France non è un film sulla Francia, la Nazionale campione del mondo prima con la squadra guidata da Zidane e poi con quella trascinata da Mbappé. Non è nemmeno una pellicola sulla Storia della Francia, anche se potrebbe essere un'idea, più per una serie che per un film. Ogni stato, o almeno quelli che possono permettersi di farlo, potrebbe produrre una serie Netflix sulla propria Storia. Ci sarebbe materiale per produrre potenzialmente infinite stagioni. Ad esempio da noi si potrebbe fare la Storia d'Italia da una presidenza di Mattarella all'altra.
Cast: Ewan McGregor, Léa Seydoux, Theo James, Rashida Jones, Christina Aguilera, Miranda Otto
C'è una nuova droga in giro. Si chiama Benysol. A dirla tutta è un farmaco. Una medicinale legale. Come il Viagra. Se però il Viagra è un medicinale per il sesso, il Benysol è un medicinale per l'amore. È una pillola che, quando la prendi, ti fa provare le sensazioni del primo amore. Chi ha inventato una cosa del genere? E chi volete che l'abbia ideata, se non la compagnia in cui lavora Mark Renton di Trainspotting?
Cast: Colin Farrell, Rachel Weisz, Léa Seydoux, Olivia Colman, Jessica Barden, John C. Reilly, Ben Whishaw, Angeliki Papoulia, Ariane Labed
Genere: animalesco
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Se vi capitasse, cosa probabile, di dovervi reincarnare in un animale, quale scegliereste?
Io vorrei essere un gatto. Sono i miei animali preferiti. Sono indipendenti. Fanno la pipì e la popò senza aver bisogno di qualcuno che li accompagni. Dormono quasi sempre. Gli piace la pussy. Non combinano un cavolo tutto il giorno e vanno a zonzo per discoteche, bar e locali la notte. Si godono la vita alla grande e, in più, se la godono per 9 volte. Chi se la passa meglio di loro?
Cast: Léa Seydoux, Vincent Cassel, André Dussollier, Eduardo Noriega, Myriam Charleins, Audrey Lamy, Sara Giraudeau
Genere: fiaba tradizionale
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C’era una volta, tanto tempo fa, ma nemmeno troppo tempo fa, in mezzo alla pampa argentina un campionissimo di calcio. Lionel Messi era il suo nome. Nel corso della sua straordinaria carriera aveva vinto di tutto e di più: Palloni d’Oro a ripetizione, Champions League, campionati spagnoli. Il Mondiale no. Quello ancora gli sfuggiva. Da molti era considerato uno dei giocatori migliori di tutti i tempi. Questo fino al giorno in cui, preso da un momento di esaltazione, nel corso di una conferenza stampa Messi ha dichiarato: “Sono più forte di Maradona!”.
A Napoli non l’hanno presa proprio benissimo…
Genny Savastano di Gomorra – La serie ha così deciso di punire il megalomane Messi e l’ha trasformato in una bestia. Anzi, peggio ancora, l’ha trasformato in Paletta.
Oltre ad aver assunto un aspetto mostruoso, Lionel Messi è così diventato incredibilmente una pippa a giocare a calcio ed è stato rinnegato dai suoi stessi tifosi. Allontanato dagli stadi e persino dagli oratori di tutto il mondo, il povero (in senso figurato) Messi si è rifugiato in un castello acquistato grazie ai soldi presi con le pubblicità Adidas.
Dopo anni di solitudine, Messi un giorno per caso ha incontrato Bella, la lesbo porcona di La vita di Adele, e se n’è subito innamorato perdutamente. Non proprio ricambiato.
Nel suo lungo corteggiamento, Messi/Paletta/La bestia ha continuamente fatto vedere a Bella l’ultima partita della sua carriera, Italia – Inghilterra dei Mondiali di Brasile 2014, in cui ha giocato con la nazionale azzurra dopo essere stato naturalizzato italiano. Stranamente, in questo modo non è riuscito a conquistarla.
Fino a che un giorno, guardando un documentario su Rai Sport con Max Giusti, Bella ha scoperto tutta la storia dello sventurato Lionel Messi e ha provato un'enorme compassione nei suoi confronti. Soprattutto, si è resa conto che era un campionissimo strapieno di soldi.
Avendo saputo che Messi era riuscito a conquistare la Bella lesbo porcona di La vita di Adele nonostante il suo aspetto terrificante, preso da uno slancio di bontà Genny Savastano ha deciso di trasformarlo di nuovo. Non dandogli l’aspetto che aveva prima, bensì quello della Bestia, che comunque rappresentava un miglioramento notevole nei confronti delle sembianze da Paletta. Felice di questo cambiamento estetico e ancor di più del suo conto in banca, Bella decise di sposare Messi e vissero per sempre felici e contenti.
