Cast: John Cusack, Paul Dano, Elizabeth Banks, Paul Giamatti, Graham Rogers, Jake Abel, Max Schneider
Genere: sentito
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Uno ascolta i Beach Boys e pensa all'estate, al sole, al mare e... alla spiaggia, naturalmente. Ci si immagina che dietro alla loro musica ci sia della gente allegra e festaiola e in parte era così, almeno agli inizi. La vicenda del leader della band, Brian Wilson, è però parecchio più complicata di quanto si potrebbe pensare. È una storia di follia e depressione...
Hey, aspettate, cosa?!?
L'autore di canzoni come “Surfin' USA”, "Wouldn't It Be Nice", “California Girls”, “I Get Around” e “Barbara Ann” un depresso cronico?
Cast: Dwayne Johnson, Alexandra Daddario, Carla Gugino, Ioan Gruffudd, Hugo Johnstone-Burt, Art Parkinson, Paul Giamatti, Archie Panjabi, Kylie Minogue, Colton Haynes
Genere: terremotato
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C'è un terremoto in arrivo dalle vostre parti?
Anzi, c'è uno sciame sismico senza precedenti nella Storia dell'umanità in arrivo dalle vostre parti?
Volete essere salvati, rigorosamente all'ultimo istante?
E allora dite una preghiera.
A chi?
A The Rock, ovvio.
Padre nostro ma più che altro di Alexandra Daddario che sei nei cieli di Hollywood con il tuo elicottero sia santificato il tuo nome The Rock, o se preferisci Dwayne Johnson, oppure ti va bene essere chiamato daddy? venga il tuo regno nel cinema trash catastrofico (in tutti i sensi) inverosimile che al confronto la saga di Sharknado è neorealismo puro sia fatta la tua volontà, altrimenti sono botte come in cielo, dove con il tuo elicottero voli a salvare tutti quelli che ne hanno bisogno, persino le ragazzine che ascoltano Taylor Swift
Ispirato a: Romeo e Giulietta di William Shakespeare
Cast: Douglas Booth, Hailee Steinfield, Damian Lewis, Natasha McElhone, Stellan Skarsgård, Paul Giamatti, Kodi Smit-McPhee, Ed Westwick, Lesley Manville, Tom Wisdom, Nathalie Rapti Gomez, Christian Cooke, Laura Morante
Genere: tragico
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I drammi shakespeariani ispirano sempre delle domande. Non mi riferisco in questo caso a quesiti esistenziali come “Essere o non essere?”. L'ultimo adattamento di Romeo & Giulietta mi ha portato alla mente un'altra domanda. No, nemmeno “Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?” e a dirla tutta le domande sono due.
Sceneggiatura: Alex Kurtzman, Roberto Orci, Jeff Pinkner
Cast: Andrew Garfield, Emma Stone, Jamie Foxx, Dane DeHaan, Colm Feore, Felicity Jones, Sally Field, Paul Giamatti, Embeth Davidtz, Campbell Scott, Marton Csokas, Sarah Gadon, B.J. Novak
Genere: superinutile
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Esiste qualcosa di più odiato dei film sui supereroi, qui su Pensieri Cannibali?
Sì, la mia nemesi, il mio blogger rivale Mr. James Ford, ma a parte lui non molto altro.
Nonostante la mia avversione nei confronti del genere, da buon supereroe della blogosfera quale mi impegno di essere, continuo in ogni caso a vedere questi filmetti per documentarli ai miei preziosi lettori. Anche perché è un genere di pellicola sempre (inspiegabilmente) popolare e quindi porta visite al sito.
Cancellate quest’ultima frase. Lo faccio SOLO per spirito di sacrificio nei vostri confronti, miei adorati lettori.
"Bambino, se un giorno vuoi diventare come me ricorda sempre che
da un grande potere derivano grandi responsabilità."
"Ma guarda che io sono vestito così solo perché i costumi da Batman eran finiti."
Tra i film sui supereroi, i miei preferiti sono quelli che cercano di stare ai margini del genere come Unbreakable, Scott Pilgrim Vs. the World o il primo Kick-Ass, oppure sul piccolo schermo i Misfits dei primi tempi. Tra i superheroes più “commerciali” il mio preferito resta invece Batman, quello che, tra Tim Burton e Christopher Nolan, ha goduto delle trasposizioni più valide a livello cinematografico. Quello che mi sta più simpatico come personaggio è invece Peter Parker. Al contrario di Bruce Wayne o dell’insopportabile Clark Kent che sarebbero dei figaccioni vincenti anche se di professione non si mettessero a salvare il mondo, fondamentalmente lui è un nerd, un loser, uno sfigato. O almeno lo era. Nello Spider-Man di Sam Raimi la calzamaglia rossoblu (forza Genoa o, se preferite, forza Bologna!) era vestita da un nerdissimo Tobey Maguire, mentre nel primo The Amazing Spider-Man Andrew Garfield ne offriva una reinterpretazione geek. Geek, ovvero l’evoluzione un po’ meno sfigata dei nerd. Seth Cohen di The O.C. docet.
In questo secondo The Amazing Spider-Man la componente nerdosa o geekkosa che dir si voglia è invece del tutto sparita. Peter Parker ha terminato la scuola in maniera super cool, baciando trionfante alla consegna dei diplomi la zoccoletta più popolare del liceo, la sua Gwen Stacy/Emma Stone che è sempre un bel vedere, sebbene io la preferisca e di parecchio in versione rossa. Nei panni di Spider-Man continua poi a fare il figo a ogni occasione, con la sua suoneria personalizzata e con un umorismo da action hero degno di Schwarzy, o più che altro della sua versione simpsoniana Rainier Wolfcastle. In pratica del Peter Parker loser è rimasto poco o nulla.
"Emma, t'ho salvata dalla statale!"
"Ehm, Spidey caro, veramente io lì mi ci guadagno da vivere."
A ciò aggiungiamo un difetto comune a tutti i suoi colleghi in calzamaglia. Una cosa che non sopporto dei supereroi è il loro costante e onnipresente spirito di sacrificio. Sembra che nella vita non vogliano far altro che morire come dei martiri, salvo poi non morire mai. Vogliono sempre sembrare moralmente superiori a noi poveri cristi. Per carità, lo saranno anche, però sono pure odiosi. Non fa eccezione questo nuovo Peter Parker, anche se…
ATTENZIONE SPOILER
…il suo spirito di sacrificio finirà per ritorcersi contro di lui, coinvolgendo la povera Gwen Stacy/Emma Stone in un finale che è la parte migliore del film, visto che sembra evitare il solito banale happy-ending. Essendo questo un blockbusterone commerciale, la conclusione ci regala comunque un segnale di speranza, con una scena patetica ed evitabilissima con tanto di scontro con un ridicolo cattivone interpretato da un irriconoscibile Paul Giamatti. Far finire la pellicola con l’Uomo Ragno trasformato in Uomo Lagno che si strugge per la morte della fidanzata non sarebbe stato meglio?
FINE SPOILER
Nonostante Andrew Garfield sia un attore che mi piace qui non è certo usato al suo meglio e, nonostante Peter Parker mi sia sempre stato simpatico, qua non è proprio il massimo della vita. Pazienza, tanto il personaggio più interessante nei film sui supereroi di solito non è il supereroe di turno, quanto il suo supernemico. E chi abbiamo a ricoprire questa parte in The Amazing Spider-Man 2?
