Come forse due o tre lettori avranno notato, io sono un grande fan delle Top 10. A volte però nemmeno queste bastano e così adesso è ora di tirare fuori una Top 100. Viva la megalomania!
Ho infatti deciso di stilare una classifica delle mie canzoni preferite di tutti i tempi e dieci soli titoli sarebbero risultati troppo, davvero troooppo pochi e allora: vai di Top 100.
CENTO! CENTO! CENTO!
Premessa: in questo elenco sono presenti brani appartenenti a varie epoche temporali e a differenti generi musicali. Non necessariamente i pezzi con cui sono cresciuto, ma quelli che mi piacciono di più in questo momento. Se la facessi tra un anno, o anche solo tra qualche mese, ci potrebbero essere molte differenze. Ora come ora le mie Top 100 songs sono queste.
Unica regola: lo stesso artista/gruppo non può essere presente con più di un unico brano. Cosa che significa 100 canzoni per 100 artisti/band differenti.
Senza perdere ulteriore tempo, via alla classifica con le posizioni dalla 100 alla 91.
"Hey, sto parlando con te... la smetti di ascoltare le canzoni cannibali?"
"Scusami, ma non ce la faccio. Sono troppo belle!"
"Pazienza, allora vorrà dire che non te la darò..."
"Hey no, aspetta. Ora hai la mia più completa attenzione."
100. Ronettes “Be My Baby”
Pura goduria retrò.
Scritta da Phil Spector, Jeff Barry ed Ellie Greenwich.
Cantano... le Ronettes!
99. Patti Smith “Summer Cannibals”
Adesso è estate, anche se sembra di stare in pieno autunno inverno.
Io sono un cannibale.
Quale canzone allora migliore di questa?
98. Dead Prez “Hip Hop”
Fin dal titolo, l'inno hip-hop supremo.
97. Lana Del Rey “Video Games”
Pensavate davvero di assistere a una classifica di Pensieri Cannibali priva della magnifica Lana Del Rey?
Illusi.
96. Baustelle “Charlie fa surf”
Io non voglio crescere, andate a farvi fottere.
95. Clash “Charlie Don’t Surf”
Secondo i Baustelle Charlie fa surf.
Secondo i Clash no.
Ma insomma, mettetevi d'accordo!
94. M83 “Midnight City”
Se gli alieni arrivassero sulla Terra, credo adorerebbero questa canzone.
Come faccio a saperlo?
Io, che su questa Terra mi sento un alieno, la adoro.
93. Pixies “Monkey Gone to Heaven”
Questo pezzo dal testo alquanto criptico - credo che manco Terry Gilliam e David Lynch insieme riuscirebbero a trovargli un senso - ha rappresentato il mio primo impatto con la musica alternative-rock dei Pixies. Prima ancora di sentire l'altrettanto epocale "Where Is My Mind?" alla fine di Fight Club. E il mondo, il mio mondo almeno, non è mai più stato lo stesso.
92. Rage Against the Machine “Bulls on Parade”
Un pezzo devastante dal primo all'ultimo istante.
91. Lenny Kravitz “It Ain’t Over ‘til It’s Over”
Non è finita, finché non è finita.
E questa classifica non è soltanto che all'inizio.
Appuntamento nei prossimi giorni con il resto della top 100...
Buongiorno badroni bianghi, cosa vi botere bortare?
Voi volere recensione di The Butler?
Lo so che voi aspettare già da un bo’, berò io essere imbegnato con classifiche di fine anno e boi essere imbegnato a servire un tibo abbastanza imbortante, uno che vive in una casa bianga, bianga come voi, e quindi scusare tanto se no trovare tembo ber fare recensione. Che boi non essere una di quelle recensioni fondamentali, amico. No si trattare di una di quelle che esaltare e consigliare di vedere il film a tutti i costi, e no si trattare nemmeno di stroncatura secca. Essere biuttosto una di quelle recensioni medie per una bellicola media che avere bregi e difetti e io boi berché barlare così? Io avere studiato in ottima scuola con voi bianghi e boi in questo film gente no barlare così, io confondere con Australia di Baz Luhrmann, quindi io ora smettere di barlare così, okay badroni?
The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca
(USA 2013) Titolo originale: The Butler Regia: Lee Daniels Sceneggiatura: Danny Strong Ispirato all’articolo: A Butler Well Served by This Election di Wil Haygood Cast: Forest Whitaker, Oprah Winfrey, David Oyelowo, Cuba Gooding Jr., Terrence Howard, Yaya Alafia, Jesse Williams, Lenny Kravitz, John Cusack, Robin Williams, James Marsden, Minka Kelly, Liev Schreiber, Nelsan Ellis, Alan Rickman, Jane Fonda, Mariah Carey, David Banner, Alex Pettyfer, Vanessa Redgrave Genere: servizievole Se ti piace guarda anche: The Help, Forrest Gump
La prima cosa di una pellicola che salta all’occhio di un pubblico di bianchi sono i difetti. Ah, i bianchi, mai contenti di niente! Sempre a guardare il lato negativo delle cose. The Butler è un film di quelli che trattano una tematica impegnata, come lo schiavismo e il razzismo, è pieno di retorica, è un’americanata ruffianata, in pratica. Questo è un difetto, senza dubbio. Però al suo interno non ci sono solo difetti.
Gli attori sono bravissimi e questo potrebbe non sembrare un difetto, però forse un po' lo è perché sono di quel bravissimo perfetto per l’Academy e per i premi vari. Un bravissimo talmente perfetto che perfino l’Academy potrebbe non cascarci più, considerando ad esempio come ai Golden Globe il film a sorpresa sia stato ignorato alla grande. Ed è un peccato, perché Forest Whitaker offre una performance notevole, non ai livelli di Ghost Dog, che quello rimane un film che vale una carriera e pure una vita, però è comunque notevole. Molto più ad esempio del pessimo Tom Hanks del pessimissimo Captain Findus. E ancor più degna di nota è la non protagonista Oprah Winfrey. Sì, “quella” Oprah Winfrey. La presentatrice più importante e ricca della tv americana, qui davvero fenomenale nei panni vestiti in maniera dannatamente naturale della moglie di Forest Whitaker.
Stupisce pure una irriconoscibile Mariah Carey in un piccolo ruolo, mentre Lenny Kravitz si conferma caratterista di razza ed è ormai capace di far dimenticare di essere una rockstar sexy e desiderata in tutto il mondo. Al cinema anzi è proprio bruttarello. È più bello Forest.