E soprattutto ricchi.
The End
Recensione cannibale
La bella e la bestia è un ritorno al Medioevo. Nel corso del nuovo millennio abbiamo assistito a un vero e proprio Rinascimento per quanto riguarda il modo di raccontare fiabe, favole e storie varie. Dall’approccio ironico e post-moderno di Shrek in poi, passando per le reinvenzioni dei personaggi fiabeschi della serie tv Once Upon a Time, fino alla resa della Disney, che ha realizzato il moderno e femminista Frozen e la versione malvagia de La bella addormentata nel bosco con Maleficent, il mondo delle fiabe è ormai cambiato. Non è più lo stesso. Persino le poco riuscite riletture in chiave kitsch di Tarsem (Biancaneve) e Tim Burton (Alice in Wonderland) provavano un approccio differente alla materia.
Il francese La bella e la bestia invece no. È un film conservatore, anzi restauratore. Qualcuno potrà dire che è una mossa coraggiosa raccontare una fiaba classica in maniera classica al giorno d’oggi, quando ormai più nessuno lo fa. In realtà, di coraggioso nella pellicola firmata da Christophe Gans non v’è davvero nulla. Si limita a raccontare una storia che tutti, anche i meno appassionati al genere come me, conoscevamo già benissimo, senza innovazioni e anche senza personalità. La bella e la bestia appare un lavoro del tutto inutile, anonimo. La scelta per i ruoli principali di Vincent Cassel e Léa Seydoux, attori spesso protagonisti di film coraggiosi ed estremi, mi ha fatto sperare fino all’ultimo di assistere a una versione in qualche modo, anche solo piccolo, originale. Invece niente. Non c’è spazio per il benché minimo tocco di modernità, o per un approfondimento psicologico dei personaggi, o per un pizzico di umorismo in grado di alleggerire la già nota vicenda. Unico momento divertente, ma involontariamente, quando Bella scappa di casa gridando: “Non dimenticatemi!” alla Renato Zero.
Si salvano allora giusto le affascinanti scenografie e i costumi, mentre pure gli effetti speciali appaiono di serie B, Vincent Cassel con il suo fascino animalesco e la bella Léa Seydoux erano perfetti sulla carta per questi personaggi ma in realtà non convincono per niente, la lunga parte finale tra combattimenti e inseguimenti diventa estenuante e insomma persino come prodotto d’intrattenimento la pellicola fallisce il suo obiettivo.
Non c’è niente di peggio che raccontare una storia di fantasia in maniera del tutto priva di fantasia. La bella e la bestia versione 2014 riesce a farlo, portando a termine la sua missione poco bella e molto bestiale.
Correva l’anno 2014. Sì, lo ricordo bene. Era appena uscito il mio ultimo film, Grand Budapest Hotel. Ne ero molto fiero perché rappresentava bene tutto il mio cinema, il mio intero stile racchiuso in un’opera sola. Con un po’ di timore, all’epoca andai a cercare alcuni commenti in rete. Tra di essi ve n’erano molti positivi, alcuni entusiastici, ma ce n’era uno che mi lasciò piuttosto perplesso. Il sito lo ricordo perché aveva un nome molto particolare, si chiamava Pensieri Cannibali. Cannibal Thoughts. WTF? All’epoca uscivo con una studentessa universitaria italiana e, per migliorare la mia conoscenza della lingua, cercavo recensioni delle mie pellicole scritte in quello strano idioma. Non capivo ogni singola parola, però comprendevo il senso generale. Nella sua recensione l’autore del blog, un certo Cannibal Kid, apprezzava il mio Grand Budapest Hotel, ma allo stesso tempo lo considerava un lavoro incompiuto. Ricordo che commentai il post scrivendo: “Non dire stronzate, ragazzo cannibale. Questo è il mio film più bellissimo!”.
Lui rispose: “Ma impara l’italiano, Wes Anderson!”
E io contro ribattei dicendo: “Un giorno lo farò, stronzetto, un giorno lo farò!”
In quel periodo mi trasferii in Italia, cominciai a girare lì i miei film, abbandonai i miei soliti affezionati attori feticcio come Bill Murray, Adrien Brody, Tilda Swinton, Jason Schwartzman, Owen Wilson e gli altri e scoprii nuovi straordinari attori locali come Gabriel Garko, Francesco Arca, Elisabetta Canalis. Mi misi anche a collaborare con grandi intellettuali italiani come i fratelli Vanzina ma, chissà perché, da allora la critica internazionale mi voltò le spalle. Tutti, tranne Cannibal Kid. Dopo quel nostro acceso primo scontro verbale, diventammo grandi amici e lo siamo tutt'ora. Adesso allora mi è venuta la curiosità di andare a recuperare la sua vecchia recensione su Pensieri Cannibali del mio Grand Budapest Hotel. Chissà, magari non aveva poi tutti i torti...