Come potete intuire dal sottotitolo italiano, è lui: Electro.
A interpretare Electro c'è Jamie Foxx, uno che per un breve, brevissimo periodo era sembrato il futuro del cinema e dell'intrattenimento mondiali. Gli era riuscita la clamorosa doppietta Collateral + Ray e per quest’ultimo avevo portato a casa persino l’Oscar. Era apprezzato dal grande pubblico, dalla critica, si era messo pure a fare il cantante e aveva raggiunto la prima posizione dei singoli più venduti negli USA con il pezzo “Slow Jamz” realizzato con i rapper Twista e Kanye West.
Una decina d’anni fa Jamie Foxx insomma dominava, poi è abbastanza sparito, e infine il solito Quentin Tarantino gli ha resuscitato la carriera dandogli la parte di Django, rifiutata da quel furbone di Will Smith, che ha preferito girare After Earth. Bella mossa, Willy!
Adesso a Jamie doppia X gli è piovuto addosso pure il ruolo da cattivone in una grande produzione commerciale, peccato che il suo personaggio faccia schifo. Schifo ai livelli del Venom/Topher Grace di Spider-Man 3.
A parte il fatto che i motivi per cui a un certo punto passa dal venerare l’uomo ragno a odiarlo sono molto pretestuosi, però il suo Electro era un personaggio che avrebbe meritato un approfondimento maggiore. Sarà che il sottotitolo italiano sembrava indicarlo come grande protagonista del film, ma a un certo punto sparisce, un po’ come Jamie Foxx ha fatto nel corso della sua carriera, per poi ricomparire verso la fine. Solo questa volta senza il contributo di Quentin Tarantino, purtroppo.
"Non è giusto! James Franco non l'avevate mica imbruttito così tanto..."
Il regista del secondo (non troppo) Amazing Uomo Ragno resta invece Marc Webb, uno che all’esordio aveva fatto gridare al miracolo in molti, me compreso, con il freschissimo indie-movie (500) giorni insieme, ma che ormai è stato assorbito dalla macchina hollywoodiana e il suo stile visivo, già quasi del tutto assente nel precedente capitolo, è qui del tutto annientato. Webb sembra più che altro voler ripercorrere le orme della trilogia di Sam Raimi. Peccato che questo secondo capitolo non sia all’altezza di Spider-Man 2, il migliore film sull’Uomo Ragno finora realizzato. Se nel primo tempo il mix tra azione e componente d’amore e d’amicizia (con l’arrivo del BFF di Spidey Harry Osborn interpretato dal valido Dane DeHaan) funziona ancora, nel secondo si scivola nel solito banale tripudio di effetti speciali e combattimenti non molto avvincenti.
Come prodotto d’intrattenimento non è nemmeno malaccio, sebbene la durata di questi film sia sempre troppo eccessiva per la mia sopportazione, ma la cosa che emerge con maggiore evidenza è un’altra: l’assoluta inutilità di questa nuova trilogia, realizzata troppo a ridosso della precedente e incapace di dire qualcosa di nuovo o di diverso sul personaggio di Spider-Man. Per vedere il terzo capitolo della serie pare comunque che dovremo aspettare fino al 2018, però di certo non staremo, o almeno io non starò certo, a fremere per l’attesa del ritorno di questo spento Uomo Lagno.
(Israele, Germania, Polonia, Lussemburgo, Francia, Belgio 2013)
Regia: Ari Folman
Sceneggiatura: Ari Folman
Ispirato al romanzo: Il congresso di futurologia di Stanislaw Lem
Cast: Robin Wright, Harvey Keitel, Kodi Smit-McPhee, Sami Gayle, Paul Giamatti, Danny Huston, Michael Stahl-David, Michael Landes, Sarah Shahi
Genere: ibrido
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Ci sono dei film che hanno tutte le carte in regola per diventare dei cult, o se non altro per far parlare di loro, e invece non se li fila nessuno. The Congress è uno di questi. Dopo essere stato presentato al Festival di Cannes 2013, è passato del tutto sotto silenzio e in Italia, ovviamente, manco è uscito nelle sale ma si può comunque trovare grazie alla sempre preziosa rete e ai sempre attivi sottotitolisti nostrani. Dio benedica loro, altroché quegli stronzi della distribuzione. Senza offesa per nessuno, eh.
The Congress è un film molto originale. Vabbè, molto magari no, però è un esperimento interessante. Un mix tra attori in carne e ossa e animazione. Il pensiero a questo punto corre subito verso Chi ha incastrato Roger Rabbit, ma in questo caso le parti live action e quelle animate sono distinte.
La pellicola è inoltre un mix tra realtà e finzione. La protagonista Robin Wright interpreta infatti se stessa. Interpreta Robin Wright l’attrice famosa unicamente per due film, La storia fantastica e Forrest Gump, mentre per quanto riguarda il resto della sua carriera ha compiuto un sacco di scelte sbagliate e si è imbattuta in una numerosa serie di flop, fino almeno all’approdo tv recente con la fortunata serie House of Cards. Nella prima parte del film si parla proprio di questo, di un’attrice arrivata alla fatidica soglia dei 40 e rotti anni che a Hollywood, per un’interprete femminile, cominciano a non essere pochi, e che si trova di fronte a una scelta radicale. Gli viene offerto di cedere i diritti per lo sfruttamento della sua immagine a uno studio cinematografico, la Miramount (un ironico incrocio tra Miramax e Paramount), per digitalizzarla e renderla un’attrice finta, virtuale, a completa disposizione degli studios. Allo stesso tempo, la vera Robin Wright dovrà ritirarsi dalle scene, lasciando spazio al suo alter ego digitale. Una pensione anticipata che, soprattutto in tempo di crisi, non si rifiuta. E così Robin Wright accetta e…
Non ve lo dico. Scopritelo da soli. Il film una visione la merita, però, c’è un però. La prima parte della pellicola è una riflessione notevole sull’industria cinematografica e ha uno spunto sci-fi niente male, vicino alla serie tv inglese Black Mirror o vagamente anche al recente capolavoro di Spike Jonze Lei – Her. Magari niente di nuovissimo, in fondo pure S1m0ne di Andrew Niccol con Al Pacino proponeva già dieci e passa anni fa una vicenda simile, però una pellicola incentrata sul mondo del cinema e sul mestiere dell’attore almeno per chi è appassionato di films è sempre interessante da vedere. Robin Wright, attrice che personalmente non è mi mai piaciuta, offre poi qui una prova recitativa notevole e molto sincera. D’altra parte, se non lo è facendo la parte di se stessa, quando può esserlo?
Tutto bene, allora?
"Sì, nel mondo dei cartoni siamo ancora incazzati per quell'Oscar
rubato dal tuo caro Forrest Gump a Pulp Fiction."
Eh, insomma…
Il regista è Ari Folman, quello di Valzer con Bashir, uno dei miei film d’animazione preferiti di tutti i tempi. Si dice spesso che il cinema d’animazione non è necessariamente per bambini e tutto, ed è vero per carità, però intanto anche nei tanto celebrati capolavori Pixar e Disney e DreamWorks eccetera, le bambinate e le scenette che ammiccano al pubblico dei più piccoli ci sono sempre. Giustamente, per carità. Devono pur sempre riempire le sale e con Frozen negli ultimi tempi ci sono riusciti alla grande. Valzer con Bashir invece è un film d’animazione adulto al 100%, senza bambinate, oltre che un film non tanto e non solo sulla guerra, quanto esistenziale. Una roba davvero bella, in pratica. Dopo quella pellicola meritatamente celebrata, vincitrice del Golden Globe e nominata agli Oscar come miglior film straniero, questo nuova lavoro del regista israeliano cade proprio sulla parte animata.
