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sabato 19 marzo 2011

Strokazz*

(il titolo del post mi è stato suggerito in sogno da Laura Palmer)


La questione è di quelle toste. Perlomeno parlando di questioni poi non così serie come nucleare, guerre o terremoti. La questione tosta ma poi non così tanto è la seguente: le band musicali devono cercare di evolversi e proporre qualcosa di nuovo e differente oppure, quando non ne sono in grado, dovrebbero semplicemente limitarsi a fare ciò che sanno fare meglio?
L’atroce dilemma se lo pongono tutti i gruppi (e pure i loro fan) con ormai un discreto passato alle spalle; abbiamo visto ad esempio nelle ultime settimane come i Radiohead proseguano nel loro percorso di ricerca, pur all’interno di coordinate elettroniche già esplorate ma in continua evoluzione, e di come invece i R.E.M. rimangano fermi a fare la stessa musica, rischiando di autoclonarsi ma allo stesso tempo fornendo comunque il loro sempre più che gradito contributo alle nostre orecchie. E gli Strokes, giunti dopo una lunga pausa al loro quarto album, cos’hanno deciso di fare?

10 anni passati da Is This It, uno degli ultimi album rock’n’roll davvero decisivi per le sorti della musica mondiale. All’epoca gli Strokes l’avevano definito un vero e proprio greatest hits della band, più che un semplice disco d’esordio. Guardando alla loro carriera successiva possiamo dire che l’affermazione non si discostava affatto dal vero, visto che il meglio della loro intera produzione anche futura era già (quasi) tutto contenuto in quel disco. L’album numero due Room on fire si faceva infatti ascoltare che era un piacere, ma fondamentalmente era una replica (riuscita) dell’esordio. Il disco numero tre invece non mi aveva convinto più che altro per i suoni e per la produzione troppo ricercata, quando la loro arma migliore è sempre stata quella di fare un rock’n’roll grezzo e senza troppi orpelli. Peccato, perché le canzoni c’erano anche, basti ascoltare la splendida “I’ll try anything once” usata in Somewhere di Sofia Coppola, che altro non era se non la versione demo di “You only live once”.

Dopo di ché i newyorkcity cops si sono presi una lunga pausa per dedicarsi a una serie di progetti solisti tutti piuttosto riusciti ma anche tutti piuttosto dimenticabili. Il cantante Julian Casablancas ha pubblicato l’anno scorso un disco confuso eppure a tratti irresistibilmente 80s; il chitarrista Albert Hammond Jr. ha fatto uscire in proprio un paio di dischi solisti con dentro qualche perla non male; l’altro chitarrista Nick Valensi ha suonato con Sia e Regina Spektor; il bassista Nikolai Fraiture fa parte dei validi Nickel Eye; il batterista Fabrizio Moretti infine ha fondato il gradevole side-project Little Joy e s’è mollato con Drew Barrymore. Ma veniamo al qui e ora.

The Strokes “Angles”
Genere: rock’n’roll
Provenienza: NYC, USA
Se ti piace ascolta anche: Vaccines, Arctic Monkeys, Julian Casablancas, Albert Hammond Jr., Little Joy, Nickel Eye
Pezzi cult: “Taken for a fool”, “Life is simple in the moonlight”

Fatto sta che dopo tutte le cose sopra elencate i fantastici 5 si sono ricordati di avere pure una band insieme e quindi ha dato ora alle stampe questo nuovo “Angles”, in cui ogni membro sembra però starsene nel suo angolo anziché andare al centro del ring a confrontarsi e combattere insieme agli altri. Quello che ne è uscito è un lavoro che a tratti prova la via di un ritorno alle origini con risultati piuttosto buoni e a tratti prova invece nuove direzioni, con risultati già più discutibili.
Il meglio arriva quindi quando gli Strokes fanno gli Strokes. Sebbene nei numeri più rock manchi la stessa freschezza, irreplicabile, del primo disco, qualche numero gli si avvicina: la fantastica e poppy “Taken for a fool”, l’emozionante “Games” o il primo singolo “Under cover of darkness”, grazie a quelle sue aperture malinconiche e a un assolo di chitarra da favola (e io di solito odio gli assoli di chitarra).


