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sabato 7 marzo 2020

Le recensioni ai tempi del Coronavirus





Incontro gente per strada (a dire il vero non molta) che, rigorosamente ad almeno un metro di distanza, mi chiede sconvolta: “Ma non hai ancora fatto un post con 'ai tempi del Coronovirus' nel titolo?”. Del tipo: “La vita ai tempi del Coronavirus”, “L'amore ai tempi del Coronavirus”, “Il cinema ai tempi del Coronavirus”, o “Gli altri poveri virus indifesi che nessuno più si caga ai tempi del Coronavirus”. Non l'avevo ancora fatto perché ormai l'avevano già fatto tutti. Siti, blog, riviste, telegiornali, giornali. Libero mi pare sia uscito con un titolo tipo: “Come scaricare la colpa agli immigrati ai tempi del Coronavirus”, o qualcosa del genere.

Non l'avevo ancora fatto. Finora. Anche perché non avevo ancora avuto un'idea decente. Ora credo di aver trovato il titolo giusto per questo blog, che occupandosi principalmente di recensioni era piuttosto scontato, ce l'avevo lì sotto gli occhi, solo che non riuscivo a vederlo: “Le recensioni ai tempi del Coronovirus”.


Contagion
Regia: Steven Soderbergh
Cast: Marion Cotillard, Matt Damon, Jude Law, Laurence Fishburne, Gwyneth Paltrow, Kate Winslet, Bryan Cranston

Questo film col cavolo che lo vedo, in questo preciso momento storico. Col cavolo no, abbracciato a un'Amuchina però magari sì.

In realtà, andando a spulciare tra le mie vecchie recensioni, mi sono ricordato che Contagion l'avevo già visto poco dopo la sua uscita. Eravamo a cavallo tra il 2011 e il 2012. Altri tempi. Allora i film venivano ancora distribuiti regolarmente nei cinema e la gente si sedeva vicina per vederli. C'era persino chi limonava al cinema. Adesso credo ci sia la galera per chi prova a fare una cosa del genere. L'altro giorno comunque ho visto per strada due ragazzini che si baciavano. Così, come se niente fosse. Pazzi! Incoscienti! Qualcuno dirà che l'amore è più forte della paura del contagio. Io direi al massimo che l'ormone è più forte della paura del contagio. C'è chi sostiene che, con l'arrivo della bella stagione, il virus sparirà o se non altro ridurrà la sua portata. Io non ne sarei così sicuro. Con la bella stagione l'ormone impazzisce ancora di più e diminuire i contatti fisici potrebbe essere ancora più difficile.

Tornando a Contagion, il film, non solo lo avevo già visto, ma lo avevo pure già stroncato. Come voto gli avevo affibbiato un 5 su 10. La recensione completa ho paura ad andare a rileggerla. Temo di aver scritto delle cose tipo: “È un film del tutto irrealistico” o “Figuriamoci se nel mondo potrà mai capitare una cosa simile”. Quindi preferisco non rileggerla. Che poi negli ultimi tempi ho paura un po' di tutto. Lo ammetto. Non faccio parte di quel gruppo di (presunti) temerari che dice: “Virus, non ti temo”. Che è simile a quanto facevano alcuni dopo l'11 settembre 2001, quelli che dicevano: “Terroristi, non vi temo”. In entrambe le occasioni, nella maggior parte dei casi, si trattava di una bugia. Avere paura è normale. È umano. La differenza è che in quel caso almeno si rivolgevano a degli esseri umani. Adesso invece si rivolgono a un virus. Non sono un virologo, ma credo che i virus non ti possano dare ascolto. Credo. Se ho detto una cosa sbagliata, Burioni è il benvenuto a darmi una secca smentita. Sebbene ho il sospetto che in questo periodo abbia questioni più importanti di cui occuparsi che non replicare alle cacchiate di Pensieri Cannibali.

In conclusione di questa recensione, o meglio non-recensione ai tempi del Coronavirus, ribadisco: se c'è un film che al momento non (ri)vedrei proprio è questo. Nonostante la presenza di Marion Cotillard.

"Cannibal Kid si rifiuta di rivedere un film in cui ci sono io?
La situazione allora è davvero preoccupante."


L'esercito delle 12 scimmie
Regia: Terry Gilliam
Cast: Bruce Willis, Brad Pitt, Madeleine Stowe, Christopher Plummer, Christopher Meloni, LisaGay Hamilton, David Morse


Anni prima di Contagion, nel 1995, c'era stato un altro film che parlava di un pericoloso virus che metteva in ginocchio l'umanità: L'esercito delle 12 scimmie. A sua volta la pellicola di Terry Gilliam era ispirata a un cortometraggio francese del 1962. Probabilmente prima ancora ci sono stati altri film, così come libri, che hanno affrontato il tema. In giro negli ultimi giorni trovate su molti siti guide al riguardo. Non credo sia così importante stabilire quale sia il “paziente zero” cinematografico sull'argomento. Magari anche in questo caso si scopre che è un tedesco. Per quanto mi riguarda, L'esercito delle 12 scimmie è il film più bello sul tema, almeno tra quelli che ho visto. Se tra un'edizione del TG e l'altra volete “distrarvi” con la visione di una pellicola che parla di contagio, questo è quindi il titolo che vi consiglio. Io invece passo. Ora non ce la faccio a rivederlo. Questo nonostante sia uno dei miei film preferiti, uno di quelli a cui sono legato di più in assoluto. E pensare che la prima volta che l'ho visto non è che mi fosse piaciuto un granché, anche perché non c'avevo capito un granché. Avevo 13 anni, ero andato al cinema a vederlo e per gran parte della visione avevo fatto lo scemo insieme agli amichetti, anziché prestare attenzione. Se potessi tornare indietro nel tempo come fa il protagonista della pellicola, mi prenderei a schiaffi da solo.

Ho poi rivisto il film qualche anno più tardi in VHS, quando ero un po' più maturo (ma non tanto) e un po' meno scemo (ma giusto pochissimo meno) e l'ho amato. Una visione che oscilla tra sogno e incubo, che mette dentro una vicenda apocalittica, viaggi nel tempo e gruppi ecologisti. A qualcuno potrà sembrare un pasticcio, a me è sembrato un capolavoro. Con un Bruce Willis che è riuscito a farmi commuovere e con un Brad Pitt che mi ha convinto come non mai. Per me l'Oscar l'avrebbe meritato più per questo film, per cui ottenne la sua prima nomination, che non per C'era una volta a... Hollywood. Non fraintendetemi. Sono contento che l'abbia vinto per un lavoro diretto da Quentin Tarantino, però la sua performance più incredibile per me rimane questa. Senza dimenticare poi pure Tyler Durden di Fight Club, ma questa è un'altra apocalittica storia.


In conclusione di quest'altra pseudo recensione ai tempi del Coronavirus, il mio consiglio è quello di evitare in questi strani giorni la visione di pellicole sul contagio. Se però proprio volete vederne una, L'esercito delle 12 scimmie secondo me è la migliore.




domenica 8 settembre 2019

Venezia 76: ride bene... chi ride come il Joker





C'è un detto che dice che si deve scrivere di ciò che si conosce. Non tutti però la pensano a questo modo. Il premio Nobel per la letteratura 2017 Kazuo Ishiguro ad esempio non è dello stesso avviso: "'Scrivi di quel che sai' è il consiglio più stupido che abbia mai sentito. Incoraggia le persone a scrivere ottuse autobiografie. È il contrario dell’accendere l’immaginazione e il potenziale degli scrittori".

