Buongiorno badroni bianghi, cosa vi botere bortare?
Voi volere recensione di The Butler?
Lo so che voi aspettare già da un bo’, berò io essere imbegnato con
classifiche di fine anno e boi essere imbegnato a servire un tibo abbastanza imbortante, uno che vive in una casa bianga, bianga come voi, e quindi scusare tanto se no trovare tembo ber fare recensione. Che boi non essere una di quelle recensioni fondamentali, amico. No si trattare di una di quelle che esaltare e consigliare di vedere il film a tutti i costi, e no si trattare nemmeno di stroncatura secca. Essere biuttosto una di quelle recensioni medie per una bellicola media che avere bregi e difetti e io boi berché barlare così? Io avere studiato in ottima scuola con voi bianghi e boi in questo film gente no barlare così, io confondere con
Australia di Baz Luhrmann, quindi io ora smettere di barlare così, okay badroni?
The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca
(USA 2013)
Titolo originale: The Butler
Regia: Lee Daniels
Sceneggiatura: Danny Strong
Ispirato all’articolo: A Butler Well Served by This Election di Wil Haygood
Cast: Forest Whitaker, Oprah Winfrey, David Oyelowo, Cuba Gooding Jr., Terrence Howard, Yaya Alafia, Jesse Williams, Lenny Kravitz, John Cusack, Robin Williams, James Marsden, Minka Kelly, Liev Schreiber, Nelsan Ellis, Alan Rickman, Jane Fonda, Mariah Carey, David Banner, Alex Pettyfer, Vanessa Redgrave
Genere: servizievole
Se ti piace guarda anche: The Help, Forrest Gump
La prima cosa di una pellicola che salta all’occhio di un pubblico di bianchi sono i difetti. Ah, i bianchi, mai contenti di niente! Sempre a guardare il lato negativo delle cose. The Butler è un film di quelli che trattano una tematica impegnata, come lo schiavismo e il razzismo, è pieno di retorica, è un’americanata ruffianata, in pratica. Questo è un difetto, senza dubbio. Però al suo interno non ci sono solo difetti.
Gli attori sono bravissimi e questo potrebbe non sembrare un difetto, però forse un po' lo è perché sono di quel bravissimo perfetto per l’Academy e per i premi vari. Un bravissimo talmente perfetto che perfino l’Academy potrebbe non cascarci più, considerando ad esempio come ai
Golden Globe il film a sorpresa sia stato ignorato alla grande. Ed è un peccato, perché Forest Whitaker offre una performance notevole, non ai livelli di Ghost Dog, che quello rimane un film che vale una carriera e pure una vita, però è comunque notevole. Molto più ad esempio del pessimo Tom Hanks del pessimissimo Captain Findus. E ancor più degna di nota è la non protagonista Oprah Winfrey. Sì, “quella” Oprah Winfrey. La presentatrice più importante e ricca della tv americana, qui davvero fenomenale nei panni vestiti in maniera dannatamente naturale della moglie di Forest Whitaker.
Stupisce pure una irriconoscibile Mariah Carey in un piccolo ruolo, mentre Lenny Kravitz si conferma caratterista di razza ed è ormai capace di far dimenticare di essere una rockstar sexy e desiderata in tutto il mondo. Al cinema anzi è proprio bruttarello. È più bello Forest.
Da tenere d’occhio poi la fighissima e stylosissima Yaya Alafia (anche nota come Yaya DaCosta), quella de
I ragazzi stanno bene, e il giovane David Oyelowo, che ha la parte del figlio maggiore di Whitaker. È proprio nel rapporto padre/figlio, nello scontro tra due differenti generazioni e tra due differenti modi di essere “negro” che il film ha i suoi momenti più intensi ed efficaci. È qui che sta il cuore del film.
Forest Whitaker è il cameriere di colore che passa la sua vita al servizio dei bianchi. Vive dentro al Sistema ma, zitto zitto, contribuisce in qualche modo a cambiarlo. Se oggi alla Casa Bianca siede un uomo di colore è anche grazie a uno come lui. Dall’altra parte il figlio David Oyelowo è invece un rivoluzionario, un ribelle, una Black Panther, uno che non ci sta a servire l’uomo bianco, lo Zio Tom, sì badrone. È anche grazie a quelli come lui se oggi alla Casa Bianca siede un uomo di colore. È qui che il presunto buonismo della pellicola, molto evidente in superficie, comincia a non essere poi tanto evidente. A contribuire al cambiamento sociale, al Change, ci sono stati pure i movimenti violenti. Questo è ciò che suggerisce il film e non è che sia proprio un messaggio così ruffiano o politically correct, che ne bensate, badroni?
