipi di remake che volevo individuare. Ci sono altri due tipi di remake:
- I remake fatti per questioni temporali, ovvero quando si copia prende un film vecchio e lo si riadatta ai tempi moderni.
- I remake fatti per questioni geografiche, ovvero si stupra prende un film di un altro stato e lo si riadatta in base alla propria cultura e agli usi e costumi del proprio paese. E con proprio paese intendo in genere gli Stati Uniti d’America.
Oldboy di Spike Lee appartiene a quest’ultimo tipo di remake. Di certo non al primo, visto che è il rifacimento di un film recentissimo, l’omonimo Oldboy del 2003 di Park Chan-wook. Si è passati così da un’ambientazione sudcoreana e da un tipo di revenge movie molto orientale, a un thriller molto americano.
La domanda è: perché?
Io in generale sono contro i remake. Nella maggior parte dei casi si tratta di prodotti che cercano di sfruttare senza troppi sbattimenti l’idea brillante avuta da qualcun altro. A essere gentili si può parlare di rielaborazione creativa.
Ma rielaborazione creativa stocazzo!
Chiamiamo le cose con il loro nome: furto o, per essere più eleganti, scopiazzamento.
"Dopo questo film, per la vergogna non esco più da qui."
Nell’arte del remake gli americani sono dei professionisti. Stanno diventando quasi peggio dei cinesi. Battuta razzista taaac, alla faccia del politically correct alla Fabio Fazio. In alcuni casi, l’operazione può anche avere un senso. Homeland ad esempio è ispirata a una serie israeliana, The Killing a una danese. Considerando che il grande pubblico difficilmente avrà visto gli originali, ci può stare.
Il film sudcoreano Oldboy non sarà stata un campione di incassi, però è un piccolo grande cult piuttosto noto. Era uscito persino nelle sale italiane. Ricordo che a vederlo c’ero io insieme a quattro gatti, ma se non altro era arrivato anche nei nostri cinema. Si tratta inoltre di un film d’autore, di nicchia, non è una pellicola che sembrava prestarsi a un adattamento commerciale. Infatti questo remake si è dimostrato un flop mostruoso.
Non si capisce poi il passare da un Autore cinematografico dalla sua forte impronta stilistica come Park Chan-wook a un altro Autore, un grande Autore, almeno fino a qualche anno fa, come Spike Lee. Perché un regista con una carriera ancora brillante, il suo ultimo film degno di nota, Inside Man, risale al non lontano 2006, decide di cimentarsi con una pellicola a suo modo perfetta, efficace e non migliorabile?
È un mistero destinato a non trovare risposta.
I remake in genere sono inutili, questo appare quindi ancora più inutile già in partenza. Lasciamoci però alle spalle, per quanto possibile, il ricordo del film originale. L’ho visto una sola volta, una decina d’anni fa, e non l’ho più rivisto. Non perché non mi fosse piaciuto, tutt’altro. Mi aveva davvero angosciato nel profondo, come poche altre pellicole. L’inquietudine presente in quel film qui è invece del tutto evaporata. Spike Lee non dirige male. Tecnicamente il suo lavoro è valido e in alcuni passaggi rende omaggio all’originale. A mancare è l’atmosfera, è quel non so che che rende un film unico, speciale, irreplicabile e irremakeabile (ho inventato una nuova parola, americani non copiatemela, per favore). Quelle parti grottesche, al limite del kitsch, che rendevano così speciale l’originale, avevano un senso all’interno del loro contesto orientale. Scopiazzate malamente qui all’interno di un contesto pulitino e precisino da thrillerino medio americano appaiono solo delle forzature ridicole. Questo remake è ridicolo. L’originale faceva star male fisicamente, tanto intenso com’era. Questo rifacimento fa ridere, al massimo. A un certo punto semplicemente stufa.
"Svegliati Josh, il film è quasi finito."
"Uff, lasciami ronfare fino ai titoli di coda..."
Sto comunque continuando a paragonare le due pellicole. Prendiamo allora Oldboy US version come un film a sé stante. Facciamo finta di non aver mai visto il lavoro di Park Chan-wook. Anche in questo caso, l’Oldboy di Spike Lee è una pellicola penosa, che fa acqua da tutte le parti, con una trama che non si concentra tanto sugli aspetti psicologici del protagonista, ma diventa il solito banale giallo investigativo. Senza avere una degna capacità nella costruzione della tensione.