Non che le animazioni non siano di alto livello, tutt’altro. Appaiono come un incrocio affascinante tra il suo precedente Valzer con Bashir e una pellicola dello Studio Ghibli di Miyazaki a caso. Il problema sta nelle derive filosofeggianti della trama, ispirata a un romanzo dello scrittore polacco Stanislaw Lem, da cui era stato tratto anche Solaris di Andrej Tarkovskij. La prima parte del film era una riflessione niente male sul cinema e su quello che potrebbe essere il cinema del futuro. Tra apparizioni di un simil-Tom Cruise a cartoni, accenni di critica a film troppo digitalizzati alla 300 e persino una citazione del Dr. Stranamore di Stanley Kubrick, andava bene così, ce n’era già abbastanza per farne un film completo. Ari Folman invece non si è accontentato e nella seconda parte ha alzato il tiro, realizzando un’altra pellicola a tematica esistenziale, senza però riuscire a eguagliare gli splendidi livelli di Valzer con Bashir. Qui la storia si incasina eccessivamente tra salti temporali repentini e discorsi che avvicinano il film alle tematiche di Matrix, giusto un pochino fuori tempo massimo. Giusto di una quindicina d’anni.
"Ammazza! Si sta peggio qua che nell'ultima carrozza di Snowpiercer."
The Congress è allora il classico esempio di film che si sputtana con le proprie mani, un lavoro che ha al suo interno tante idee, tante buone idee, e anziché focalizzarsi su quelle già mostrate ne tira fuori delle altre che non sono poi così brillanti e finisce per rovinare tutto. O quasi, perché comunque The Congress resta un esperimento cinematografico affascinante, sebbene non del tutto riuscito.
Se però il film non se l’è filato quasi nessuno non credo sia tanto per le sue derive filosofiche allucinate della parte finale, ma più per la sua natura ibrida. The Congress è un film metà recitato e metà animato. Metà a tematica cinematografica e metà a tema esistenziale. Metà interessante e metà vaccata. Una pellicola divisa tra due strade, tra due mondi, e anche tra due tipi di cinema differenti: molto precisa e pulita, sia come narrazione che a livello registico la prima metà, molto incasinata e psichedelica, pure troppo, la seconda. Due film al prezzo di uno in pratica, uno niente male, l’altro più da “Bah!”, quando sarebbe stato meglio prendere una direzione sola. One direction per una volta non sarebbe stato sinonimo di qualcosa di maligno. Invece no. Ari Folman ha voluto fare il megalomane, lo sborone, ha voluto fare tutto e da bambino cattivo ha finito per pisciare fuori dal vaso.
Cast: Emma Thompson, Tom Hanks, Annie Rose Buckley, Colin Farrell, B.J. Novak, Jason Schwartzman, Paul Giamatti, Bradley Whitford, Kathy Baker, Rachel Griffiths, Luke Baines
Genere: genesi di un film
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È possibile fare un bel film sulla realizzazione di un brutto film? Cerchiamo di scoprirlo.
Come ho testimoniato ieri, la visione di Mary Poppins mi ha provocato nausea e incazzature varie, con tutte le sue canzoncine cinguettose e i suoi eccessi di disneysmo sfrenato. Quindi, anche se magari non sarete d’accordo, per me Mary Poppins è un brutto film. Un film pessimo.
A ciò dobbiamo aggiungere un’altra questione mica da poco. Nel cast di questo Saving Mr. Banks c’è Mr. Tom Hanks. Come forse saprete, c’è una sola cosa che mi infastidisce più di Mary Poppins o di Antonella Ruggiero che cantano: la visione di un nuovo film con Tom Hanks. Questa volta, il Fabio Fazio degli attori hollywoodiani ha deciso di superare se stesso e mettermi ulteriormente alla prova in una maniera perfida. In Saving Mr. Banks, il film sulla lavorazione del film di Mary Poppins, Hanks ha deciso di interpretare non un personaggio a caso, bensì Walt Disney. E io con il mondo Disney non è che vada proprio d’accordissimo e in particolare per Walt Disney non è che abbia mai provato un’enorme simpatia. Al creatore dell’insopportabile perfettino Topolino ho sempre preferito Carl Barks, autore del mio personaggio preferito dell’universo disneyano, il mitico, avidissimo, cattivissimo Paperon de’ Paperoni, il vero paparino dei vari Gordon Gekko di Wall Street e Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street.
Le premesse erano quindi per me davvero tragiche.
Mary Poppins + Tom Hanks + il personaggio di Walt Disney all’interno di una pellicola prodotta dalla stessa Disney = ero già pronto al suicidio.
Prima di compiere il gesto estremo, ho però deciso di dare una possibilità a questo Saving Mr. Banks, sperando si sarebbe potuto trasformare in un mio Saving Mr. Hanks. Invece no. Non ho salvato Tom Hanks. Io in questo film Tom Hanks l’ho odiato. Come al solito, più del solito. Eppure qui questo odio è giustificato, perché Tom Hanks interpreta Walt Disney e Walt Disney è il cattivo di turno.
Un film della Disney in cui Walt Disney è il villain?
Sì, così almeno è come io personalmente ho visto il film.
Saving Mr. Banks racconta di come la serie di libri per ragazzi di Mary Poppins realizzata dalla scrittrice inglese Pamela Lyndon Travers si è trasformata nel celebre film della Disney Mary Poppins che tutti conosciamo, che alcuni di voi amano e che io invece odio. Il processo per portare la tata più magica e più celebre del mondo su grande schermo è stato tutt’altro che semplice. Walt Disney, l’ostinatissimo Walt Disney, l’uomo che non accetta un no come risposta, aveva provato per 20 anni a convincere la Travers a farsi cedere i diritti per realizzarne un adattamento cinematografico, ma lei gli ha sempre risposta: “Ciucciamela!”
Perché?
Perché non voleva che la sua storia, i suoi personaggi, la sua Mary Poppins venissero disneyzzati. Non voleva che la sua saga fosse trasformata in una pellicola musical a cartoni animati. Come darle torto, a questa donna illuminata, come darle torto?
"Ebbene sì, la Rai ha trovato un nuovo conduttore per Sanremo
ancora più buonista di Fabio Fazio: me!"
Il tempo passa, lei continua a dire no, fino a che, a inizio anni Sessanta, l’esercito Disney alza il tiro del suo corteggiamento sfrenato, invitando la Travers a partecipare alla realizzazione del film nei suoi studi hollywoodiani. La P.L. Travers (ma perché tutti gli scrittoroni autori di saghe fantasy hanno più di un nome?) si trova così in un ambiente zuccheroso, tipicamente disneyano, che la infastidisce. Come darle torto di nuovo?
Walt Disney, il Male fatto persona, di fronte a lei è tutto buono buonino, come i tipici protagonisti delle sue pellicole. In realtà fa di tutto pur di realizzare il film che lui vuole. Non gliene frega niente della Travers o della Mary Poppins originale. A lui interessa solo comprare le persone, comprare le loro storie, modificarle e portare nei cinema la sua ennesima versione edulcorata e malata del mondo. Fino a che non vince lui. Questo film in pratica è, almeno per come l’ho vista io, una discesa negli Inferi.