Da tenere d’occhio poi la fighissima e stylosissima Yaya Alafia (anche nota come Yaya DaCosta), quella de I ragazzi stanno bene, e il giovane David Oyelowo, che ha la parte del figlio maggiore di Whitaker. È proprio nel rapporto padre/figlio, nello scontro tra due differenti generazioni e tra due differenti modi di essere “negro” che il film ha i suoi momenti più intensi ed efficaci. È qui che sta il cuore del film.
Forest Whitaker è il cameriere di colore che passa la sua vita al servizio dei bianchi. Vive dentro al Sistema ma, zitto zitto, contribuisce in qualche modo a cambiarlo. Se oggi alla Casa Bianca siede un uomo di colore è anche grazie a uno come lui. Dall’altra parte il figlio David Oyelowo è invece un rivoluzionario, un ribelle, una Black Panther, uno che non ci sta a servire l’uomo bianco, lo Zio Tom, sì badrone. È anche grazie a quelli come lui se oggi alla Casa Bianca siede un uomo di colore. È qui che il presunto buonismo della pellicola, molto evidente in superficie, comincia a non essere poi tanto evidente. A contribuire al cambiamento sociale, al Change, ci sono stati pure i movimenti violenti. Questo è ciò che suggerisce il film e non è che sia proprio un messaggio così ruffiano o politically correct, che ne bensate, badroni?
La vera mazzata offerta dallo script di Danny Strong, mitico Jonathan in Buffy – L’ammazzavampiri e goldenglobbizzato per l’ottima sceneggiatura del film tv HBO Game Change, è però un’altra. Il film paragona infatti in maniera esplicita la segregazione razziale americana ai campi di concentramento nazisti, una cosa che non si sente certo tutti i giorni in una grossa produzione hollywoodiana. Non ad esempio nel ben più ruffiano Forrest Gump, film che voi badroni bianchi tanto amare.
"Il mio nome è Forest Gum... volevo dire Forest Whitaker."
Peccato che non tutta la pellicola sia altrettanto coraggiosa. Non lo è ad esempio la regia di Lee Daniels. L’autore del notevole Precious sembra aver messo da parte la ferocia di quel film, potente non solo a livello di contenuti ma anche stilisticamente, e qui adotta una regia molto formale, molto piatta. È come se Lee Daniels fosse passato dall’essere un giovane ribelle nero incazzato, come David Oyelowo nel film, a un uomo maturo che cerca di convivere dentro il sistema giocando secondo le regole, come Forest Whitaker nel film. Ed è così che ha firmato una pellicola che a livello registico poteva osare di più e che a livello di contenuti ha qualche spunto non male ma poi a un certo punto è come se tirasse indietro la mano, mentre a livello emotivo non riesce a essere coinvolgente tanto quanto una pellicola che affronta una tematica simile come il più efficace The Help.
La sfida di un racconto diluito parecchio nel tempo come questo, si parte dagli anni ’20 e si arriva al presente, era ardua. La sceneggiatura di Danny Strong ne esce in maniera tutto sommato decente, considerando i quasi 100 anni da raccontare. Nel voler trattare una storia e una Storia tanto ampie e lunghe, a essere tratteggiati in maniera inevitabilmente superficiale sono i vari presidenti degli USA per cui il personaggio di Forest Whitaker lavora: John Cusack nonostante il nasone che gli hanno appiccicato in faccia non c’azzecca un granché con Richard Nixon, Robin Williams è un Eisenhower macchiettistico, James Marsden si sforza ma non è per niente un JFK convincente, Liev Schreiber come Lyndon Johnson si poteva evitare, mentre Alan Rickman come Ronald Reagan ci sta, così come Jane Fonda nei panni della moglie Nancy Reagan.
Tanto tempo, troppo tempo, troppi Presidenti, troppi decenni da raccontare, troppi cambiamenti epocali e parecchi ovviamente non trovano lo spazio che avrebbero meritato. Da una materia così complessa, sia a livello temporale che di contenuti, si poteva tirare fuori un disastro, invece The Butler riesce a portare il suo servizio a buon, diciamo discreto compimento. Il film non dice niente di troppo nuovo a parte il citato paragone schiavismo/nazismo, e ci racconta storie che già conoscevamo. Eppure si lascia guardare dall’inizio alla fine e alcuni momenti, per quanto noti, è sempre bello riviverli. Come l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, un passaggio storico epocale almeno quanto il primo passo dell’uomo sulla Luna.
Si poteva, era legittimo pretendere un maggiore coraggio, certo. Ma a volte è meglio non strafare. A volte è meglio agire in maniera più composta, più sotterranea, e contribuire anche così a mutare le cose. C’è poco di rivoluzionario in un film come The Butler, però solamente un paio di passaggi di sceneggiatura per niente politically correct e scontati, come in questo caso, possono bastare. Le cose si possono cambiare pure così. Passo dopo passo. Presidente dopo Presidente. Film dopo film. Un pochino alla volta. Come fare Forest Whitaker in questo The Butler e come fare io, umile cameriere blogger al servizio di voi breziosi e illustri lettori bianghi di Bensieri Cannibali. Certo berò che una volta voi botere anche lasciare a me mancia, brutti badroni sbilorci! (voto 6+/10)
Se ti piace leggi anche: 1984, Il signore delle mosche, Il mito di Teseo, Battle Royale (manga)
Genesis
Cominciamo dall’inizio. Da Suzanne Collins, che un bel giorno si sveglia e ha una bella idea per un romanzo. L’idea di per sé non è delle più originali. L’autrice afferma che le è venuta mentre cazzeggiava e faceva zapping in tv, alternando qualche reality con un reportage dalla guerra in Iraq.
Reality + guerra = Hunger Games.
“Perché non è venuto in mente a me?” si è chiesta Maria de Filippi.
Alla base della storia vi sono inoltre i ricordi personali della Collins di quando il padre combatteva in Vietnam e di come è andato a scovare il colonnello Kurtz. Ah no, quello è Apocalypse Now.
Ma, soprattutto, alla base vi è il mito di Teseo.
"Ma perché nel nostro film non c'hanno messo Jennifer Lawrence?
Almeno morivamo felici..."
La battagliera questione Battle Royale
E Battle Royale? Il romanzo, nonché manga, nonché film giapponese?
È vero, i punti di contatto ci sono, piuttosto evidenti, soprattutto per quanto riguarda i Games veri e propri, però l’ispirazione principale è quella del mito secondo cui gli atieniesi ogni 9 anni mandavano 7 ragazzi e 7 ragazze ad un incontro, amichevole, con il Minotauro.
Quindi okay: Hunger Games è una copiatura. Però non di Battle Royale, bensì di un mito greco. E allora, ecco, lo dico: prima di sparare merda contro i miti di noi ggiovani come Hunger Games, almeno documentatevi, almeno!