Malissimo poi il cast. Sulla carta non è nemmeno niente male, alla prova dei fatti i risultati sono disastrosi. Josh Brolin, attore che dai Goonies a W. di solito mi piace parecchio, qui è del tutto fuori parte, inadeguato anche a un livello fisico a dar vita a un personaggio del genere. Sembra un elefante che si muove in una cristalleria, laddove il grande Choi Min-sik con il suo aspetto più minuto danzava leggiadro come una ballerina ninja.
Elizabeth Olsen, alle prese con il personaggio femminile principale, è irriconoscibile. In film come La fuga di Martha, Red Lights e Silent House sembrava destinata a essere la migliore attrice dei prossimi 20 anni, qui pare un’attrice pronta per le fiction Mediaset dei prossimi 20 anni, al fianco dell’immancabile Gabriel Garko, ovvio. Come cattivoni ci sono invece Samuel L. Jackson, che quando non recita per Quentin Tarantino perde un buon 50% delle sua capacità e in questo caso perde fino a un 90% del suo potenziale, e Sharlto Copley, attore che aveva avuto la botta di culo ad avere il ruolo da protagonista in District 9, mentre per il resto è un attorucolo e qui risulta persino tremendo. Ma roba che al confronto ad avercene, di Gabriel Garko…
Vogliamo salvare qualcosa?
NO!
Questo film non s’aveva da fare, e non è finita qui, perché il risultato è persino inferiore alle più catastrofiche attese. Più che all’originale, di cui sembra una parodia, finisce per somigliare a schifezze con Liam Neeson come Io vi troverò e Taken – La vendetta. Oldboy firmato Spike Lee è in pratica la versione americana e soprattutto la versione scazzata di un grande film sudcoreano. Un caposaldo del genere revenge movie che a questo punto grida: “Vendetta!”.
Oddio, stanno sparando. Stanno sparando alla mia casa. Tutti giù. Tutta la mia crew, tutti i miei fra, state giù! Sono quelli della gang rivale, quelli di Pensieri Cannibali. Sì, devono essere loro che vogliono vendicarsi perché su Facebook ho lanciato delle accuse pesanti sulla loro pagina. Roba tipo: “Noi siamo troppo i meglio e voi fate pena. E poi lo dico: di cinema non ne capite proprio un acciderbolina di niente!”.
Ora mi sa che vogliono vendetta. Vogliono sangue. Maledetti cannibali, continuano a sparare. O forse è una bomba?
BOOM
Ehm… come non detto. Mi sono sbagliato. Non erano spari. Erano solo dei ragazzini fuori che facevano saltare dei mini ciccioli. Che strizza!
Comunque come dicevo nel mio freestyle, secondo me Gangster Squad è un capolavoro, è troppo il meglio, voto 100 su 10, però adesso per par condicio beccatevi la recensione della mia crew rivale. Quella dei Pensieri Cannibali. Secondo loro il film non è così fenomenale. Però che ne capiscono loro?
Proprio un acciderbolina di niente!
"Che minchia guaddi?"
Gangster Squad
(USA 2013)
Regia: Ruben Fleischer
Sceneggiatura: Will Beall
Tratto dal romanzo: Tales From the Gangster Squad di Paul Lieberman
Cast: Josh Brolin, Ryan Gosling, Sean Penn, Emma Stone, Mireille Enos, Nick Nolte, Anthony Mackie, Michael Pena, Robert Patrick, Giovanni Ribisi, Ambyr Childers, Michael Bacall, Evan Jones, Troy Garity
Genere: gangsta
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1949, Los Angeles, la città è controllata dal boss Mickey Cohen. Per fermarlo il sindaco mette su una speciale e segreta task force, una squad che agisce con ogni mezzo lecito e soprattutto non lecito per fermare il delinquente. Diventando a sua volta una Gangster Squad.
Uh, bello! Un noir in piena regola. Un romanzo criminale di quelli old style, con un cast di prim’ordine, due giovani divi come Ryan Gosling ed Emma Stone, garanzie come Josh Brolin e Sean Penn, un regista lanciato, e una vicenda ispirata alla figura di un criminale esistito per davvero e che di nome fa proprio Mickey Cohen. Eppure in giro non se ne parla bene. Negli USA è uscito in sordina ed è stato parecchio snobbato dal pubblico e preso poco in considerazione dalla critica. Com’è possibile?
"Ahahah, Sean così conciato sei più divertente del Nongio."