Un grande pregio di Saving Mr. Banks è quello di mostrarci come la Travers abbia trovato l’ispirazione per la sua Mary Poppins. Attraverso una serie di flashback riviviamo la problematica infanzia della scrittrice cresciuta con un padre alcolizzato, Colin Farrell, attore irlandese noto bevitore scelto non a caso per questo ruolo che gli calza a pennello. Grazie a questa parte veniamo così a conoscere le vere radici della storia, del personaggio creato dall’autrice, ben lontano dalla messa in scena zuccherosa della versione disneyana. Questi flashback sono alternati in maniera sapiente con la parte che vede la Travers adulta, intepretata da una Emma Thompson, attrice che pure lei non m’è mai piaciuta, più che convincente.
"Benvenuto nel tuo Inferno personale, Cannibal!"
La vera rivelazione personale del film comunque è lui, sì proprio lui: Tom Hanks. Ma non avevo detto che l’avevo trovato ancora una volta odioso?
Sì, esatto. In quest’occasione non interpreta però il suo solito personaggio da protagonista buono del film. Qui è il cattivo e così risulta perfetto. Peccato che poi pure Saving Mr. Banks non riesca a salvarsi dal solito finale strappalacrime e rischi così di compromettere quanto di buono mostrato fino a quel momento. Ma non ha troppa importanza. D’altra parte da una pellicola prodotta dalla Disney non ci si poteva aspettare una conclusione differente. Ciò che non mi aspettavo era di apprezzare una performance recitativa di Tom Hanks, né tanto meno apprezzare un film sulla lavorazione di una pellicola da me tanto detestata. Eppure Saving Mr. Banks, nonostante la regia non certo memorabile di John Lee Hancock, riesce a essere una riflessione profonda ed efficace su ciò che sta dietro alla nascita di una pellicola, ancor più del pur intrigante Hitchcock che raccontava della realizzazione di un capolavoro – quello sì – del cinema come Psyco. E dimostra anche come, a volte, dietro a una storia celebre, può nascondersi un’altra storia ben più interessante.
Per rispondere alla domanda posta in apertura di post quindi sì, è possibile fare un bel film persino sulla realizzazione di uno dei film più detestabili di sempre su uno dei personaggi più detestabili di sempre, almeno nella versione disneyana, Mary Poppins.
Ispirato al libro: 12 Years a Slave di Solomon Northup
Cast: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Lupita Nyong'o, Sarah Paulson, Kelsey Scott, Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Scoot McNairy, Taran Killam, Chris Chalk, Michael K. Williams, Paul Giamatti, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Alfre Woodard, Brad Pitt
Genere: libero
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Questo post è liberamente ispirato a una storia vera
A fine 2013, in un paese teoricamente civile e teoricamente democratico come l’Italia, comincia la promozione del film 12 Years a Slave, nel nostro paese 12 anni schiavo. La pellicola racconta la vera storia di Solomon Northup, un violinista di colore, un uomo libero che nel 1841 viene rapito e ridotto in schiavitù. A interpretare questo personaggio troviamo uno strepitoso Chiwetel Ejiofor nominato agli Oscar per questa parte.
Quello che la distribuzione italiana si è chiesta a questo punto è stato un fragoroso: “Chiiiiiwetel chiiiiiiiiii?”
Si tratta di un attore che ha lavorato con registi prestigiosi come Steven Spielberg e Spike Lee, girato film come Amistad, Love Actually, Lei mi odia, Piccoli affari sporchi e American Gangster, però raramente in ruoli da protagonista e quindi non è che sia in effetti proprio notissimo.
A questo punto, come promuovere in Italia un film con un protagonista così poco conosciuto?
Meglio puntare sui nomi di richiamo nel cast dei comprimari. Ad esempio Michael Fassbender e Brad Pitt.
Ora, Michael Fassbender ci può ancora stare. Ha un ruolo da non protagonista notevole per cui è stato nominato agli Oscar 2014. Ma Brad Pitt…
Brad Pitt in 12 anni schiavo compare dopo 1 ora 40 e ha giusto un paio di scene. Il suo personaggio gioca un ruolo cruciale nella storia, però il suo è giusto poco più di un cameo. Tra l’altro è il peggiore del cast. Appare, fa un po’ il figo e non c’azzecca un granché con il resto della pellicola, ma vabbé, Pitt è uno dei produttori del film e quindi il regista Steve McQueen poteva mica dire di no a una sua apparizione.
La sua è l’unica prova recitativa discutibile di un cast per il resto in stato di grazia in cui spiccano tra gli altri Paul Dano, Sarah “American Horror Story” Paulson, Paul Giamatti, Benedict “Sherlock” Cumberbatch, e soprattutto la rivelazione Lupita Nyong'o, con un ruolo durissimo che è valso pure a lei la nomina agli Oscar 2014. Brava, molto brava, però la statuetta deve comunque andare a Julia Roberts o a Jennifer Lawrence, ok?
Al di là del fatto che Pitt è quello che si segnala di meno in questo grandioso cast, il suo è inoltre un ruolo davvero minuscolo. Dedicargli il poster è una cosa ridicola. È come se sulla locandina di Django Unchained avessero messo Franco Nero. E a questo punto è strano che in Italia non ci abbiano pensato…
Va bene, però adesso vogliamo parlare del film, che se no facciamo come quelli che mettono sulla locandina Brad Pitt invece di concentrarsi sugli aspetti davvero importanti della pellicola, che no, non riguardano Brad Pitt?
ATTENZIONE: QUALCHE SPOILER PRESENTE QUA E LÀ
12 anni schiavo è una pellicola impegnata ma non è una mazzata. È una frustata. Un’Odissea dentro lo schiavismo, quasi un’Apocalyspe Now della segregazione razziale, sebbene privo di quella follia e quella genialità in grado di far passare un film dall'essere buonissimo, perché 12 anni schiavo è un film buonissimo, a un Capolavoro assoluto.
Più che buonissimo, 12 anni schiavo è un film cattivissimo. Cattivissimi sono tutti i bianchi presenti, a parte il Santone Pitt, seppure con sfumature di cattivo diverse. È inoltre una pellicola che non ci risparmia alcuna violenza o atrocità. Non lo fa però con lo stile esagerato e quasi fumettistico di un Quentin Tarantino nel suo Django Unchained. Non lo fa nemmeno con lo stile esasperato e quasi horror del Mel Gibson de La passione di Cristo. Lo fa con uno stile suo. Steve McQueen in qualche modo rende poetica la violenza dei suoi film. Il suo è un cinema molto fisico, viscerale, che non può lasciare indifferenti. Steve McQueen fa male male male. Ce l’aveva fatto notare con il suo primo cazzotto, Hunger, ce l’ha ricordato con una seconda mazzata come lo splendido immenso Shame, e ce lo conferma adesso. Con una frustata. Una? Molto più di una. Quelle che Chiwetel Ejiofor è costretto a infliggere alla povera Lupita Nyong'o. Quelle che quel bastardo di Michael Fassbender gode a infliggere alla sempre più povera Lupita Nyong'o. Quelle che Julia Roberts o Jennifer Lawrence dovranno infliggere a una ancora più povera Lupita Nyong'o, perché mi spiace, ma nonostante questo piano sequenza sia impressionante, l’Oscar deve pur sempre andare alla Roberts o alla Lawrence, ok?
