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lunedì 9 giugno 2014

GRAND BUDAPEST MATRIOSKA




Correva l’anno 2014. Sì, lo ricordo bene. Era appena uscito il mio ultimo film, Grand Budapest Hotel. Ne ero molto fiero perché rappresentava bene tutto il mio cinema, il mio intero stile racchiuso in un’opera sola. Con un po’ di timore, all’epoca andai a cercare alcuni commenti in rete. Tra di essi ve n’erano molti positivi, alcuni entusiastici, ma ce n’era uno che mi lasciò piuttosto perplesso. Il sito lo ricordo perché aveva un nome molto particolare, si chiamava Pensieri Cannibali. Cannibal Thoughts. WTF? All’epoca uscivo con una studentessa universitaria italiana e, per migliorare la mia conoscenza della lingua, cercavo recensioni delle mie pellicole scritte in quello strano idioma. Non capivo ogni singola parola, però comprendevo il senso generale. Nella sua recensione l’autore del blog, un certo Cannibal Kid, apprezzava il mio Grand Budapest Hotel, ma allo stesso tempo lo considerava un lavoro incompiuto. Ricordo che commentai il post scrivendo: “Non dire stronzate, ragazzo cannibale. Questo è il mio film più bellissimo!”.
Lui rispose: “Ma impara l’italiano, Wes Anderson!”
E io contro ribattei dicendo: “Un giorno lo farò, stronzetto, un giorno lo farò!”
In quel periodo mi trasferii in Italia, cominciai a girare lì i miei film, abbandonai i miei soliti affezionati attori feticcio come Bill Murray, Adrien Brody, Tilda Swinton, Jason Schwartzman, Owen Wilson e gli altri e scoprii nuovi straordinari attori locali come Gabriel Garko, Francesco Arca, Elisabetta Canalis. Mi misi anche a collaborare con grandi intellettuali italiani come i fratelli Vanzina ma, chissà perché, da allora la critica internazionale mi voltò le spalle. Tutti, tranne Cannibal Kid. Dopo quel nostro acceso primo scontro verbale, diventammo grandi amici e lo siamo tutt'ora. Adesso allora mi è venuta la curiosità di andare a recuperare la sua vecchia recensione su Pensieri Cannibali del mio Grand Budapest Hotel. Chissà, magari non aveva poi tutti i torti...

Grand Budapest Hotel
(USA, Germania 2014)
Titolo originale: The Grand Budapest Hotel
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson
Ispirato ai lavori di: Stefan Zweig
Cast: Ralph Fiennes, Tony Revolori, Saoirse Ronan, Tom Wilkinson, Jude Law, F. Murray Abraham, Adrien Brody, Willem Dafoe, Mathieu Amalric, Tilda Swinton, Harvey Keitel, Jeff Goldblum, Léa Seydoux, Jason Schwartzman, Owen Wilson, Bob Balaman, Fisher Stevens, Giselda Volodi
Genere: wesandersoniano
Se ti piace guarda anche: Fantastic Mr. Fox, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, I Tenenbaum

Grand figlio di buona donna, Wes Anderson. I suoi film sono sempre dei dolcetti deliziosi, ma dal gusto spesso dolceamaro. Dei dolcetti che vanno scartati con cura, come nel caso di Grand Budapest Hotel, un film stratificato, costruito con una cura mostruosa, con un’attenzione a ogni più piccolo dettaglio pazzesca. Riguardo a quest’ultima pellicola, ho sentito soprattutto due tipi di pareri: i primi sono quelli degli hipster del tutto esaltati come questa.


