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mercoledì 15 gennaio 2020

ImmigraTolo Tolo




Tolo Tolo
Regia: Luca Medici
Cast: Checco Zalone, Souleymane Sylla, Manda Touré, Nassor Said Birya, Alexis Michalik, Barbara Bouchet, Nicola Di Bari


Come si fa un film politico senza che sia un mattonazzo pesante, noioso, pretenzioso, che non voglia per forza dirci da quale parte schierarci, a sinistra, a destra, al centro o chissà dove?

sabato 3 marzo 2018

Election is coming




Breve galleria sulle strategie di comunicazione utilizzate dai partiti e dai candidati per le elezioni italiane 2018 che si tengono domenica 4 marzo.
Nessun giudizio di tipo politico. Anche perché non mi pare che in questa campagna si sia parlato in alcun modo di politica. Sì è parlato anche di Frozen, ma di politica proprio no.


venerdì 15 novembre 2013

PRISONERS, PRIGIONIERI E PRIGIONOGGI




Prisoners
(USA 2013)
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura: Aaron Guzikowski
Cast: Jake Gyllenhaal, Hugh Jackman, Maria Bello, Terrence Howard, Viola Davis, Paul Dano, Melissa Leo, Dylan Minnette, Zoe Borde, Erin Gerasimovich, Kyla Drew Simmons, Wayne Duvall, David Dastmalchian
Genere: labirintico
Se ti piace guarda anche: A History of Violence, Mystic River, Amabili resti, The Village, The Killing, Broadchurch

Prisoners, prigionieri, non lo siamo forse un po’ tutti?
Prigionieri delle convenzioni sociali. Prigionieri dello Stato. Prigionieri di Equitalia (evvai di populismo!). Prigionieri nel rapporto con gli altri. Prigionieri di quello che le persone si aspettano da noi. Prigionieri del personaggio che ci siamo creati. Chi può dire di essere davvero libero?
Io ad esempio mi ritrovo quasi costretto moralmente a scrivere stupidaggini e cacchiate, perché è questo a cui il personaggio Cannibal Kid ha ormai abituato il suo (esiguo) pubblico. Ma adesso basta. Oggi cercherò di scrivere una recensione seria. Forse.

ATTENZIONE: C’E’ QUALCHE SPOILER QUA E LA’. NIENTE DI CLAMOROSO, MA QUALCHE SPOILERINO POTRESTE BECCARVELO, QUINDI SE NON AVETE ANCORA VISTO IL FILM OCIO!


Come detto, chi più, chi meno siamo tutti prigionieri. Tra i “chi più” ci sono i personaggi di Prisoners. Da un film con un titolo del genere, cos’altro vi aspettavate?
Nei sobborghi di una cittadina della Pennsylvania, la tipica cittadina inquietante americana, due tipiche famiglie americane, una black e una white, passano insieme il Giorno del Ringraziamento, la festa americana più americana che ci sia. La giornata passa in maniera piacevole e tranquilla e molto americana, i grandi stanno tra grandi a fare cose da grandi, i piccoli stanno tra piccoli a fare cose da piccoli. Tipo sparire nel nulla. Solo che non è nascondino. Passano le ore, viene sera e le due bambinette delle due famiglie non si trovano più. Dove sono finite? Voi le avete viste? Io no. Chi potrebbe saperne qualcosa è il tizio che stava sul furgone parcheggiato nella via dove le bimbe sono sparite. Forse.

Parte così quello che può sembrare un thriller tradizionale e in parte lo è. Un thriller tradizionale di quelli che così bene, ah, non ne facevano da quando ero anch’io piccolo come le bimbette scomparse. Tipo da Il silenzio degli innocenti del 1991. In tv qualcosa di non troppo distante per storia e qualità di recente lo si è pure visto, come The Killing e Broadchurch, al cinema non tanto.
Prisoners comunque è anche qualcos’altro. È un thriller-politico un po’ come The Village di M. Night Shyamalan era un horror-politico. Sì, proprio quel M. Night Shymalan, quello di porcherie come L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, però prima che si bevesse completamente il cervello. Perché dico questo? Perché si può tentare una lettura politica, riguardo a ciò che succede in Prisoners.

IT’S LETTURA POLITICA TIME
Il personaggio di Hugh Jackman, il padre della bambina bianca scomparsa, è l’America post 11 settembre della Guerra al terrore. Quella che tortura i propri nemici per avere le info che vuole. Quella che fa di tutto, non importa quanto ciò trasformi il torturatore in un mostro alla pari se non peggiore dei terroristi che combatte. In due parole: Jack Bauer. In tre parole: George W. Bush.
Il personaggio di Terrence Howard, il padre della bambina di colore scomparsa, è invece l’America del post Guerra al terrore. È l’America che non si sporca in prima persona le mani con il sangue, non ufficialmente, però non è nemmeno contraria a usare qualunque – QUALUNQUE – mezzo pur di ottenere ciò che vuole. Quella che non usa violenza, ma nemmeno ci prova a fermarla. Si limita a guardare dall’altra parte. Nel comportamento di Terrence Howard e della moglie Viola Davis possiamo vedere un riflesso degli Stati Uniti di oggi, gli Stati Uniti di Barack Obama.
E noi?
Dove sta l’Europa?
Maria Bello è l’Europa. Maria Bello, la moglie di Hugh Jackman, che si imbottisce di sonniferi e psicofarmaci e preferisce non sapere quello che il marito sta facendo.
Raccontato così, Prisoners potrebbe apparire un film anti-americano. Quello del regista canadese Denis Villeneuve potrebbe sembrare un atto d’accusa nei confronti degli Stati Uniti e invece…
Invece è una pellicola che preferisce non dare una morale. Non imprigiona lo spettatore a un pensiero unico. Chi guarda può farsi la propria idea. In fondo questo è solo un thriller, o no?
IT’S THE END OF THE LETTURA POLITICA TIME AS WE KNOW IT (AND I FEEL FINE)

"No, non è di mia foglia. E' mio. Chi lo dice che sono troppo grande per giocare con i pupazzi?"