Presto detto. Gangster Squad non è un film brutto, bensì rientra in una categoria peggiore, più infima ancora: quella delle pellicole inutili. Gangster Squad è un film gangsta molto tradizionale, senza alcun tratto distintivo in grado di farlo emergere tra le altre numerosissime pellicole analoghe già prodotte in passato. L’unica particolarità sta nel fatto che qui il Bene agisce con gli stessi mezzi del Male, ma alla fine non è che sia poi tutta ‘sta grossa novità. Soprattutto considerando come i Buoni rimangano comunque sempre distinti in maniera netta dai Cattivi. O meglio dal Cattivo, il cattivone Sean Penn. Per renderlo più somigliante al vero Mickey Cohen, hanno applicato sulla faccia del povero Penn un trucco che fa spavento, ma non nel senso che fa paura. Non fa brutto, è brutto e basta, ai livelli di quelli di J. Edgar o quasi. Sean Penn così truccato sembra il Nongiovane quando fa il mafioso nei Soliti Idioti. Rendetevi conto che prendere sul serio un personaggio del genere non è quindi visivamente facile. Se a ciò aggiungiamo che questo Mickey Cohen/Sean Penn ancor più che proiettili spara una serie di battute assurde, di cui alcune per carità pure divertenti, il risultato è quello di cadere presto nel ridicolo. Sean Penn è un cattivo di una cattiveria talmente eccessiva da risultare cartoonesca. Anche la sua violenza appare parecchio inverosimile e fumettosa. Al confronto di altri film del genere o anche di una serie come Boardwalk Empire, ad esempio, Gangster Squad sembra quindi la versione Rai Yoyo di una storia criminale.
"Ma chettibevi, Josh? Un appletini? Tu sì che sei un duro!"
Possiamo allora cercare di vedere la pellicola come una specie di revisione in chiave fumettistica ma più che altro videogammara del noir tradizionale, però la componente più giocosa e divertente è troppo limitata. Il film si lascia vedere, perché Ryan Gosling ed Emma Stone sono sempre un bello spettacolo per gli occhi, sebbene la loro intesa sia lontana da quella sfoggiata in Crazy, Stupid, Love., e perché a livello visivo le ambientazioni sono ben realizzate e c’è una buona cura tecnica dietro. Anche i livelli di ritmo, per quanto mai trascinanti, risultano piuttosto elevati e la pellicola ha il pregio se non altro di non annoiare. Da qui ad avvicinarsi alle pietre miliare del genere, di strada però ne passa parecchia.
L.A. Confidential era un esercizio di stile, ma che stile. Giocava con gli stereotipi del noir, ma lo faceva con classe. Gangster Squad invece con gli stereotipi non ci gioca, li subisce e finisce per risultare un film senza una grossa personalità. Il regista Ruben Fleischer evidentemente ha fatto il passo più lungo della gamba, tanto per parlare attraverso stereotipi come fa la pellicola. Dopo due commedie frizzanti come Benvenuti a Zombieland e 30 Minutes or Less, il giovane e comunque ancora promettente regista 34enne ha tentato di realizzare un film più serio. Obiettivo non centrato e a questo punto spero che per i suoi prossimi lavori ritorni a sfoggiare la sua anima più cazzona e torni a tinte più leggere, giacché il noir non gli si addice..
"Pensi ancora che sia ridicolo, Cannibal?"
Quanto agli attori, è raro vedere un cast del genere così sprecato. Ryan Gosling in questo film è troppo ciaciarun, parla troppo. Lui sarebbe più efficace come attore muto. Dovrebbero fargli fare una pellicola alla The Artist. Vincerebbe l’Oscar.
Emma Stone, o anche per dirla con un francesismo usato da Sean Penn: “quella splendida passera rossa”, è una belle femme ma è poco fatale. I panni di moderna Easy Girl le si addicono, mentre per un ruolo in noir pure lei non mi sembra del tutto a suo agio. Più a suo agio appaiono allora Josh Brolin, comunque pure lui piuttosto spento, e Mireille Enos presa in prestito dalla serie The Killing, mentre Nick Nolte non è mai apparso tanto vecchio, Giovanni Ribisi non è mai apparso così poco psicopatico e Sean Penn come anticipato offre ahinoi la sua interpretazione più ridicola di sempre. Tutta colpa del trucco?
Il difetto maggiore del film però è probabilmente un altro ancora: non ha un vero fascino retrò. Degli anni ’50 (o per essere precisi della fine degli anni ’40) ci sono gli abiti, le pettinature, le Cadillac. A mancare è il profumo. Non c’è l’odore, degli anni ’50. O di fine anni ’40, Signori Precisetti. La cosa migliore, e più 40s/50s di tutto il film, sono allora i bei titoli di coda disegnati. Troppo poco, troppo tardi.