Grand Budapest Hotel
(USA, Germania 2014) Titolo originale: The Grand Budapest Hotel
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson
Ispirato ai lavori di: Stefan Zweig
Cast: Ralph Fiennes, Tony Revolori, Saoirse Ronan, Tom Wilkinson, Jude Law, F. Murray Abraham, Adrien Brody, Willem Dafoe, Mathieu Amalric, Tilda Swinton, Harvey Keitel, Jeff Goldblum, Léa Seydoux, Jason Schwartzman, Owen Wilson, Bob Balaman, Fisher Stevens, Giselda Volodi
Genere: wesandersoniano
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Grand figlio di buona donna, Wes Anderson. I suoi film sono sempre dei dolcetti deliziosi, ma dal gusto spesso dolceamaro. Dei dolcetti che vanno scartati con cura, come nel caso di Grand Budapest Hotel, un film stratificato, costruito con una cura mostruosa, con un’attenzione a ogni più piccolo dettaglio pazzesca. Riguardo a quest’ultima pellicola, ho sentito soprattutto due tipi di pareri: i primi sono quelli degli hipster del tutto esaltati come questa.
E poi ci sono quelli più tiepidi, che parlano invece di sterile esercizio di stile. A me le vie di mezzo non piacciono, però per una volta devo schierarmi nel partito dei dannati moderati. La verità, almeno in questo caso, forse sta davvero nel mezzo.
Da una parte, Grand Budapest Hotel è un film diretto alla grande. Wes Anderson raggiunge qui una fluidità di movimenti della macchina da presa, e anche della narrazione, come mai prima d’ora. A livello estetico, il soggiorno in questo hotel è davvero un piacere per gli occhi. Un incanto continuo, ricco di trovate registiche come l'alternarsi del formato in 16:9 con quello in 4:3. Anche in quanto a sceneggiatura, Wes Anderson tira fuori dei lampi di genio, delle chicche notevoli, dei momenti spassosi. Grand Budapest Hotel è un inno alla narrazione, a partire dalla sua struttura a scatole cinesi, ma vista l’ambientazione esteuropea è meglio dire in stile matrioska, di racconto nel racconto nel racconto nel racconto.
Dall’altra parte Grand Budapest Hotel è un film volutamente monco, diviso in 5 capitoli che sarebbero dovuti essere 6. Manca quello dedicato ad Agatha, il personaggio di Saoirse Ronan. Il narratore, il Lobby Boy dell'hotel ormai cresciuto, decide di troncare quasi del tutto quella parte del racconto, una pagina ancora troppo dolorosa della sua vita. Si ha così la sensazione che manchi qualcosa, qualcosa di fondamentale, che sarebbe stato capace di trasformare la pellicola da splendida esperienza estetica, a visione anche davvero emozionante. Grand Budapest Hotel è un film matrioska che rivela poco a poco i suoi strati, ma alla fine decide di non mostrarci l’ultimo. Il cuore.
