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venerdì 15 novembre 2013

PRISONERS, PRIGIONIERI E PRIGIONOGGI




Prisoners
(USA 2013)
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura: Aaron Guzikowski
Cast: Jake Gyllenhaal, Hugh Jackman, Maria Bello, Terrence Howard, Viola Davis, Paul Dano, Melissa Leo, Dylan Minnette, Zoe Borde, Erin Gerasimovich, Kyla Drew Simmons, Wayne Duvall, David Dastmalchian
Genere: labirintico
Se ti piace guarda anche: A History of Violence, Mystic River, Amabili resti, The Village, The Killing, Broadchurch

Prisoners, prigionieri, non lo siamo forse un po’ tutti?
Prigionieri delle convenzioni sociali. Prigionieri dello Stato. Prigionieri di Equitalia (evvai di populismo!). Prigionieri nel rapporto con gli altri. Prigionieri di quello che le persone si aspettano da noi. Prigionieri del personaggio che ci siamo creati. Chi può dire di essere davvero libero?
Io ad esempio mi ritrovo quasi costretto moralmente a scrivere stupidaggini e cacchiate, perché è questo a cui il personaggio Cannibal Kid ha ormai abituato il suo (esiguo) pubblico. Ma adesso basta. Oggi cercherò di scrivere una recensione seria. Forse.

ATTENZIONE: C’E’ QUALCHE SPOILER QUA E LA’. NIENTE DI CLAMOROSO, MA QUALCHE SPOILERINO POTRESTE BECCARVELO, QUINDI SE NON AVETE ANCORA VISTO IL FILM OCIO!


Come detto, chi più, chi meno siamo tutti prigionieri. Tra i “chi più” ci sono i personaggi di Prisoners. Da un film con un titolo del genere, cos’altro vi aspettavate?
Nei sobborghi di una cittadina della Pennsylvania, la tipica cittadina inquietante americana, due tipiche famiglie americane, una black e una white, passano insieme il Giorno del Ringraziamento, la festa americana più americana che ci sia. La giornata passa in maniera piacevole e tranquilla e molto americana, i grandi stanno tra grandi a fare cose da grandi, i piccoli stanno tra piccoli a fare cose da piccoli. Tipo sparire nel nulla. Solo che non è nascondino. Passano le ore, viene sera e le due bambinette delle due famiglie non si trovano più. Dove sono finite? Voi le avete viste? Io no. Chi potrebbe saperne qualcosa è il tizio che stava sul furgone parcheggiato nella via dove le bimbe sono sparite. Forse.

Parte così quello che può sembrare un thriller tradizionale e in parte lo è. Un thriller tradizionale di quelli che così bene, ah, non ne facevano da quando ero anch’io piccolo come le bimbette scomparse. Tipo da Il silenzio degli innocenti del 1991. In tv qualcosa di non troppo distante per storia e qualità di recente lo si è pure visto, come The Killing e Broadchurch, al cinema non tanto.
Prisoners comunque è anche qualcos’altro. È un thriller-politico un po’ come The Village di M. Night Shyamalan era un horror-politico. Sì, proprio quel M. Night Shymalan, quello di porcherie come L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, però prima che si bevesse completamente il cervello. Perché dico questo? Perché si può tentare una lettura politica, riguardo a ciò che succede in Prisoners.

IT’S LETTURA POLITICA TIME
Il personaggio di Hugh Jackman, il padre della bambina bianca scomparsa, è l’America post 11 settembre della Guerra al terrore. Quella che tortura i propri nemici per avere le info che vuole. Quella che fa di tutto, non importa quanto ciò trasformi il torturatore in un mostro alla pari se non peggiore dei terroristi che combatte. In due parole: Jack Bauer. In tre parole: George W. Bush.
Il personaggio di Terrence Howard, il padre della bambina di colore scomparsa, è invece l’America del post Guerra al terrore. È l’America che non si sporca in prima persona le mani con il sangue, non ufficialmente, però non è nemmeno contraria a usare qualunque – QUALUNQUE – mezzo pur di ottenere ciò che vuole. Quella che non usa violenza, ma nemmeno ci prova a fermarla. Si limita a guardare dall’altra parte. Nel comportamento di Terrence Howard e della moglie Viola Davis possiamo vedere un riflesso degli Stati Uniti di oggi, gli Stati Uniti di Barack Obama.
E noi?
Dove sta l’Europa?
Maria Bello è l’Europa. Maria Bello, la moglie di Hugh Jackman, che si imbottisce di sonniferi e psicofarmaci e preferisce non sapere quello che il marito sta facendo.
Raccontato così, Prisoners potrebbe apparire un film anti-americano. Quello del regista canadese Denis Villeneuve potrebbe sembrare un atto d’accusa nei confronti degli Stati Uniti e invece…
Invece è una pellicola che preferisce non dare una morale. Non imprigiona lo spettatore a un pensiero unico. Chi guarda può farsi la propria idea. In fondo questo è solo un thriller, o no?
IT’S THE END OF THE LETTURA POLITICA TIME AS WE KNOW IT (AND I FEEL FINE)