La vera mazzata offerta dallo script di Danny Strong, mitico Jonathan in Buffy – L’ammazzavampiri e goldenglobbizzato per l’ottima sceneggiatura del film tv HBO
Game Change, è però un’altra. Il film paragona infatti in maniera esplicita la segregazione razziale americana ai campi di concentramento nazisti, una cosa che non si sente certo tutti i giorni in una grossa produzione hollywoodiana. Non ad esempio nel ben più ruffiano Forrest Gump, film che voi badroni bianchi tanto amare.
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"Il mio nome è Forest Gum... volevo dire Forest Whitaker." |
Peccato che non tutta la pellicola sia altrettanto coraggiosa. Non lo è ad esempio la regia di Lee Daniels. L’autore del notevole
Precious sembra aver messo da parte la ferocia di quel film, potente non solo a livello di contenuti ma anche stilisticamente, e qui adotta una regia molto formale, molto piatta. È come se Lee Daniels fosse passato dall’essere un giovane ribelle nero incazzato, come David Oyelowo nel film, a un uomo maturo che cerca di convivere dentro il sistema giocando secondo le regole, come Forest Whitaker nel film. Ed è così che ha firmato una pellicola che a livello registico poteva osare di più e che a livello di contenuti ha qualche spunto non male ma poi a un certo punto è come se tirasse indietro la mano, mentre a livello emotivo non riesce a essere coinvolgente tanto quanto una pellicola che affronta una tematica simile come il più efficace
The Help.
La sfida di un racconto diluito parecchio nel tempo come questo, si parte dagli anni ’20 e si arriva al presente, era ardua. La sceneggiatura di Danny Strong ne esce in maniera tutto sommato decente, considerando i quasi 100 anni da raccontare. Nel voler trattare una storia e una Storia tanto ampie e lunghe, a essere tratteggiati in maniera inevitabilmente superficiale sono i vari presidenti degli USA per cui il personaggio di Forest Whitaker lavora: John Cusack nonostante il nasone che gli hanno appiccicato in faccia non c’azzecca un granché con Richard Nixon, Robin Williams è un Eisenhower macchiettistico, James Marsden si sforza ma non è per niente un JFK convincente, Liev Schreiber come Lyndon Johnson si poteva evitare, mentre Alan Rickman come Ronald Reagan ci sta, così come Jane Fonda nei panni della moglie Nancy Reagan.
Tanto tempo, troppo tempo, troppi Presidenti, troppi decenni da raccontare, troppi cambiamenti epocali e parecchi ovviamente non trovano lo spazio che avrebbero meritato. Da una materia così complessa, sia a livello temporale che di contenuti, si poteva tirare fuori un disastro, invece The Butler riesce a portare il suo servizio a buon, diciamo discreto compimento. Il film non dice niente di troppo nuovo a parte il citato paragone schiavismo/nazismo, e ci racconta storie che già conoscevamo. Eppure si lascia guardare dall’inizio alla fine e alcuni momenti, per quanto noti, è sempre bello riviverli. Come l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, un passaggio storico epocale almeno quanto il primo passo dell’uomo sulla Luna.
Si poteva, era legittimo pretendere un maggiore coraggio, certo. Ma a volte è meglio non strafare. A volte è meglio agire in maniera più composta, più sotterranea, e contribuire anche così a mutare le cose. C’è poco di rivoluzionario in un film come The Butler, però solamente un paio di passaggi di sceneggiatura per niente politically correct e scontati, come in questo caso, possono bastare. Le cose si possono cambiare pure così. Passo dopo passo. Presidente dopo Presidente. Film dopo film. Un pochino alla volta. Come fare Forest Whitaker in questo The Butler e come fare io, umile cameriere blogger al servizio di voi breziosi e illustri lettori bianghi di Bensieri Cannibali. Certo berò che una volta voi botere anche lasciare a me mancia, brutti badroni sbilorci!
(voto 6+/10)