Gangster Squad, un film per finti duri
un film che non spacca i culi.
Cast: Will Smith, Tommy Lee Jones, Josh Brolin, Emma Thompson, Michael Stuhlbarg, Alice Eve, Jemaine Clement, Nicole Scherzinger, Mike Colter, Michael Cernus, Bill Hader, David Rasche
Genere: retro-futurista
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Nostalgia canaglia.
Quando si finisce per rimpiangere anche delle cose pessime come i Men in Black, è un brutto segno. Sto proprio invecchiando. Dicono sia un processo irreversibile. Dicono non si torni più indietro. Non c’è macchina del tempo che tenga.
A dire la verità, non è che rimpianga proprio i Men in Black. È solo che sono diventato più indulgente, con i Men in Black. E ciò non va bene.
Il primo episodio, risalente addirittura al lontano 1997, non mi era piaciuto. Mi era sembrata una ruffianata pseudo fantascientifica pseudo simpatica buona giusta per lanciare la carriera dello pseudo attore pseudo rapper Will Smith.
Will Smith mi è sempre stato un po’ qui.
Qui dove, sulle palle? No, non esageriamo. Solo sullo stomaco. Willy il principe di Bel-Air era una serie davvero spassosa, però a far ridere erano soprattutto i personaggi di contorno, come il mitico Carlton o la Paris Hilton ante litteram e black Hilary Banks, mentre lui faceva troppo il figo e se la tirava già allora un casino. Come attore non l’ho mai retto, ma, se possibile, come rapper è persino peggio. Le sue rime sono roba che fanno passare Vanilla Ice per uno Shakespeare gangsta e a livello musicale sono la versione ultra-commerciale del vero hip-hop.
Adesso però non mi sta nemmeno così tanto sullo stomaco, o sulle palle. C’è gente in giro che fa di molto peggio, da quei ca**o di cantantucoli brasileiri come Michel Telò e Gusttavo Lima a robe come il Pulcino Pio. Non so se a cantare questa nuova vecchia fattoria 2.0 sia davvero un pulcino o chissà chi, però al confronto Will Smith appare ancora come un fenomeno.
Nostalgia canaglia.
Ti fa apparire meno terribili cose del passato che invece terribili lo erano eccome.
Men in Black 2 era ancora peggio del primo. Davvero una porcheria. Si salvava giusto una scena, quella del cane che abbaiava sulle note di “Who Let the Dogs Out” dei Baha Men. E sentendo il Pulcino Pio, si finisce per rimpiangere pure quell’agghiacciante canzone.
Nostalgia canaglia portami via.
"Ma 'sta roba sulla spalla non potevate metterla addosso
a Willy Smith? Quello non vede l'ora di fare il buffone..."
Men in Black 3 è costruito tutto sull’effetto nostalgia. Di una fantascienza molto anni ’90, con richiami diretti ai primi due episodi della serie e in particolare al primo. E pure alla fantascienza anni ’80, con evidenti e più che graditi richiami a Ritorno al futuro. E anche agli anni ’60, considerando come gran parte di questo episodio proprio lì sia ambientato. In questo episodio, il principe di Bel-Air viaggia infatti nel tempo, e senza l’aiuto di Delorean o coniglioni vari, per salvare la vita a un giovane Agente K. O meglio, a un non-giovane 29enne Agente K, interpretato con una azzeccata quanto ironica scelta dal 44enne Josh Brolin. Grande attore, sebbene qui monolitico come richiesto dal personaggio.
Sarà che con me il tema dei viaggi nel tempo funziona sempre come calamita attira attenzione (unica eccezione: La casa sul lago del tempo, davvero pessimo) e sarà che l’ambientazione 60s ha pur’essa sempre il suo fascino, sebbene i 60s ricreati nella pellicola non siano nemmeno paragonabili a quelli di Mad Men, eppure alla fine questo capitolo mi è sembrato più godibile rispetto ai primi due. Non dico mi sia piaciuto, però piaciucchiato sì.
Ci sono varie trovate carine, come l’Andy Warhol alieno, e c’è persino un tentativo, per quanto vago, di scherzare sul razzismo vigente all’epoca contro le persone di colore. E all’inizio fa pure la sua apparizione Nicole cognome impronunciabile Scherzinger, la cantante pussy delle Pussycat Dolls. Ho specificato che lei è la cantante perché le altre mica sono cantanti, sono ballerine, e a definirle ballerine e non spogliarelliste sono ancora stato gentile, e a definirle spogliarelliste e non escort sono stato ancora più gentile, e a definirle escort e non zoccole sono stato ancora ma ancora più gentile e a definirle zoccole e non…
Basta! La smetto.
