Red State
(USA 2011)
Regia: Kevin Smith
Cast: Michael Angarano,
Kyle Gallner, Nicholas Braun, John Goodman, Michael Parks, Melissa Leo, Kerry
Bishé, Alexa Nikolas, Kaylee DeFer, Anna Gunn, Stephen Root, Kevin Alejandro,
Kevin Pollack, Patrick Fischler
Genere: fritto misto
Se ti piace guarda anche: La casa dei 1000 corpi, Machete, South Park, Breaking Bad
Mi sono chiesto come mai
non fossi un fan di Kevin Smith un sacco di volte. Okay, forse non un sacco di
volte, ma solo una volta: questa volta. Comunque la cosa è piuttosto strana,
visto che sembrerebbe avere tutte le carte in regola per piacermi: è un regista
di culto uscito dalla scena indipendente, ha un umorismo politically scorrect
che prende spesso di mira soprattutto la religione, i dialoghi dei suoi film
sono infarciti di un sacco di riferimenti geek e in generale alla pop-culture.
Eppure non mi ha mai convinto. Perché, perché?
Questo suo ultimo film, il
cui pregio maggiore (e unico?) è proprio quello di NON sembrare un film di
Kevin Smith, nonostante le differenze con il suo cinema precedente mi ha
aiutato a capirlo. Forse.
Dall’esordio con Clerks ho
sempre pensato che allo Smith fosse andata di culo. Con quel film ha infatti
avuto un’idea davvero azzeccata: quella di girarlo in bianco e nero. Fosse
uscito a colori, sono convinto sarebbe passato del tutto inosservato. Così
invece con quel suo piglio finto amatoriale (ma nemmeno tanto finto) e con quel
b/n finto intellettualoide assumeva i contorni del film finto artistico. Dopo
quell’esordio fortunato (nel senso appunto che gli è andata di culo), Mr. Smith
ha abbandonato la scena indipendente per darsi alle major.
Roba da gridargli: sei un
venduto!
Peccato che tutti i suoi
film pseudo commerciali si siano rivelati un flop dietro l’altro, nonostante la
presenza di attori solitamente abituati a fare buone cose ai botteghini come i
vari Matt Damon, Ben Affleck, Bruce Willis, Seth Rogen.
E così Smith si è buttato
a fare una serie di commedie di medio livello, qualcuna guardabile, qualcuna
quasi divertente, qualcuna pessima come Poliziotti fuori e quell’orrore di
Jersey Girl, film che ha rischiato di stroncare la carriera di Ben Affleck, il
quale però lì ha avuto l’illuminazione: se il mio amico Smith fa il regista,
perché non posso farlo pure io? E lì Affleck ha trovato la sua vera strada, a
differenza dell’amico Smith…
Dopo la lunga parentesi
major, adesso Kevin Smith è finalmente tornato ora a fare un film indie. Cosa
che, almeno da un punto di vista visivo, segna un punto a favore del regista,
che però si ispira qui per stile in maniera un po’ troppo sospetta alla serie
tv Breaking Bad, tra riprese a mano e lunghe scene lente che poi all’improvviso
si accendono in lampi di violenza. Peccato non abbia nemmeno da lontano la
stessa forza della serie, cui di certo Smith avrà dato un’occhiata molto
attenta, considerando anche la presenza in una piccola parte di Anna Gunn, la
protagonista femminile appunto di Breaking Bad.
Red State segna quindi una
svolta totale, molto ambiziosa, per il cinema dello Smith. Pur tornando a
riprendere in mano la spinosa tematica della parodia religiosa come in Dogma,
questa è infatti la sua prima non-commedia, ma se si sa quale tipo di film
non-sia, non si capisce invece bene che genere di film sia. La partenza è da
teen horror puro, con tre liceali che in cerca di una scopata assicurata si
affidano a Internet, alla versione porno di Facebook, dove beccano una MILF
promettente. Arrivati alla roulotte della tipa, si trovano davanti una Melissa
Leo che non è tutta ‘sta bomba sexy però si accontentano, peccato che la storia
finirà per loro molto male…
Il film qui svolta, con
una lunga e verbosa scena dedicata al sermone di un tizio di una setta che
annoia come un qualunque altro sermone di una qualunque altra parrocchia. La
parodia delle sette religiose è ammirevole, ma finisce per essere troppo
esagerata e assurda per andare a colpire veramente il bersaglio e per attaccare
realmente il bigottismo americano. Inoltre la tematica ricorda molto quella
della seconda stagione di True Blood (la presenza di Kevin Alejandro, il
boyfriend di Lafayette, conferma che Smith è probabilmente pure un True
Blood-addicted), con la differenza che se lì la setta se la prendeva con i
vampiri, qui il bersaglio sono gli omosessuali. E, non so bene perché, mi è
venuta in mente anche una delle primissime puntate dei Griffin dedicata all’uomo
in bianco, il capo di una setta altrettano fuori di testa.