E poi ci sono quelli più tiepidi, che parlano invece di sterile esercizio di stile. A me le vie di mezzo non piacciono, però per una volta devo schierarmi nel partito dei dannati moderati. La verità, almeno in questo caso, forse sta davvero nel mezzo.
Da una parte, Grand Budapest Hotel è un film diretto alla grande. Wes Anderson raggiunge qui una fluidità di movimenti della macchina da presa, e anche della narrazione, come mai prima d’ora. A livello estetico, il soggiorno in questo hotel è davvero un piacere per gli occhi. Un incanto continuo, ricco di trovate registiche come l'alternarsi del formato in 16:9 con quello in 4:3. Anche in quanto a sceneggiatura, Wes Anderson tira fuori dei lampi di genio, delle chicche notevoli, dei momenti spassosi. Grand Budapest Hotel è un inno alla narrazione, a partire dalla sua struttura a scatole cinesi, ma vista l’ambientazione esteuropea è meglio dire in stile matrioska, di racconto nel racconto nel racconto nel racconto.

Dall’altra parte Grand Budapest Hotel è un film volutamente monco, diviso in 5 capitoli che sarebbero dovuti essere 6. Manca quello dedicato ad Agatha, il personaggio di Saoirse Ronan. Il narratore, il Lobby Boy dell'hotel ormai cresciuto, decide di troncare quasi del tutto quella parte del racconto, una pagina ancora troppo dolorosa della sua vita. Si ha così la sensazione che manchi qualcosa, qualcosa di fondamentale, che sarebbe stato capace di trasformare la pellicola da splendida esperienza estetica, a visione anche davvero emozionante. Grand Budapest Hotel è un film matrioska che rivela poco a poco i suoi strati, ma alla fine decide di non mostrarci l’ultimo. Il cuore.

Grazie al suo senso dell’umorismo particolare, e qui più incisivo e nero del solito, Wes Anderson ci regala un’ottima macchina da intrattenimento a metà strada tra commedia e thriller. L’impressione è però quella di un film che parla più al cervello che al cuore. Impressione confermata dai molti riferimenti più o meno ricercati, dalle comedy slapstick de ‘na vorta al cinema muto, dalle vaghe implicazioni politiche fino alla dedica finale a Stefan Zweig, come viene ben spiegato in questo post del blog La balena bianca:

A sciogliere i nostri dubbi, ecco che giunge la dedica finale: a Stefan Zweig.
Tutto all’improvviso si fa chiaro, semplice, quasi commovente. Un’opera così cesellata, dalla finezza e dalle atmosfere mitteleuropee, non poteva che rifarsi a questo romanziere di inizio novecento, troppo rapidamente dimenticato dopo la sua tragica morte. Caso eccezionale quello dello scrittore austriaco, autore prolifico e dal successo mondiale (le sue opere vennero tradotte in cinquanta lingue), egli può essere considerato il primo autore di bestseller dell’età contemporanea, le avventure da lui descritte spaziavano dai viaggi in terre esotiche ai drammi più sottilmente psicologici, e i suoi protagonisti, come ci ricorda Silvia Montis nell’introduzione a una delle sue raccolte, erano “eroi involontari a confronto con un interrogativo epocale, sui quali si è abbattuto il pesante sigillo della Storia”, proprio come i due protagonisti di Grand Budapest Hotel, semplici inservienti nella bufera dei mutamenti geopolitici. Ma la vicinanza di Anderson allo scrittore austriaco è ben più profonda, di natura stilistica; assistiamo infatti a un evento sensazionale: la traduzione perfetta di un linguaggio letterario nel suo omologo cinematografico. Perché se i film di Anderson appaiono come giochi dal meccanismo perfetto, essenziali e impreziositi dalla cura del dettaglio, sempre la Montis ci ricorda che Zweig era “un cultore della rinuncia, dell’editing a levare anziché a irrobustire, del dettaglio fatale nascosto in un umile aggettivo anziché esplorato in un passaggio auto compiaciuto. Distillava, tagliava, asciugava: il movimento era sempre mirato. Il racconto, un congegno a orologeria”.
Wes Anderson, dunque, con questa dedica, svela molto più di quanto si possa pensare. L’opera di Zweig non è una semplice ispirazione, ma un modello di poetica e di intenti, quasi il regista americano volesse seguire persino la stessa sorte dell’autore austriaco, spazzato via dalla storia della letteratura contemporanea, colpevole di intransigenza formale.