"No, non è di mia foglia. E' mio. Chi lo dice che sono troppo grande per giocare con i pupazzi?"

A livello politico il film consente varie chiavi di lettura, questa è solo la mia personale, ognuno può trovare la propria. C’è chi può vederci dentro una condanna o al contrario una giustificazione di quanto fatto dagli americani a Guantanamo e non solo a Guantanamo (si veda Zero Dark Thirty) per ottenere le informazioni dai terroristi, e c’è anche chi può vedere la lettura politica come una forzatura e godersi semplicemente il film, che è un thrilerazzo della Madonna. Due ore e mezzo di tensione costante, che non scende fino alla fine. Di recente mi era capitato di rado di rimanere prigioniero di una pellicola con un livello di coinvolgimento simile. Anche nei bei film, può capitare un calo per un paio di minuti. Qui manco per un istante. Erano mesi che non mi capitava qualcosa del genere, ma che dico mesi? dico giorni. Anche un altro film nel passato recente mi ha coinvolto (quasi) allo stesso modo di Prisoners, ma ne parlerò a breve.

Il regista Denis Villeneuve ha un super potere: quello di schiantarti dentro i suoi film. Era capitato con il raggelante Polytechnique, era ricapitato con lo splendido La donna che canta, è riricapitato ora con Prisoners. Merito del canadese, che evita virtuosismi ma dirige con una precisione pazzesca. Detto così, potrebbe apparire uno stile freddo, in realtà Villeneuve fa sentire vicini ai suoi personaggi come pochi altri registi contemporanei. C’è una scena in particolare, quella in cui Hugh Jackman riconosce il calzino con il coniglietto della figlia, che mi ha messo i brividi. E io che ho i brividi per una scena con Hugh Jackman è una cosa mai successa. MAI.

"Donna invisibile, m'è appena sparita la figlia. Scusa neh, ma non ho tempo per venire a giocare a nascondino con te.

Se Wolverine è alla sua migliore interpretazione in assoluto, che dire di Jake Gyllenhaal, qui il detective che cerca di risolvere il mistero della sparizione delle due bimbe?
Jake Gyllenhaal, che attore straordinario! Il suo personaggio, oltre a un taglio di capelli scalato di quelli alla Rihanna/Miley Cyrus/Skrillex che vanno tanto tra i ggiovani d’oggi, ha un tic agli occhi pauroso. Non so se la cosa era presente in sceneggiatura, oppure è una particolarità che ha voluto aggiungere lui al personaggio, però recitare così è un rischio. Rischi di fare la figura dello scemo e sputtanare il film, invece Gyllenhaal è riuscito così a farci avvicinare ancora di più al suo detective. Il suo è un personaggio all’apparenza “neutro”, non troppo distante da quello di Jessica Chastain in Zero Dark Thirty; di entrambi sappiamo pochissimo, non vivono travolgenti storie d’amore, non li vediamo con la famiglia o con gli amici o altro. Nessuna nota personale. Li vediamo impegnati solo nella loro ossessiva caccia all’uomo, eppure tutti e due, grazie alle performance larger than life dei loro interpreti, sono dei personaggi vivissimi e umani come non capita spesso di vedere, non nei thrilleroni americani, se non altro.
Altra strepitosa prova è poi quella di un’irriconoscibile Melissa Leo, ma attenzione anche al volto nuovo David Dastmalchian e nota di merito pure per Paul Dano, alle prese con un personaggio super sfigato, persino più dei suoi soliti, in cui si trova parecchio a suo agio. Sarà un caso?


"Oh, ma che è? Rompermi il deretDano è diventato il nuovo sport nazionale americano?"
"Hey Donnie, lasciami. Non sono Paul Dano!"
"Ah ok scusami, ti avevo scambiato per lui..."