Dopo abbiamo un’altra
svolta nel film: entra in scena John Goodman, che porta con sé un tocco un po’
Coeniano, alla Fargo in questo caso, e un po’ alla Damages, serie da lui
interpretata di recente. Quindi è la (s)volta di dare una spruzzata di splatter
al tutto, visto che le intenzioni iniziali erano pur sempre quelle di fare un
horror, e quindi ci mette dentro un bel massacro in stile film di Rob Zombie.
Il problema è che la
pellicola è girata tutta con un tono profondamente ironico, eppure non si ride
quasi mai. Ma pur non divertendo, questo tocco grottesco è comunque ben
presente e impedisce di avere una visione davvero tesa o angosciante. Il
risultato finale assomiglia così a una puntata di South Park (omaggiato ad
esempio nella scena in cui lo sceriffo idiota uccide uno dei ragazzi in
ostaggio), peccato non faccia (quasi) mai ridere e non possieda nemmeno
lontanamente lo stesso livello di genialità.
Ci troviamo insomma di
fronte a un gran calderone molto confuso in cui Kevin Smith sbatte dentro tutti
i suoi pensieri sull’America contemporanea, fondendoci dentro anche le sue
visioni, cinematografiche e soprattutto televisive, ma quello che ne esce è un fritto
misto in cui c’è di tutto e di più, tranne una vera personalità. E se vanno
apprezzate le buone intenzioni di criticare aspramente gli IuEsEi of America, allo
stesso tempo Smith non ci dice fondamentalmente niente di nuovo.
La White America conservatrice è bigotta? Non sopporta i gay? Ama le armi e la violenza? Dopo l’11 settembre
si sente in diritto di fare di tutto con la scusa della guerra al terrorismo?
Nooo, ma cosa mi dici mai, Kevin? Se non c'eri tu, non lo sapevamo proprio!
L’unico momento davvero riuscito
è allora l’ultimissima scena, che mi ha strappato la prima (e unica) fragorosa
risata della visione.
Red State si rivelerà
allora un primo passo verso una nuova fase nella carriera del regista oppure,
come lui stesso ha dichiarato, farà ancora un film (o forse un doppio film)
sull’hockey e poi si ritirerà? Di certo non perderò il sonno la notte in attesa
di una risposta, come forse invece faranno i fan dell’autore, una cerchia di
seguaci, agguerriti e fedeli (quasi) quanto quelli della setta religiosa qui
presa di mira.
Se la critica di Kevin
Smith si perde dentro la sua stessa confusione mentale, a salvare (parzialmente)
il film è un valido cast in cui spiccano un’inquieta e inquietante Melissa Leo,
la bionda rivelazione Kerry Bishé, i due teen Michael Angarano e Kyle Gallner,
un John Goodman ultimamente in gran spolvero e soprattutto un ottimo Michael
Parks, attore ritirato fuori dal cassetto dal solito Tarantino in Kill Bill
Vol. 2…
Ma hey, ecco qui la
folgorazione! Ho capito perché non sono un fan di Kevin Smith. Quella del
“copiare” è un’arte molto complicata e per maneggiarla bisogna fare molta
attenzione: un’arte in cui Quentin con tutte le sue citazioni e omaggi è un Maestro
assoluto, perché riesce a fonderle all’interno di un prodotto del tutto nuovo e
personale; al limite opposto troviamo invece Zucchero, uno che più che citare saccheggia
a man bassa e ultimamente tra l’altro lo fa dai Coldplay (gruppo che già nel “prendere
in prestito” le idee da altri ci va giù pesante). Kevin Smith, purtroppo per
lui, non riesce a raggiungere i livelli di Quentin. Neanche lontanamente, in
questo che è un po’ il suo film Grindhouse non richiesto, visto che Tarantino e
Rodriguez non l’hanno invitato a giocare insieme a loro. Per fortuna però non
sprofonda nemmeno nella “zuccherata” totale. Almeno di questo rendiamogli atto.
E alla fine fa quasi
tenerezza, lo Smith, perché con questo film ricorda un po’ il Kluivert
quando era arrivato al Milan: gioca in attacco, ci prova, peccato non c’entri
mai nemmeno una volta, manco per sbaglio, lo specchio della porta.
(voto 5/10)