Anche perché il tema di un gruppo di ragazzini costretti a scannarsi tra loro non è prerogativa del pur splendido e potentissimo Battle Royale, bensì è presente pure in altre opere come Il signore delle mosche. Ma quello mi sa che è servito più da ispirazione per Lost…
Sicuramente Hunger Games parte da uno spunto simile a quello di Battle Royale, però dire che ne sia la semplice copia americana è molto limitativo. La prima parte di HG, quella di preparazione ai giochi, è del tutto assente in BR, così come HG è parecchio più incentrato su una sorta di parodia estremizzata dei reality-show che non sulla violenza fine a se stessa. La storia è sviluppata poi intorno a un personaggio principale, quello di Katniss, mentre BR è molto più dispersivo e racconta un numero esagerato di sottostorie e di sottopersonaggi, non tutti ugualmente interessanti.
Analogo in entrambi è il senso di critica, però è una critica più politica in BR, dove viene preso di mira il Giappone del periodo fascista, mentre quella di Hunger Games è una critica di stampo orwelliano più sociale e ancora più attuale: agli Stati Uniti del presente, a un sistema capitalistico malato, al pubblico dei reality-show.
"Certo che se Taricone era ancora in vita, due colpi davanti alle telecamere
non si sarebbe fatto problemi a darmeli. Mica come te, Peto..."
Reality-show o (pulp) fiction?
Al di là del semplice gioco al massacro cui sono costretti a partecipare i 24 giovani Tributi dei vari Distretti, l’aspetto più interessante degli Hunger Games è il loro riflettere i meccanismi dei reality-show televisivi. La storia in tal senso è perfettamente giocata sul non far capire i veri sentimenti di Katniss e Peeta. Sono innamorati per davvero o è solo una messinscena per ottenere i favori degli sponsor e del pubblico? Un rapporto realtà/finzione mai svelato del tutto, perché è proprio così che funzionano i reality. Se Katniss sottostà alle regole del gioco non è per cambiare il sistema dall’interno. I suoi intenti, almeno in questo primo capitolo della saga, non sono tanto politici. A lei interessa soltanto l’unica cosa che ha conosciuto da quando è in vita: sopravvivere.
Se non uccide brutalmente gli altri concorrenti, non è tanto per un senso di buonismo in lei del tutto assente. È solo perché quella è la tecnica migliore che ha escogitato insieme al suo tutor Woody Harrelson. Aspettare che gli altri si scannino, scappare e solo dopo diventare lei stessa cacciatrice.
Il segreto del suo successo
Hunger Games è un blockbusterone assolutamente atipico. C’è una componente fantascientifica, ma gli effetti speciali non hanno mai la meglio sulla storia e sui personaggi. La vicenda sentimentale non viene caricata troppo e, anzi, ricopre un ruolo ancora minore rispetto al libro. In entrambi i casi, romanzo e pellicola, siamo comunque lontani anni luce dalle smancerie twilightiane. Non ci sono poi nemmeno vampiri, licantropi, maghetti, supereroi o altri personaggi tipici dei successoni degli ultimi anni. Non ci sono grosse scene d’azione, a parte il combattimento finale, e questo è il motivo per cui probabilmente qualcuno l’ha bollato come “noioso”. E non è nemmeno un film uscito in 3D!
Allora, perché è diventato un fenomeno globale?
Forse perché, come abbiamo visto, nasce come un mix di influenze dal passato anche molto remoto dei miti greci quanto dal presente di Battle Royale in versione occidentalizzata ed è una critica alla reality tv che ha imperversato negli ultimi anni. Uno dei motivi del successo di questa saga sta quindi tutto qui, nel riuscire a riflettere la società di oggi attraverso archetipi di stampo classico.
Un altro motivo del suo successo? Forse anche lei, Jennifer...
Suzanna tutta panna
L'autrice della saga letteraria Suzanne Collins non è una virtuosa della parola. Non è una scrittrice sopraffina. Il suo stile è molto semplice e di immediata comprensione. Suzanne Collins ha però una dote rara: sa tenerti incollato alla pagina. Quando mi sono addentrato nella lettura di Hunger Games ho pensato: “Mi leggo il primo capitolo, poi se non mi prende aspetto di vedermi il film per sapere come avanti la storia.”
Invece mi ha preso, cazzo se mi ha preso.
Ogni capitolo si chiude in una maniera diabolica, con un colpo di scena, una rivelazione che ti costringe ad andare avanti nella lettura. Uno stratagemma che ricorda la costruzione degli episodi delle serie tv più avvincenti, come Lost, dove si accumula e si accumula la tensione, fino a che sul più bello parte lo stacco pubblicitario. Il suo stile di scrittura è quindi molto moderno, molto televisivo, molto young adult, visto che il pubblico di riferimento è quello ggiovane, ma la sua fruibilità risulta universale. E il suo stile è anche molto cinematografico.
"Potrei aver aggiunto del Roipnol al tuo cocktail. Però bevi tranquilla, Katniss."
Lost in translation
Il pregio, e anche il limite, dell’adattamento per il grande schermo è quello di aver preso il libro pari pari e averlo semplicemente trasposto in immagini. Opinione personale: gli adattamenti migliori dei film sono quelli infedeli, almeno in parte, all’originale, perché il mezzo letterario e quello cinematografico sono parecchio differenti e quindi se ci si limita a una semplice traduzione da un media all’altro, qualcosa inevitabilmente va “lost in translation”.
Gary Ross e Billy Ray, unendosi nella sceneggiatura a 6 mani con Suzanne Collins, si sono quindi mantenuti molto fedeli all’originale, e lo si può accettare, però avrebbero potuto osare qualcosa di più. Una scelta piuttosto azzeccata, e per nulla scontata, che hanno fatto è comunque stata quella di NON adottare la voce fuori campo.
Il romanzo è scritto in prima persona e tutti gli eventi li viviamo attraverso lo sguardo di Katniss Everdeen. La scelta più facile sarebbe stata quindi quella di inserire la voce off della protagonista per spiegarci il suo punto di vista e tutto quello che succede. Così non è e credo sia un bene. La voce fuori campo può portare a risultati straordinari, come in Viale del tramonto, American Beauty o nei film di Terrence Malick, soprattutto quando viene usata per dare voce all’interiorità dei personaggi, però il più delle volte si rivela uno stratagemma pigro per raccontare a parole ciò che può essere raccontato con le immagini.
Optando per una scelta del genere, nel film di Hunger Games molte cose non sono spiegate e per chi non ha letto il libro possono risultare di difficile comprensione. La storia a grandi linee arriva a tutto il pubblico, però ci sono un sacco di piccole finezze che possono essere colte solo da chi ha letto il romanzo. Ad esempio, Gale che chiama scherzosamente la protagonista Katnip, storpiando il suo nome, o il gesto di rispetto che le rivolgono le persone del Distretto 12 quando decide di prendere il posto di tributo di sua sorella, o ancora la scena da brividi con il saluto di Katniss alla gente del Distretto 11 dopo la morte della loro Rue. Il momento emotivamente più forte della pellicola.