A livello politico il film consente varie chiavi di lettura, questa è solo la mia personale, ognuno può trovare la propria. C’è chi può vederci dentro una condanna o al contrario una giustificazione di quanto fatto dagli americani a Guantanamo e non solo a Guantanamo (si veda Zero Dark Thirty) per ottenere le informazioni dai terroristi, e c’è anche chi può vedere la lettura politica come una forzatura e godersi semplicemente il film, che è un thrilerazzo della Madonna. Due ore e mezzo di tensione costante, che non scende fino alla fine. Di recente mi era capitato di rado di rimanere prigioniero di una pellicola con un livello di coinvolgimento simile. Anche nei bei film, può capitare un calo per un paio di minuti. Qui manco per un istante. Erano mesi che non mi capitava qualcosa del genere, ma che dico mesi? dico giorni. Anche un altro film nel passato recente mi ha coinvolto (quasi) allo stesso modo di Prisoners, ma ne parlerò a breve.

Il regista Denis Villeneuve ha un super potere: quello di schiantarti dentro i suoi film. Era capitato con il raggelante Polytechnique, era ricapitato con lo splendido La donna che canta, è riricapitato ora con Prisoners. Merito del canadese, che evita virtuosismi ma dirige con una precisione pazzesca. Detto così, potrebbe apparire uno stile freddo, in realtà Villeneuve fa sentire vicini ai suoi personaggi come pochi altri registi contemporanei. C’è una scena in particolare, quella in cui Hugh Jackman riconosce il calzino con il coniglietto della figlia, che mi ha messo i brividi. E io che ho i brividi per una scena con Hugh Jackman è una cosa mai successa. MAI.

"Donna invisibile, m'è appena sparita la figlia. Scusa neh, ma non ho tempo per venire a giocare a nascondino con te.

Se Wolverine è alla sua migliore interpretazione in assoluto, che dire di Jake Gyllenhaal, qui il detective che cerca di risolvere il mistero della sparizione delle due bimbe?
Jake Gyllenhaal, che attore straordinario! Il suo personaggio, oltre a un taglio di capelli scalato di quelli alla Rihanna/Miley Cyrus/Skrillex che vanno tanto tra i ggiovani d’oggi, ha un tic agli occhi pauroso. Non so se la cosa era presente in sceneggiatura, oppure è una particolarità che ha voluto aggiungere lui al personaggio, però recitare così è un rischio. Rischi di fare la figura dello scemo e sputtanare il film, invece Gyllenhaal è riuscito così a farci avvicinare ancora di più al suo detective. Il suo è un personaggio all’apparenza “neutro”, non troppo distante da quello di Jessica Chastain in Zero Dark Thirty; di entrambi sappiamo pochissimo, non vivono travolgenti storie d’amore, non li vediamo con la famiglia o con gli amici o altro. Nessuna nota personale. Li vediamo impegnati solo nella loro ossessiva caccia all’uomo, eppure tutti e due, grazie alle performance larger than life dei loro interpreti, sono dei personaggi vivissimi e umani come non capita spesso di vedere, non nei thrilleroni americani, se non altro.
Altra strepitosa prova è poi quella di un’irriconoscibile Melissa Leo, ma attenzione anche al volto nuovo David Dastmalchian e nota di merito pure per Paul Dano, alle prese con un personaggio super sfigato, persino più dei suoi soliti, in cui si trova parecchio a suo agio. Sarà un caso?


"Oh, ma che è? Rompermi il deretDano è diventato il nuovo sport nazionale americano?"
"Hey Donnie, lasciami. Non sono Paul Dano!"
"Ah ok scusami, ti avevo scambiato per lui..."

In tutto questo ben di Dio registico e recitativo il punto di forza assoluto è però un altro ancora. E non mi riferisco nemmeno alla splendida colonna sonora da brividi composta dall’islandese Jóhann Jóhannsson, impreziosita da “CODEX”, una chicca dei Radiohead, già usati dal regista pure in La donna che canta, dove “You and Whose Army?” era un po’ il tema sonoro che accompagnava la pellicola. Villeneuve possiamo quindi considerarlo a tutti gli effetti un fan delle teste di radio ed è una ragione in più per amarlo.
La vera arma di distruzione di massa messa in campo da Prisoners a cui mi riferisco è la sua fenomenale sceneggiatura, firmata dal quasi esordiente Aaron Guzikowski. Una sceneggiatura non tratta da romanzi, graphic novel, seghe fantasy, giochi da tavolo o altro. Una sceneggiatura originale, finalmente. La storia come detto non è nuova, il mistero della sparizione di ragazzine è una situazione in cui il genere thriller ha sempre giocato e continua a farlo, però è raccontata con la giusta dose di personalità, con un sacco di riferimenti come visto alla politica ma anche alla religione. È una sceneggiatura costruita in maniera perfetta, impeccabile, stratosferica, che Villeneuve è riuscito a trasformare in una pellicola incentrata sul simbolismo, tra labirinti, serpenti, effigi cristiane, un Jake Gyllenhaal che non parla con dei coniglioni ma è comunque parecchio ossessionato e un Hugh Jackman che non tira fuori gli artigli dalle mani ma riesce a fare di peggio.
Prisoners è un film che sa spiazzare, senza sparare fuori colpi di scena assurdi o improbabili, ma che colpisce solo con colpi (di scena e allo stomaco) ben assestati. Un film su cosa significa restare prigionieri che ti fa suo prigioniero per 2 ore e mezza senza mai darti alcuna certezza, lasciandoti in costante tensione e restandoti incollato dentro pure al termine. Un film che mostra cosa significa avere Fede, non solo da un punto di vista religioso, e soprattutto cosa significa perderla. Un film che fa finalmente fa riacquistare la Fede nel thrillerone americano.