La scena fisicamente più sconvolgente è questa. Cinematograficamente parlando invece è quella dell’impiccagione di Chiwetel Ejiofor, in cui Steve McQueen utilizza delle lunghe riprese fisse. Una sequenza che qualche altro regista più gentile avrebbe tagliato, avrebbe risparmiato a noi pubblico sensibile. Steve McQueen invece no. Come un Michael Haneke ancora più sadico decide di non spostare la macchina da presa. Questo è l’immobilismo di chi non ha fatto niente per cambiare le cose, per anni, decenni, secoli. Se servisse una solo scena per rappresentare secoli di segregazione razziale nei tanto democratici Stati Uniti d’America, sarebbe questa.
Non è l’unica. Ci sono diverse scene fenomenali, in questo film. Tanto che a ripensarci l’idea che non sia un capolavoro comincia a vacillare un pochino. La scena del tentativo di fuga, ad esempio. Noi che non abbiamo vissuto in una situazione di merda del genere, nella sicurezza e nel comodo delle nostre casette ci possiamo domandare: “Sì, vabbè, ma perché questi non si ribellano allo schiavismo, perché non scappano?”.
Questa scena ci mostra come non ci fosse una via d’uscita. No exit. Era come vivere dentro The Walking Dead, solo con al posto degli zombie gli schiavisti e al posto degli umani degli attori migliori.
E ci sono diverse altre scene difficili da cancellare dalla mente, come quella della compravendita degli schiavi venduti come carne in macelleria, o quella del faccia a faccia notturno di Michael Fassbender con Chiwetel Ejiofor degna di un thriller tesissimo, così come resta impresso e fa venire la pelle d’oca a risentirlo lo splendido tema musicale composto da Hans Zimmer e poi quel momento in cui Ejiofor si unisce al coro gospel “Roll Jordan Roll” in maniera sempre più convinta e disperata. Allora capisci che 12 anni schiavo non sarà un capolavoro assoluto ma quasi quasi gli si avvicina. È un film potente, emozionante, forte, che ti rimane incollato addosso, come una frustata che lascerà per sempre la sua ferita profonda sulla tua pelle.
Il cinema di Steve McQueen non è un cinema di parole. È un cinema di immagini, di sequenze come quelle appena citate che lacerano la pelle. Eppure in questo 12 anni schiavo il regista inglese, pescando nel libro scritto dal protagonista di questa incredibile vicenda, Solomon Northup, ci regala anche alcune parole meravigliose, su tutte:
“Io non voglio sopravvivere. Io voglio vivere.”
12 anni d’applausi.
Steve McQueen con questo film non ci prende per mano per raccontarci una storiella edificante, come avrebbe potuto fare uno Steven Spielberg. Steve McQueen ci scaraventa in mezzo al 1800 e ci abbandona lì. Non da soli, bensì insieme a Solomon Northup/Chiwetel Ejiofor, e ci propone una storia differente da quella di altre pellicole sulla tematica dello schiavismo. Solomon era un uomo libero che, da un giorno all’altro, è stato trasformato in uno schiavo. La pellicola mostra cosa significa perdere la libertà per chi la libertà ce l'ha avuta. 12 anni schiavo sbatte in faccia al pubblico della White America e a noi pubblico bianco tutto l’assurdità della schiavitù, ficcandoci in testa una domanda: “E se capitasse a noi? E se facessero questo a noi?”.
La vicenda di Solomon Northup sarà ovviamente vissuta in maniera più vicina dalle persone di colore, ma la sua è una storia universale che racconta la perdita del bene più prezioso dell’uomo, la libertà. Una parola che purtroppo troppo spesso negli ultimi tempi è stata usata a vanvera, fino a essere svuotata del suo vero significato.
Si potrà dire che 12 anni schiavo gioca bene le sue carte per ammiccare le giurie dei premi che contano, Golden Globe così come Oscar. Eppure, in una delle ultime scene, l’inquadratura sul volto di Chiwetel Ejiofor che ritorna a casa non si può considerare una ruffianata. Quella è la rappresentazione della liberazione. La rappresentazione di un uomo che si rende conto di aver riacquistato tutto quello che aveva perduto. Perché la libertà è tutto. Quello è lo sguardo di chi ha smesso di sopravvivere e ora può tornare a vivere.
"Che giorno tragico, questo 22 novembre 1963!
Mi scappa la popò e tutti i bagni sono occupati..."
Parkland
(USA 2013)
Regia: Peter Landesman
Sceneggiatura: Peter Landesman
Ispirato al libro: Reclaiming History: The Assassination of President John F. Kennedy
Cast: James Badge Dale, Zac Efron, Paul Giamatti, Billy Bob Thornton, Marcia Gay Harden, David Harbour, Ron Livingston, Austin Nichols, Tom Welling, Matt Barr, Jeremy Strong, Kat Steffens
Genere: storico
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Parkland non è un film. È una ricostruzione.
Come ricostruzione non è nemmeno fatta male, tutt’altro. Per chi vuole guardare cos’è successo 50 anni fa, il 22 novembre 1963, quando hanno sparato a John Fitzgerald Kennedy, e nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, è una visione ideale. Per chi vuole "guardare", ma per chi vuole “vedere” e capire cosa è successo veramente, questo film è invece qualcosa di inutile. Non ci viene detto niente che già non si poteva sapere facendo un rapido giro su internet o guardando un documentario alla tele.
"Henry Cavill, tu non rompere che sei l'unico al mondo che recita peggio di me!"
La regia dell’esordiente Peter Landesman è anonima, da versione sfigata del Sundance, e il fatto che sia stato presentato in Concorso al Festival di Venezia di quest’anno credo la dica lunga sulla selezione fatta…
Il cast invece non è affatto male, per essere come detto una ricostruzione e non un film. C’è gente come Paul Giamatti, Marcia Gay Harden e Billy Bob Thornton, per dire. Certo, ci sono anche attori non proprio irresistibili, o anche solo un minimo espressivi, in arrivo da serie tv teen come Austin Nichols (da One Tree Hill), Matt Barr (Hellcats e pure lui One Tree Hill) e Tom Welling, l’ex Clark Kent di Smallville. Tom Welling ha giusto una mini-particina e si conferma un attore davvero modestissimo ma, dopo aver visto gli atroci Brandon Routh ed Henry Cavill nelle ultime due trasposizioni cinematografiche di Superman, lo sto quasi quasi rivalutando…
A brillare nel cast sono però altri: il sempre più bravo James Badge Dale (visto nelle serie 24 e Rubicon e nei film Flight e Shame) e l’australiana Jackie Weaver, nominata due volte agli Oscar per Animal Kingdom e Il lato positivo. Sono loro a interpretare i due personaggi un minimo più intriganti di questa ricostruzione. I due interpretano il fratello e la madre di Lee Harvey Oswald, l’uomo considerato responsabile dell’omicidio di Kennedy, ma le cui motivazioni rimangono a oggi sconosciute e questo film non aiuta in alcun modo a far luce sulla misteriosissima vicenda, o anche solo a suggerire qualche ipotesi. È nelle loro figure che possiamo intravedere un motivo per questa pellicola di esistere, peccato che anche questi due personaggi rimangano troppo abbozzati, quando invece sarebbe stato interessante vedere un intero film dedicato alla famiglia Oswald. Dopo The Kennedys, The Oswalds… dite che non sarebbe stato commerciale abbastanza?