C’è poi anche Michael Stuhlbarg, quello di Boardwalk Empire e di A Serious Man, qui simile al Robin Williams epoca La leggenda del re pescatore ma comunque piuttosto in parte, mentre non mi ha convinto il cattivone interpretato dal di solito divertente ma qui no Jemaine Clement, metà del duo Flight of the Conchords. Come cattivone è davvero poco credibile, persino come cattivone di una commedia.
Quanto alla regia, beh, è sempre quella che è. D’altra parte Barry Sonnenfeld è il regista di Wild Wild West, quindi non è che si possa pretendere molto di più.
"Guardate qui, cari lettori, e dimenticate che Cannibal abbia parlato bene di me!"
Alla fine è sempre tutta una questione di aspettative. Il cavaliere oscuro - Il ritorno mi sembra sia stato apprezzato di più da chi non aveva amato un granché i primi due capitoli della saga batmannolaniana e che quindi, non arrivando con enormi e insostenibili attese, è rimasta soddisfatta dal giocattolone. Chi invece sperava di non dover rimpiangere l’insostituibile Joker fatto vivere da Heath Ledger, è rimasto deluso.
Io da un terzo Men in Black non avevo alcuna aspettativa, nemmeno la più bassa, e quindi alla fine mi sono ritrovato con mia grande sorpresa a enjoyarmi, seppure moderatamente, lo spettacolo. Avrei continuato a vivere benissimo pure senza, a dirla tutta, però già che l’ho visto non mi è manco dispiaciuto.
Merito di Josh Brolin che come Tommy Lee Jones (non)giovane è più credibile di Tommy Lee Jones da vecchio e merito pure di Willy Smith che mi ha persino fatto ridere. Più di una volta. Non l’ho mai trovato divertente prima e ora sì? Proprio ora che è passato clamorosamente di moda? Sto davvero invecchiando.
Cast: Hailee Steinfield, Jeff Bridges, Matt Damon, Josh Brolin, Barry Pepper, Domhnall Gleeson, Elizabeth Marvel
Genere: western
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Attualmente nelle sale italiane
Trama semiseria
A una ragazzina di 14 anni hanno ucciso il padre e così lei, invece di andare a caccia di autografi di Billy the Kid (il Justin Bieber del Fast West), cerca di andare a pescare personalmente l’assassino. Non per ucciderlo tarantinianamente con le sue mani, ma per consegnarlo alla giustizia e farlo quindi uccidere dalla legge. Nonostante già di suo sia piuttosto cazzuta come 14enne poco bimbominkia, per poterlo fare ha però bisogno di una mano da parte di uno che abbia “vera grinta” e chi meglio di Jeff Bridges con tanto di parlata “southern"? Ce la farà allora la nostra giovane eroina a portarlo in tribunale o il criminale si farà una legge ad personam per evitare di andare a processo ed essere incastrato dalle solite storie inventate da una minorenne?
Recensione cannibale
Non si può certo dire che il western sia il mio genere, né tantomeno che i Coen Brothers siano tra i miei registi prediletti, quindi la mia percezione di questo film può risultare drasticamente differente da chi invece ha il poster dei due registi appeso in camera o da chi mastica western da lunga data (io personalmente l’unico West che conosco è Kanye).
Riguardo ai Coen il problema è che fondamentalmente non li capisco. Non parlo di capire a un livello superficiale la trama. Parlo di riuscire a entrare davvero nel cuore della loro opera che film dopo film compone un mosaico unico, per alcuni molto affascinante ma per me impenetrabile. C’è chi non riesce a entrare nel cinema di Lynch, o in quello di Tarantino, io non ci riesco con i Coen. Sarà una questione culturale, i loro film sono infatti pieni di riferimenti biblici (vedi la citazione in apertura del film) che entrano in un orecchio e mi escono dall’altro e il loro umorismo mi arriva (come quando la bambinetta commercia col tizio molto più anziano di lei), mi sfiora, mi può far sorridere ma non mi fa esclamare: “Geniale!” come alle battute di Tarantino o dei Misfits. Sarà una questione generazionale, visto che da Il grande Lebowski allo sconclusionato A Serious Man le loro pellicole sono innervate di un forte spirito hippie anni Sessanta che rispetto ma che non fa parte del mio DNA, frutto di una mutazione genetica post-yuppie ormai privata di qualsiasi valore. Sarà una questione cinematografica, visto che il loro è un modo di girare dal respiro molto classicheggiante, dalla puzza di vecchia America, da vecchio western che in questo film i due Coen hanno infine potuto esplorare esplicitamente e non sotto mentite spoglie, come successo in Non è un paese per vecchi. Sarà che i Coen sono bravini, ma non fanno per me. Un po’ come i White Stripes: si sono separati? Amen, vivo bene lo stesso.