IT’S LABIRINTO TIME
Per scoprire il voto cannibale a questo film, dovete risolvere il seguente labirinto.


Okay, potete scoprirlo anche senza risolverlo, ma sappiate che state barando.



giovedì 7 novembre 2013

FIGLI DI PUT… PARDON, FIGLI DI BERLUSCONI



Silvio Berlusconi ha rilasciato una dichiarazione shock sull’ultimo libro di Bruno Vespa, “Sale, zucchero e caffè. L’Italia che ho vissuto da nonna Aida alla Terza Repubblica”:

I miei figli dicono di sentirsi come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler. Abbiamo davvero tutti addosso.

Parole che naturalmente hanno scatenato un vespaio di polemiche e di commenti.
Vediamo alcune reazioni.

Marina Berlusconi: “Grande papi! Se non tiravi fuori questa cagata, nessuno se lo sarebbe mica inculato il libro di Bruno Vespa, in uscita domani per la mia Mondadori.

Pier Silvio Berlusconi: “È vero. Io mi sento come il bambino di La vita è bella. Anche mio padre, come Roberto Benigni nel film, farebbe di tutto pur di alterare la realtà nella maniera più fantasiosa possibile.

Barbara Berlusconi: “Chi è Hitler? Cosa sono gli ebrei? Scusate, ma sono stata impegnata con il Milan e non ho seguito gli ultimi sviluppi di politica estera.

Anna Frank: “Trovo che sia un paragone vergognoso. Io non mi sono mai sentita come i figli di Berlusconi. E soprattutto non mi sono mai sentita come quella sciacquetta di Barbara.

I nazisti: “I figli di Berlusconi come le famiglie ebree? Bene, bene. Silvio, mandaceli pure che abbiamo una doccia calda pronta per loro.

Silvio Berlusconi: “La mia storia, la mia amicizia verso Israele, la mia coerente azione di governo sul piano internazionale in favore dello Stato di Israele, non consentono alcun dubbio sulla mia consapevolezza della tragedia dell'Olocausto e sul mio rispetto del popolo ebraico. Ho anche due olgettine israeliane sul libro paga. Andate a controllare, cribbio!

Bruno Vespa: “Oh, cazzo! Volete dirmi che c’è davvero qualcuno che legge i miei libri?


Le dichiarazioni presenti in questo post potrebbero non essere del tutto veritiere.

domenica 29 settembre 2013

BENVENUTO DEFICIENTE!




"Come attore sono una scarpa, ma nelle grigliate non mi batte nessuno!"
Benvenuto Presidente!
(Italia 2013)
Regia: Riccardo Milani
Sceneggiatura: Fabio Bonifacci
Cast: Claudio Bisio, Kasia Smutniak, Beppe Fiorello, Remo Girone, Cesare Bocci, Massimo Popolizio, Patrizio Rispo, Gianni Cavina, Piera Degli Esposti
Genere: populista
Se ti piace guarda anche: Benvenuti al Sud, Benvenuti al Nord

Siamo alle solite. In Italia le cose non cambiano mai. Vale per la politica, lo stesso vale per il cinema.
Cinema???
Perché, Benvenuto Presidente! sarebbe cinema?
No. Benvenuto Presidente! è una favoletta moralista che parte persino da buone intenzioni: mostrare un’alternativa onesta ai politici che infestano e hanno infestato l’Italia da… sempre. Il problema è che come al solito la realtà dei fatti supera gli intenti satirici. Era già capitato col terribile Qualunquemente di Antonio Albanese, la cosa fondamentalmente si ripete anche qui. History repeating. La situazione politica italiana è talmente tragicomica di suo, che riuscire a sdrammatizzarci sopra è dura. Soprattutto quando a farlo è Claudio Bisio, uno che non mi fa ridere manco per sbaglio, oltre che uno cresciuto a pane e Mediaset. E sentire la predica fatta da uno che senza i soldini del Berlusca oggi sarebbe in mezzo a una strada non è proprio il massimo della vita.

"Sarò un Presidente umile...
Da oggi però chiamatemi Dio."
E pensare che lo spunto da cui prende il via la vicenda non è nemmeno tanto male e non è manco così irrealistico. Le ultime elezioni del Presidente della Repubblica non sono andate in fondo in maniera tanto differente. Nella realtà, i partiti si sono accordati per votare quel matusalemme di Napolitano. Nella fiction, pardon nel film, decidono invece di votare Giuseppe Garibaldi. L’ironica votazione ha però un vero valore legale e così il nuovo Presidente della Repubblica è l’unico Giuseppe Garibaldi in età per poter svolgere il compito, ovvero il pescatore di un piccolo paesino Giuseppe Garibaldi, soprannominato Peppino e interpretato da Claudio Bisio.
Una volta che occuperà la prestigiosa carica di Presidente della Repubblica, Peppino farà le cose a modo suo. In maniera maldestra all’inizio, ma poi troverà la sua strada, con una politica più che onesta. Quasi da Santo. Al punto che avrebbe fatto rivoltare lo stomaco persino a Gandhi e a Madre Teresa di Calcutta. Per carità, non sarebbe male avere davvero un Presidente così, però qui forse si esagera persino, in zuccherosi livelli di bontà.