"Dottore, hanno sparato al Presidente, che facciamo?"
"E che ne so io? Non ho manco mai finito la high school,
passavo tutto il tempo a ballare canzoncine sceme."
La vera rivelazione è comunque Zac Efron, qui parecchio convincente nei panni del giovane dottore che ha cercato di salvare, fino all’ultimo, la vita al Presidente americano. È curioso notare come Zac Efron e ancor di più Vanessa Hudgens siano riusciti a smarcarsi alla grande dai ruoli da bimbiminkia ricoperti nel film che li ha lanciati, High School Musical, mentre Ashley Tisdale, che all'interno del musicarello Disney sembrava la più promettente e sveglia, tra Scary Movie V e la serie tv Hellcats è finita invece lei per avere una carriera da eterna bimbaminkia.
Cosa c’entra questo?
Niente, però mi sembrava un discorso più interessante del film.
Tornando contro voglia a Parkland, il suo ricchissimo cast comprende poi anche Jackie Earle Haley, ultimo Nightmare cinematografico e nominato agli Oscar per il suo ruolo nell’invisibile (almeno in Italia) Little Children, il nuovo reuccio delle commedie indie americane Mark Duplass (Safety Not Guaranteed, Your Sister’s Sister, le serie The League e The Mindy Project), e poi ancora Ron Livingston (L’evocazione – The Conjuring, Drinking Buddies) e Colin Hanks, il figlio raccomandato di Tom Hanks, quest’ultimo tra i produttori della pellicola, pardon della ricostruzione. Prima che qualcuno mi possa accusare di essere partito prevenuto alla visione, visto il mio sempre sbandierato odio nei suoi confronti, preciso che è una cosa che ho scoperto soltanto leggendo i titoli di coda. C’è poco da fare, tutto ciò che a che fare con gli Hanks mi fa schifo.
"Con dei medici come noi, chissà come ha fatto JFK a morire?"
Perché sto continuando a parlare del cast? Perché fondamentalmente c’è poco altro da dire. Parkland è una ricostruzione fredda, priva di qualunque tipo di coinvolgimento e di mordente delle ore successive all’omicidio di Kennedy. È una ricostruzione corale di quanto accaduto, ma non è un racconto corale come Bobby, il film di Emilio Estevez sull’omicidio di Robert F. Kennedy cui si ispira in maniera evidentemente ma che, a differenza di questo, ci faceva avvicinare davvero ai suoi personaggi. Qui tutto rimane in superficie. Si cerca di presentare la vicenda in maniera imparziale, da vari punti di vista, ma si finisce per non approfondirne nessuno. Il tentativo di raccontare la storia non concentrandosi tanto su John Fitzgerald, su Jackie Kennedy o su Lee Harvey Oswald, quanto su tutte le poco conosciute persone che hanno gravitato intorno a loro in quella manciata di folli giorni del 1963, è anche apprezzabile. Il risultato? Giusto una lunga serie di sbadigli anche per chi, come me, è abbastanza appassionato di Storia e di Presidenti americani.
Parkland è come il 99% dei servizi dei telegiornali: ci dice chi, cosa, quando. Ma non ci dice, né ci suggerisce, il come o il perché. E, come già detto, Parkland è pure valido, come ricostruzione storica. Il cinema però è tutta un’altra cosa.
Tratto dal romanzo: John Dies at the End di David Wong Cast: Chase Williamson, Rob Mayes, Paul Giamatti, Allison Weissman, Fabianne Therese, Clancy Brown, Doug Jones, Glynn Turman
Genere: comedy horror picture show
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John Dies at the End è un titolo geniale, ma allo stesso tempo è anche il titolo più spoileroso di tutti i tempi. Oppure no? John morirà davvero alla fine, o il titolo è volutamente ingannevole per farti pensare che John alla fine muore e invece John alla fine non muore? E comunque, non moriamo tutti, alla fine?
E poi chi è, ‘sto John?
Il protagonista del film è Dave. John è solo il suo migliore amico simpa. Ci può anche stare, se muore alla fine. Tanto, anche se muore, chissenefrega? Tanto è alla fine. Tanto vorranno mica farci un sequel? Eppure ci potrebbe anche stare, un sequel. Perché?
Perché John Dies at the End è un cult movie. E i cult movie sono destinati ad avere un sequel.
"Oh no, adesso ho capito: sono destinato a morire at the end!"
A dirla tutta, pure parecchi scult movie hanno un sequel, ma questa è un'altra storia.
Ci sono i grandi film, i grandi Capolavori, e poi ci sono i cult movie. Capita che un Capolavoro possa essere anche un cult movie ma è raro. Il più delle volte sei uno o sei l’altro. Sei etero o sei gay, sei etero o sei gay, tu fatti i cazzi tuoi che io mi faccio i cazzi miei. Sei etero o sei gay, sei un Capolavoro o sei un cult. Volendo dirla tutta, il più delle volte capita di imbattersi in film mediocri, in film pessimi, o magari anche in film buoni che però non rientrano né nella categoria dei Capolavori né in quella dei cult movie. Quando capita di vedere un film che è qualcosa più che buono però è l’una cosa oppure l’altra.
John Dies at the End non è un Capolavoro. Assolutamente no. Troppo pieno di difetti.
Ne vogliamo vedere qualcuno?
"Paragonato a Robert Pattinson...
Cosa devono sentire le mie povere orecchie?"
I livelli di recitazione non è che siano altissimi. Ok, c’è Paul Giamatti, ma non è che in questo film faccia venire matti. Le sue interpretazioni migliori sono altre. In Storytelling, Sideways e soprattutto American Splendor, per dire. I due protagonisti poi non è che siano il top dei top della recitazione. John, interpretato da Rob Mayes, quello destinato dal titolo del film a morte certa, c’ha la faccia simpatica ma ciò non lo rende un grande attore e il protagonista Chase Williamson poi non è per niente il massimo dell’espressività. Assomiglia a un Robert Pattinson ancora più imbambolato. Il che per la parte che ha ci sta anche. Così come Robert Pattinson in Cosmopolis ci sta tutto.
Il paragone con David Cronenberg non giunge a caso. Sto mica scrivendo frasi casuali sconnesse tra loro. Tutto questo mio discorso, anche se a prima vista può non sembrare, ha in realtà una logica e so benissimo dove voglio andare a parare. Lo stesso fa il film. Può sembrare allucinato e folle, e lo è, eccome se lo è, cacchiarola se lo è, però una logica nella sua anarchia la si può trovare. Sforzandosi.
Il paragone con David Cronenberg non è casuale, dicevo, ma il paragone non è tanto al suo cinema recente, quanto ai suoi film del passato. John Dies at the End mi ha riportano alla memoria eXistenZ e Videodrome, ovvero il top dei top del cinema del regista canadese. Quello in cui ha tirato fuori tutto il suo genio ed estro creativo. La sua anima splatter e deviata al servizio di due sogni. eXistenZ e Videodrome non sono tanto film quanto sogni. Incubi, se preferite. John Dies at the End è fatto della stessa materia. La materia dei sogni. E cos’altro è, la vita, se non un sogno?
Dunque, secondo questa teoria, un film come questo riesce a rendere la vita per come è veramente più di mille documentari o di mille pallose pellicole neorealiste. Questo film è un sogno che prosegue dentro un altro sogno che diventa un altro sogno che si trasforma in un incubo che ritorna a essere un sogno.