In tutto questo ben di Dio registico e recitativo il punto di forza assoluto è però un altro ancora. E non mi riferisco nemmeno alla splendida colonna sonora da brividi composta dall’islandese Jóhann Jóhannsson, impreziosita da “CODEX”, una chicca dei Radiohead, già usati dal regista pure in La donna che canta, dove “You and Whose Army?” era un po’ il tema sonoro che accompagnava la pellicola. Villeneuve possiamo quindi considerarlo a tutti gli effetti un fan delle teste di radio ed è una ragione in più per amarlo.
La vera arma di distruzione di massa messa in campo da Prisoners a cui mi riferisco è la sua fenomenale sceneggiatura, firmata dal quasi esordiente Aaron Guzikowski. Una sceneggiatura non tratta da romanzi, graphic novel, seghe fantasy, giochi da tavolo o altro. Una sceneggiatura originale, finalmente. La storia come detto non è nuova, il mistero della sparizione di ragazzine è una situazione in cui il genere thriller ha sempre giocato e continua a farlo, però è raccontata con la giusta dose di personalità, con un sacco di riferimenti come visto alla politica ma anche alla religione. È una sceneggiatura costruita in maniera perfetta, impeccabile, stratosferica, che Villeneuve è riuscito a trasformare in una pellicola incentrata sul simbolismo, tra labirinti, serpenti, effigi cristiane, un Jake Gyllenhaal che non parla con dei coniglioni ma è comunque parecchio ossessionato e un Hugh Jackman che non tira fuori gli artigli dalle mani ma riesce a fare di peggio.
Prisoners è un film che sa spiazzare, senza sparare fuori colpi di scena assurdi o improbabili, ma che colpisce solo con colpi (di scena e allo stomaco) ben assestati. Un film su cosa significa restare prigionieri che ti fa suo prigioniero per 2 ore e mezza senza mai darti alcuna certezza, lasciandoti in costante tensione e restandoti incollato dentro pure al termine. Un film che mostra cosa significa avere Fede, non solo da un punto di vista religioso, e soprattutto cosa significa perderla. Un film che fa finalmente fa riacquistare la Fede nel thrillerone americano.

IT’S LABIRINTO TIME
Per scoprire il voto cannibale a questo film, dovete risolvere il seguente labirinto.


Okay, potete scoprirlo anche senza risolverlo, ma sappiate che state barando.



domenica 23 ottobre 2011

Redstate sta finendo

Red State
(USA 2011)
Regia: Kevin Smith
Cast: Michael Angarano, Kyle Gallner, Nicholas Braun, John Goodman, Michael Parks, Melissa Leo, Kerry Bishé, Alexa Nikolas, Kaylee DeFer, Anna Gunn, Stephen Root, Kevin Alejandro, Kevin Pollack, Patrick Fischler
Genere: fritto misto
Se ti piace guarda anche: La casa dei 1000 corpi, Machete, South Park, Breaking Bad

Mi sono chiesto come mai non fossi un fan di Kevin Smith un sacco di volte. Okay, forse non un sacco di volte, ma solo una volta: questa volta. Comunque la cosa è piuttosto strana, visto che sembrerebbe avere tutte le carte in regola per piacermi: è un regista di culto uscito dalla scena indipendente, ha un umorismo politically scorrect che prende spesso di mira soprattutto la religione, i dialoghi dei suoi film sono infarciti di un sacco di riferimenti geek e in generale alla pop-culture. Eppure non mi ha mai convinto. Perché, perché?
Questo suo ultimo film, il cui pregio maggiore (e unico?) è proprio quello di NON sembrare un film di Kevin Smith, nonostante le differenze con il suo cinema precedente mi ha aiutato a capirlo. Forse.

Dall’esordio con Clerks ho sempre pensato che allo Smith fosse andata di culo. Con quel film ha infatti avuto un’idea davvero azzeccata: quella di girarlo in bianco e nero. Fosse uscito a colori, sono convinto sarebbe passato del tutto inosservato. Così invece con quel suo piglio finto amatoriale (ma nemmeno tanto finto) e con quel b/n finto intellettualoide assumeva i contorni del film finto artistico. Dopo quell’esordio fortunato (nel senso appunto che gli è andata di culo), Mr. Smith ha abbandonato la scena indipendente per darsi alle major.
Roba da gridargli: sei un venduto!
Peccato che tutti i suoi film pseudo commerciali si siano rivelati un flop dietro l’altro, nonostante la presenza di attori solitamente abituati a fare buone cose ai botteghini come i vari Matt Damon, Ben Affleck, Bruce Willis, Seth Rogen.
E così Smith si è buttato a fare una serie di commedie di medio livello, qualcuna guardabile, qualcuna quasi divertente, qualcuna pessima come Poliziotti fuori e quell’orrore di Jersey Girl, film che ha rischiato di stroncare la carriera di Ben Affleck, il quale però lì ha avuto l’illuminazione: se il mio amico Smith fa il regista, perché non posso farlo pure io? E lì Affleck ha trovato la sua vera strada, a differenza dell’amico Smith…