Questo è un pregio come anche un difetto della pellicola: un pregio perché comunque in un film non può essere spiegato tutto in maniera didascalica, altrimenti anziché 2 ore dovrebbe durarne 4, un difetto, perché sono delle piccole (ma nemmeno troppo) chicche che aggiungono significato e spessore alla storia, ma soprattuto alla figura di Katniss che emerge come personaggio molto più tridimensionale su carta che non su pellicola.
"Lenny, ma ti sembra questo il momento per fare del sesso selvaggio?
Comunque forza, prendimi su questo lettino, sarò la tua American Woman!"
Katnip
Sia il romanzo che il film sono divisi nettamente in due parti. La prima è quella costruita meglio, quella in cui il senso di ineluttabilità circonda la vita della protagonista. Un aspetto che nel film forse non è del tutto comprensibile a chi non ha letto il libro è l’incapacità, quasi totale, di amare o di provare emozioni da parte di Katniss. La sua non è un’apatia esistenziale, né una cattiveria intrinseca. È nata in un mondo privo di bellezza e soprattutto di speranza. Ogni cosa capita e bisogna accettarla. Ci sono i cazzo di Hunger Games? Seguiamo le estrazioni degli Hunger Games. Bisogna partecipare agli Hunger Games? Partecipiamo agli Hunger Games.
Panem è un mondo anestetizzato, in cui i Distretti più poveri non hanno niente, sono stati del tutto annientati e non hanno nemmeno la forza di ribellarsi. A questo servono gli Hunger Games. A privare la gente della capacità di immaginare un futuro diverso. “Non voglio avere figli” dice Katniss, perché questo non è un mondo in cui sente che una nuova creatura meriti di vivere, un po' come pensa Lori Grimes nella terra post-zombie di The Walking Dead.
Il suo atteggiamento non è comunque per nulla passivo: quando, con un colpo di sfiga totale, viene estratta la sorellina Prim come Tributo (ma sarebbe meglio dire Sacrificio) per gli Hunger Games, lei si offre per prendere il suo posto. E quando durante la competizione/show muore la sua amichetta Rue, lei le porge dei fiori come saluto funebre prima che vengano a rimuovere il cadavere, sebbene sia una cosa proibita. Ma l’affronto più grande Katniss lo compie nel finale, quando minaccia di suicidarsi in diretta insieme a Peeta. Questo è un aspetto poco approfondito nel film, che rimane fedele a grandi linee al romanzo, tranne proprio nella cruciale conclusione. La pellicola si chiude con un lieto fine, il trionfo dei due eroi che tornano a casa. Nel libro invece, per quanto trionfatori, si sentono entrambi sconfitti. Peeta, che viene rifiutato dalla sua amata, ma anche Katniss, incerta dei suoi sentimenti per Peeta e per Gale e convinta che, a causa dell’umiliazione inflitta agli autori degli Hunger Games, il peggio per lei debba ancora venire.
Un peccato che il finale del film addolcisca una pellicola che per il resto è decisamente scura e riflette bene prima l’atmosfera deprimente del Distretto 12 e poi quella surreale e kitsch dei preparativi agli Hunger Games in quel di Capitol City.
"Rosica, Gaga, rosica."
Dalle stalle alle stelle
Come dicevamo, la storia è divisa in due parti distinte. Se la seconda parte, quella degli Hunger Games veri e propri, segue le trame del survival in maniera avvincente (soprattutto nel romanzo) ma comunque piuttosto tradizionale, a convincere di più è tutta la grandiosa prima parte. È qui che Katniss si ritrova catapultata all’improvviso dalla sua vecchia vita nel Distretto 12, apparantemente grigia e priva di soddisfazioni, eppure anche piena di piccoli piaceri quotidiani, agli sfarzi di Capitol City.
Un contrasto stridente in cui le sue emozioni sono combattute. La vita vera per lei è sempre stata dura, nel Distretto più merdoso di Panem, dove ogni giorno deve andare a caccia per provvedere alla famiglia, visto che il padre è morto in un incidente in miniera. I piccoli piaceri sono però dati dall’andare a caccia in compagnia dell’amico e forse qualcosa più che amico Gale, o dal vedere il sorriso sul volto di quella cagacazzo di sua sorella dopo averle regalato una capretta.
Da quando entra tra i concorrenti degli HG, tutto invece diventa più facile: il cibo è buonissimo e sempre a disposizione, la sua stanza è piena di ogni comfort e anche il suo aspetto cambia. Da ragazzetta mascolina si trasforma in un gran figone. Quella però non è lei. La vera Katniss è la Katniss cacciatrice, quella dei boschi. C’è una scena molto bella e simbolica, nel film, in cui Katniss sceglie cosa vedere alla finestra della sua lussuosa camera: alle immagini della bella vita a Capitol City, lei preferisce gli alberi del distretto 12, la sua sola e unica casa.
Jennifer’s Body
La scelta di Jennifer Lawrence come protagonista era la più ovvia, almeno per chi ha visto Un gelido inverno - Winter’s Bone. Il personaggio di Katniss è infatti molto vicino alla Ree di quel film. Entrambe sono costrette a crescere senza il padre e a occuparsi della famiglia, vista l’incapacità delle madri. Entrambe sono in qualche modo cacciatrici. Entrambe vivono in due mondi (più reale uno, più immaginario ma nemmeno troppo l’altro) desolati, dove non c’è speranza di un miglioramento di vita effettivo. Entrambe vanno avanti con grandi dignità e senza mostrare mai le proprie emozioni, eppure mantengono sempre anche un certo senso di positività, di coraggio. Per quella parte, Jennifer Lawrence s’era beccata una meritata nomination agli Oscar e pure qui si conferma assolutamente perfetta.
Se proprio vogliamo trovarle un difetto, si può dire che è persino troppo gnocca per il ruolo, visto che nel libro la figura di Katniss sembra esteticamente meno dirompente. Però, oh, è un difetto che possiamo accettare.
"La smetti di chiamarmi Brunetta,
Anno Montano?"