Saranno tutte queste cose messe insieme.
Fatte tali premesse più o meno doverose, ho comunque trovato Il Grinta una pellicola piuttosto buona. La storia è raccontata quasi con i toni della favola western, più chiara e semplice rispetto alla gran parte dei film coeniani che mi sia capitato di vedere. Sì, i riferimenti alla Bibbia ci sono sempre (e daje) e la trama se vogliamo è un filo ruffiana, cosa che spiega l’enorme successo commerciale della pellicola negli Usa, in grado a sorpresa di far tornare in auge un genere che ha probabilmente avuto la sua ultima hit con l’ormai lontano Balla coi lupi (mio obiettivo giudizio personale: che menata di film!). Però in questo western c’è una grande rivelazione.
La giovane protagonista interpretata dalla sorprendente Hailee Steinfield è irresistibile nel suo essere una 14enne matura e spavalda in grado di mercanteggiare con grande astuzia insieme a persone molte più anziane di lei e persino di reggere testa a uno come Il grinta. Se nell’originale costui era John Wayne, nel remake/non-proprio-remake coeniano è per forza di cose il Drugo e ormai anche premio Oscar Jeff Bridges. La sua parlata del Sud è spettacolare e il film merita per questo di essere visto in inglese, anche perché non ho idea di come possa essere stata resa in italiano. Forse si saranno inventati qualche stratagemma assurdo tipo una parlata del Sud Italia con doppiaggio di Aldo Baglio, chissà?
Piuttosto assurda la scelta dell’Academy di nominare la Steinfield tra le non protagoniste e Jeff Bridges tra i protagonisti, visto che il personaggio principale del film è la ragazzina, però i meccanismi degli Oscar sono difficili da comprendere quasi quanto le votazioni di Sanremo, quindi meglio non farsi troppe domande al proposito.
Alla insolita coppia si unisce poi in questa caccia al criminale anche lo sceriffo repubblicano Matt Damon con tanto di capello leccato, non inguardabile come il Javier Bardem di Non è un paese per vecchi, ma certo che i Coen devono voler parecchio del male ai loro attori glamour per conciarli così.
Il grinta, la bambinetta molto adulta e lo sceriffo leccato cercano così di mettersi sulle tracce dell’assassino del padre della bambina, fino a che lo trovano ed è… non ve lo dico, però è un altro attore coeniano, per me il migliore del lotto.
La prima parte de Il Grinta è davvero molto accattivante, anche per gli anti-western come me, mentre la conclusione scivola tra una serie di duelli e di colponi di scena prevedibili, fino al più classico dei finali coeniani che può voler dir tutto, ma che (come già in A Serious Man o Non è un paese per vecchi) per me finisce solo a dire che il mondo è una sequenza casuale di fatti senza alcun senso e abbiamo praticamente buttato due ore a seguire una (bella) storia per niente.
Il tempo ci sfugge e a volte anche il senso delle cose.
(voto 6,5 ma aggiungete un punto se siete fan dei Coen e un altro se amate i western)
Scena cult: Jeff Bridges fa volare giù dalle scale un bambino con un calcio, senza alcuna ragione
Non giriamoci tanto intorno: Jonah Hex è una ciofeca di film. Dalla sua parte però ha due aspetti positivi: il primo è che dura poco, una roba tipo 1 ora e 10 minuti (e sono comunque già più che sufficienti per annoiarsi), il secondo è che c’è Megan Fox. Il film perdipiù è ambientato nel selvaggio vecchio West, quindi che parte le fai fare se non quella di una prostituta? Ma in questa pellicola c’è comunque troppa noia e troppa poca Megan, quindi nemmeno la sua presenza basta per consigliarne la visione. E con ciò penso di averla detta tutta sulla qualità di questa robetta qua.
Jonah Hex è tratto da un fumetto e in alcuni tratti il regista ce lo ricorda con qualche espediente grafico, anche perché è un animatore proveniente dalla Pixar. Non aspettatevi niente di esaltante nemmeno in questo ambito, comunque. La sceneggiatura è stata invece scritta dal mitico duo Neveldine & Taylor, i geniali autori dei due action “Crank” con Jason Statham, ma l’impressione è che l’abbiano realizzata in 10 minuti tra uno sbadiglio e l’altro giusto per incassare l’assegno dalla produzione e scappare a realizzare qualche cosa più figa.