Grazie al suo senso dell’umorismo particolare, e qui più incisivo e nero del solito, Wes Anderson ci regala un’ottima macchina da intrattenimento a metà strada tra commedia e thriller. L’impressione è però quella di un film che parla più al cervello che al cuore. Impressione confermata dai molti riferimenti più o meno ricercati, dalle comedy slapstick de ‘na vorta al cinema muto, dalle vaghe implicazioni politiche fino alla dedica finale a Stefan Zweig, come viene ben spiegato in questo post del blog La balena bianca:
A sciogliere i nostri dubbi, ecco che giunge la dedica finale: a Stefan Zweig. Tutto all’improvviso si fa chiaro, semplice, quasi commovente. Un’opera così cesellata, dalla finezza e dalle atmosfere mitteleuropee, non poteva che rifarsi a questo romanziere di inizio novecento, troppo rapidamente dimenticato dopo la sua tragica morte. Caso eccezionale quello dello scrittore austriaco, autore prolifico e dal successo mondiale (le sue opere vennero tradotte in cinquanta lingue), egli può essere considerato il primo autore di bestseller dell’età contemporanea, le avventure da lui descritte spaziavano dai viaggi in terre esotiche ai drammi più sottilmente psicologici, e i suoi protagonisti, come ci ricorda Silvia Montis nell’introduzione a una delle sue raccolte, erano “eroi involontari a confronto con un interrogativo epocale, sui quali si è abbattuto il pesante sigillo della Storia”, proprio come i due protagonisti di Grand Budapest Hotel, semplici inservienti nella bufera dei mutamenti geopolitici. Ma la vicinanza di Anderson allo scrittore austriaco è ben più profonda, di natura stilistica; assistiamo infatti a un evento sensazionale: la traduzione perfetta di un linguaggio letterario nel suo omologo cinematografico. Perché se i film di Anderson appaiono come giochi dal meccanismo perfetto, essenziali e impreziositi dalla cura del dettaglio, sempre la Montis ci ricorda che Zweig era “un cultore della rinuncia, dell’editing a levare anziché a irrobustire, del dettaglio fatale nascosto in un umile aggettivo anziché esplorato in un passaggio auto compiaciuto. Distillava, tagliava, asciugava: il movimento era sempre mirato. Il racconto, un congegno a orologeria”. Wes Anderson, dunque, con questa dedica, svela molto più di quanto si possa pensare. L’opera di Zweig non è una semplice ispirazione, ma un modello di poetica e di intenti, quasi il regista americano volesse seguire persino la stessa sorte dell’autore austriaco, spazzato via dalla storia della letteratura contemporanea, colpevole di intransigenza formale.
Quanto a me, come detto sto nel mezzo. Lunga da me accusare Wes Anderson di intransigenza formale, devo ammettere che nel caso di Grand Budapest Hotel è la forma ad avermi colpito di più rispetto ai contenuti. Sarà perché io in generale sono un fan della forma (e soprattutto delle forme).
Nonostante qualche lampo di umanità, i personaggi che popolano il Grand Budapest Hotel e i suoi dintorni non riescono a trasformarsi del tutto in persone in carne e ossa, come invece capitava nel precedente stupendo e quello sì davvero toccante film del regista Moonrise Kingdom. Ma probabilmente è solo colpa mia. Avrei voluto meno Ralph Fiennes, attore che continuo a non sopportare, e più Saoirse Ronan! È quasi come se Wes Anderson in fase di montaggio avesse fatto il Terrence Malick della situazione e avesse sforbiciato di brutto il suo personaggio. Quello che avrebbe potuto regalare più emozioni a un film che invece resta una visione molto da Est Europa. Un’affascinante quanto fredda matrioska.
(voto 7,5/10)
Questo era quanto diceva Cannibal Kid su Pensieri Cannibali nell’ormai lontano 2014. Ora che parlo perfettamente l’italiano, ho capito fino in fondo l’intero contenuto del post. La mia impressione rispetto ad allora però non è cambiata e la ribadisco ancora una volta: “Non dire stronzate, ragazzo cannibale. Questo è il mio film più bellissimo!”.
Tratto dalla graphic novel: Il blu è un colore caldo di Julie Maroh
Cast: Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche, Aurélien Recoing, Catherine Salée, Alma Jodorowsky, Jérémie Laheurte, Benjamin Siksou, Mona Walravens, Anne Loiret, Benoît Pilot, Sandor Funtek, Samir Bella
Genere: porno lesbo d’autore
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Adele non è quella di “Someone like youuuuu!”, la canzone preferita da quelli che dedicano una canzone in radio al proprio tipo/tipa senza rendersi conto che il testo parla di una rottura, non di un amore destinato a durare in eterno. O meglio, Adele è sì quella di “Someone like youuuuu!” e altre strepitose canzoni che parlano per lo più di cuori spezzati, ma non è lei l’Adele di cui ci occupiamo oggi.
L’Adele di cui ci occupiamo oggi è una ragazza di Parigi all’ultimo anno di liceo e alle prese con i primi stravolgimenti sentimentali e sessuali. Esce con un ragazzo, uno che fa musica ma non ha mai letto un libro in vita sua a parte Le relazioni pericolose che in pratica gliel’ha letto il prof. a scuola al suo posto spiegandogli per filo e per segno ogni passaggio, altrimenti lui non ci capiva una cippa. Adele invece è una che adora leggere. Oltre a essere una bella fig... pardon femme, è anche interessante e interessata a livello culturale. Un’altra cosa che le piace, oltre ai libri, sono le ragazze. Frequenta questo tipo semi analfabeta, ma in giro guarda le girls. Soprattutto quelle con i ragazzi blu. È un po’ confusa, non sa cosa scegliere.
Ragazzi?
"Già finito?"
O ragazze?
Ragazze, ovvio!