Lo spirito di questo post è appunto più vicino a quest'ultima presa di posizione. Io alla 76ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia non ci sono stato, eppure ne scrivo lo stesso. Ecco il resoconto, abbastanza alla cieca e basato unicamente su ciò che ho sentito da chilometri di distanza dalla Laguna, di Venezia 76 fatto da Pensieri Cannibali.

Il verdetto della giuria capitanata da Lucrecia Martel è stato piuttosto sorprendente. A vincere non è stato qualche oscuro film in b/n taiwanese o assiro-babilonese della durata di 5 ore, bensì... Joker.


lunedì 17 giugno 2019

Bona Vox





La vita delle popstar è molto dura. Che cazzo ridete? Dico sul serio. Non ci sono più le rockstar de 'na vorta e a fare le loro veci, e le loro voci, ci pensano adesso gli artisti di musica trap, sul versante di sesso, droga e casini con la giustizia, e appunto le stelle della musica pop. Sul versante della depressione, cantanti come Demi Lovato, Justin Bieber e Selena Gomez con i loro problemi hanno preso il posto di Kurt Cobain e di diversi altri rappresentanti del periodo d'oro del grunge anni '90. Anche se mi auguro che la loro storia abbia un finale differente.

A mostrarci che l'esistenza delle popstar non è tutta rose e fiori, o sole cuore e amore e selfie su Instagram, e che non è facile stare sempre, spesso fin dalla più tenera età, sotto i riflettori, negli ultimi tempi ci hanno pensato il film Vox Lux e il terzo episodio dell'ultima (criticatissima) stagione di Black Mirror.


Vox Lux
Regia: Brady Corbet
Cast: Natalie Portman, Raffey Cassidy, Stacy Martin, Jude Law, Christopher Abbott

giovedì 7 marzo 2019

Io non sto con il capitano Salvini, io sto con la capitana Brie Larson





La capitana della Marvel riuscirà a conquistare il box office italiano?
Ma soprattutto, chi è l'ospite di questa settimana delle rubrica dedicata alle uscite in sala?

Ovviamente si tratta di una donna, un po' perché con l'arrivo di Captain Marvel questa settimana al cinema vige il Girl Power, un po' perché domani è l'8 marzo, ma più che altro per caso. La ospite in questione è Maruzza, blogger e fotografa del blog fotografico L'angolo di Via Parata. Via ai suoi commenti, accompagnati come al solito da quelli del sottoscritto Cannibal Kid e da quelli del mio detestabile blogger nemico Mr. James Ford.


Intro di Maruzza: Ringrazio tantissimo Cannibal per l'invito inaspettato. È un po' come mettere piede dentro Casa Vianello, un onore. Eh no, non dirò mai chi tra Ford e Cannibal sia Sandra o Raimondo. Telefonate a Calcutta.


Captain Marvel
"Ma chi diavolo è il capitano Salvini?"

venerdì 16 dicembre 2016

Men of the Year 2016 – La top 10 di Pensieri Cannibali







C'è una cosa che tutto il mondo si stava chiedendo in questi giorni.
Dopo essere stato eletto Presidente degli Stati Uniti e scelto come Person of the Year dal prestigioso Time magazine, Donald Trump sarebbe comparso anche nella classifica dei Men of the Year 2016 di Pensieri Cannibali?
La risposta al quesito che stava tenendo milioni, forse miliardi di persone con il fiato sospeso è...

Assolutamente no, fanculo Trump!

Nell'elenco degli uomini dell'anno di Pensieri Cannibali comunque i nomi discussi e discutibili non mancano. Scoprite chi è riuscito a finire nella lista, subito dopo aver ricordato i vincitori delle annate passate.

2015 Jon Hamm


Men of the Year 2016 - La Top 10 di Pensieri Cannibali


lunedì 21 novembre 2016

The Young Pope - Il Papa bono che di nome fa Giuda





The Young Pope
(serie tv, stagione 1)
Rete italiana: Sky Atlantic
Rete Usa: HBO
Creata da: Paolo Sorrentino
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiature: Paolo Sorrentino, Stefano Rulli, Tony Grisoni, Umberto Contarelli
Cast: Jude Law, Silvio Orlando, Diane Keaton, Scott Shepherd, Ludivine Sagnier, Cécile de France, James Cromwell, Javier Cámara, Ignazio Oliva, Stefano Accorsi
Genere: divino
Se ti piace guarda anche: Habemus Papam, The Royals, The Crown, House of Cards


Fratelli e sorelle, buongiorno!

L'omelia di oggi affronterà un tema diverso dai soliti.
Immigrati, guerra, poveri... quelli sono argomenti che, secondo le ultime rilevazioni Auditel, fanno abbassare lo share. Non tirano più. Per forza poi che la domenica Barbara D'Urso fa registrare ascolti più alti dei nostri.
Oggi parleremo allora di un tema che nelle ultime settimane sta facendo discutere parecchio il mondo della Chiesa, e non solo.
L'omosessualità?
I transgender?
Lo squirting?

No, cari fratelli e sorelle. Di queste cose parleremo magari nelle prossime puntate... intendevo dire nelle prossime omelie, quindi stay tuned!
Oggi vi voglio parlare invece di una nuova serie tv, The Young Pope. Una serie che tratta di me, il Papa.
Oddio... e scusa se invoco il tuo nome invano, però come si dice qua a Roma, quanno ce vo', ce vo'.


martedì 21 luglio 2015

Sei una spiona, sei una spiona!





Spy
(USA 2015)
Regia: Paul Feig
Sceneggiatura: Paul Feig
Cast: Melissa McCarthy, Jude Law, Jason Statham, Rose Byrne, Peter Serafinowicz, Miranda Hart, Allison Janney, Morena Baccarin, Bobby Cannavale, Zach Woods, 50 Cent
Genere: spione
Se ti piace guarda anche: Kingsman - Secret Service, Austin Powers, Barely Lethal, Corpi da reato

Avete presente Morpheus di Matrix?
Sì, dai, quello ciccion... ehm, sovrappeso. Quello che fornisce le indicazioni al protagonista Neo a distanza, come se vedesse e sapesso tutto?
Ecco. Melissa McCarthy in Spy ha lo stesso compito. Dà indicazioni a distanza all'agente segreto Jude Law, una specie di versione ancora più figa di James Bond. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché non è stato preso Jude Law per fare 007 anziché l'inespressivo Daniel Craig?
Probabilmente perché James Bond DEVE essere inespressivo per contratto.