Dopo la lunga parentesi major, adesso Kevin Smith è finalmente tornato ora a fare un film indie. Cosa che, almeno da un punto di vista visivo, segna un punto a favore del regista, che però si ispira qui per stile in maniera un po’ troppo sospetta alla serie tv Breaking Bad, tra riprese a mano e lunghe scene lente che poi all’improvviso si accendono in lampi di violenza. Peccato non abbia nemmeno da lontano la stessa forza della serie, cui di certo Smith avrà dato un’occhiata molto attenta, considerando anche la presenza in una piccola parte di Anna Gunn, la protagonista femminile appunto di Breaking Bad.
Red State segna quindi una svolta totale, molto ambiziosa, per il cinema dello Smith. Pur tornando a riprendere in mano la spinosa tematica della parodia religiosa come in Dogma, questa è infatti la sua prima non-commedia, ma se si sa quale tipo di film non-sia, non si capisce invece bene che genere di film sia. La partenza è da teen horror puro, con tre liceali che in cerca di una scopata assicurata si affidano a Internet, alla versione porno di Facebook, dove beccano una MILF promettente. Arrivati alla roulotte della tipa, si trovano davanti una Melissa Leo che non è tutta ‘sta bomba sexy però si accontentano, peccato che la storia finirà per loro molto male…
Il film qui svolta, con una lunga e verbosa scena dedicata al sermone di un tizio di una setta che annoia come un qualunque altro sermone di una qualunque altra parrocchia. La parodia delle sette religiose è ammirevole, ma finisce per essere troppo esagerata e assurda per andare a colpire veramente il bersaglio e per attaccare realmente il bigottismo americano. Inoltre la tematica ricorda molto quella della seconda stagione di True Blood (la presenza di Kevin Alejandro, il boyfriend di Lafayette, conferma che Smith è probabilmente pure un True Blood-addicted), con la differenza che se lì la setta se la prendeva con i vampiri, qui il bersaglio sono gli omosessuali. E, non so bene perché, mi è venuta in mente anche una delle primissime puntate dei Griffin dedicata all’uomo in bianco, il capo di una setta altrettano fuori di testa.


Dopo abbiamo un’altra svolta nel film: entra in scena John Goodman, che porta con sé un tocco un po’ Coeniano, alla Fargo in questo caso, e un po’ alla Damages, serie da lui interpretata di recente. Quindi è la (s)volta di dare una spruzzata di splatter al tutto, visto che le intenzioni iniziali erano pur sempre quelle di fare un horror, e quindi ci mette dentro un bel massacro in stile film di Rob Zombie.
Il problema è che la pellicola è girata tutta con un tono profondamente ironico, eppure non si ride quasi mai. Ma pur non divertendo, questo tocco grottesco è comunque ben presente e impedisce di avere una visione davvero tesa o angosciante. Il risultato finale assomiglia così a una puntata di South Park (omaggiato ad esempio nella scena in cui lo sceriffo idiota uccide uno dei ragazzi in ostaggio), peccato non faccia (quasi) mai ridere e non possieda nemmeno lontanamente lo stesso livello di genialità.

Ci troviamo insomma di fronte a un gran calderone molto confuso in cui Kevin Smith sbatte dentro tutti i suoi pensieri sull’America contemporanea, fondendoci dentro anche le sue visioni, cinematografiche e soprattutto televisive, ma quello che ne esce è un fritto misto in cui c’è di tutto e di più, tranne una vera personalità. E se vanno apprezzate le buone intenzioni di criticare aspramente gli IuEsEi of America, allo stesso tempo Smith non ci dice fondamentalmente niente di nuovo.
La White America conservatrice è bigotta? Non sopporta i gay? Ama le armi e la violenza? Dopo l’11 settembre si sente in diritto di fare di tutto con la scusa della guerra al terrorismo?
Nooo, ma cosa mi dici mai, Kevin? Se non c'eri tu, non lo sapevamo proprio!
L’unico momento davvero riuscito è allora l’ultimissima scena, che mi ha strappato la prima (e unica) fragorosa risata della visione.
Red State si rivelerà allora un primo passo verso una nuova fase nella carriera del regista oppure, come lui stesso ha dichiarato, farà ancora un film (o forse un doppio film) sull’hockey e poi si ritirerà? Di certo non perderò il sonno la notte in attesa di una risposta, come forse invece faranno i fan dell’autore, una cerchia di seguaci, agguerriti e fedeli (quasi) quanto quelli della setta religiosa qui presa di mira.