Quanto a me, come detto sto nel mezzo. Lunga da me accusare Wes Anderson di intransigenza formale, devo ammettere che nel caso di Grand Budapest Hotel è la forma ad avermi colpito di più rispetto ai contenuti. Sarà perché io in generale sono un fan della forma (e soprattutto delle forme).
Nonostante qualche lampo di umanità, i personaggi che popolano il Grand Budapest Hotel e i suoi dintorni non riescono a trasformarsi del tutto in persone in carne e ossa, come invece capitava nel precedente stupendo e quello sì davvero toccante film del regista Moonrise Kingdom. Ma probabilmente è solo colpa mia. Avrei voluto meno Ralph Fiennes, attore che continuo a non sopportare, e più Saoirse Ronan! È quasi come se Wes Anderson in fase di montaggio avesse fatto il Terrence Malick della situazione e avesse sforbiciato di brutto il suo personaggio. Quello che avrebbe potuto regalare più emozioni a un film che invece resta una visione molto da Est Europa. Un’affascinante quanto fredda matrioska.
(voto 7,5/10)

Questo era quanto diceva Cannibal Kid su Pensieri Cannibali nell’ormai lontano 2014. Ora che parlo perfettamente l’italiano, ho capito fino in fondo l’intero contenuto del post. La mia impressione rispetto ad allora però non è cambiata e la ribadisco ancora una volta: “Non dire stronzate, ragazzo cannibale. Questo è il mio film più bellissimo!”.
Wes Anderson

mercoledì 12 marzo 2014

ROMAN POLANSKI IN PELLICCIA




Venere in pelliccia
(Francia, Polonia 2013)
Titolo originale: La Vénus à la fourrure
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski, David Ives
Ispirato all’opera teatrale: Venere in pelliccia di David Ives
A sua volta ispirato al romanzo: Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch
Cast: Emmanuelle Saigner, Mathieu Amalric
Genere: sadomaso
Se ti piace guarda anche: Carnage

Ci sono esperienze che ti segnano nel profondo. Ad esempio quando vieni condannato per un reato e la tua libertà personale viene limitata. Il carcere pare che faccia vedere le cose sotto un’altra prospettiva. Soprattutto il rapporto con le docce.
Non posso parlare per esperienza personale perché io in prigione non ci sono mai stato. D’altra parte al giorno d’oggi mica è semplice andarci. È più facile vincere alla lotteria. Oscar Pistorius per il San Valentino dell'anno scorso ha regalato alla fidanzata una scarica di proiettili ed è fuori. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati condannati per omicidio rispettivamente a 28 e 25 anni, eppure sono fuori.
Silvio…
Silvio non parliamone.
Uno che in galera non c’è andato, ma quasi, è Roman Polanski. Accusato di violenza sessuale su una minorenne, il regista polacco naturalizzato francese tra il 2009 e il 2010 ha passato alcuni mesi agli arresti domiciliari. Un’esperienza che pare averlo segnato nel profondo. Le sue due ultime pellicole sono infatti ambientate entrambe in location uniche, claustrofobiche, con un gruppetto di personaggi che si trovano a condividere lo stesso limitato spazio. Carnage in tal senso è la rappresentazione cinematografica perfetta di cosa significa stare agli arresti domiciliari, sotto forma di accusa/presa per il culo dello stile di vita borghese.