I numeri meno Strokes invece mi fanno storcere un po’ il naso e la sensazione è che la colpa non sia tanto del mio naso, sempre ben disposto nei confronti dei gruppi che vogliono prendersi dei rischi, quanto piuttosto di una band fatta di 5 unità separate e non comunicanti tra loro, con ognuna che se ne va a spasso per conto suo. Un’ipotesi confermata dal fatto che Julian ha cantato le sue parti in uno studio a parte e anche gli altri membri hanno spesso lavorato da soli. Quello che infatti ne è uscito non è certo il suono di una band unita (e il video di “Under Cover of Darkness” è molto emblematico in tal senso).
Tra le song meno azzeccate c’è una “Metabolism” molto lagnosa e francamente evitabile, mentre “You’re so right” è il numero ipnotico Strokes meets Radiohead, con voci sovrapposte che sembra di sentire Thom Yorke ubriaco con sotto una chitarrina molto Jonny Greenwood. Peccato che non siano i Radiohead.
Alti e bassi, quindi, ma qualche pezzone ce lo portiamo comunque a casa, come nelle atmosfere Strokes-congeniali della ballad “Life is simple in the Moonlight” che chiude l’album lasciandoci con un buon odore addosso. La puzza di sudore dei primi bei tempi però se n’è andata e adesso lasciano più che altro una scia di profumo francese. Non proprio la cosa più rock’n’roll del mondo, ma nemmeno una cosa per cui lamentarsi troppo.
(voto 6/7)

giovedì 21 ottobre 2010

C'era una volta l'America

Winter’s Bone
(USA 2010)
Regia: Debra Granik
Cast: Jennifer Lawrence, John Hawkes, Dale Dickey, Garret Dillahunt, Lauren Sweetser, Shelley Waggener, Sheryl Lee
Genere: country thriller
Links: imdb, mymovies
Se ti piace guarda anche: Fish Tank, The Road, Una storia vera, Precious, Il silenzio degli innocenti

Avete presente “Teen cribs”, un programma ogni tanto su Mtv con protagonisti ragazzini viziati che vivono in case da sogno con genitori amorevoli e campi da basket tennis golf bowling squash (squash!) e cinema personali?
Bene, cancellate tutto perché Ree Dolly, la protagonista 17enne di Winter’s Bone, sta esattamente nella situazione opposta. Vive in un posto che non sembra dimenticato da Dio, ma sembra dannato da Dio, sua mamma è malata e non ci sta con la testa, suo papà fabbrica metanfetamine ed è ricercato dalla polizia e così lei anziché andare a scuola deve occuparsi dei suoi due fratellini. Perdipiù, se suo padre non si presenterà all’udienza davanti al giudice le toglieranno anche la casa.
Così lei da sola si mette a caccia del padre scomparso, come in un Alla ricerca di Nemo al contrario. In questa sua disperata ricerca si imbatte in un’umanità varia, tossica e desolata, senza speranze, attraverso un’America country, fredda gelida come Schumacher che festeggia per la vittoria il giorno della morte di Senna, con una fotografia tra Il silenzio degli innocenti, The Road e Twin Peaks. Non è un caso, allora, che in una piccola parte compaia anche Sheryl Lee: sì, proprio Laura Palmer, viva e vegeta tra noi anche se vistosamente invecchiata.

La bellezza di Winter’s Bone è difficile da spiegare a parole. Bisogna viverlo, cogliere tutti i piccoli dettagli disseminati, immergersi nella sua atmosfera da thriller country che ti rimane incollata alla pelle nei giorni successivi la visione.
La protagonista Ree è interpretata da una eccezionale Jennifer Lawrence, già in grado di rubare la scena a Charlize Theron in The Burning Plain – Il confine della solitudine e con davanti a sé a un futuro grandioso da nuova… Jodie Foster, che difatti l’ha chiamata per il suo prossimo film da regista “The Beaver”. Nei panni dello zio di Ree è meravigliosa anche la prova di John Hawkes, uno di quei volti che sai di aver già visto da qualche parte e in effetti è così (nelle serie Lost e 24, nel film Me and you and everyone we know) e sai che adesso non te lo scorderai più.
Da segnalare pure la promettente regista Debra Granik, al suo secondo film dopo l'invisibile Down To The Bone: ha un occhio attento alle più piccole cose e un gusto visivo di raro fascino.

Il film sta riscuotendo consensi enormi negli Stati Uniti, ha vinto i premi di miglior film e miglior sceneggiatura all’ultimo festival di Sundance ed è il primo della lista tra i film indipendenti per la corsa ai prossimi Oscar. Per l’Italia questa è probabilmente una pellicola dalle tinte troppo country (presentissimo anche nella splendida colonna sonora), troppo America lontana dal glamour, troppo America lontana dall’American Dream per risultare appetibile anche da noi dove chissà se, e quando, mai uscirà.
Per fortuna c’è la rete ed è possibile gustarselo in lingua originale (con gli splendidi accenti del Sud degli USA), sottotitolato in italiano.

Consigliato è dir poco.
(voto 9)

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