Se la critica di Kevin Smith si perde dentro la sua stessa confusione mentale, a salvare (parzialmente) il film è un valido cast in cui spiccano un’inquieta e inquietante Melissa Leo, la bionda rivelazione Kerry Bishé, i due teen Michael Angarano e Kyle Gallner, un John Goodman ultimamente in gran spolvero e soprattutto un ottimo Michael Parks, attore ritirato fuori dal cassetto dal solito Tarantino in Kill Bill Vol. 2…
Ma hey, ecco qui la folgorazione! Ho capito perché non sono un fan di Kevin Smith. Quella del “copiare” è un’arte molto complicata e per maneggiarla bisogna fare molta attenzione: un’arte in cui Quentin con tutte le sue citazioni e omaggi è un Maestro assoluto, perché riesce a fonderle all’interno di un prodotto del tutto nuovo e personale; al limite opposto troviamo invece Zucchero, uno che più che citare saccheggia a man bassa e ultimamente tra l’altro lo fa dai Coldplay (gruppo che già nel “prendere in prestito” le idee da altri ci va giù pesante). Kevin Smith, purtroppo per lui, non riesce a raggiungere i livelli di Quentin. Neanche lontanamente, in questo che è un po’ il suo film Grindhouse non richiesto, visto che Tarantino e Rodriguez non l’hanno invitato a giocare insieme a loro. Per fortuna però non sprofonda nemmeno nella “zuccherata” totale. Almeno di questo rendiamogli atto.
E alla fine fa quasi tenerezza, lo Smith, perché con questo film ricorda un po’ il Kluivert quando era arrivato al Milan: gioca in attacco, ci prova, peccato non c’entri mai nemmeno una volta, manco per sbaglio, lo specchio della porta.
(voto 5/10)

sabato 15 ottobre 2011

Mildred Piercing

Mildred Pierce
(mini-serie in 5 parti)
Rete americana: HBO
Rete italiana: Sky Cinema 1 HD (dal 14 ottobre)
Regia: Todd Haynes
Cast: Kate Winslet, Guy Pearce, Evan Rachel Wood, Morgan Turner, Melissa Leo, Bryan F. O'Byrne, Mara Winningham, Hope Davis, Quinn McColgan
Genere: melò
Se ti piace guarda anche: Lontano dal Paradiso, Little Children, Revolutionary Road, Mad Men, Boardwalk Empire, The Hour

"Mother, where's father?"

Mildred Pierce è una mini-serie HBO che ha conquistato qualcosa come 21 nomination agli ultimi Emmy Awards, i premi più importanti della tv americana. Si potrà dire che queste cerimonie di premiazione hanno un’importanza relativa, come gli Oscar o, per rimanere a un ambito più vicino al nostro mondo, i Macchianera Awards, che ad esempio presentavano tra i nominati per il miglior sito cinematografico anche il mio blog. Cosa valgono quindi i premi e le nomination?
Forse niente, visto che io il Macchianera non me lo sono aggiudicato, se però questa serie di candidature ne ha avute 21 (ma di premi se n’è portati a casa “appena” 5), magari significa che proprio alla cazzo di cane non è stato fatta. E infatti Mildred Pierce è una di quelle visioni più che consigliate sia agli appassionati di tv di qualità che di cinema, e anche a quegli snobboni che di solito le mini-serie le snobbano, visto che è stata presentata pure fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia. Dite che anche il film di Ezio Greggio è stato presentato a Venezia? Va bene, allora anche Venezia non conta più niente, però vi posso comunque assicurare che questa serie con Ezio Greggio in 3D non ha proprio nulla a che vedere.