Adele va così per locali “alternativi” insieme al suo amico gay e finisce in un bar per lesbiche, dove ritrova la misteriosa ragazza con cui aveva incrociato per magia lo sguardo qualche giorno prima: Emma (Léa dai capelli blu Seydoux). E da lì comincia la loro storia d’amore. D’amore e sesso. Tanto sesso. Ma proprio tanto. Roba che di scene così lunghe ed esplicite di sesso non se ne vedono molto spesso nel cinema. Nel cinema non porno.
Quindi, in pratica, La vita di Adele è un porno lesbo, con in più una gran bella trama che ci racconta dell’educazione sentimentale della sua protagonista. Ovvero un capolavoro. O un quasi capolavoro.
Adele è portata sullo schermo da Adèle Exarchopoulos, giovane promettentissima attrice francese di chiare origini greche. Io mi chiedo: ma quando il regista francese di chiare origini tunisine Abdellatif Kechiche l’ha ingaggiata per il film, poteva immaginarsi che gli avrebbe regalato una performance del genere? Che Léa Seydoux fosse brava già si sapeva, ma questa giovane quasi esordiente totale?
Adèle Exarchopoulos in questo film ha messo tutta se stessa, sia a livello fisico - e che fisico! - che recitativo, non risparmiandosi in nessun frangente, soprattutto quelli sessuali. Se il personaggio di Adele prende vita è soprattutto per merito suo. Per carità, Kechiche è bravissimo a girare con uno stile che combina porno, neorealismo, nuova scuola francese (quella stile La classe, Polisse e 17 ragazze), più dogma 95 style alla Lars Von Trier giusto un po’ meno perfido e misogino. Bravo Kechiche, però sarebbe davvero difficile pensare il film con una protagonista differente. Adele è Adèle. Non la cantante: Adèle Exarchopoulos.
Provate a immaginare se il film fosse stato girato in Italia. Provate a immaginare una Alessandra Mastronardi o una Martina Stella al suo posto. Il regista sarebbe anche potuto essere Kubrick, ma ne sarebbe uscita una porcata. Invece ne è venuto fuori il film vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2013. Un capolavoro. O quasi, dicevamo.
Perché La vita di Adele non è un capolavoro, ma “solo” un quasi capolavoro?
La pellicola è divisa in due capitoli. Il primo è stupendo. Uno dei più bei ritratti teen mai visti. Un racconto di formazione che affronta il tema della confusione sessuale di petto, letteralmente, e ci presenta una storia d’amore in maniera poetica ma non sdolcinata.
Il secondo capitolo è diverso. Non è che faccia schifo, nient’affatto. La sensazione che ho avuto è però che ci siano troppi salti temporali, alcuni piuttosto repentini. Come se il film, che fino a quel momento si era preso tutto il tempo che voleva per dare vita ad Adele, si fosse improvvisamente messo a fare uno scatto, finendo per raggiungere il traguardo con un po’ di fiatone. In maniera analoga a quanto successo con un altro film simile, l’affascinante ma meno riuscito Laurence Anyways di Xavier Dolan, con cui ha in comune il tema della confusione sessuale, così come una lunghezza esagerata e una parte conclusiva che finisce per diventare un pochetto ripetitiva, visto che ATTENZIONE SPOILER anche in questo caso abbiamo un re-incontro doppio tra le due protagoniste, Adele ed Emma, che volendo si poteva ridurre a uno solo. FINE SPOILER
Questo giusto per andare a cercare il pelo nell’uovo. Che poi qualcuno di voi ha mai trovato un pelo in un uovo, in vita sua?
Che schifo!
Al di là come detto di questo piccolo difettuccio, che comunque contribuisce a renderlo ancora più umano e vivo, La vita di Adele è un filmone fiume meraviglioso che nel corso delle sue 3 ore conquista e travolge grazie alla sua impressionante intensità. Una pellicola che fa innamorare, non tanto della Seydoux dai capelli blu, ma di Adele.
Adele chi?
La vita di Adele è un film spezzato in due parti che parla di un cuore spezzato, quindi sì, alla fine in pratica è come una canzone di Adele. Quella di “Someone like youuuuu!”.
Il suo 2013: protagonista del film Palma d'Oro al Festival di Cannes 2013 La vita di Adele, in più è apparsa negli spot Prada: Candy firmati da Wes Anderson, con cui ha girato anche il suo prossimo film The Grand Budapest Hotel
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È in classifica: perché una classifica senza di lei sarebbe mooolto meno chic
Il suo discorso di ringraziamento: "Tres bien, merci beaucoup garçon cannibale."