lunedì 9 giugno 2014

GRAND BUDAPEST MATRIOSKA




Correva l’anno 2014. Sì, lo ricordo bene. Era appena uscito il mio ultimo film, Grand Budapest Hotel. Ne ero molto fiero perché rappresentava bene tutto il mio cinema, il mio intero stile racchiuso in un’opera sola. Con un po’ di timore, all’epoca andai a cercare alcuni commenti in rete. Tra di essi ve n’erano molti positivi, alcuni entusiastici, ma ce n’era uno che mi lasciò piuttosto perplesso. Il sito lo ricordo perché aveva un nome molto particolare, si chiamava Pensieri Cannibali. Cannibal Thoughts. WTF? All’epoca uscivo con una studentessa universitaria italiana e, per migliorare la mia conoscenza della lingua, cercavo recensioni delle mie pellicole scritte in quello strano idioma. Non capivo ogni singola parola, però comprendevo il senso generale. Nella sua recensione l’autore del blog, un certo Cannibal Kid, apprezzava il mio Grand Budapest Hotel, ma allo stesso tempo lo considerava un lavoro incompiuto. Ricordo che commentai il post scrivendo: “Non dire stronzate, ragazzo cannibale. Questo è il mio film più bellissimo!”.
Lui rispose: “Ma impara l’italiano, Wes Anderson!”
E io contro ribattei dicendo: “Un giorno lo farò, stronzetto, un giorno lo farò!”
In quel periodo mi trasferii in Italia, cominciai a girare lì i miei film, abbandonai i miei soliti affezionati attori feticcio come Bill Murray, Adrien Brody, Tilda Swinton, Jason Schwartzman, Owen Wilson e gli altri e scoprii nuovi straordinari attori locali come Gabriel Garko, Francesco Arca, Elisabetta Canalis. Mi misi anche a collaborare con grandi intellettuali italiani come i fratelli Vanzina ma, chissà perché, da allora la critica internazionale mi voltò le spalle. Tutti, tranne Cannibal Kid. Dopo quel nostro acceso primo scontro verbale, diventammo grandi amici e lo siamo tutt'ora. Adesso allora mi è venuta la curiosità di andare a recuperare la sua vecchia recensione su Pensieri Cannibali del mio Grand Budapest Hotel. Chissà, magari non aveva poi tutti i torti...

Grand Budapest Hotel
(USA, Germania 2014)
Titolo originale: The Grand Budapest Hotel
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson
Ispirato ai lavori di: Stefan Zweig
Cast: Ralph Fiennes, Tony Revolori, Saoirse Ronan, Tom Wilkinson, Jude Law, F. Murray Abraham, Adrien Brody, Willem Dafoe, Mathieu Amalric, Tilda Swinton, Harvey Keitel, Jeff Goldblum, Léa Seydoux, Jason Schwartzman, Owen Wilson, Bob Balaman, Fisher Stevens, Giselda Volodi
Genere: wesandersoniano
Se ti piace guarda anche: Fantastic Mr. Fox, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, I Tenenbaum

Grand figlio di buona donna, Wes Anderson. I suoi film sono sempre dei dolcetti deliziosi, ma dal gusto spesso dolceamaro. Dei dolcetti che vanno scartati con cura, come nel caso di Grand Budapest Hotel, un film stratificato, costruito con una cura mostruosa, con un’attenzione a ogni più piccolo dettaglio pazzesca. Riguardo a quest’ultima pellicola, ho sentito soprattutto due tipi di pareri: i primi sono quelli degli hipster del tutto esaltati come questa.


E poi ci sono quelli più tiepidi, che parlano invece di sterile esercizio di stile. A me le vie di mezzo non piacciono, però per una volta devo schierarmi nel partito dei dannati moderati. La verità, almeno in questo caso, forse sta davvero nel mezzo.
Da una parte, Grand Budapest Hotel è un film diretto alla grande. Wes Anderson raggiunge qui una fluidità di movimenti della macchina da presa, e anche della narrazione, come mai prima d’ora. A livello estetico, il soggiorno in questo hotel è davvero un piacere per gli occhi. Un incanto continuo, ricco di trovate registiche come l'alternarsi del formato in 16:9 con quello in 4:3. Anche in quanto a sceneggiatura, Wes Anderson tira fuori dei lampi di genio, delle chicche notevoli, dei momenti spassosi. Grand Budapest Hotel è un inno alla narrazione, a partire dalla sua struttura a scatole cinesi, ma vista l’ambientazione esteuropea è meglio dire in stile matrioska, di racconto nel racconto nel racconto nel racconto.

Dall’altra parte Grand Budapest Hotel è un film volutamente monco, diviso in 5 capitoli che sarebbero dovuti essere 6. Manca quello dedicato ad Agatha, il personaggio di Saoirse Ronan. Il narratore, il Lobby Boy dell'hotel ormai cresciuto, decide di troncare quasi del tutto quella parte del racconto, una pagina ancora troppo dolorosa della sua vita. Si ha così la sensazione che manchi qualcosa, qualcosa di fondamentale, che sarebbe stato capace di trasformare la pellicola da splendida esperienza estetica, a visione anche davvero emozionante. Grand Budapest Hotel è un film matrioska che rivela poco a poco i suoi strati, ma alla fine decide di non mostrarci l’ultimo. Il cuore.

Grazie al suo senso dell’umorismo particolare, e qui più incisivo e nero del solito, Wes Anderson ci regala un’ottima macchina da intrattenimento a metà strada tra commedia e thriller. L’impressione è però quella di un film che parla più al cervello che al cuore. Impressione confermata dai molti riferimenti più o meno ricercati, dalle comedy slapstick de ‘na vorta al cinema muto, dalle vaghe implicazioni politiche fino alla dedica finale a Stefan Zweig, come viene ben spiegato in questo post del blog La balena bianca:

A sciogliere i nostri dubbi, ecco che giunge la dedica finale: a Stefan Zweig.
Tutto all’improvviso si fa chiaro, semplice, quasi commovente. Un’opera così cesellata, dalla finezza e dalle atmosfere mitteleuropee, non poteva che rifarsi a questo romanziere di inizio novecento, troppo rapidamente dimenticato dopo la sua tragica morte. Caso eccezionale quello dello scrittore austriaco, autore prolifico e dal successo mondiale (le sue opere vennero tradotte in cinquanta lingue), egli può essere considerato il primo autore di bestseller dell’età contemporanea, le avventure da lui descritte spaziavano dai viaggi in terre esotiche ai drammi più sottilmente psicologici, e i suoi protagonisti, come ci ricorda Silvia Montis nell’introduzione a una delle sue raccolte, erano “eroi involontari a confronto con un interrogativo epocale, sui quali si è abbattuto il pesante sigillo della Storia”, proprio come i due protagonisti di Grand Budapest Hotel, semplici inservienti nella bufera dei mutamenti geopolitici. Ma la vicinanza di Anderson allo scrittore austriaco è ben più profonda, di natura stilistica; assistiamo infatti a un evento sensazionale: la traduzione perfetta di un linguaggio letterario nel suo omologo cinematografico. Perché se i film di Anderson appaiono come giochi dal meccanismo perfetto, essenziali e impreziositi dalla cura del dettaglio, sempre la Montis ci ricorda che Zweig era “un cultore della rinuncia, dell’editing a levare anziché a irrobustire, del dettaglio fatale nascosto in un umile aggettivo anziché esplorato in un passaggio auto compiaciuto. Distillava, tagliava, asciugava: il movimento era sempre mirato. Il racconto, un congegno a orologeria”.
Wes Anderson, dunque, con questa dedica, svela molto più di quanto si possa pensare. L’opera di Zweig non è una semplice ispirazione, ma un modello di poetica e di intenti, quasi il regista americano volesse seguire persino la stessa sorte dell’autore austriaco, spazzato via dalla storia della letteratura contemporanea, colpevole di intransigenza formale.