In cinque puntate da un’ora l’una, una mastodontica Kate Winslet riesce a farci entrare del tutto nel suo sfaccettato personaggio, quello di una casalinga come tante, desperate ante litteram visto che la storia è ambientata negli anni ’30. Una donna che dopo la separazione dal marito adultero deve reinventarsi una vita e - udite, udite! - cominciare a lavorare, cosa che prima mai aveva fatto, in modo da poter mantenere le due adorate figliolette. Chiamatela Kate Pierce, o Mildred Winslet, tanto l’identificazione tra attrice e personaggio è totale, chiamatela come volete ma fatto sta che si trova un lavoro come cameriera in una tavola calda. La cosa non sta però per niente bene alla figlia maggiore Veda, una ragazzina straviziata e dai modi di fare molto altezzosi ed egocentrici, dovuti alla sua consapevolezza di avere un qualche talento dentro sé da tirar fuori, sebbene non sappia (ancora) quale sia. E quando tirerà fuori questo talento, saranno cazzi per tutti. Un personaggio totalmente cannibale in cui, sebbene solo in parte, mi sono ritrovato e che mi ha fatto capire perché alle volte io possa risultare davvero odioso ad alcune persone, ad esempio al mio blogger rivale Mr. James Ford
Nei panni di Veda troviamo prima Morgan Turner, una giovanissima attrice rivelazione da tenere assolutamente d’occhio, e quindi negli anni dell’adolescenza negli ultimi 2 episodi c'è l’ottima e sempre splendida Evan Rachel Wood. Sono proprio i personaggi di Mildred, madre amorevole e premurosa, e di Veda, figlia ingrata e stronza, a creare uno scontro di tensione drammaturgica sopraffina. Sicuramente sono due dei personaggi femminili (e non solo) più memorabili della stagione.

Ma Mildred Pierce la mini-serie (tratta dall’omonimo romanzo di James M. Cain già diventato un film nel 1945 con Joan Crawford) non è solo questo; l’ambientazione nell’America degli anni ’30, quelli della Grande Depressione e della crisi economica, riportano infatti direttamente al presente. Ma va? Eh sì, la Grande Depressione 2.0 che viviamo oggi è stretta parente di quel periodo e la storia di Mildred è quella di una donna indipendente, fragile e forte allo stesso tempo, che con le sue sole forze riesce a farcela. Ma l’American Dream è lontano, le ombre sono sempre ben presenti sulla sua vita e non ci troviamo in un inno ai valori del self made man, o in questo specifico caso della self made woman. Questo è un melodramma, un melodrammone d’altri tempi, quindi state pronti alle emozioni forti.

Nel cast davvero super figurano anche il premio Oscar (per The Wrestler) Melissa Leo e un Guy Pearce (non Pierce) che mai mi aveva convinto così tanto (forse nemmeno in Memento), grazie alla parte del “boy toy” superficiale e so bohemian like you che vivrà una spigolosa relazione con la nostra protagonista Mildred Winslet. E poi, quasi lo dimenticavo, il regista: Todd Haynes, già autore del mio favorito Velvet Goldmine, dell’eccessivamente bobdylaniano Io non sono qui e di Lontano dal Paradiso, che sarà anche lontano dal Paradiso ma come atmosfere e stile è molto vicino a questa sua nuova produzione per la tv.

E pensare che la prima parte non mi aveva nemmeno convinto del tutto, visto che non capivo bene dove questa mini-serie volesse andare a parare. La prima puntata infatti ci introduce nel mondo di Mildred con toni più o meno da commedia, mentre la forza maggiore di questa produzione sono le scene drammatiche. E il finale della seconda parte è qualcosa in grado di gelare il sangue anche al più freddo insensibile figlio di puttana del mondo. Da lì in poi la mini-serie me la sono bevuta in un sorso, quasi come se fosse una super-mastodontica pellicola da 5 ore.
Alla faccia della nuova Grande Depressione, la produzione televisiva americana finché sforna cose del genere sembra proprio non conoscere crisi. Attenzione: ho parlato di produzione televisiva americana, per quanto riguarda la produzione di fiction italiane invece… no comment, ché se dico ciò che penso potrebbe arrivare il Vasco di turno e farmi chiudere il blog.
(voto 8/10)


lunedì 16 maggio 2011

Le zinne di Kristen Stewart sono più piccole del pistolino di Robert Pattinson

ATTENZIONE: questo post contiene volgarità assortite e potrebbe risultare spregevolmente Twilight-repellente