I trombamici di Katniss e tutti gli altri
Nella parte di Peeta, il ragazzotto apparentemente ingenuo e sprovveduto che si trova suo malgrado a dover affrontare gli Hunger Games, è stato ingaggiato un altro mio idolo personale: Josh Hutcherson. Josh Hutcherson della commedia indie I ragazzi stanno bene e soprattutto dello splendido, commovente, fondamentale Un ponte per Terabithia, insieme a questo Hunger Games uno dei prodotti teen più interessanti e intelligenti degli ultimi anni. Con quella faccia da cane bastonato, quasi una versione al maschile di Carey Mulligan, è pure lui ideale per la parte. Azzeccato, in fin dei conti, pure il piuttosto inespressivo Liam Hemsworth (finora noto per essere il boyfriend di Miley "Hanna Montana" Cyrus e il fratello di Chris "Thor" Hemsworth) nei panni del pane e salame Gale, al momento piuttosto ininfluente nella storia ma in attesa di ricoprire un ruolo maggiore nei prossimi due capitoli della saga.
Grandioso, ma non è una sorpresa, Woody Harrelson come tutore e mentore ubriacone dei due Tributi del Distretto 12 e bene pure Lenny Kravitz, che dopo Precious si conferma credibile anche come attore. A lasciare un po’ più perplessi è una irriconoscibile Elizabeth Banks nei pitturatissimi panni di Effie Trinkett/Lady Gaga 2.0, personaggio che con la sua bonaria stupidità risultava più divertente all’interno del romanzo.
"Ti faccio diventare orphan di nuovo,
cara Katniss!"
Ampliati all’interno della pellicola, sebbene non in maniera del tutto convincente, i ruoli del presentatore Stanley Tucci con tanto di capello blu che sembra uscito da una band di J-pop, del perfido Donald Sutherland e di un Wes Bentley cui è stato regalato un ruolo nemmeno menzionato nel libro. Un po’ in ombra anche gli altri Tributi, tra cui c’è la bambina del film Orphan Isabelle Fuhrman e un Cato somigliante a Joffrey di Game of Thrones. Questa comunque è una scelta precisa di Suzanne Collins che nel libro mantiene il punto di vista sempre puntato sulla protagonista ed è questa per me una delle caratteristiche vincenti di Hunger Games, laddove in Battle Royale con tutta la sua marea di personaggi si fa più fatica a empatizzare con uno in particolare tra loro.
Er Direktor
Quando parliamo di un franchise, il nome del regista ha un peso relativo. Non ci troviamo ad avere a che fare con un’opera d’autore. Non d’autore a livello cinematografico, almeno, visto che il peso come autrice sembra essere rimasto saldo tra le mani di Suzanne Collins. Per quel che può valere, quindi, dietro la macchina da presa di questo primo capitolo della trilogia collinsiana è stato messo Gary Ross. Gary Ross che io voglio ricordare per quello splendido incanto di Pleasantville e non per il successivo Seabiscuit che, essendo allergico alle pellicole con i cavalli, ho sempre evitato di vedere. E poi… basta, ha diretto solo questi due film.
Pleasentville che pure era un’acuta riflessione sul potere della televisione: in quel caso ci si concentrava su una vita da sitcom anni ’50, mentre in Hunger Games i riflettori sono accesi su un reality-show portato alle estreme conseguenze.
Quasi quasi me lo rivedo, Pleasantville, che era poesia allo stato puro…
"Hai finito di cercare di inquadrarmi il culo?"
Trattandosi pur sempre di un franchise, i poteri di Gary Ross sulla pellicola sono in qualche modo limitati. La sua regia si mantiene sul tradizionale andante e prova giusto a inserire qualche momento più movimentato con la camera a mano nelle scene action, però il film sa convincere soprattutto nei momenti più tranquilli e riflessivi.
Per il prossimo episodio della saga, pare che Ross volesse più soldi e allora l’hanno rimpiazzato. La scusa ufficiale è che non aveva abbastanza tempo per preparare adeguatamente la pellicola, visto che è prevista in uscita per il novembre 2013 e in “solo” un anno e mezzo non ce la faceva… E così per La ragazza di fuoco (Catching Fire) hanno chiamato Francis Lawrence, non proprio una sceltona illuminata visto che ha diretto i modestissimi Constantine, Io sono leggenda e Come l’acqua per gli elefanti. Perché hanno scelto proprio lui? Probabilmente hanno fatto estrarre a Effie Trinket un nome a caso tra quelli del Distretto 12 dei registi.
Arcade Fire VS. Taylor Swift
Una grande cura al progetto Hunger Games è stata riposta anche nei dettagli, nonostante il budget relativamente contenuto per una grande produzione del genere (“appena” $78 milioni, fonte IMDb). Dai costumi molto kitsch della gente di Capitol City (a metà strada tra un video di Lady Gaga e quello di “Black Hole Sun” dei Soundgarden), alla notevole fotografia di Tom Stern (abituale collaboratore di Clint Eastwood), per arrivare alle musiche, orchestrate dall'esperto nel settore James Newton Howard (Il sesto senso, Il cavaliere oscuro, Collateral e un sacco di altre robe), autore di uno dei suoi score più riusciti degli ultimi anni.
Il fischio di Katniss che viene riprodotto in stereo dalle ghiandaie imitatrici, nella sua semplicità è poi una delle melodie che più mi rimarranno impresse di quest’annata cinematografica. Davvero inquietante.
Ottima anche la soundtrack uscita in accompagnamento al film, per quanto le canzoni dal Distretto 12 non vengano effettivamente utilizzate all’interno della pellicola, a eccezione del grandioso pezzo degli Arcade Fire “Abraham’s Daughter” suonato sui titoli di coda.
Le canzoni dal “Distretto 12 and Beyond” comunque fanno la loro bella figura come ascolto a parte e riescono a rendere bene l’atmosfera della pellicola. La proposta è parecchio varia e passa dal rap-rock di Kid Cudi al folk dei Decemberists, dal country di Neko Case e Miranda Lambert alla ballatona di Birdy, più dei Maroon 5 sorprendentemente (e irriconoscibilmente) riflessivi. E persino Taylor Swift riesce a fare la sua porca figura in inedita versione (all'incirca) rockeggiante con “Eyes Open” e nella sua più consueta veste virgin-pop-country con “Safe and Sound”.
"Nessuno riuscirà a fermarmi. Nemmeno mio figlio Jack Bauer!"
In the end
Per chiudere (in)degnamente questo post fiume, quello di Hunger Games è un mondo parecchio sfaccettato e complesso, che la pellicola è riuscita a ricreare in maniera per forza di cose più stringata rispetto al romanzo. Il personaggio di Katniss non viene fuori nella sua interezza, visto che si è scelto di evitare l’uso della voce fuori campo, eppure prende vita grazie allo sguardo freddo e impassibile di una Jennifer Lawrence perfetta. Per quanto nell’adattamento si potesse osare qualcosa in più, l’unico scivolone della pellicola risulta comunque il finale, in cui si sceglie l’happy ending e la tipica americanata di chiusura con il cattivone, anziché l’amarezza della conclusione del libro di Suzanne Collins. Decisamente meno “commerciale”, ma più efficace e malinconico.