"Dici che vestito così posso passare per Presidente della Repubblica?"
"Per Presidente può darsi, per attore no di sicuro."
Al di là della satira politica prevedibile e all’acqua di rose, che prende per i fondelli senza troppa cattiveria sia Destra che Sinistra e strizza pure l’occhiolino al populismo del Movimento 5 Stelle, a mancare è soprattutto un’altra cosa, quella cosa di cui parlavamo all’inizio. Il Cinema. Qui dentro non si sente puzza di Cinema, come invece capita con commedie francesi disimpegnate come 20 anni di meno e Dream Team. Nelle produzioni dei nostri cugini, anche quelle più leggere, si nota una notevole cura nei particolari, nei dettagli, nelle interpretazioni. In Benvenuto Presidente! si respira invece aria di fiction televisiva a pieni polmoni.
Colpa anche di un’interpretazione imbarazzante di Bisio, che tira fuori tutto il suo repertorio di faccette e di gag sceme. Una vicenda grottesca (ma non troppo) del genere l’avrei vista meglio nelle mani e nella fisicità di un Roberto Benigni. Per quanto pure lui abbia stufato, in un ruolo come questo avrebbe sicuramente fatto un figurone al confronto del “collega”. Un po’ come a Sanremo. Benigni bene o male nei suoi interventi riesce a tenere desta l’attenzione, mentre Bisio quest’anno, con il suo monologo moraleggiante molto vicino allo stile di questa pellicola, è riuscito a raggiungere il punto più basso del Festival. E sì che di punti bassi a Sanremo c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Non va meglio neppure con il resto del cast, con una Kasia Smutniak che è più decente quando si trova ad avere a che fare con parti drammatiche, mentre la commedia proprio non le si addice. Poi c’è Giuseppe Fiorello, anche (s)conosciuto come Beppe Fiorello, nella parte del politico senza scrupoli. E giù risate non perché è divertente, ma per la sua solita pessima performance recitativa. Il dramma è che, anziché prendere spunto dai colleghi americani o britannici o francesi, i “nostri” attori recitano come se fossero sempre in una soap-opera, con un uso costante del sospirato. E il sospirato è la morte del cinema.

Che altro? Non bastava la vicenda politica e così c’è anche un’immancabile improponibile storiella d’amore tra Bisio e la Smutniak, con tanto di ridicole (ma non comiche come vorrebbero essere) scene di sesso violento e improbabili proposte di nozze dopo appena una notte passata insieme. Ma che davero?
Bevenuto Presidente! è un film talmente moralista, populista, buonista che a fine visione ti viene voglia di andare ad attaccare barattoli alle code dei gatti, uscire per strada sognando che sia La notte del giudizio, auto infliggerti una cura Ludovico a suon di visioni ininterrotte di Arancia Meccanica. Perché avere dei politici onesti sarebbe splendido, nella realtà. Ma vederne uno all’opera in una fiction, pardon in un film, è un’esperienza agghiacciante. Malvenuto Presidente!
(voto 4-/10)

"Un voto superiore al 3? Direi che è ancora andata bene..."


venerdì 6 settembre 2013

MORENO VS. PD


BREAKING (BALLS) NEWS
Come riporta un noto quotidiano italiano:

Il rapper Moreno ripudia la Festa
"La mia musica non c'entra nulla col Pd"
 
"Fa un po' ridere che si dica che io suono alla Festa del Pd. Il mio concerto e la Festa democratica sono due cose diverse: la festa dell'Unità è alla Foce, il mio concerto è al Porto antico. Sono entrambi a Genova, ma in due zone distinte, ci vogliono due autobus per andare da una all'altra. Io vado al concerto di Moreno, cioè al mio show".

Il rapper genovese prende le distanze dalla Festa nazionale del Pd, dove domani sera terrà il concerto di chiusura. Al contrario di quanto accadeva fino a qualche anno fa, e certamente fino quando si chiamavano ancora Feste dell'Unità, chi sale oggi su quel palco lo fa come se fosse in un qualsiasi palasport. Nessuna necessità di sintonia o visione del mondo. 
da La Repubblica

Per il PD, finalmente una buona notizia.


domenica 28 aprile 2013

LA REGOLA DEL SILENZIO NON SBAGLIA MAI


La regola del silenzio
(USA 2012)
Titolo originale: The Company You Keep
Regia: Robert Redford
Sceneggiatura: Lem Dobbs
Tratto dal romanzo: La regola del silenzio di Neil Gordon
Cast: Shia LaBeouf, Robert Redford, Susan Sarandon, Anna Kendrick, Brit Marling, Julie Christie, Nick Nolte, Terrence Howard, Chris Cooper, Stanley Tucci, Brendan Gleeson, Richard Jenkins, Jackie Evancho, Sam Elliott
Genere: thriller politico
Se ti piace guarda anche: Il debito, Leoni per agnelli, La donna che canta, La chiave di Sara

La regola del silenzio non sbaglia mai. Se sei amico di una spia in galera finirai. E comunque chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù, va laggiù da quel folletto che si chiama diavoletto. Meglio quindi tenere la bocca chiusa e restare lontani dallo sguardo di occhi indiscreti.