Quanto a me, come detto sto nel mezzo. Lunga da me accusare Wes Anderson di intransigenza formale, devo ammettere che nel caso di Grand Budapest Hotel è la forma ad avermi colpito di più rispetto ai contenuti. Sarà perché io in generale sono un fan della forma (e soprattutto delle forme).
Nonostante qualche lampo di umanità, i personaggi che popolano il Grand Budapest Hotel e i suoi dintorni non riescono a trasformarsi del tutto in persone in carne e ossa, come invece capitava nel precedente stupendo e quello sì davvero toccante film del regista Moonrise Kingdom. Ma probabilmente è solo colpa mia. Avrei voluto meno Ralph Fiennes, attore che continuo a non sopportare, e più Saoirse Ronan! È quasi come se Wes Anderson in fase di montaggio avesse fatto il Terrence Malick della situazione e avesse sforbiciato di brutto il suo personaggio. Quello che avrebbe potuto regalare più emozioni a un film che invece resta una visione molto da Est Europa. Un’affascinante quanto fredda matrioska.
(voto 7,5/10)

Questo era quanto diceva Cannibal Kid su Pensieri Cannibali nell’ormai lontano 2014. Ora che parlo perfettamente l’italiano, ho capito fino in fondo l’intero contenuto del post. La mia impressione rispetto ad allora però non è cambiata e la ribadisco ancora una volta: “Non dire stronzate, ragazzo cannibale. Questo è il mio film più bellissimo!”.
Wes Anderson

mercoledì 16 aprile 2014

DOM HEMINGWAY, LO SCAZZINATORE




Dom Hemingway
(UK 2013)
Regia: Richard Shepard
Sceneggiatura: Richard Shepard
Cast: Jude Law, Richard E. Grant, Demian Bichir, Madalina Diana Ghenea, Kerry Condon, Emilia Clarke, Nathan Stewart-Jarrett, Jordan A. Nash
Genere: criminale
Se ti piace guarda anche: Il lercio, In Bruges, Uomini di parola

A Dom Hemingway piace il cazzo. Lo adora. Il suo, non quello degli altri. A Dom Hemingway piace anche scassinare casseforti. È un Dio nel farlo. È il suo talento. L’altro suo talento, se così vogliamo chiamarlo, è la sfiga. È perseguitato dalla sfiga. A Dom Hemingway non ne va bene una. Perché? Perché sarà anche un criminale scassinatore egocentrico, però in fondo è un buono. E ai buoni le cose non girano mai bene. Così Dom passa 12 anni in galera. Perché? Perché non è una spia. Avrebbe potuto patteggiare e avere uno sconto di pena, ma non è una spia e così si è fatto 12 anni di galera. Dom Hemingway è un po’ il Solomon Northup dei carcerati. Oddio, a parte i 12 anni di prigionia, non hanno granché in comune. Diciamo niente.

Dopo tutti questi anni in gattabuia, Dom esce. Un po’ come Al Pacino in Uomini di parola. Ecco, il paragone è già più calzante, rispetto a quello con 12 anni schiavo. La differenza è che Dom Hemingway quando torna in libertà è più giovane rispetto al vecchio Al che di anni in prigione se n’era fatti 28, eppure alcune cose sono comunque cambiate anche per lui in tutto questo tempo. Ad esempio, dentro i pub e i locali non si può più fumare. Che, per carità, è anche una cosa positiva perché prima c’avevano sempre un’aria irrespirabile, però se uno ci pensa è una cosa assurda. Non lo so, tra un po’ nei locali vieteranno persino gli alcolici e la cosa all’inizio apparirà strana, ma poi tutti ci faranno l’abitudine e, va bene la salute, però è una merda vivere in una società così politically correct. Come le serie “storiche” della HBO e delle altre reti via cavo americane ci insegnao, una volta era tutto un fiorire di bordelli, di posti in cui si poteva scopare, bere e drogarsi in santa pace e adesso è tutto un divieto. È questo ciò che l’uomo chiama progresso?

Una volta ripresa confidenza con il mondo “libero”, se un mondo in cui non si può fumare in un fumoso locale può essere considerato libero, Dom Hemingway cerca di riscattare ciò che gli spetta per aver tenuto la bocca cucita ed essersi fatto 12 anni schiav… pardon, carcerato. “Voglio ciò che mi spetta lo voglio perché mio m’aspetta” mi immagino Dom canticchiare alla Giovanni Lindo Ferretti. In realtà i CSI non sono presenti in colonna sonora, anche perché questo è un film britannico e nel Regno Unito il Consorzio Suonatori Indipendenti manco sanno cos’è. Non ci sono i CSI, però la soundtrack del film è una bella storia. Un’autentica bomba che sfoggia perle di Primal Scream, Motorhead e Pixies (quelli fighi di una volta, non quelli spenti di oggi). Il momento musicale che rimane più impresso è però “Fisherman’s Blues” dei Waterboys, una delle canzoni più belle di tutti i tempi, in questo film interpretata da Emilia Clarke.


"Anche se adesso ho questo look da barbona, non deridetemi.
Sono pur sempre la madre dei draghi!
Ebbene sì, miei cari fan di Game of Thrones in ascolto. Dopo averla vista anche in Spike Island, la Khaleesi in questo film non gioca con i draghetti, bensì è la figlia di Dom Hemingway. Dom Hemingway ve l’ho presentato qui sopra. È un idolo. Un fenomeno. Uno spasso totale. Se non ce l’hai per padre. Se ce l’hai per padre, è una vera merda. Potete quindi capire come Emilia Clarke non impazzisca per lui. Ma questo non è un suo problema. Non è un problema suo, né dei suoi draghetti. Il problema è di Dom Hemingway che, oltre a volersi prendere ciò che gli spetta a livello economico, dopo 12 anni in cella dovrà anche cercare di riallacciare i rapporti con la figlia Khaleesi, anzi no, adesso dobbiamo chiamarla Fhyga… volevo dire Mhysa. Miei cari fan di Game of Thrones in ascolto, vi devo però dare anche una brutta notizia. Emilia Clarke in questo film compare giusto per pochi minuti. Il solo e unico grande protagonista della pellicola è infatti lui, Dom Hemingway, interpretato da un Jude Law scatenato come non mai. Jude Law attore che ho sempre apprezzato molto e che negli ultimi tempi si era specializzato nel tratteggiare in maniera sottile personaggi minori, un po’ sotto tono, come in Closer, Anna Karenina, Effetti collaterali, Contagion o pure il Watson di Sherlock Holmes versione Robert Downey Jr., e invece questa volta è lui a interpretare un personaggio costantemente sopra le righe. Un idolo. Un fenomeno. Uno spasso totale. Un personaggio da amare alla follia. Se non ce l’hai per padre.
(voto 7+/10)

 

sabato 29 giugno 2013

PASSIONI (NON DI CRISTO) E DESIDERI (NON DI ALADINO)


"Che schifo, sono a letto con Rachel Weisz..."
"Che schifo, sono a letto con Jude Law..."
Passioni e desideri
(UK, Austria, Francia, Brasile 2011)
Titolo originale: 360
Regia: Fernando Meirelles
Sceneggiatura: Peter Morgan
Cast: Jude Law, Rachel Weisz, Anthony Hopkins, Ben Foster, Lucia Siposová, Gabriela Marcinkova, Jamel Debbouze, Moritz Bleibtreu, Marianne Jean-Baptiste, Maria Flor, Dinara Drukarova, Vladimir Vdovichenko, Mark Ivanir
Se ti piace guarda anche: Babel, Hereafter, City of God, Amores Perros

La vita è tante cose. A volte è una cosa meravigliosa, altre una merda. A volte è bella, come dice Roberto Benigni, altre ‘na strunzata, come dice Tony Servillo. Secondo alcune teorie, la vita è come un cerchio. Quello che fai, sia di buono che di cattivo, prima o poi ti torna indietro, in un modo o nell’altro. What goes around… come around. Tutto ruota di 360°, come suggerisce il titolo originale di questa pellicola, ribattezzata in Italia con un banale quanto anonimo Passioni e desideri. Chissà se anche il male che fanno ai film i titolisti italiani presto o tardi tornerà loro indietro?
È tutta una questione di karma, e io a queste stronzate ci credo pure. Il problema è quando ci si costruisce sopra un film, come l’agghiacciante Cloud Atlas, o una serie tv, come la pessima Touch. Quando si cerca di trovare una interconnessione a tutto, quando si cerca di trovare un senso all’intrecciarsi della vita di persone che vivono a parecchia distanza tra loro, ecco che lì si rischia di fare un patatrac. Le storie corali, ebbene sì, sono una delle cose più difficili da gestire e orchestrare al mondo. Come se la sarà cavata il brasiliano Fernando Mereilles, il regista del notevole City of God?