Adèle Exarchopoulos
(Francia, Grecia 1993)
Genere: esordiente allo sbaraglio
Il suo 2013: l'altra protagonista del film Palma d'Oro al Festival di Cannes 2013 La vita di Adele
Se ti piace lei, ti potrebbero piacere anche: Diane Fleri, Léa Seydoux
È in classifica: perché è la topa tipa rivelazione del cinema europeo 2013
Il suo discorso di ringraziamento: "Tres bien, merci beaucoup garçon cannibale."
(oh, non rompete! in francese non so altro)
Dicono di loro su tetter t.A.T.u.@tatu_official
Cioè, noi facevamo le stesse cose 10 anni fa e non c'han dato manco un Teleratto e ora a queste due hanno consegnato persino la Palma d'Oro?
Marco Goi@cannibal_kid
Non so come si pronuncino correttamente i loro cognomi, ma tanto per me sono: #Lea Seduce e #AdeleExageratopolas
Detto così, sembra che qui a Pensieri Cannibali si sia seguito l’evento cinematografico giorno per giorno, film dopo film. Non è esattamente così. Purtroppo non ero presente sulla Croisette, ma se il prossimo anno qualche giornale, rivista, sito e/o compagnia di catering volesse sponsorizzarmi la trasferta, mi offro ben volentieri! GRAZIE
Poco fa si è tenuta la cerimonia di chiusura della manifestazione, condotta dalla madrina Audrey Tautou, arrivata direttamente dal magico mondo del cinéma. Quali sono stati i verdetti della giuria, presieduta quest’anno dall’ormai bollito, almeno come regista, Steven Spielberg?
Le sue decisioni saranno state ai livelli del mediocre Lincoln o addirittura del tragico War Horse?
Scopriamolo subito…
Miglior attore
Bruce Dern per Nebraska di Alexander Payne.
Attore dalla carriera lunghissima visto anche ne Il grande Gatsby versione 1974, dove interpretava la parte di Tom Buchanan. In più, è pure il paparino di Laura Dern, la musa numero 1 del cinema di David Lynch. Sarà stato un premio meritato? Boh, di certo Alexander Payne, quello di Paradiso amaro e Sideways, è un regista che sa tirare fuori il meglio dai suoi attori.
Miglior attrice
Berenice Bejo per The Past di Asghar Farhadi (il regista iraniano di Una separazione). Pollice su, per la francesina rivelazione di The Artist.
A presentare il premio per la miglior sceneggiatura c’è Asia Argento, con un tono di voce da femme fatale dark che sembra stia per avere un orgasmo da un momento all’altro. E mentre la nostra Asia si distrae, l’award va a Thian zu Ding per la pellicola A Touch of Sin del cinese Jia Zhang-ke. Che tutti conosciamo, nevvero?
"Un saluto dall'Italia, Mr. Spielberg!"
Premio della Giuria
Like Father. Like Son, del giapponese Hirokazu Koreeda, regista noto per aver affrontato spesso nei suoi film il tema del lutto. Un allegrone, in pratica. Yatta!
Il Prix de la mise en scène per il miglior regista va… al messicano Amat Escalante per Heli.
Kim Novak, e dico la donna che visse due volte Kim Novak, consegna il Gran Premio della Giuria a Inside Llewyn Davis. Nonostante generalmente non sopporti un granché i fratelli Coen, questo film a tematica musicale con Oscar Isaac, Justin Timberlake e Carey Mulligan mi incuriosisce assai.
Palma d’Oro
La Dea Uma Thurman consegna il premio più ambito a…
Il favorito della vigilia: La vie d'Adele, pellicola francese firmata dal regista tunisino Abdellatif Kechiche. Non ho visto i film precedenti del regista, che ho lì lì da recuperare, però una pellicola con scene lesbo tra la splendida e bravissima Léa Seydoux e la rivelazione Adèle Exarchopoulos, entrambe molto commosse durante la premiazione, sulla fiducia la Palma d’Oro se la merita tutta.
Certe che al giorno d’oggi a chiamarsi Adele si vincono Grammy, Oscar, Mtv Awards e ora pure la Palma d’Oro.
La Palma d’Oro alla gnoccaccine, premio consegnato in esclusiva da Pensieri Cannibali, va invece a…
Emma Watson
"Thank you, Cannibal!"