Robert Redford dopo l’intrigante Leoni per agnelli torna in duplice veste regista/attore con una nuova pellicola dal forte sapore politico. Il regista va infatti a ritirare fuori il tema delle proteste contro la guerra nel Vietnam degli anni Settanta. Gli anni di piombo americani, se così vogliamo chiamarli in maniera impropria ma forse è meglio di no e quindi me lo ritiro che poi se no qualcuno magari si offende. Il passato che riemerge nel presente, in ogni caso, come in tutto un filotto di pellicole recenti da La chiave di Sara a Il debito, passando per gli ottimi Valzer con Bashir e La donna che canta.
Per di più, La regola del silenzio è anche un thriller. Un thiller politico dalle buone premesse che però si materializza in un nulla di fatto. Il classico nulla di fatto. La pellicola è diretta con mano solida dal Sundance Kid Robert Redford, qui molto poco Sundance, è recitata abbastanza bene dallo stesso Redford e da uno Shia LaBeouf che inserisce un altro metro abbondante di distanza tra sé e la saga fracassona di Transformers. Meno spazio invece per l’ottima parte femminile del cast, con ruoli troppo minuscoli per le sottoutilizzate Anna Kendrick, Susan Sarandon e Brit Marling. Comunque si tratta di un cast di quelli davvero notevoli, che comprende pure Terrence Howard, Stanley Tucci, Richard Jenkins, Chris Cooper, Julie Christie, Brendan Gleeson e un sempre più ciccionissimo Nick Nolte.

Una confezione di facciata messa su con notevole professionalità che garantisce una pellicola vedibile. Purtoppo, niente più di questo. La parte thriller infatti non riesce a catturare, ad avvincere, a portarti con sé dentro la sua ragnatela di personaggi. A livello umano, questi personaggi sono ben costruiti fino a un certo punto, poi anche loro quando dovrebbero darti la mazzata e farti provare un moto di empatia emotiva non ce la fanno. Laddove il film fallisce maggiormente nei suoi intenti è però soprattutto nella parte politica. Quello di Robert Redford vorrebbe essere un film controcorrente? Vuole mettere in discussione la politica degli Stati Uniti, il capitalismo, farsi portavoce dei rivoluzionari? Vorrebbe sollevare dubbi sullo ieri e sull’oggi?
Nelle sue intenzioni, può darsi. Peccato che gli unici dubbi che riesce davvero a sollevare nello spettatore sia sulla sua reale utilità. Come intrattenimento funziona anche, sebbene proprio ai minimi livelli, non annoia troppo, è tutto ben fatto. È anche però un film senza coraggio, senza forza, senza voce, che si dimentica subito, che lascia poco o niente, in cui si intravedono le buone intenzioni dell’autore ma che non riesce davvero a provocare una riflessione, come invece capitava con il precedente Leoni per agnelli.
Robert Redford, sarai mica stato troppo agnello, questa volta?
(voto 6-/10)

"Hey, ma dove diavolo è finito il resto della recensione?"

"Magari l'hanno pubblicata sul giornale... No, non c'è..."

"Lo confesso, ci sono io dietro gli attentati di Boston e Palazzo Chigi,
ma della scomparsa della recensione cannibale non ne so niente!"

"E tu l'hai vista, la recensione cannibale?"
"Ma che è? Se magna?"

"Bambina di cui non ricordo il nome, tu lo sai dov'è finita la recensione?"
"Ma papà, io non so manco leggere..."



sabato 20 aprile 2013

IL NUOVO PRESIDENTE


Squadra che vince non si cambia.
Gli ultimi 7 anni sono stati talmente positivi per l’Italia e per la nostra politica, che la scelta migliore è sembrata quella di eleggere come “nuovo” Presidente della Repubblica…

Giorgio Napolitano. L’uomo del cambiamento, il simbolo di un’Italia spumeggiante che si rinnova.


Più le cose cambiano, più restano le stesse.
Jena Plissken, Fuga da Los Angeles

mercoledì 27 marzo 2013

BLACK GRILLO

Black Mirror
(mini-serie UK, stagione 2)
Rete britannica: Channel 4
Rete italiana: Sky Cinema 1
Creato da: Charlie Brooker
Genere: distopico
Se ti piace guarda anche: Antiviral, Dead Set, In The Flesh

Accendete i black mirror, gli schermi neri delle vostre televisioni o dei vostri computer e guardatevi Black Mirror. Non ve ne pentirete. O forse sì, perché dalla visione ne uscirete più inquietati rispetto al futuro e pure al presente di quanto non potevate già essere prima, però d’altra parte questa è una mini-serie imprescindibile. Tanto per tirare fuori uno dei miei paragoni (forse?) esagerati, posso dire che Black Mirror è il 1984 degli Anni Zero. Una visione distopica del presente, o del futuro immediato, che fa riflettere su come la tecnologia sta cambiando il mondo e in che direzione lo sta portando. Anche se poi, ovvio, le colpe non sono della tecnologia, ma dell’uso che l’uomo ne fa.