"Ferma Mads Mikkelsen, come Hannibal non vale niente!"
Il Mereilles evita il disastro, ma allo stesso tempo non riesce a convincere in pieno. In confronto a Cloud Atlas, questo Passioni e desideri è un capolavoro. Okay, non c’andava tanto. In confronto a pellicole ben più riuscite come Magnolia o Babel, invece, non vale nulla. Sta nel mezzo. Si lascia guardare, suscita un paio di riflessioni, ha qualche singolo momento non malvagio, eppure non riesce a dire niente di nuovo, né a livello cinematografico né esistenziale. È un esercizio di scrittura che riesce a tenere incollate insieme una serie di storie e di personaggi differenti, e lo fa in maniera accettabile, senza mai risultare troppo indigesto. Cosa non da poco. Alla fine non riesce però a chiudere il cerchio. O meglio, lo chiude alla buona, senza proporre una visione d’insieme che rimanga davvero impressa, un po’ come capitava già a un altro film corale sceneggiato da Peter Morgan, lo shyamalaniano Hereafter di Clint Eastwood.

Quali sono, comunque, questi personaggi il cui fato è cucito insieme da Mereilles?
C’è Jude Law che in viaggio d’affari a Vienna vuole andare con una puttana escort, Blanka (Lucia Siposová).
C’è sua moglie, Rachel Weisz in splendida versione MILFona, rimasta a Londra ma che non se ne sta certo con le mani in mano, visto che ha una relazione adultera con un uomo più giovane di lei. Dove siamo finiti, dentro una puntata di Mistresses?
Per fortuna no, visto che ci sono anche altre vicende, altri personaggi, non fenomenali ma meglio di quelli capitati a loro due.

"E io che ci posso fare, Anthony? Aspetta che ti passo lo psicopatico di turno."
C’è la puttana escort austriaca Blanka e sua sorella (Gabriela Marcinkova), una sognatrice appassionata di libri che è anche il personaggio emotivamente più coinvolgente e meglio costruito. Sebbene pure questo, così come gli altri, rimanga un po’ troppo abbozzato.
Ritratto in maniera molto leggera è anche l’amore del dentista musulmano James Debbouze (quello con la faccia strana di Amelie) per una donna sposata, la sua assistente (Dinara Drukarova), il cui matrimonio a sua volta è ormai agli sgoccioli e suo marito, il russo Vladimir Vdovichenko, avrà una storia con un altro dei personaggi.

"Pronto? Sono lo psicopatico di turno. Cercavate me?"
Nel frattempo, tanto per complicare il quadro già bello articolato, la tipa brasiliana (Maria Flor) del giovane amante di Rachel Weisz scopre che il suo boyfriend la tradisce con la MILFona e decide di ritornarsene in patria, già che c’è per unirsi alle proteste anti Mondiali e anti Confederations Cup. No, questo no. Sull’aereo, la tipa brasiliana conoscerà Anthony Hopkins, un uomo la cui figlia è scomparsa nel nulla anni prima e che però non riesce ad arrendersi al fatto di non ritrovarla più. Mentre fa scalo a Denver prima di arrivare in Brasile, la fanciulla conoscerà anche un ragazzo, Ben Foster. Buon per lei? Più o meno, visto che lui è stato appena scarcerato dopo aver scontato una condanna per reati sessuali…
Ho dimenticato qualcuno?
No, non mi sembra. I personaggi principali sono questi e le loro vite, alcune più interessanti, altre meno, in qualche modo sono intrecciate, tra ambientazioni che comprendono Vienna, Parigi, Londra, Casale Monferrato, Phoenix e l’aeroporto di Denver. Non del tutto mal scritto, diretto e recitato (meglio dagli attori sconosciuti che dai divi presenti), Passioni e desideri è un film allo stesso tempo non del tutto riuscito, sia preso nel suo insieme che andando a vedere le singole vicende. Si lascia vedere senza annoiare troppo, e per una pellicola del genere è affare già non da poco, ma non scatena né passioni, né tanto meno desideri. Se non quello di andarsi a rivedere Magnolia.

Il cinema come la vita è tante cose. A volte è una cosa meravigliosa, altre una merda. A volte è bello, altre ‘na strunzata. E altre volte ancora è semplicemente così così.
(voto 5,5/10)



lunedì 6 maggio 2013

EFFETTI COLLATERALI, THE GIRL WITH THE CHANNING TATTOO


Effetti collaterali
(USA 2013)
Titolo originale: Side Effects
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Scott Z. Burns
Cast: Rooney Mara, Channing Tatum, Jude Law, Catherine Zeta-Jones, Ann Dowd, David Costabile, Mamie Gummer, Vinessa Shaw
Genere: psichiatrico
Se ti piace guarda anche: Crime d’amour, Limitless, Il cigno nero, Margin Call

Ci sono film che mi provocano seri effetti collaterali.
Il lato positivo ad esempio mi ha provocato un innamoramento immediato nei confronti di Jennifer Lawrence.
Limitless mi ha fatto venire voglia di prendere la droga NZT proprio come fa il protagonista.
Cloud Atlas mi ha fatto desiderare di reincarnarmi in un'altra persona. Un'altra persona che non ha mai visto Cloud Atlas e mai perderà tre ore della sua vita a vederlo.
Avatar mi ha messo in testa l’idea di spedire James Cameron dritto su Pandora. Questo forse non era un effetto collaterale, ma un effetto voluto.

Effetti collaterali mi ha invece provato come effetto collaterale iniziale un forte desiderio di prendere delle pillole, degli psicofarmaci. Proprio ciò che fa la protagonista del film.
Rooney Mara è depressa.
Perché? Cosa ha da essere tanto depressa, questa povera figliola?
"Sposata con Channing Tatum? Che orrore, nun gliela posso fà!"
Il suo maritino, quel brutto ragazzo di Channing Tatum, è appena uscito di galera e si appresta finalmente a stare insieme a lei per tutto il resto della sua vita. Quale donna non sarebbe depressa, davanti a una simile, tragica prospettiva?
Rooney Mara decide che una vita del genere non vale la pena di essere vissuta e allora tenta il suicidio. Ma sopravvive, ahilei. Per aiutarla a superare questo momento di sconforto esistenziale, lo psichiatra Jude Law le fornisce un nuovo psicofarmaco che pare avere effetti miracolosi. Riuscirà questo medicinale a risolvere i suoi problemi e a farle dimenticare il dramma di una vita insieme a Channing Tatum?