Welcome to the Rileys
(UK, USA 2010)
Regia: Jake Scott
Cast: James Gandolfini, Kristen Stewart, Melissa Leo, Tiffany Coty, Eisa Davis, Ally Sheedy
Genere: AAA spogliarellista cerca famiglia
Se ti piace guarda anche: The Blind Side, Pretty woman, Rabbit Hole

Trama semiseria
James Gandolfini ex boss Tony Soprano ora ha lasciato la Mafia, ha una moglie mezza psicotica che non esce mai di casa e un’amante di colore. Quando l’amante schiatta d’infarto, lui vaga nella disperazione, ricordando anche la figlia adolescente morta poco tempo prima. Cosa c’entra nel dramma di questo pover’uomo la cadaverica protagonista della saga di Twilight?
Apparentemente niente, ma in realtà?
Niente di niente.
Se non che il vecchio porco – pardon il pover’uomo – finisce in uno strip club dove suonano la canzone dei The Kills “U R A Fever” che a un pubblico smaliziato di italiani – cioè a me, ad esempio – potrà sembrare che cantino “Viva la figa”. E invece no, confermo che la canzone si chiama “U R A Fever”.


Fatto sta che in questo pornale ci lavora Kristen Stewart in versione spogliarellista arrapante e nonostante lei ce la metta tutta per farsi sbattere, James Gandolfini le dà un due di picche. Ma com’è che questa qui non se la vuole ciulare nessuno? E Robert Pattinson in Twilight fa il vampiro con l'anellino di castità alla Jonas Brothers e vuole aspettare fino a dopo il matrimonio (che depravati, questi vampiri d'oggi!), e questo qui si è dimenticato il Viagra a casa oppure gli è venuto qualche scrupolo di coscienza sebbene fino al giorno prima avesse l’amante… Gente: Kristen Stewart c’avrà anche le tettine piccole, però è pur sempre una bella zoccoletta in calore e, tra l’altro, ha un paio di chiappette da mordere davvero niente male. Qualcuno vuole decidersi a farsela, sì o no?

Silvio Berlusconi che va a tirar fuori dai guai Ruby Rubacuori con Nicole
Minetti. Ah no! Sono James Gandolfini con Kristen Stewart e Melissa Leo
Recensione cannibale
C’è chi si prende un cane, chi adotta un bambino, chi ne adotta mille (come la super coppia di super divi Brad Pitt & Angelina Jolie), e chi come i Rileys decide di prendersi cura di una spogliarellista/prostituta minorenne.
Silvio, mannaggia: questi qua ti han fregato l’idea!
All’inizio possiamo pensare a una sorta di Pretty Woman aggiornato ai tempi moderni, tempi in cui vanno più che mai di moda le relazioni tra uomini anziani e ragazzette giovanissime, solo con Kristen Stewart in una versione più dark e senza sorriso a 52 denti di Julia Roberts e James Gandolfini in versione Richard Gere ingrassato di 80 chili. Presto però la possibile strada della pellicola romantica viene abbandonata e il film vira verso i buoni sentimenti da moralismo tipicamente americano. Siamo dalle parti di The Blind Side, il film in cui Sandra Bullock prende con sé in casa un ragazzone di colore (e pure in questo caso sorprendentemente senza intenti sessuali!), soltanto che questo è molto meno coinvolgente.

Welcome to the Rileys si gioca diverse carte pur di annoiare a tutti i costi gli spettatori: James Gandolfini che vaga come uno zombie in un cimitero, James Gandolfini che vaga come uno zombie in giro per New Orleans, James Gandolfini che vaga come uno zombie in uno strip-club senza cedere alle avance di Kristen Stewart.
La colonna sonora, a parte i sopracitati Kills, è poi quasi inesistente, la regia di Jake Scott (figlio raccomandato di Ridley Scott) è piuttosto minimal anzi diciamo anonimal, i dialoghi poco memorabili quando non addirittura ridicoli, Melissa Leo qui è lontana dall’Oscar, Kristen Stewart parla sboccata come uno scaricatore di porto e nonostante ciò non risulta per nulla divertente; sarà anche che la sua interpretazione è davvero poco convincente, al contrario ad esempio di The Runaways dove in versione Joan Jett se la cavava più che bene.
Nonostante i tentativi di annoiare siano riusciti, il film pur trascinandosi stancamente si fa comunque vedere e alla fine ciò che più infastidisce è il moralismo strisciante di fondo, non portato alle estreme conseguenze eppure comunque presente. Anche quando fanno un film con spogliarelliste, papponi e un sacco di parolacce, a Hollywood proprio non ce la fanno a non scadere nei buoni sentimenti da volemose bene. Ma andatevene a quel fuck!
(voto 5)

venerdì 28 gennaio 2011

The Fighter: You gotta fight for your right to fight

The Fighter
(USA 2010)
Regia: David O. Russell
Cast: Mark Wahlberg, Christian Bale, Amy Adams, Melissa Leo, Jack McGee, Bianca Hunter
Genere: boxe
Se ti piace guarda anche: The Wrestler, Rocky, Million Dollar Baby, Toro scatenato, Lights Out (nuova serie tv), Friday Night Lights
Uscita italiana: 4 marzo