Già la stagione 1 della serie inglese creata dal geniale Charlie Brooker aveva fatto parecchio discutere, anche qui in Italia. Era arrivata come un fulmine a ciel sereno e, se possiamo trovare un difetto alla season 2, è che ovviamente manca lo stesso effetto sorpresa. Manca l’effetto, ma certo non le sorprese.
Ai tempi della prima stagione, ovvero l’anno scorso, a scatenare le attenzioni mediatiche era sta soprattutto l’acida accusa di moralismo rivolta da Aldo Grasso sul Corriere nei confronti della serie made in UK. Tralasciando il fatto che un italiano che accusa gli inglesi di moralismo è credibile quanto un inglese che attacca la cucina italiana, Grasso è un critico di solito rispettabile e tutto, però in questo caso l’impressione è che abbia preso una cantonata, e pure di quelle clamorose.
La stagione 2 di Black Mirror sta comunque suscitando un clamore ancora maggiore, per via in particolare del terzo episodio, The Waldo Moment, che presenta delle analogie alquanto inquietanti con la situazione politica italiana attuale. Ma c’arriveremo. Vediamo i 3 episodi di questa nuova folgorante season di Black Mirror più nel dettaglio, uno ad uno.
Per quelli che se la sono persa, ricordo che le puntate sono mini-film indipendenti l’una dalle altre e sono quindi visibili anche singolarmente. In più sono disponibili pure in italiano, grazie a Sky Cinema 1.
Da qui in poi, leggete a vostro rischio e pericolo: ATTENZIONE SPOILER!

"Ah, per cominciare bene la giornata, non c'è niente di meglio
che essere in disaccordo con Pensieri Cannibali."
Be Right Back
Regia: Owen Harris
Sceneggiatura: Charlie Brooker
Cast: Hayley Atwell, Domhnall Gleeson

L’episodio romantico-inquietante.
Oggi esiste una app per tutto. Beh, non proprio per tutto. Ne manca una, inventata da questo primo episodio della seconda stagione di Black Mirror: la app dei morti.
Per affrontare la perdita del moroso deceduto, Martha (Hayley Atwell vista in Captain America e Sogni e delitti) utilizza prima in maniera riluttante, poi sempre più convinta un innovativo software che simula il comportamento del caro estinto. Come essere possibile cio?
In pratica, questa app prende tutte le informazioni che noi abbiamo lasciato in vita in rete (e-mail, video, post, status su Facebook, cinguettii su Twitter, etc.), li elabora e li risputa fuori, simulando ad esempio una risposta a un messaggio così come la daremmo noi. In pratica, un generatore automatico di vita.
Facciamo un altro esempio macabro: se io dovessi venire a mancare, questo software potrebbe prendere tutti i post passati pubblicati su Pensieri Cannibali, rielaborarli e poi sputare fuori recensioni di nuovi film, dischi o serie tv così come le avrei scritte io.
Ma una app può davvero sostituire una persona?
La risposta (o forse no) ce la dà questo folgorante episodio, il più emotivo e toccante della stagione, in grado di riflettere sul delicato tema della vita dopo la morte. Una tematica più che mai in voga nelle serie tv odierne, da The Walking Dead a Les Revenants fino alla new-entry britannica In the Flash, ma che Black Mirror sa affrontare con il suo solito piglio angosciante e originale. David Cronenberg potrebbe prenderne spunto per un suo prossimo film.
(voto 8/10)

"Mi sa che non mi conviene votare la fiducia al Governo.
C'è Grillo Waldo che mi insegue..."
White Bear
Regia: Carl Tibbetts
Sceneggiatura: Charlie Brooker
Cast: Lenora Crichlow, Michael Smiley, Tuppence Middleton, Ian Bonar

L’episodio socio-inquietante.
La prima parte della puntata è all’insegna del survival-horror più classico. Una ragazza (Lenora Crichlow di Being Human UK), si sveglia priva di memoria ed è braccata da un gruppo di cacciatori, mentre tutto intorno il pubblico la osserva, la fotografa e la filma senza aiutarla. Perché succedere questo?
La risposta è ancora più crudele e inquietante di quanto possiamo immaginare e l’evoluzione della vicenda, dopo un inizio piuttosto tradizionale e che sa di déjà vu, assume nella parte finale i contorni geniali tipici di Black Mirror. Da semplice estremizzazione dei reality-show come poteva sembrare, diventa una riflessione feroce sul senso di giustizia e punizione. Tra Arancia meccanica e il cinema di Haneke più bastardo, un occhio per occhio, dente per dente a uso e consumo della società moderna.
(voto 7,5/10)

"Sei morto, sei vecchio, sei come i politici!"
"Ma vaffanwaldo, va!"
The Grillo Moment
The Waldo Moment
Regia: Bryn Higgins
Sceneggiatura: Charlie Brooker
Cast: Waldo, Daniel Rigby, Chloe Pirrie, Jason Flemyng, Tobias Menzies, Christina Chong