Sto finendo in "Area Gigi Marzullo"?
Sto finendo in "Area Gigi Marzullo".
Riavvolgiamo il nastro e torniamo indietro.
John Dies at the End non è un Capolavoro, sostenevo, perché è davvero troppo folle. Il che è un bene. È un film schizzato, imprevedibile, che non offre punti di riferimento e proprio per questo entusiasma come poche altre visioni recenti. Per chi cerca un antidoto ai film impeccabili ma che sanno di già visto prodotti in serie da Hollywood, questo è quello giusto. Allo stesso tempo, soprattutto nella parte finale, la pellicola cade però vittima della sua stessa creatività schizofrenica, lambendo pericolosamente i confini del trash e del kitsch. Superandoli pure.
"Bravo, Cannibal. Sei riuscito a scrivere un post
ancora più sconclusionato del nostro film. Non era facile."
Abbiamo allora visto che non è un Capolavoro. Perché è considerabile invece un cult movie?
Traendo ispirazione dal romanzo horror-comico John Dies at the End di David Wong, il regista e sceneggiatore Don Coscarelli (già autore di Bubba Ho-tep - Il re è qui, che a questo punto voglio recuperare) è un fiume in piena di creatività che mischia idee da B-movie a idee da Z-movie con un umorismo stile Buffy molto Joss Whedon e uno stile visivo tra primo Sam Raimi e il già citato David Cronenberg. Il tutto con una personalità tutta sua, uno spirito anarchico e una sana dose di fancazzismo, o fun-cazzismo, che rende meglio l'idea.
E la trama?
Dire di cosa parla questo film è del tutto inutile. Raccontarlo non servirebbe a niente, quindi questo post è fondamentalmente inutile, perché un film come John Dies at the End va vissuto in prima persona. Diciamo un’altra cosa ancora: non va vissuto, va sognato. Perché è un’esperienza che va al di là della fruizione normale, della concezione temporale come comunemente la conosciamo. John Dies at the End esiste. È come se ci fosse sempre stato. Non che abbia uno stile completamente retrò. È più un film fuori dal tempo. Come The House of the Devil di Ti "re del cinema horror" West o Grindhouse - A prova di morte di Quentin "re del cinema tutto" Tarantino. È come se fosse un film ripescato sul vecchio logoro nastro di un VHS. Ha quella stessa aria familiare di un film che ti sembra di avere già visto e allo stesso tempo possiede la freschezza della novità assoluta.
John Dies at the End è fuori dal tempo, fuori anche dai generi. Un po’ horror però non è che faccia paura e un po’ fantasy perché succedono cose assurde e fantastiche, un po’ tanto comedy perché fa ridere parecchio più della maggior parte delle commedie vere e proprie in circolazione, un po’ qualcos’altro ancora, oggetto indefinito come e più di Quella casa nel bosco. John Dies at the End esiste e non importa altro. Non è tanto importante come inizia o come finisce. John muore veramente alla fine oppure no?
Lascio a voi il piacere delirante di scoprirlo. Quello che è certo è che John Dies at the End è uno dei film più vivi in circolazione e no, non è un Capolavoro, ma è il cult movie che stavate aspettando. At the end.
Cast: Robert Pattinson, Sarah Gadon, Paul Giamatti, Juliette Binoche, Jay Baruchel, Kevin Durand, Emily Hampshire, Samantha Morton, Mathieu Amalric, Patricia McKenzie, K’Naan
Genere: on the road (limo version)
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Don DeLillo “Cosmopolis”
(romanzo, 2003)
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 180
"Vai tranquilla, Kristen. Ti ho perdonata al 100%!"
Trama semiseria
Cosmopolis è ambientato nel futuro. Nel futuro prossimo. Un futuro in cui Robert Pattinson e Kristen Stewart si sono lasciati per sempre. In maniera definitiva.
Coraggio, Twi-hards accanite, ci penso io a consolare voi e le vostre tettine pallide perché da brave rispettabili vampirelle il sole manco sapete cos’è. RPattz e KStew si sono mollati, ma non tagliatevi le vene. Fare gli emo è una cosa passata di moda da almeno 2 barra 3 anni. Trovate un altro modo per passare il tempo.
In questo futuro prossimo, Robert Pattinson non ce l’ha fatta a perdonare Kristen Stewart per i cornoni che gli ha messo. Dopo che sono uscite le foto di lei insieme a Rupert Sanders, il regista di Biancaneve e il cacciatore, l’hanno insultata tutti. Le hanno dato della zoccola, di quella che la da via in giro, però io mi sento in dovere di prendere le sue difese. Di fare l’avvocato del Diavolo. Chiamatemi pure Ghedini, please. Insomma, questa ragazza ha interpretato Biancaneve e manco s’è fatta tutti e 7 i nani e i loro minuscoli peni. S’è fatta solo il regista. E che sarà mai?
Le hanno pure dato della sfasciafamiglie, perché lui è un uomo sposato e con figli (non nel senso che è sposato con i suoi stessi figli), e pure di quella che va con i vecchiardi, perché lei ha 22 anni e lui 41. Accuse arrivate dalle stesse tipe che hanno sognato a occhi aperti con tutti i (pessimi) libri della saga di Twilight in cui la bimbominkia Bella Swan si fa succhiare da e lo succhia a un vampiro che ha 150mila anni, precisiamolo.
E poi Kristo, povera Kristen, dovrà pur allenarsi. Nell’ultimo (Dio grazie!) film della serie di Twilight, l’imminente Breaking Dawn Parte 2, la Stewart interpreta infatti per la prima volta la parte della succhiasangue. Quindi doveva tenersi in forma a succhiare e lì nei paraggi Pattinson non c'era e capitava giusto il povero Rupert Sanders, e così è andata…
"L'importante è che elimini ogni traccia delle cornazze..."
In questo futuro prossimo, dicevamo, Robert Pattinson, dopo aver pianto come un vitellino alla 100esima visione del Titanic, ha deciso di darsi una sistemata e andare avanti con la sua vita.
In Cosmopolis è diventato così un riccone di Wall Street, uno yuppie 2.0 che non dorme ancora la notte, ripensando a Kristen che fa le sporcellate insieme a Rupert Sanders, però si è risposato, con la bella bionda Sarah Gadon, e la sua giornata è piena di impegni.
Il principale? Farsi fare un taglio di capelli. Ciulare in giro delle tipe varie, ma principalmente andare a farsi fare un taglio di capelli.
Sui siti di gossip viene infatti spesso accusato di essere un po’ sciatto e di lavarsi i capelli una volta al mese e lui allora vuole dimostrare alle malelingue che si sbagliano. Che hanno torto. Lui è un tipo curato e deve farsi dare una sistemata al taglio. Costi quel che costi, visto che ancora si intravedono le corna spuntare. Anche se ciò significa attraversare tutta New York City sulla sua limousine bianca, la sua vera casa, mentre fuori scoppia la rivoluzione e il Presidente degli Stati Uniti (quale presidente ci sarà, in questo futuro prossimo? ancora Obama oppure Romney?) è a rischio attentato.
L’economia sta collassando, anche e soprattutto a causa sua e di gente come lui, la gente è incazzata nera, il mondo è sull’orlo del baratro e a lui interessa soltanto attraversare la città per farsi aggiustare il taglio.