Il protagonista Josh Brolin è uno degli attori cardine del cinema americano degli ultimi anni, vedi le sue interpretazioni in film come “Planet Terror”, “Wall Street 2”, “Non è un paese per vecchi” e ha persino reso quasi simpatico George W. Bush interpretandolo in “W.”. Per non dire della sua prima apparizione nei “Goonies”! Eppure qui col volto sfigurato al punto da parlare in maniera ridicola appare lui stesso ridicolo. Pure il resto del notevole cast (Malkovic, Shannon, Fassbender, Arnett) sembra del tutto spaesato da tanta pochezza.
Capisco allora il buon Josh Brolin abbia accettato “Jonah Hex” per fare un film potenzialmente rivolto al grande pubblico (ma invece è stato un mega floppone) e soprattutto per farsi Megan Fox in una scena, però adesso è ora per lui di ritornare al Cinema vero e dimenticare al più presto questa specie di “Wild Wild West” parte seconda. E poi basta film tratti dai fumetti: per uno “Scott Pilgrim” ci dobbiamo sorbire 100 di queste cine-stronzate…
(voto 3)
Vabbè, anche se non c'entra niente, Jonah mi ha fatto riaffiorare alla mente codesta canzone
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Non sono un fan di Woody Allen. Mi piace il suo sense of humor e trovo alcuni suoi film validi, tra gli ultimi soprattutto “Sogni e delitti” e “Vicky Cristina Barcelona”, mentre “Match Point” è una buona pellicola ma nonostante Scarlett mi sembra troooppo sopravvalutato. Nessuno dei suoi film ha comunque mai raggiunto il mio cuore.
Una delle ragioni per cui non sono suo fan è che preferisco i registi meno prolifici, quelli come Tarantino Kubrick Lynch, per non dire quelli come Terrence Malick che fanno un film ogni 100 anni, anche perché se fai un film all’anno è difficile che siano tutti capolavori. Clint Eastwood ci prova ad altissimi livelli ma nemmeno lui fa sempre centro pieno, pur andandoci clamorosamente vicino.
Un altro motivo è che non mi piacciono i gusti musicali di Woody: per ogni suo film sceglie queste musiche classiche o jazz o musica da ascensore da sbadiglio senza la minima sorpresa. E per me la soundtrack è un buon 50% di una pellicola.
Terzo motivo: i suoi film e i suoi personaggi, con giusto qualche variante (ultimamente la città), sono tutti uguali e io adoro invece chi sa rischiare, sbandare su territori imprevisti e magari anche sbagliare. Non a caso le sue pellicole che ho preferito sono quelle in cui ha cercato di prendere qualche strada di periferia diversa dal suo solito. E poi, ammettiamolo, con la macchina da presa non è certo un virtuoso.
“Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni”, solita deturpazione italica che fa perdere la bella ambivalenza del titolo originale “You Will Meet a Dark Tall Stranger” (che si può riferire a un uomo quanto alla morte), è invece il solito Woody con il pilota automatico. A differenza di molte altre sue pellicole però i dialoghi sono davvero poco ispirati, non si ride praticamente mai e allora meno male che gli attori sono davvero bravi e riescono a tenere acceso perlomeno un minimo di interesse su vicende sentimental-famigliari altrimenti trite e ritrite.
Naomi Watts è come al solito eccelsa, Josh Brolin si conferma uno dei migliori in circolazione (tranne quando fa “Jonah Hex”), Anthony Hopkins è in forma come non lo vedevo da parecchio, la “millionaire” Freida Pinto è una visione celestiale, mentre Lucy Punch è la classica prostituta alleniana, niente di più niente di meno, e si segnala più che altro per la fastidiosa voce del doppiaggio italiano (spero che la sua originale sia meno da tappi nelle orecchie). Bravo anche Banderas.
In mezzo a vicende e personaggi di scarso appeal, la cosa più irritante è però il finale: ok, Woody Allen vuole sottolinearci come la vita altro non sia altro che una successione di casualità ed eventi senza senso, il ché probabilmente è anche vero. Il cinema, così come la letteratura o l’arte in genere, dovrebbe però aiutarci a dare un minimo di spiegazione, o perlomeno un punto di vista sulle vicende che racconta, altrimenti che differenza c’è tra un film come questo e un reality-show che si limita a filmare la vita e basta? La differenza è il livello di recitazione altissimo, certo, e il fatto che i personaggi sono culturalmente più elevati del tamarro da Grande Fratello medio. E il rischio è anche quello di sembrare la puntata pilota di una serie tv che non verrà mai girata perché a nessuno interessa seguire gli sviluppi futuri di questi personaggi volutamente sospesi e incompleti.