Riassunto dei premi del Festival di Cannes 2013 per chi non aveva voglia di leggersi tutto il post
Palma d'oro: “La Vie D'Adele” di Abdellatif Kechiche
Gran Prix: “Inside Llewyn Davis” di Ethan e Joel Coen
Premio alla regia: Amat Escalante per “Heli”
Premio della giuria: “Like Father, Like Son” di Kore-Eda Hirokazu
Miglior attore: Bruce Dern per “Nebraska” di Alexander Payne
Migliore attrice: Berenice Bejo per “Le Passé” di Asghar Farhadi
Miglior sceneggiatura: Jia Zhangke per Tian Zhu Ding (A Touch Of Sin)
Palma d'oro al miglior cortometraggio: Safe di Moom Byoung-gon
Menzione speciale al cortometraggio: Hvalfjordur (Whale Valley / Le Fjord des Baleines) di
Gudmundur Arnar Gudmundsson
Camera d'Or: Ilo Ilo di Anthony Chen (Quinzaine des Réalisateurs)
E Paolo Sorrentino? E Toni Sorvillo? E La grande bellezza? E i film di Ozon, Polanski, Soderbergh e Jim Jarmush? E il fischiato Solo Dio perdona di Refn?
Per loro niente. Potrà Dio perdonare Steven Spielberg?
Titolo originale: Mission: Impossible - Ghost Protocol
Regia: Brad Bird
Cast: TOM CRUISE, jeremy renner, Simon Pegg, Paula Patton, Michael Nyqvist, Léa Seydoux, Josh Holloway, Anil Kapoor, Tom Wilkinson, Samuli Edelmann, Vladimir Mashkov, Ving Rhames, Michelle Monaghan
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TOM CRUISE presenta
TOM CRUISE 4: PROTOCOLLO TOM CRUISE
una produzione di TOM CRUISE
con TOM CRUISE
e la partecipazione straordinaria di TOM CRUISE
L’ho già detto che in questo film c’è TOM CRUISE? TOM CRUISE nella parte di TOM CRUISE sotto l’alias di Ethan Hunt che si arrampica da solo su un grattacielo a mani nude senza controfigura perché lui è TOM CRUISE?
"Ciao TOM, sono di nuovo TOM. Chiamavo solo per ricordarti che ti amo!"
Riesce difficile immaginare la saga di Mission: Impossible non senza Ethan Hunt, ma senza TOM CRUISE. Questi 4 episodi sono stati infatti soprattutto (unicamente?) uno sfoggio di TOMCRUISAGGINE e quindi la news che questo Protocollo fantasma possa rappresentare un passaggio di testimone dalle mani del Divo TOM CRUISE a quelle dell’ancora relativamente sconosciuto jeremy renner non sembrano così attendibili.
jeremy renner chi, chiede qualcuno seduto in fondo alla sala?
jeremy renner è stato il protagonista di The Hurt Locker e, mmm vediamo un po’… ha fatto anche The Town e… mmm, basta. Un CV ancora tutto da scrivere ma che per il momento non può certo competere con lo stardom supremo raggiunto da TOM CRUISE.
"TOM, vuoi parlare con TOM? Oddio, scusa OTTOM, quanto sei fissato!"
In attesa di scoprire se questo sarà davvero l’ultimo capitolo con TOM CRUISE protagonista, godiamoci intanto un breve tuffo nel passato.
Mission: Impossible 1: non mi era piaciuto. Ben orchestrato, realizzato in maniera impeccabile, con una notevole Emmanuelle Béart, con una magistrale scenona in cui TOM CRUISE stava sospeso nel vuoto, però Brian De Palma ha fatto moooolto ma moooooooooooooooolto meglio.
Mission: Impossible 2: non mi era piacito. Ricordo solo TOM CRUISE che si arrampica su una montagna, il tema musicale rivisitato in maniera esaltante dai Limp Bizkit, una regia di John Woo pseudo spettacolare, tanta noia.
Mission: Impossible 3: mi era piaciucchiato abbastanza. J.J. Abrams ci ha messo il suo tocco magico e ha regalato una maggiore umanità al personaggio di TOM CRUISE, in un film forse meno spettacolare ma più coinvolgente a livello emotivo rispetto agli altri.
E ora, attiviamo il Protocollo TOM CRUISE, intendevo il Protocollo fantasma.
"Lasciami! Solo TOM CRUISE può salvare TOM CRUISE!"
Per una serie action/spy come questa, per altro giunta ormai alla quarta puntata, la buona riuscita è dovuta, oltre alle buone condizioni di forma di TOM CRUISE, o più che a una sceneggiatura chissà quanto originale, alla buona orchestrazione delle varie scene d’azione. Delle coreografie, dei numeri spettacolari equivalenti alle canzoni in un musical. Per questo aspetto M:I 4 fa il suo porco dovere più che bene, tirando fuori delle trovate ad alto tasso di effetto “WOW!” che sembra di essere al circo più che al cinema, però il massimo che si può chiedere a una visione del genere è questo: venghino, signori, venghino!