Trama semiseria
Primi anni '90. La HBO sta preparando un documentario sul grande ritorno sul ring di Dicky Eklund, un pugile che grazie ai suoi successi è diventato una gloria locale. Peccato che le cose non siano esattamente così e il motivo delle riprese sia un altro: che vogliano proporgli di diventare il protagonista di un reality-show? Nah, siamo nel 1993 e quella merda (ancora per poco) non esisteva.
Intanto Dicky allena suo fratello Micky Ward (Mark Wahlberg), pugile professionista in ascesa schiacciato però dal comportamento sopra le righe del brother e dalla madre manager. Riuscirà a diventare il nuovo Rocky?

Recensione cannibale
Tratto da una storia vera, una di quelle molto ma molto americane, The Fighter è un gran bel film. Uno di quelli che avvincono dall’inizio alla fine, imperdibile per tutti gli appassionati delle pellicole sulla boxe, ma che al termine della visione non mi ha lasciato un segno così indelebile nel cuore.
Quello che mi è rimasto dalla visione di questa pellicola è allora soprattutto un Christian Bale davvero oltre, enorme, gigantesco, in grado di impossessarsi del resto del film. Il suo personaggio è alquanto particolare: un tipo molto estroverso e iperattivo, una forza della natura, l’idolo della tipica cittadina di provincia (per non dire di merda) americana per via del suo passato di successo. Perché allora un pugile ha un aspetto così magrolino, tanto che Bale ha dovuto dimagrarire quasi quanto per L’uomo senza sonno? Per evitare spoiler non ve lo dico, ma è lì che si annida la parte più interessante della storia e che devia dalla solita vicenda pugilistica tra alti e bassi, comunque raccontata in maniera impeccabile e con una regia di buon livello da parte di David O. Russell, già dietro allo stralunato ma piacevolmente folle I ♥ Huckabees. In un primo tempo il film doveva essere diretto da Darren Aronofsky, ma il progetto si era stoppato per lo sciopero degli sceneggiatori e poi Aronofsky aveva preferito girare il meno ruffiano The Wrestler.

Tornando a Christian Bale è vero, sono di parte, è il mio attore preferito, in pratica l’equivalente maschile di Natalie Portman, giusto un filo meno grazioso. La sua folle e spassosissima interpretazione dello yuppie serial killer Patrick Bateman di American Psycho rimane per me tra le interpretazioni più allucinate nella storia del cinema (se la gioca con il Jack Nicholson di Shining), però questa va a insidiarla da vicino. Indubbiamente da Oscar.

Seppur schiacciato dietro a un personaggio così ingombrante, il vero protagonista del film è, suo malgrado, Mark Wahlberg nei panni di Micky Ward. La sua è la classica parabola alla Rocky, con l’interessante variante famigliare. Oltre a volersi staccare dall’ombra fraterna, Micky deve vedersela con una famiglia di quelle molto numerose e molto presenti in ogni sua scelta lavorativa e affettiva, visto che a fargli da manager c’è la madre (una Melissa Leo brava, ma la nomination all’Oscar mi pare eccessiva) e quando porta a casa la sua nuova fidanzata, la barista Amy Adams (per lei la nomination ci sta), tutte le varie zie rompiballe la caricano e insultano di brutto e in coro, nel corso delle scene più divertenti della pellicola.
La famiglia allargata di classici burini a stelle e strisce, l’ambientazione anni ’90 e soprattutto l’intepretazione larger than life di Christian Bale sono dunque i valori in più di questo film in grado di diventare un piccolo classico tra i film di pugilato. L’unica cosa che gli manca è allora un pizzico di cattiveria in più, il colpo in grado di stenderti K.O.
(voto 7+)

Personaggio cult: Dicky Eklund alias Christian Bale
Canzone cult: “Strip my mind”, Red Hot Chili Peppers

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