In attesa di scoprire i prossimi due capitoli, nel complesso ne esce un primo episodio di una teen saga, anzi young adult saga, che poco o nulla ha a che fare con le altre serie fantasy in circolazione. E allora dopo questo post (quasi) serioso, permettemi una chiusura da perfetto bimbominkia: Hunger Games dà un sacco di merda a Twilight ed Harry Potter. Tiè, vampirelli e maghetti, io faccio parte del Team Katniss!
Volete sapere tutto su Hunger Games? Volete conoscere i punti di contatto con il giapponese Battle Royale? Volete sapere se è meglio il libro o l’adattamento cinematografico? Volete sapere se è meglio un tizio che si chiama Gayle Gale o uno che si chiama Peto Peeta? A parte quest’ultima questione, domani avrete le risposte.
Nell’attesa della recensione vera e propria, oggi beccatevi la trama riletta, rivissuta e risputata fuori in maniera cannibale.
Felici Hunger Games. E possa la sfiga essere sempre a vostro favore!
Hunger Games
(USA 2012)
Titolo originale: The Hunger Games
Regia: Gary Ross
Cast: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Stanley Tucci, Wes Bentley, Willow Shields, Lenny Kravitz, Amandla Stenberg, Alexander Ludwig, Paula Malcomson, Toby Jones, Isabelle Fuhrman, Jacqueline Emerson, Philip Troy Linger, Donald Sutherland
Se ti piace leggi anche: 1984, Il signore delle mosche, Il mito di Teseo, Battle Royale (manga)
Trama semiseria
ATTENZIONE: SONO PRESENTI SPOILER VARI
"Ammazza che gnocca che sei! Sicura di essere figlia mia?"
Katniss è sfigata per varie ragioni. Per prima cosa, perché vive nel Distretto 12 della terra di Panem. Un distretto talmente povero che il pane(m) si mangia giusto nei giorni di festa e a suicidarsi non sono gli imprenditori bensì gli impiegati dell’agenzia delle entrate.
La sua altra grande sfiga è quella di chiamarsi Katniss. I suoi genitori quando l’hanno scelto come nome cos’avevano dentro la testa, delle ghiandaie imitatrici?
È un nome talmente sfigato che viene sfottuta persino dal suo amico (solo amico?), uno che si chiama Gale, che tra l’altro è un nome da donna, e che nonostante questo si diverte a storpiare il suo in Katnip. E giù matte risate per questo giocone di parole che solo lui capisce.
Considerando che l’altro tizio del loro distretto si chiama Peeta, a quanto pare i ricchi e i potenti hanno anche il monopolio dei nomi importanti. A Capitol City infatti si chiamano tutti Caesar, Seneca, Cato, Pier Silvio…
Ma non corriamo troppo avanti.
"Mi ti farei più che volentieri, Katfig. Però sto già con Hannah Montana e se ci
becca suo padre Billy Ray Cyrus so' cazzi. Quello è un cantante country old style!"
Tra gli altri motivi di sfiga di Katniss c’è che il padre è morto, la madre per il trauma è diventata tipo catatonica e così lei si deve occupare da sola al sostentamento della walking dead mom e della viziatissima sorellina Prim. Per farlo potrebbe decidere di fare la escort minorenne, però nel Distretto 12 sono tutti troppo poveri per potersi permettere una zoccola minorenne, e così, escludendo il furto di autoradio visto che nessuno ha un’auto figuriamoci una radio, decide di ripiegare sulla caccia.
Comunque, c'è anche gente che se la passa peggio di quelli del Distretto 12: ad esempio gli abitanti di Rosello, in Abruzzo, che hanno votato Moccia come Sindaco. Perché l'hanno fatto? Perché così sperano non abbia più tempo per scrivere libri o persino girare film. Sagge persone.
La sfiga principale di Katniss però è un’altra, e non riguarda solo lei bensì tutti i giovani: nella terra di Panem ogni anno vengono organizzati gli Hunger Games, che sono un misto tra Giochi senza frontiere e il Grande Fratello, però più divertenti visto che i Tributi concorrenti devono uccidersi fino a che non ne rimarrà solo uno. Spesso si è fatto lo scontato paragone con Battle Royale, ma a me sembra che siamo più dalle parti di Highlander.
A questi Hunger Games sono costretti a partecipare due giovani, un ragazzo e una ragazza, per ogni distretto. Un crudele modo che i potenti della terra di Panem hanno per ricordare a ogni Distretto l’affronto che hanno fatto quando, tipo 74 anni a.K. (avanti Katniss), avevano osato ribellarsi contro la capitale, che molto fantasiosamente si chiama Capitol City.
Come ogni anno, avviene quindi l’estrazione dei due nomi dei Tributi da sacrificare per il divertimento collettivo del pubblico di Canale 5 in questa sorta di talent-show. Pare che il governo Monti, per far fronte all’aumentare della disoccupazione giovanile, stia studiando un decreto legge analogo, così si libera un po’ di tutti questi giovani che cercano di rubare le poltrone agli anziani Strateghi.
"Ok, ho sbagliato a dire che X-Factor era un reality quasi decente... Però la vostra reazione non è un filo eccessiva?"
Il primo nome nel Distretto 12 che viene estratto da una tizia che sembra Lady Gaga ai tempi di Marie Antoinette è… rullo di tamburi…
Emma Marrone!
La gente del Distretto si guarda esterrefatta e terrorizzata: con lei come tributo, il reality rischia di trasformarsi in un talent-show stile Amici e sai che due palle? Magari poi spunta fuori pure Belen con delle stampelle manco fosse stata aggredita da degli animali ibridi.
Katniss allora grida: “Nooooooo! Emma Marrone no! Mi offro io come volontaria!”
Ed è così che Katniss si è sacrificata per il bene comune e ha partecipato agli Hunger Games.
"Panem! Panem a buon mercato! Nessuno vuole del panem?"
Viene poi estratto il nome del Tributo maschile: “E il secondo partecipante per il Distretto 12 è… Peto Merdark.”
Risate collettive, fomentate dal solito Gale.
“Ehm, scusate, ho letto male: Peeta Mellark.”
I due fortunelli partono quindi per il campo di concentramento, volevo dire per gli Hunger Games, su un treno che non parte dal binario 9 ¾ e non trasporta maghetti secchioni, però in compenso contiene ogni genere di leccornia e ogni tipo di comfort. Compresi i materassi che Katniss e gli altri del Distretto 12 hanno visto solo nelle televendite di Giorgio Mastrota.