L’episodio politico-inquietante.
Ci sono opere che sfuggono al controllo dei loro creatori. Opere partite con determinate intenzioni che poi gettate in pasto al pubblico possono assumere contorni e significati che all’inizio probabilmente non erano nemmeno intenzionali. The Waldo Moment rientra in questo gruppo di opere, soprattutto alla luce dell’attuale situazione politica italiana. Ma di cosa parlare codesto tanto discusso episodio?
Waldo è un cartone animato, un orso blu, un comico che prende di mira in maniera feroce e volgare chiunque. Un generatore automatico di vaffa. A un certo punto se la prende con un politico e la cosa ha talmente successo e trova un così ampio consenso popolare da spingere i produttori del suo show televisivo a candidare Waldo in politica. Attraverso la rete, nascerà un vero e proprio movimento 5 stelle di antipolitica. Vi ricorda qualcosa?
La realtà diventa finzione che diventa realtà che diventa finzione che diventa realtà che diventa finzione che diventa realtà che diventa finzione diventa finzione che diventa realtà che diventa finzione diventa finzione che diventa realtà che diventa finzione diventa finzione che diventa realtà che diventa finzione fino a che è come guardare la società italiana riflessa in uno specchio nero.
Se l’episodio sembra ispirato, ma non credo lo sia, all’ascesa politica in Italia di Beppe Grillo, lo stesso Grillo negli ultimi giorni ha dichiarato che quello del Movimento 5 Stelle è un modello da esportazione internazionale. Esattamente ciò che succede nell’episodio. La finzione che diventa realtà. Che Grillo abbia avuto quest’idea dopo aver visto The Waldo Moment?
Invece delle continue lamentele nei confronti del sistema mediatico e d’informazione italiano, che sì fa schifo soprattutto quello televisivo ma non è certo una novità, e invece di continuare a fare l’Antonio Conte vittima dei gomblotti della situazione, mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Grillo di questo episodio. Uno come lui sempre attento a tutto ciò che lo circonda, credo l’abbia visto. Credo glielo abbiano segnalato, ora che è passato anche su Sky Cinema.
Al di là di cosa ne possa pensare lui, io penso che questo episodio, questo mini-film The Waldo Moment dovrebbe essere proiettato, magari insieme all’altrettanto interessante pellicola tedesca L’onda, in tutte le scuole. E dovrebbe passare non solo su Sky Cinema, ma in prima serata su Rai Uno. Perché riesce a riflettere, senza nemmeno volerlo intenzionalmente, un’immagine dell’Italia di oggi che nessun documentario, nessun Porta a porta, nessun salottino televisivo riesce intenzionalmente a dare.
E ci piace ciò che vediamo riflesso dentro questo Black Mirror?
(voto 8,5/10)



lunedì 11 marzo 2013

GIRLFRIEND IN A COMA, ITALIA SI’ ITALIA NO

Girlfriend in a Coma
(UK 2012)
Regia: Annalisa Piras
Tratto dal libro: Good Italy, Bad Italy di Bill Emmott
Cast: Bill Emmott
Con interventi di: Nanni Moretti, Toni Servillo, Marco Travaglio, Roberto Saviano, Mario Monti, Elsa Fornero, Sergio Marchionne, John Elkann, Giovanni Ferrero, Susanna Camusso, Emma Bonino, Umberto Eco
Genere: docu
Se ti piace guarda anche: Draquila - L’Italia che trema, Videocracy, Il Caimano

"C'è una sola cosa peggiore del berlusconismo: il blog Pensieri Cannibali."
Mo’ adesso devono venire ‘sti stranieri, ‘sti extracomunitari, a dirci cosa c’è che va e soprattutto cosa c’è che non va nella nostra povera misera brutta italietta...

E meno male.
A volte, per farci aprire gli occhi, un punto di vista ester(n)o è la cosa migliore. È il caso di Girlfriend in a Coma, documentario britannico sulla situazione politica, economica e sociale italiana degli ultimi anni. Pur non rivelandoci niente di davvero nuovo, il docu si va a inserire bene in quel filone di pellicole sul berlusconismo in cui siamo vissuti per 20 e passa anni (per chi è nato negli anni ’80, diciamo da tutta la vita) o, se iddio vuole, sul post-berlusconismo in cui stiamo vivendo attualmente. Anche se, e le ultime elezioni l’hanno confermato, il berlusconismo è una piaga non ancora del tutto debellata. Anzi. Un filone sempre più ricco di pellicole che comprende la “commedia” Il Caimano, Draquila - L’Italia che trema, Videocracy- Basta apparire, S.B. Lo conoscevo bene, Citizen Berlusconi, Silvio Forever e altri che in questo momento probabilmente sto dimenticando.

"E' vero: Cannibal Kid è più pericoloso della mafia, della camorra e
della 'ndrangheta messe insieme."
La regista italiana Annalisa Piras, corrispondente londinese de L’Espresso ma anche film-maker, classico esempio di fuga di cervelli dal nostro paese, ha realizzato questo documentario in collaborazione con il giornalista inglese, ex direttore del The Economist e grande appassionato della cultura italiana Bill Emmott. È lui la vera forza motrice del docufilm, ispirato al suo libro Good Italy, Bad Italy. Bill Emmott ci conduce come un novello Virgilio versione British all’interno del nostro paese, mostrandoci quelli che, almeno secondo lui, sono i punti di forza e di debolezza del sistema Italia oggi. Il giornalista e novello aspirante Michael Moore parte come ispirazione oltre che dal suo libro da un pezzo degli Smiths, “Girlfriend in a Coma”, poiché vede l’Italia come la sua splendida innamorata che però ora si trova in un letto d’ospedale priva di coscienza, annichilita da troppi orrori. E, lo sappiamo bene, it’s serious. Magari avesse una semplice congiuntivite.



"Il modo migliore per far ripartire l'economia italiana?
Cacciare Cannibal Kid dallo Stivale!"
Nella Bad Italy - ovvio - rientra Silvio Berlusconi. Come potrebbe essere altrimenti? Non a caso il film è passato da noi su La7 mentre Mediaset e pure Rai si sono tenuti a distanza e non c’hanno pensato minimamente a trasmetterlo. Viva la libertà di informazione!
Girlfriend in a Coma non è però solo un film su Mister Burns, ehm Mister Berlusconi e sul berlusconismo, temi sviscerati meglio in Videocracy, a oggi il migliore (e più terrificante) documentario visto sull’argomento. Nella Bad Italy rientrano anche gli ignavi, coloro che non hanno fatto niente e continuano a non fare niente per fermare il declino morale, sociale, culturale, economico, politico ecc ecc dell’Italia, così come concentra le sue attenzioni pure sull’Ilva di Taranto e la persistenza della Mafia.