La sensazione quindi è che a questo giro Woody Allen abbia fatto un film tanto per fare, come se fosse obbligato per contratto a fare il suo cinepanettone per intellettuali annuale. È ancora bravo a raccontare, Woody, solo che sembra rimasto senza niente da dire.
Cast: Shia LaBeouf, Michael Douglas, Carey Mulligan, Josh Brolin, Frank Langella, Vanessa Ferlito, Susan Sarandon, Eli Wallach, Oliver Stone, Charlie Sheen
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Siete nella cacca. Ancora non ve ne rendete conto, ma siete la generazione dei 3 niente: niente lavoro, niente stipendio, niente risorse. Davvero un gran bel futuro.
Money never sleeps. Il denaro non dorme mai. Parte con uno slogan in stile horror alla The Ring (anche Samara non dorme mai!) il sequel di Wall Street. Se quel film riusciva a rendere una fotografia vivida gli scintillanti superficiali anni 80 in tutte le loro contraddizioni, questo ritorno al futuro prova a fare lo stesso con la crisi economica attuale.
Gordon Gekko is back. Dopo 8 anni di galera è un uomo libero. Lo so che in Italia può sembrare una cosa fantascientifica, ma Gekko per le sue porcate da broker finanziario disonesto e per le sue frodi fiscali è finito sotto processo e persino in galera. Da noi sarebbe un film sci-fi.
Quando esce di gattabuia con ciò che aveva lasciato all’ingresso, telefonino preistorico compreso, ad attenderlo all’uscita non c’è nessuno, mentre una limousine arriva a prendere un gangsta-rapper rilasciato. Fin dalle prime inquadrature capiamo quindi che i tempi sono cambiati, il mondo è cambiato da quegli anni 80 che dominava. Ma Gordon Gekko e quelli come lui sono davvero cambiati? Dalla recente crisi finanziaria potete dedurre facilmente che la risposta è no. Anzi, sono proprio questi squali dell’economia la principale (seppure non unica) causa scatenante di tutta la merda che dobbiamo subire oggi.
Gekko per molti aspetti sembra Berlusconi: egocentrico, ambizioso, avido. Disonesto. Con la differenza che Gekko non è sceso in campo in politica per evitare il carcere. E il carcere l’ha cambiato, almeno in parte. Almeno un po’. Forse.
Questa volta Gekko fa team con il novello Charlie Sheen Shia LaBeouf, un broker che sta per sposare la figlia proprio di Gordon che ha le splendide fattezze di Carey Mulligan, dopo l’educazione sentimentale di An Education ormai pronta per il grande passo.
Tra i difetti della pellicola possiamo annovererare una leggera verbosità, qualche minuto di lunghezza di troppo (come in qualunque film di Oliver Stone che si rispetti) e un finale un po’ così, non del tutto convincente. Però Wall Street – Il denaro non dorme mai è un film di una grandezza esagerata, rappresentato con una classe d’altri tempi eppure in grado di raccontare alla perfezione la società e l’economia di oggi; un raro caso di sequel necessario, giunto con la sceneggiatura giusta al momento giusto che non fa assolutamente rimpiangere l'originale.
La regia di Stone si concede varie finezze, con un montaggio superlativo, un’ottima colonna sonora firmata soprattutto David Byrne & Brian Eno e un cast eccellente (forse il migliore quest'anno dopo Inception). Shia LaBeouf non sarà un attore fenomenale, però è un mio idolo personale e con il look leccato da broker sembra perfettamente a suo agio. Su Carey Mulligan non posso essere imparziale perché penso di amarla, lei e quel suo faccino triste anche quando ride. Josh Brolin è un gigante come al solito e c’è una particina per Vanessa Ferlito, la bomba sexy del tarantiniano Grindhouse – A prova di morte (quella che ballava la lap-dance, per intenderci). Immancabile e simpatico poi un piccolo cameo per Charlie Sheen e comparsata davanti alla cinepresa pure per Oliver Stone.
È ancora lui l’uomo che, con film come Natural Born Killers o il sottovalutato W. su George W. Bush, sa raccontare la società americana (e non solo quella) meglio di chiunque altro. Che anche lui non dorma mai?
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