Ce la farà il nostro eroe, oppure dovrà tenersi le corna per tutta la durata della pellicola?
"Con tutti i soldi che ti sei fatto con Twilight, vieni pure a scroccarmi una siga?"
Recensione cannibale
Capita spesso di vedere film che non sono all’altezza dei romanzi da cui sono tratti.
Ogni tanto capita anche di assistere a trasposizioni cinematografiche più che degne. Mi vengono in mente Trainspotting, Le regole dell’attrazione o Fight Club, giusto per citare film/libri che amo particolarmente.
Una cosa che capita molto di rado è invece vedere una pellicola che supera, anche piuttosto nettamente, il romanzo a cui si ispira. Cosmopolis è uno di questi rari casi.
Il merito è per lo più tutto di un David Cronenberg tornato in buona forma, dopo le cazzate psicanalitiche e i ridicoli spasmi muscolari di Keira Knightley nel terrificante A Dangerous Method. Chiusa quella sfortunata parentesi si spera forever, Cronenberg leggendo il romanzo di Don DeLillo si è trovato di fronte a una storia che sembra scritta apposta per lui, in cui si fondono alcune sue ossessioni, come quella per la tecnologia o il rapporto carnale uomo/macchina, insieme a una serie di complotti misteriosi e a dialoghi nonsense.
Il romanzo di Don DeLillo come romanzo non è granché riuscito. È scritto molto bene, scivola che è un piacere, ma non comunica nulla. È aria fritta. Aria fritta di pregevole fattura. Aria fritta gustosa. Eppure pur sempre aria fritta. Leggenda narra che David Cronenberg abbia scritto la sceneggiatura del film in appena 6 giorni e non si stenta a credergli. Il libro di DeLillo era bell’e che servito lì, appetitoso più per uno script cinematografico che non per una lettura a sé stante.
"Sicuri si tratti di una torta e non di un'altra sostanza?"
Il grande merito di David Cronenberg è stato quello di aver spremuto le (poche) idee presenti nel libricino, il cui pregio principale è quello di essere una lettura veloce, ottenendo un succo gustoso. Non un succo di quelli che non dimenticherai mai per il resto della tua vita, ammesso che esistano succhi di questo tipo. Però un succo gustoso. Di quelli magari non ricchissimi di vitamine, ma se non altro dissetanti.
Cosmopolis è un succo che disseta chi ha voglia di cinema. A livello visivo ha una splendida fotografia e una notevole cura formale. A livello di tematiche, nell’assurdità delle parole e dei numerosi dialoghi del protagonista Robert Pattinson con una serie di svariati personaggi, Cronenberg ci sguazza alla grande e realizza il suo film più cronenberghiano dai tempi di eXistenZ. Nonsense puro che vuole trovare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l'ha. E non è nemmeno una canzone di Vasco.
Cronenberg è riuscito infatti a dare una forma compiuta e a fornire una dimensione quasi logica, per quanto sempre molto enigmatica, alla materia prima che aveva a disposizione. Ovvero al confuso romanzo di Don Camillo DeLillo. Il regista canadese è rimasto del tutto fedele al libro, eppure è riuscito a dare una lettura sua, una lettura maggiormente politica e in linea con i tempi di crisi economica che viviamo. Ha messo a frutto gli spunti suggeriti qua e là dal DeLillo, vedendo levitare i guadagni come si fa quando si gioca in Borsa e si è fortunati. Ha acquistato dei titoli a rischio e ha visto raddoppiare il loro valore.
Come ha fatto?
"Visto che roba, David? In confronto a Keira sembro uno da Oscar!"
Magia. Una di quelle magie che i grandi registi sanno fare. Ha preso dei dialoghi che su carta apparivano per lo più astrusi ed è riuscito a farne uscire qualcosa non dico di sensato al 100%, eppure in grado di rendere in maniera parecchio azzeccata la confusione del mondo in cui viviamo. Quello all’infuori della insonorizzata e anestetizzata limousine sensoriale del protagonista. Dopo quell’autentica tragedia che si era rivelato A Dangerous Method non era così scontato ci riuscisse. Invece David Cronenberg, nonostante qui voli al di sotto dei vertici dei suoi film migliori, ha realizzato un’opera viva e intrigante.
Non tutto funziona alla perfezione, alcuni personaggi e alcune scene lasciano il tempo che trovano, la verbosità del romanzo è stata mantenuta in maniera eccessiva pure nella pellicola e per la conclusione Cronenberg si sarebbe anche potuto sbattere a inventare qualcosa di maggiore impatto, un crescendo finale più avvincente, anziché mantenersi troppo fedele alle parole del DeLillo. Eppure c’è del cinema, dentro questa limo.
Se questo film ha un difetto, è allora quello di essere rimasto troppo ancorato al romanzo. Laddove quello risultava una bella confezione con dentro poco o niente, la visione di Cronenberg riesce ad essere una splendida confezione con dentro tutto il contenuto del libro condensato e arricchito.
E Robert Pattinson? Come se la cava, l’incognita Robert Pattinson?
Sono tutti bravi, a sbeffeggiarlo. Me compreso, lo ammetto. D’altra parte la sua performance nella parte del vampiro teen idol Edward Cullen è qualcosa di indifendibile. Diretto però da un autore, un grande Autore, Pattinson ha tirato fuori le palle e pure un’interpretazione di buon livello. L’inespressività sfoggiata in molte delle sue pellicole precedenti qui si rivela un’arma in suo favore. Perché è il personaggio del miliardario Eric Packer da lui intepretato a richiederlo. Un giovane bello e ricco da far schifo impassibile a tutto, quasi fosse uscito da un romanzo di Bret Easton Ellis ancor più che da uno di Don DeLillo. Un giovane uomo, un non-giovane vecchio dentro, un vampiro più vampiresco dell'inverosimile Cullen in cerca di emozioni forti. Una disperata ricerca di un qualcosa che nemmeno il (continuo) sesso riesce a placare, come capita pure ai protagonisti di Crash, pellicola cronenberghiana nient’affatto distante da questa. O come capita al Michael Fassbender di Shame.
"Aaah, questa recensione m'ha fatto godere più di un
succhia succhia che mai si consuma di Kristen Stewart."
Plauso quindi a Pattinson, non da Oscar però per la prima volta in grado di convincermi del tutto. Mentre il resto del prestigioso cast sfila non lasciando troppo il segno, con una serie di apparizioni troppo fugaci: Juliette Binoche, Paul Giamatti, Samantha Morton, Kevin Durand, Jay Baruchel, Mathieu Amalric… L’unica che si fa ricordare è la rivelazione Sarah Gadon, già intravista in A Dangerous Method e possibile nuova musa cronenberghiana.
Plauso al Pattinson, a sorpresa, plauso alla soundtrack messa in piedi dal buon Howard Shore insieme alla indie-band Metric (con l’apparizione del rapper K’naan in un brano), ma plauso soprattutto al Cronenberg. È lui che, guidando la limo bianca imbrattata, forse la vera protagonista della pellicola, torna sui sentieri più affascinanti del suo cinema e ci regala un nuovo intrigante viaggio. Un on the road molto sui generis. Un sogno dei suoi. O, per meglio dire, un incubo tra le vie della società e dell’economia odierna.
(voto cannibale al libro: 5,5/10
voto cannibale al film: 7+/10
voto del guest-giudice Fontecedro a film e libro: Cosmico!)
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