"Mi scatto una foto da postare su Twitter per mostrare a tutti
quanto sono figo anche mentre sto rischiando di morire!"
Tra i numeracci della pellicola c’è una spettacolosa scena d’apertura, con la fuga di TOM CRUISE Ethan Hunt dal carcere grazie all’aiuto matrixiano di un Simon Pegg in versione Morpheus. Solo, più britannicamente cazzaro. Il suo personaggio contribuisce a dare maggiore umorismo rispetto agli altri episodi, anche se la battuta migliore spetta al jeremy renner, che dopo aver rischiato la vita in una mission impossible annuncia: “La prossima volta il riccone lo seduco io.”
Quindi c’è l’esplosione del Cremlino, cui TOM CRUISE riesce a sopravvivere per un solo motivo: è TOM CRUISE. Tra l’altro riesce pure a scappare dall’ospedale e persino quando fotte i vestiti in giro, la mission di TOM CRUISE è una e solo una: apparire il più cool possible. Anche con una felpa hoodie raccattata in giro, TOM CRUISE riesce a fare tendenza.
Nei giri all around the world di TOM CRUISE e dei suoi amichetti del momento, che in genere cambiano da episodio a episodio, c’è spazio anche per una capatina finale in India, ma la scena più spettacolare, esaltante e soprattutto inverosimile è quella tanto strombazzata a Dubai, sul Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo. Ho le vertigini soltanto a scrivere il suo nome, nonostante mi faccia pensare più al rapper Wiz Khalifa che non a qualcosa di altissimo. Yo.
"Non sarai mai un TOM CRUISE!"
"Ma io... veramente... cercavo solo il bagno..."
In ogni caso, soffro talmente tanto di vertigini che quando da McDonald’s c’erano le patatine vertigo, me la facevo sotto a mangiarle e preferivo ordinare le chips normali. Per quanto notoriamente schifose meno buone.
TOM CRUISE invece non ha paura di niente. Altroché vertigini. Per lui è stata una passeggiata. Ma avrà girato davvero gran parte delle scene in prima persona?
Non importa saperlo. Così come non importa che le missioni di TOM CRUISE Ethan Hunt, lo dice il titolo stesso, siano mission umanamente impossibili. Se volete vedere del realismo, andate a riguardarvi un film di De Sica. Vittorio, non Christian. Quelli di quest’ultimo sono ancora più inverosimili. Vedere Belen Rodriguez o la Ferilli recitare? Una vera mission: impossible.
Merito della riuscita di quest’ultimo episodio, oltre a un TOM CRUISE in forma più TOMCRUISEGGIANTE che mai, va anche a BRAD PITT. No scusate, TOM CRUISE non divide la scena con un altro Divo. Volevo dire: Brad Bird, regista del poco incredibile Gli Incredibili che ha cercato di essere credibile alla sua prima prova live-action con attori in carne e ossa e muscoli, soprattutto quelli sfoggiati dal quasi cinquan-teen-ne TOM CRUISE. Un TOM CRUISE che nemmeno per mezza scena smette di ricordarci di possedere un fisico da far invidia a chi ha la metà, e pure ha chi a un terzo dei suoi anni.
"Dai Léa, muoviamoci a girare prima che TOM CRUISE
voglia comparire pure nell'unica scena in cui non è presente!"
Nonostante i meriti del Brad Uccello, il tocco di J.J. Abrams un pochino si sente ancora, visto che ha firmato il soggetto della pellicola insieme a TOM CRUISE e poi un po’ di “lostaggine” è garantita dalla soundtrack firmata con mestiere da Michael Giacchino e dalla presenza di Josh Holloway, l’ex James Ford (quello vero!) dell’isola di naufraghi che però qui avrà un destino alquanto sfigato. Esatto: lo fanno morire alla prima scena. Per mano di Léa Seydoux, la fighetta francese assassina spietata alla Nikita, ma attenzione perché se non vi piace lei c’è spazio anche per la figona di colore (ma non troppo di colore) Paula Patton. E nel cast multietnico che più multietnico non si può, per far feliz todo el mundo ci sono pure il solito super cattivone stereotipato Michael Nyqvist, l’uomo che odia le donne della trilogia svedese, e l’indiano Anil Kapoor, superstar di Bollywood apparso anche in The Millionaire come Gerry Scotti di turno e nell’ottava e ultima giornata di 24.
Ma il cast multietnico di turno è soltanto un contorno, poiché la portata principale, la sola e più importante, come forse avrete già intuito è un’altra:
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