Dal vagone-bordello esce poi fuori Woody Harrelson in versione Larry Flynt. Uno che in qualsiasi altro Distretto sarebbe considerato l’ubriacone del villaggio, mentre nel Distretto 12 è l’uomo più importante, visto che in passato è l’unico ad essere riuscito a vincere gli Hunger Games. Come abbia fatto è uno dei grandi misteri senza risposta del primo capitolo di questa saga e dell’umanità tutta. Ma se la Juve è riuscita a vincere lo scudetto con in panchina un uomo che ha rubato il parrucchino a Nicolas Cage, allora tutto può succedere.
Durante l’allenamento di preparazione per gli Hunger Games senza frontiere, Katniss si segnala per la sua grande dote.
I pompini?
No, la sua altra grande dote: il tiro con l’arco. La giuria di esperti che deve giudicarla, composta da Simona Ventura, Giampiero Galeazzi e dall’immancabile Mara Maionchi, la ignora e così lei per vendicarsi, con una mira che manco Robin Hood si sogna, riesce a infilare la mela nella bocca di un maiale. E non mi riferisco a Giampiero Galeazzi.
"Sì, brava Katnip! Lo vedi questo? Non è un gesto di rispetto di qualche distretto..."
"Lenny, ti rifaccio il riff di Are you gonna go my way
meglio di una ghiandaia imitatrice!"
Come stilista personale, Katniss si ritrova Lenny Kravitz. All’inizio era stato contattato per essere il suo vocal coach, però ha voluto farlo Morgan e allora alla fine Lenny ha dovuto ripiegare tirando fuori le sue doti fashion. Non essendo però quello dello stilista il suo lavoro, Lenny mentre si fa una canna si addormenta, la lascia cadere sull’abito, questo prende fuoco mentre Katniss lo indossa e la folla va in delirio.
È così che Katniss è diventata La ragazza che giocava con il fuoco? No, quello è un romanzo di Stieg Larsson già sotto copyright. Più semplicemente allora viene ribattezzata La ragazza di fuoco, e poi anche La ragazza Bic, visto che la Bic è l’unico sponsor che quell’ubriacone di Woody Harrelson è riuscito a trovarle.
Dopo tutta la fase preparatoria, dopo le interviste nello studio degli HG con Alessia Marcuzzi e i video RVM di presentazione dei protagonisti con sotto qualche toccante canzone dei Coldplay usata come colonna sonora e dopo Peeta che confessa il suo eterno amore per quella bella topolona di Katniss, ecco che finalmente hanno inizio i 74esimi Hunger Games. I giochi della fame. E nemmeno questa volta mi riferisco a Giampiero Galeazzi.
"Sì, va bene, è una bella figa. Però adesso potete girare sulla partita della Juve,
che sta solo vincendo lo scudetto?"
La tecnica messa a punto da Katniss per sopravvivere è la più ovvia: battersi fino alla morte? Ma và: scappare, scappare, scappare!
Cosa combina invece Peeta? Peeta si allea con i Favoriti, i Tributi dei Distretti ricchi. Un gruppo di palestrati che sembra uscito da Jersey Shore, giusto un po’ meno ingellati. Anvedi sto infame di Peeta. E meno male che era il ragazzo innamorato…
Il gruppo di bulletti scova Katniss che fino ad allora era andata a fare tranquille scampagnate per i boschi della zona a raccogliere margheritine. Lei però, agile come una kat, scappa in cima a un albero e lancia loro addosso un alveare di api geneticamente modificate. Roba da far insorgere Michela Vittoria Brambilla e tutte le associazioni animaliste. L’arma comunque si rivela efficace e Peeta la aiuta a scappare.
Ah, ecco, allora è ancora innamorato: la patata è sempre più potente di tutto, persino delle alleanze con i tamarri di Jersey Shore, e quindi Peeta prosegue nella sua unica missione personale degli Hunger Games. Sopravvivere? No, infilarsi nel triangolino inesplorato (che sia effetivamente inesplorato poi è tutto da vedere) della micetta Katniss. La quale, nel frattempo, si è alleata con Rue.
Chi è Rue?
"Heil Hitler! Volevo dire... Heil Panem!"
Rue è una piccoletta del Distretto 11 che avrà sì e no 11 anni ma ne dimostra massimo 6. Madonna, che allenza! Vai Katniss, che con ‘sta bimbetta hai proprio il culo parato. Hai già la vittoria in tasca!
Katniss, che fino ad allora aveva fatto la dura e pura hardcore con sempre indosso la maglietta dei Metallica che ormai cominciava a puzzare, si ricorda di essere pur sempre una ragazzina di 16 anni e con la amichetta regredisce allo stato bimbominkia. Le due si mettono così a fischiettare un pezzo dei One Direction, che viene subito riprodotto dalle ghiandaie imitatrici, che scaricano il pezzo da eMule, lo masterizzano illegalmente, lo ricantano e poi postano il video su YouTube, sperando che i loro idoli lo sentano e lo pubblichino tramite la loro pagina Facebook.
Sentendo questo pezzo, le due si ricordano così che il mondo è un posto ingiusto, in cui un gruppo di ragazzini può essere mandato a massacrarsi fino alla morte negli Hunger Games, mentre un altro gruppo di ragazzini come gli One Direction spopola non solo nelle classifiche musicali, ma pure nelle classifiche dei libri.
Da brava bimbaminkia che si rispetti, Rue si distrae con le soavi (?) melodie dei One Direction, e finisce prigioniera degli altri Tributi cattivoni, i quali escogitano una trappola per Katniss che puntuale ci casca. Però Katniss, astuta, arriva allo scontro con un paraorecchie che la protegge dalle melodie in realtà infernali dei One Direction, mentre ai Tributi cattivoni, privi di paraorecchie, fanno scoppiare la testa. Peccato che nello scontro muoia anche la piccola Rue. Come gesto di sfida nei confronti dei potenti di Panem, e nei confronti degli amanti di bella musica in generale, Katniss dedica una canzone dei One Direction alla gente del Distretto 11. Nel Distretto si generano scene di panico, con le fan della giovane band britannica in delirio.
"Ma tu chi sei? Gli Hunger Games non li conduce più la Marcuzza?"
A sorpresa, la voce di Alessia Marcuzzi interrompe la canzone e annuncia una nuova regola del gioco: nel caso due tizi dello stesso Distretto arrivino fino in fondo vivi, allora vinceranno entrambi. E così Katniss va alla ricerca di Peeta. Un po’ per averlo come nuovo alleato, un po’ perché è già passata qualche settimana dall’inizio dei giochi e le è venuta un gran voglia di trombare.