Questa non è che la prima parte di una visione parecchio avvincente, che ha sviluppi thriller non rivoluzionari ma nemmeno troppo scontati, più qualche interessante attualissima incursione nel mondo dell’insider trading, delle industrie farmaceutiche, e qualche altra sorpresina in grado di renderlo uno dei film più intriganti del periodo. Pur non senza difetti collaterali, Effetti collaterali è una pellicola decisamente d'effetto e senza bisogno di effetti speciali. Per quelli potete tranquillamente andare a vedervi Iron Merd 3.
A colpire è una sceneggiatura davvero molto ben orchestrata, che può sembrare confusa ma sa sempre dove andare a parare ed è inoltre capace di passare attraverso variazioni tematiche notevoli e pure cambi di protagonisti in corso. Uno script coraggioso con cui lo sceneggiatore Scott Z. Burns si fa perdonare quello sfocato di Contagion, precedente molto meno riuscita collaborazione con Steven Soderbergh.

"Channing, ti bacio, ma in realtà sto pensando al suicidio."
"Ah sì? Io tanto stavo pensando a Matthew McConaughey..."
Veniamo a Steven Soderbergh. È un regista troppo prolifico per i miei gusti e, come ho già detto ad esempio a proposito di Woody Allen, io preferisco quegli autori che tirano fuori un film solo ogni tanto, quando sentono che è il momento giusto. Le pellicole del Soderbergh che ho visto, solo una parte del suo infinito lavoro, le ho comunque apprezzate tutte, a parte il citato Contagion, con picchi soprattutto in Erin Brockovich, Traffic, Out of Sight e Sesso, bugie e videotape, ma anche il suo ultimo Magic Mike, grande successo ai botteghini ingiustamente sottovalutato da una parte di critica e bloggers. Tralasciando l’incursione nell’action con Knockout - Resa dei conti, che dopo la pioggia di critiche mi sono risparmiato per non rovinarmi l’opinione nei confronti del regista, Effetti collaterali fa qualcosa di analogo proprio al recente Magic Mike. Laddove quello era una specie di variante indie di Jersey Shore, questo è una variante indie del classico thriller. E, anche in questo caso, Soderbergh riesce a stupire con una vicenda intricata e dagli sviluppi inattesi, oltre che a convincere con la sua regia fredda quanto impeccabile.

"Catherine Z, ma tu te lo faresti Channing Tatum?"
"Brrr, no. Ma come ti viene in mente? Che schifo!"
Ad aiutarlo ci pensa l’ottimo cast da lui arruolato: oltre al brutto Channing Tatum, c’è il brutto Jude Law, la brutta Catherine Zeta-Jones e la già citata brutta pure lei Rooney Mara. Notevolissima in particolare l’interpretazione di quest’ultima, ma anche Jude Law zitto zitto non sbaglia mai un ruolo.
Chicca omaggio: le ottime musiche di Thomas Newman, già autore della sublime soundtrack di American Beauty.
E allora, CHE CAZZO VOLETE DI PIU’ DA UN FILM?
COSA?
IL SANGUE?
C’E’. C’E’ ANCHE UN PO’ DI SANGUE, QUI DENTRO. CONTENTI ADESSO?
SEMPRE PRONTI A CRITICARE TUTTO. UNA VOLTE CHE C’E’ UN BEL FILM, UN THRILLER NUOVO, NON LA SOLITA MINCHIATONA ANNI 80/90 SUPERATISSIMA, NON SIETE CONTENTI?
MA COME SI FA?

Attenzione: Effetti collaterali come effetto collaterale finale può provocare lampi di pura schizofrenia e attacchi violenti d'ira nei confronti dei suoi detrattori. Ma non c’è problema. Tanto ci sono gli psicofarmaci. Basta un poco di zucchero (non il cantante, mi raccomando) e la pillola va giù. Tutto brillerà di più!
(voto 8/10)



sabato 2 marzo 2013

KE KARINA ANNA KARENINA

"Tranquilli raga che è finta pelliccia. Ehm, forse..."
Anna Karenina
(UK 2012)
Regia: Joe Wright
Sceneggiatura: Tom Stoppard
Tratto dal romanzo: Anna Karenina di Lev Tolstoj
Cast: Keira Knightley, Jude Law, Aaron Taylor-Johnson, Domhnall Gleeson, Alicia Vikander, Kelly MacDonald, Matthew MacFayden, Michelle Dockery, Emily Watson, Holliday Grainger, Shirley Henderson
Genere: anglo-russo
Se ti piace guarda anche: Jane Eyre, Espiazione, Orgoglio e pregiudizio, Moulin Rouge!

Oggi parliamo di Анна Каренина.
Cooosa?

Eddai, non scappate subito davanti alla prima difficoltà. Mi riferisco ad Anna Karenina, scritto così vi piace di più? Si tratta di un tomo russo realista pubblicato a fine Ottocento.
Coooooooooosa?

"Dopo avermi massacrata per A Dangerous Method ti prego, Cannibal,
sii buono."
Siete scappati di nuovo? Tornate qui, che non parliamo del libro. Parliamo della trasposizione cinematografica alla portata di tutti. O quasi. È chiaro che se uno è in serata da ridarola, questo non è il film più consigliabile. Sebbene all’inizio un paio di momenti quasi divertenti ci sono anche. Un paio di momenti in cui scappa il sorriso, non la ridarola.
Per il resto, Анна Каренина, volevo dire Anna Karenina è un drammone in costume, una vicenda che narra di intrighi romantici nell’alta società russa, cosa che raccontata così può non rappresentare il massimo dell’interesse. Infatti è così. Eppure l’infelice vita di questi ricconi russi riesce a trasformarsi in un film molto coinvolgente, oserei quasi direi trascinante. Il merito è di una messa in scena spettacolosa, con pochi esterni e diverse scene ambiante a teatro, cosa che però non lo fa apparire un film meramente teatrale e insomma non so come abbia fatto il regista. Joe Wright, come hai compiuto questa magia? Sei un fottuto genio.

"Perché qui sembro uscita da un videoclip anni Ottanta?"
La vicenda principale, quella dell’amore galeotto tra Anna KareKeira Knightley, sposata con un Jude Law in brutta versione da pelatone, e il playboy Aaron Johnson, è bella, intensa e sofferta, però - ammettiamolo - è un po’ la solita storia d’amore galeotto vista e rivista in altri film in costume. E io non ho nemmeno visto così tanti film in costume.
La pellicola riesce però a riempire, se non il cuore, almeno gli occhi di bellezza, grazie alla regia enorme di Joe Wright, insieme a Steve McQueen oggi il più grande talento registico del Regno Unito, e a una realizzazione tecnica strepitosa. Io di solito non mi entusiasmo così tanto per questi aspetti, però in Anna Karenina scenografie, costumi, trucco e parrucco sono davvero sontuosi. Ci troviamo al top dei top dell’anno per quanto riguarda questi ambiti. Persino Les Misérables fa una figura misérabile al confronto.
L’altro valore aggiunto sono le musiche splendide di Dario Marianelli, classico esempio di fuga di cervelli e pure di fuga di talenti compositivi dalla nostra povera, sempre più povera italietta.

Veniamo quindi al reparto attoriale. Keira Knightley è una nota delicata: adorata da alcuni, soprattutto dal pubblico femminile, che la vede icona ideale di un certo tipo di bellezza classico, mal sopportata invece da altri, viste le sue continue smorfiette gne gne e un modo di recitare tutto suo. Io sto un po’ nel mezzo tra i due fuochi. Nelle sue ultime interpretazioni non l’ho sopportata: nella per il resto ottima commedia Cercasi amore per la fine del mondo lei non mi ha convinto, mentre in A Dangerous Method l’ho trovata addirittura agghiacciante. In altri film invece l’ho apprezzata, in particolare in quelli girati da Joe Wright, il valido Orgoglio e pregiudizio e lo stupendo Espiazione. Joe Wright, oltre a essere un fenomeno con la macchina da presa, possiamo allora considerarlo un fenomeno pure perché riesce a far recitare bene Keira, cosa che riesce a pochi registi. Rispetto a O&P e a Espiazione qui Keira è un po’ in ribasso, ma in compenso se la cava parecchio meglio che in A Dangerous Method. Accontentiamoci.