"Perché ho sposato Roman Polanski?
Perché ce l'ha lungo così, ecco perché!"
Con l’ultimo Venere in pelliccia, Roman Polanski cambia location, ma non registro. Anche in questo caso c’è un unico ambiente principale a fare da sfondo al confronto verbale tra i protagonisti. Laddove Carnage era tratto da un’opera teatrale, qui il teatro diventa lo sfondo, e se vogliamo anche il terzo protagonista, della pellicola. Il gioco rispetto al suo film precedente si fa ancora più estremo e, se in Carnage avevamo 4 personaggi, qui ne troviamo solamente 2, oltre al teatro. Un uomo e una donna. Un regista e un’attrice. Lei arriva in ritardo all’audizione per l’adattamento teatrale del romanzo dell’800 Venere in pelliccia e cerca di convincere il regista a darle comunque una possibilità. Sotto le sue insistenze, lui cederà e poi…
Poi niente, il film è tutto qua. Nel rapporto che si instaura tra il regista e l’attrice e tra i loro due personaggi teatrali. Non è troppo difficile trovare un’identificazione tra il protagonista maschile Mathieu Amalric e lo stesso Roman Polanski, anche perché la protagonista femminile è la moglie del regista Emmanuelle Seigner. Una Emmanuelle Seigner strepitosa, sia a livello recitativo che fisico, con i suoi 47 anni portati da vera Venere. È lei la trascinatrice della pellicola, sebbene Amalric venga fuori poco a poco e riesca a impressionare parecchio pure lui.

"Vuoi che mi faccia tua moglie davanti a te?
Sei persino più perverso di quanto immaginassi, Roman!"
Il film è un gioco in cui i personaggi del film si confondono con i personaggi dell'opera che si confondono con Polanski e sua moglie e quindi non si capisce più bene chi interpreta chi e in questo sta il fascino principale della pellicola, fascino esplosivo della Seigner a parte. Il confine tra finzione e realtà non sembra più esistere, così come il confine tra cinema e teatro. Tutto è rappresentazione. Tutto è messa in scena. Più che persone, siamo tutti dei personaggi.
Per giocare a questo gioco, Roman Polanski ha scelto una fonte di ispirazione non casuale. Venere in pelliccia è un romanzo soft-erotico, a quanto pare nemmeno troppo soft, padrino della cultura sadomaso e di tutte le 50 sfumature di grigio venute in seguito. Un testo pruriginoso e malato, terreno ideale per le perversioni del regista. Cosa che è solo un bene, anche perché – diciamolo – i registi, quelli bravi almeno, sono quasi tutti dei gran pervertiti. Tarantino, Lynch, von Trier, Kubrick, Hitchcock, De Palma, Cronenberg, Allen… In mezzo a loro, Polanski un posto da Presidente onorario del club Registi Pervertiti se lo merita tutto.

Un'immagine dal set di Venere in pelliccia?
No, dalla camera da letto di Roman Polanski e consorte.
Così come il regista teatrale protagonista della pellicola sostiene che nell’adattamento di Venere in pelliccia c’è molto di se stesso, possiamo allora immaginare come in questo Venere in pelliccia – The Movie ci sia davvero molto di Roman Polanski. Ci sono la sua vita, i suoi film, il suo rapporto con le donne, tra potere e sottomissione, accuse di maschilismo e punizione.
Possiamo parlare dunque di questa pellicola come di uno dei suoi capolavori?
Non esattamente. Venere in pelliccia ha degli splendidi dialoghi e propone due prove interpretative da standing ovation, ma l’impressione di assistere a un mero esercizio di stile, per quanto splendidamente realizzato, non se ne va mai via. Nonostante alcuni passaggi troppo legati al romanzo/opera teatrale a un certo punto appesantiscano un po’ la visione, la rappresentazione è coinvolgente dall’inizio alla fine. A mancare è un rapporto più diretto con il pubblico. A mancare sono le vere emozioni. Venere in pelliccia è un bel gioco, ma è pur sempre un gioco cui si assiste e non uno in cui si riesce a essere davvero partecipi. Forse perché i protagonisti del film non sono i due protagonisti, e non è nemmeno il teatro. Il vero protagonista è Roman Polanski ed è lui, ben più dello spettatore, a divertirsi come un bambino. Come un bambino perverso.
(voto 6,5/10)
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