Lui però è malconcio e ha qualche problemino lì sotto, nei Paesi Bassi. Per aiutarlo, Woody Harrelson gli fa mandare da uno sponsor una confezione di Viagra. Ma… niente. Non basta nemmeno quello. Katniss, delusa, non sa più che fare. A casa il suo amico Gale preferisce dare la caccia agli scoiattoli piuttosto che alle sue mutandine, lì a Peeta non gli si alza la bandiera… Ma cosa c’hanno, ‘sti ragazzi del Distretto 12?
Nel frattempo, il perfido Cato uccide l’altro concorrente del Distretto 11, mentre Faccia di Volpe si rivela tutto fuorché astuta come una volpe, mangia una confezione di bacche su cui c’era scritto a caratteri cubitali: “SE LE MANGI MUORI!” e… muore.
In gara sono rimasti dunque soltanto Cato, Peeta e Katniss.
Katniss, sempre più in crisi d’astinenza, propone un ménage à trois, sai mai che a Peeta in questo modo non gli si risvegli l’ormone. Però oh, non c’è niente da fare. A quello non gli si alza proprio. La produzione del GF, pardon degli HG decide così di mandare degli animali transgender. Con quelli, Peeta comincia ad eccitarsi e Cato, in preda alla paura, decide di farsi sbranare piuttosto che finire vittima della sorprendente proboscide di fassbenderiana memoria spuntata a Peeta.
"Coraggio Katniss, dopo i One Direction ti canto io una canzone: I Belong to You"
"Ah, ma allora almeno uno che non è un Hunger Gay in tutta Panem c'è!"
Sono rimasti così solo Katniss e Peeta e, secondo il nuovo regolamento, entrambi hanno vinto. E invece no. Nuovo colpo di scena: la voce di Alessia Marcuzzi dice che le regole sono cambiate un’altra volta e ci può essere un solo vincitore.
Che fare, allora? Katniss e Peeta pensano di suicidarsi e per farlo il modo più veloce è uno solo. Le bacche velenose che hanno fatto morire quella volpona di Faccia di Volpe?
Ma no, il metodo più rapido è ascoltare una melodia dei One Direction. Quando Katniss sta per fischiettarla in modo che le ghiandaie imitatrici possano riprodurla nei loro stabilimenti Made in China, ecco che la voce di Alessia Marcuzzi li interrompe: “Ma no, ah rigà, ve stavamo a pija’ per culo! Lo sapete come siamo noi dei reality-show, ci piace scherzare e fare sorprese peggio del Puffo Burlone. Avete vinto tutti e due! E, indovinate un po’, in studio ci sono degli ospiti a sorpresa venuti apposta per voi: i One Direction!”
A quel punto, Katniss fischietta la melodia di “What Makes You Beautiful” che viene riprodotta dalle ghiandaie imitatrici. Tempo pochi istanti, e le orecchie di Katniss e Peeta cominciano a sanguinare. I tizi della produzione riescono però a intervenire in tempo e a salvarli miracolosamente.
Sul treno che li riporta a casa nel Distretto 12 da vincitori, Peeta chiede a Katniss cosa faranno ora.
“Dobbiamo dimenticare. Dimenticarci dei One Direction,” le consiglia lei.
“Ma non ce la faccio, il loro pezzo è troppo irresistibile. Ormai non riesco più a togliermelo dalla testa” e si mette a canticchiare e a ballare:
Baby you light up my world like nobody else The way that you flip your hair gets me overwhelmed But when you smile at the ground it aint hard to tell You don't know Oooh Oooooh You don't know you're beautiful
Scesi dal treno, Gale si unisce a lui nella coreografia della canzone. Katniss li guarda e alla fine realizza:
“Mi sa che nel prossimo episodio saranno loro due i protagonisti di un nuovo reality. E, chissà perché, ho come l’impressione che il titolo verrà cambiato in Hunger Gays…”
Clicca QUI se vuoi leggere la recensione cannibale seria (o quasi) di Hunger Games.
Ho visto “Precious” parecchio tempo fa, visto che negli USA è uscito già da una vita mentre in Italia è stato distribuito nei cinema solo nell’ultimo weekend. Non lo dico per tirarmela, ma solo per segnalare come in rete oltre agli (pseudo) scoop di Wikileaks si possano anche trovare film in lingua originale (con sottotitoli italiani prontamente realizzati da qualche idolo e postati su siti come ItalianShare e ItalianSubsAddicted), senza dover per forza aspettare i porci comodi della distribuzione nostrana.
D’altra parte “Precious” è solamente un film osannato in patria, un caso mediatico e cinematografico premiato al Sundance che ha avuto 6 nomination agli Oscar portandosene a casa 2, sponsorizzato da Oprah Winfrey e definito il primo film dell’era “obamiana”. Vi sembra uno di quei film importanti da distribuire subito?
E poi anticipo che l’ho visto da parecchio anche per mettere le mani avanti se questa non sarà la mia solita recensione brillante (lo so, oltre a tirarmela sono pure modesto), però il film non è più così scolpito nella mia memoria.
Nonostante dalla visione sia passato del tempo, mi è però rimasto ancora un livido sullo stomaco. Perché questo film sa picchiare durissimo: “Precious” racconta la vita di Precious, una ragazzina afro “leggermente” sovrappeso nella Harlem degli anni ’80, un quartiere che certo non è il residenziale Wisteria Lane di “Desperate Housewives” (che oddio, la vita poi può essere un casino pure lì). Precious ha qualche difficoltà di apprendimento e quindi deve andare in una scuola per ragazze incasinate. Fosse solo quello il suo problema… Precious infatti ha anche due figli e li ha avuti dal padre che la stuprava. In più vive con una madre che la massacra di botte e le dà della puttana perché il padre preferiva scoparsi lei. Eh, lo so: life is sweet.
Da notare che la storia è girata dall’ottimo Lee Daniels come se fosse un incubo, perché una vita così altro non può essere, eppure ci regala anche squarci onirici poetici, vie di fuga videoclippare e lampi di speranza e di luce in un film altrimenti davvero black, in tutti i sensi.
In stato di grazia il cast, da una Gabourey Sidibe che però d’ora in poi avrà qualche difficoltà a scrollarsi di dosso un personaggio così pesante (chiedo scusa per la battutaccia), a una Mo’nique premiata con l’Oscar per il suo ruolo di “mamma dell’anno”. Lontani, lontanissimi dall’immagine proposta nelle loro clip musicali ci sono poi Lenny Kravitz e Mariah Carey (dimenticate quella merda di “Glitter”, qui se la cava bene).
Un cazzotto in pieno stomaco, che picchia forte e dopo del tempo ancora fa male. Ma anche un film pieno di voglia di vivere, di forza di volontà, di coraggio e dignità. Una lezione di vita davvero precious.
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