Il resto del cast se la comporta alla grande, a partire dal kick-ass Aaron Johnson, che adesso si chiama Aaron Taylor-Jonhson perché si è sposato con la regista Sam Taylor-Wood, donna di 23 anni più anziana di lui. Che uno pensa, vabbè se è una MILF come Demi Moore, ha fatto bene. Benone. E invece lei non è proprio Demi Moore. Comunque oltre ad Aaron Johnson fa un figurone anche Jude Law, uno che di solito fa il figo, mentre qui è parecchio imbruttito e ciò nonostante riesce a essere particolarmente convincente. Sorprendente pure il roscio de cavei Domhnaal Gleeson, visto finora nella saga di Harry Potter ma pure in un episodio di Black Mirror, e attenzione alla giovane svedese Alicia Vikander, quella sgnacchera di A Royal Affair, uno dei candidati all’Oscar di miglior film straniero. Sono una garanzia poi le varie comprimarie, Kelly MacDonald di Boardwalk Empire e Michelle Dockery da Downton Abbey su tutte, ed è proprio questo un problema, diciamo un problemino del film.
Si tratta di una vicenda russa, molto russa, pure troppo, eppure l’atmosfera è parecchio British. Colpa proprio dell’eccessiva bravura del cast quasi interamente britannico. Vedere questi russi che parlano un inglese fluente da perfetti baronetti è un po’ straniante. Dettaglio che potrebbe sparire nella versione doppiata in italiano. Oppure diventare ancora più straniante, dipende chi hanno scelto come doppiatori…
Questo comunque si chiama fare i precisetti, voler andare a trovare il pelo nell’uovo. Un uovo costruito in maniera sontuosa e impeccabile, cui manca giusto un pochino di calore in più per diventare un uovo cotto alla perfezione, volevo dire un film da portare con sé nel cuore. Ma d’altra parte da una vicenda russa raccontata dagli inglesi troppo calore sarebbe risultato inappropriato.
Da conservare nel cuore resta comunque soprattutto una sequenza: la scena del ballo di Keira Knightley con Aaron Johnson vale da sola la visione del film e vale anche 92 minuti di applausi. Una scena davvero Karina. Di più, una scena davvero Karenina.
(voto 7,5/10)





Post pubblicato anche su L'OraBlù, accompagnato da un poster particolarmente splendido realizzato da C(h)erotto.




sabato 25 febbraio 2012

Hugo Cabret, ti ci spedisco io a fare il viaggio nella Luna

Tutti seduti ai vostri posti? Avete preso il vostro caffè? Fumato le vostre due-trecento siga?
Tranquilli? Quieti? Pronti per la lezione?
La Storia del Cinema ve la racconta oggi un personaggio (incompetente) d’eccezione: Cannibal Kid.
Siete proprio finiti in buone mani, vero? Vi immaginate che vi racconti che tutto è iniziato con Quentin Tarantino?
Sdeng, sbagliato.
Anche se avrei potuto tranquillamente sostenere una tesi del genere, preferisco rispettare la tradizione e seguire i libri di scuola.
Tutto è iniziato con i fratelli Lumiere. Ma se loro li possiamo considerare i padri biologici, il vero papà del Cinema, quello è stato Georges Méliès.
Fosse stato solo per i Lumiere, adesso ci ritroveremmo forse con le sale piene solo di documentari e di un approccio alla visione di pura osservazione. Esatto: il Grande Fratello trasmesso su grande schermo.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH
Oppure ci ritroveremmo proprio del tutto senza film, visto che, come sosteneva Louis, uno dei due illuminati fratelli Lumiere: “Il cinema è un’invenzione senza avvenire”.
A regalare un avvenire al cinema è allora stato un mago: Georges Méliès. È con lui, e con chi se non con un mago?, che il cinema si è fatto magia, trucco, illusione. Ha preso uno strumento che fino ad allora serviva a documentare la realtà e l’ha usato per documentare qualcos’altro: la dimensione del sogno.
Tirando fuori opere di pura fantasia e genio come il suo film più famoso, Viaggio nella Luna - Le voyage dans la lune.


Tutte queste cose sono raccontate, bene, in Hugo Cabret da Martin Scorsese, un regista che - non c’è certo bisogno che lo dica io - ha una cultura cinematografica immensa e che, ad esempio, prima dell’inizio delle riprese di un suo film dà sempre ai suoi attori qualche film da vedere e da studiare per prepararsi alla parte. Come un bravo professore che si rispetti.
Se Scorsese è bravo a raccontarci la storia, giusto un po’ romanzata, di Georges Méliès, sarà anche il regista più adatto a raccontarci quello che era, e che è ancora, il grande fascino del cinema di Méliès?

Andiamo a scoprirlo…

Hugo Cabret
(USA 2011)
Regia: Martin Scorsese
Cast: Asa Butterfield, Chloe Moretz, Ben Kingsley, Helen McCrory, Sacha Baron Cohen, Emily Mortimer, Jude Law, Christopher Lee, Ray Winstone, Richard Griffiths, Michael Stuhlbarg, Martin Scorsese, Michael Pitt
Genere: cine-fiabesco
Se ti piace guarda anche: Neverland, Harry Potter, A.I., Big Fish, Ember - Il mistero della città di luce

Si può immaginare un regista più lontano da Georges Méliès di Martin Scorsese?
"Che impresa sfuggire all'occhio vigile di quel furbone di Borat!"
Difficile, considerando come Scorsese si sia finora tenuto a parecchie distanze dal cinema fantastico, preferendo immergersi in un iperrealismo più da incubo che da sogno. A livello cinematografico, il regista italoamericano è un virtuoso, un fuoriclasse della macchina da presa, dei movimenti vorticosi, come ci tiene bene a sottolineare subito nell’apertura di questo Hugo Cabret, con una spettacolosa carrellata in avanti della stazione ferroviaria in cui gran parte del film è poi ambientato. Oppure nei rocamboleschi inseguimenti tra il piccolo protagonista e un odioso Sacha Baron Cohen, a metà strada tra slapstick comedy e Tom e Jerry, o anche tra Benny Hill Show e Mamma ho perso l’aereo.
Georges Méliès invece la telecamera si limitava a tenerla fissa, anche perché con i pesanti mezzi dell’epoca non è che si potesse fare altrimenti, e costruiva degli affascinanti quadri animati. Non potendo contare sui movimenti di macchina, i giochi di illusione del regista illusionista venivano creati attraverso il montaggio, di cui è considerato il padre. Anche perché se aspettavamo i Lumiere… bon voyage!
A livello stilistico il regista italoamericano e il suo cugino francese non c’entrano una beneamata mazza l’uno con l’altro. Cosa che comunque rende la sfida ancora più interessante e stimolante, sebbene il candidato ideale per portare oggi sullo schermo la figura di un Méliès sarebbe stato un certo altro regista…

"Questo automa per caricare un'immagine ci mette più di una connessione 56k!"
Ma mentre Steven Spielberg è troppo impegnato a fare all’amore con i cavalli, ecco che il buon Martin Scorsese gli ha bagnato il naso e ha realizzato il film che ci saremmo aspettati dal papà di E.T. e non da lui.
È di certo apprezzabile il tentativo di Marty McFly Scorsese qui in versione viaggiatore nel tempo di tuffarsi in una Parigi degli anni ’30 e raccontarci una fiaba dal sapore antico, ben lontana da tutto il resto del suo cinema, facendosi ispirare dal romanzo illustrato La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick. Un rinnovamento che fa piacere per la voglia di cambiare del regista sulla soglia dei 70 anni, ma allo stesso tempo il risultato è deludente piuttosto che no.
La prima parte in particolare è di scarso interesse ed è un’oretta buona di pellicola buttata via. Hugo Cabret è infatti il solito orfanello dickensiano che ha da poco perso il padre, un Jude Law che sembra uscito dritto da A.I. Intelligenza artificiale e che lavorava a un misterioso automa che ricorda L’uomo bicentenario con Robin Williams. Rimasto con uno zio (ovviamente) ubriacone (ovviamente) menefreghista e che a breve (ovviamente) sparisce, Hugo vive da solo all’interno della stazione di Parigi, dove per sopravvivere si arrangia come può.
Ovvero? Si prostituisce?
"Martin? Chloe? Beeen? Aiutoregistaaaa? Camerameeeen?
Hey, io sono ancora qui... qualcuno mi aiuta a scendere?"
No, questo non è il vecchio Scorsese, quello che faceva battere sulla strada una giovanissima Jodie Foster in Taxi Driver. Il nuovo Scorsese in benevola versione nonnetto ci presenta un Hugo Capretto ladruncolo, inseguito dal perfido Sacha Baron Cohen in scenette che ho trovato di una inutilità fastidiosa. A livello personale, io il personaggio di Borat l’avrei proprio eliminato del tutto, visto che è una macchietta stereotipata che non fa ridere e annoia. Così come ATTENZIONE SPOILERONE la sua conversione al pacifismo nel finale fa pensare di trovarsi uno Scorsese in versione davvero troppo natalizia (ma grazie Dio almeno non cinepanettona!).

Adesso dirò una cosa in stile vecchio che rimugina sul passato e su come erano belli i bei tempi andati. Parlerò come il mio blogger rivale Mr. James Ford, insomma. Uno dei problemi dei film per ragazzi di oggi è che sono quasi del tutto privi di ironia. Si prendono troppo sul serio, da un Harry Potter precisetti che sembra gli abbiano infilato una scopa volante su per il culo a tutte le varie altre saghe teen fantasy in cui l’assurdità delle situazioni di rado viene alleviata da una sana risata.
Se invece andiamo indietro nel tempo, non fino agli anni ’30 francesi di cui sembrano essere in fissa tutti i registi americani settantenni, ma indietro solo fino agli anni ’80, possiamo prendere come esempio I Goonies: tra Chunk e Mouth c’era da ammazzarsi dalle risate con ben due personaggi due. In un film come Hugo Cabret il simpatico umorista di turno sarebbe Borat in versione accalapia-orfani?
Bambinetti di oggi, non vi invidio proprio.

"Che figata, 'sto film di Scorsese! Come si chiama?"
"Taxi Driver."
A parte questo dettaglio non da poco, a non funzionare è anche il protagonista Hugo Cabret. Per un personaggio che dà il titolo al film, un problema certo non minore. Il giovanissimo attore Asa Butterfield non recita male, però nemmeno lascia il segno. Chloe Moretz, già esalta(n)tissima Hit Girl di Kick-Ass, qui è tutta smorfiette e faccette e il suo personaggio è davvero campato via; la bambinetta che accompagna Hugo nelle sue poco avventurose avventure a un certo punto sembra infatti volerci portare in un posto che è come “l'isola che non c'è, l'isola del tesoro ed il mago di Oz messi insieme”. Peccato che risulti come i politici italiani (e non solo italiani): brava a parole e a proclami esagerati, ma molto meno veritiera alla prova dei fatti.
Tutta la prima parte, molto fanciullesca, lascia quindi il tempo che trova, perfetta per una visione natalizia ma poco altro. Più che un omaggio al cinema di una volta, sembra un tributo alle pellicole fantasy Harry Potter style che vanno forte oggi (e infatti non a caso un paio di attori potteriani ce li ritroviamo pure qui dentro).

Le cose per fortuna vanno un po’ meglio nel secondo tempo, quando finalmente i riflettori si accendono su Georges Méliès e sulla sua storia.
È qui che il film ci regala i momenti migliori. Tutti le scene più magiche della pellicola sono quelle legate al regista francese, dalle animazioni dei suoi schizzi che si animano letteralmente, alle fantasmagoriche scenografie dei suoi set ricreate dai “nostri” Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Delle 11 nomination regalate dagli Oscar a questo film, quella per le scenografie è l’unica che appare davvero giustificata (ma, se vogliamo, ci possiamo mettere dentro anche quella agli effetti speciali). Le altre candidature sono invece regali puri tipici dell’Academy, compresa quella alla stucchevole colonna sonora francesizzante di Howard Shore. Sì, proprio l’autore delle musiche inquietanti del Silenzio degli innocenti che qui si è impegnato per suonare come una brutta copia della soundtrack di Amélie.
Per il resto, l’unica magia compiuta da Scorsese con questa pellicola è quello di aver convinto l’Academy Awards di aver realizzato qualcosa di grandioso, quando invece per lunghi tratti questo film è una semplice favoletta, arricchiata giusto da qualche riuscito omaggio cinematografico sparso qua e là: da Preferisco l’ascensore con la nota scena delle lancette (già citata peraltro, e in maniera molto più avvincente, in Ritorno al futuro) all’arrivo del treno dei Lumiere rivisitato in versione 3D. Che secondo me è l’unico vero motivo per cui Marty McFly Scorsese ha voluto girare questa pellicola in tre dimensioni.

Ne è uscita insomma una visione carina fin che si vuole, che però presenta anche delle notevoli lacune.
Cosa manca al film di Scorsese? L’ILLUSIONE. Cos’altro manca? LA MAGIA. Cosa si è dimenticato di inserire? IL TRUCCO. E poi? L’INVISIBILE AGLI OCCHI. Ma il peccato principale del film è un altro. Ha fallito di raccontare per davvero uno dei più grandi geni nella storia del cinema, la cui storia ci viene sì presentata con diligenza, ma senza riuscire a ricreare in pieno il misterioso fascino che opere come Les Voyage dans la Lune sprigionavano.
La cosa pazzesca di quei film è che sapevano sorprendere. Gli spettatori dell’epoca, così come quelli di oggi. La pellicola dello Scorsese nonnetto capretto invece non sorprende. Mai. Tutto è prevedibile, scontato, già visto. Ogni scena, così come ogni “colpo di scena”. Non bastano certo i camei suoi o di Michael Pitt per far gridare di stupore.
E poi io avrei voluto un film tutto sul grande regista francese, anziché su un bambinetto di scarso interesse.
Viva Georges Méliès, abbasso Hugo Cabret!
(voto 6+/10)

Dopo la delusione cabrettiana, aspettiamo allora di vedere la versione restaurata di Viaggio nella Luna - Le Voyage dans la Lune, con tanto di splendida colonna sonora firmata dagli Air e già presentata allo scorso Festival di Cannes.


Anche se l’omaggio migliore alla poetica, o per meglio dire alla magia del Méliès, resta sempre uno dei videoclip più belli mai realizzati: “Tonight, Tonight” degli Smashing Pumpkins, girato da Jonathan Dayton e Valerie Faris (futuri registi di Little Miss Sunshine). Quattro minuti che da soli valgono molto più di tutte le due ore del capretto.

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