La componente più originale del docufilm è però quella della Good Italy. Di solito si parla sempre della mala Italia, ma una Good Italy esiste ancora e se ci va bene in futuro potrebbe diventare parecchio più Good. Tra gli esempi di Italia Sì presentati da Bill Emmott ci sono le associazioni benefiche e quelle anti-mafia come Progetto Sud, così come a modello di capitalismo buono propone le aziende a conduzione famigliare come Ferrero e Fiat.
"Ma poi, soprattutto, di cinema cosa ne capisce quello?"
È qui che Girlfriend in a Coma propone la sua pagina più particolare, in grado di distinguerlo rispetto ad altri docu analoghi e in grado di renderlo non una visione fondamentale, ma comunque in grado di suscitare qualche riflessione. A livello cinematografico non si segnala invece particolarmente, tra interviste, inserti animati e materiale d’archivio, e non riesce a dire qualcosa di davvero nuovo sull'Italia del berlusconismo, argomento su cui ormai è stato detto di tutto e di più.
La conclusione, scontata fin che si vuole ma che comunque è una lezione da tenere sempre ben presente, è che un nuovo Rinascimento per l’Italia non può far altro che passare dalla rinascita della cultura. Una parola cui non dobbiamo pensare con nostalgia come se fosse una pagina solo del nostro passato, ma cui guardare per costruire il nostro futuro.
(voto 6+/10)

"Cannibal Kid è italiano? Allora mi vergogno di essere italiano-ano-ano-ano-ano...
Oh, ma perché quando parlo io c'è sempre l'eco-eco-eco-eco-eco?"



giovedì 21 febbraio 2013

No
(Cile, Francia, USA 2012)
Regia: Pablo Larraín
Cast: Gael García Bernal, Alfred Castro, Antonia Zegers, Néstor Cantillana, Luis Gnecco, Jaime Vadell, Marcial Tagle, Pascal Montero
Genere: elettorale
Se ti piace guarda anche: Good Bye, Lenin!, Tony Manero
Uscita italiana prevista: 18 aprile 2013

No?
Per me è un film da sì.
(voto 7+/10)







Volete saperne qualcosa in più?
No.
Non è che mi rifiuto. No è il titolo del film. Dunque, No, cioè sì ve ne parlo.
No è un film che racconta del referendum del 1988 indetto in Cile su pressione del resto del mondo. Un referendum sulla dittatura di Augusto Pinochet. Se votavi sì, oltre a essere un pirla, significava che appoggiavi e legittimavi la sua dittatura, gradendo che proseguisse ancora. Se votavi no, significava che ti volevi disfare una volta per tutte della dittatura e poter andare a elezioni democratiche.
La campagna per il Sì puntava a bollare come comunista ogni oppositore. Vi ricorda qualcuno, per caso?
La campagna per il No è invece stata affidata con grande coraggio a un pubblicitario innovativo (interpretato dal valido Gael Garcia Bernal), uno che voleva utilizzare un linguaggio nuovo, lontano dalle solite campagne politiche vecchio stampo, tristi e cupe, ma puntando sulla positività e sull’allegria. Senza nemmeno utilizzare Mike Bongiorno come testimonial, ricorrendo però a jingle di stampo pubblicitario come il seguente, che io vedrei bene applicato anche alla situazione politica italiana attuale.

Mi fa male vederlo ogni giorno
Mi da fastidio il suo sorriso gelido
Mi imbarazza la sua letteratura
Mi deprime la sua mini cultura
No no no
Non mi piace, no
Non lo voglio, no

"Che palle, negli anni '80 non avevamo ancora internet, cosa che significa:
No Pensieri Cannibali!
Non mi resta che dormire..."
La pellicola ci getta nel Cile del 1988 in maniera del tutto immersiva. Il regista Pablo Larraín, già autore dell’acclamato Tony Manero, non ha solo voluto una ricostruzione impeccabile del periodo a livello di costumi, pettinature e arredamenti, ma ha anche girato il tutto con telecamere prese in prestito direttamente dagli anni Ottanta e un formato “quadrato”, lontano anni luce da visioni in 16:9, 3D e HD attuali. Un film in tutto e per tutto 80s, senza però canzoni di Cyndi Lauper, Madonna, Duran Duran e nemmeno Smiths e Joy Division. Per quelle potete sempre rivolgervi alla serie tv The Carrie Diaries.

Una storia bella sulla libertà accompagnata da un gusto cinematografico piacevolmente retrò in grado di ricreare alla perfezione il clima del Cile dell’epoca. Sì, anche per chi del Cile dell’epoca non ne sa nulla. Sebbene personalmente io tra i candidati all’Oscar di miglior film straniero preferisca il canadese Rebelle, la nomination agli Oscar è meritata pure per questo No, una pellicola cinematograficamente viva, oltre che un bel modo per ricordarci che il voto è importante. Sempre. Persino durante una dittatura.
E se non sapete ancora per chi votare, adesso mi riferisco alle elezioni italiane non a quelle cilene, potete fare un paio di test online che vi aiuteranno a capire a quale schieramento politico siete più vicini. Uno lo trovate sul sito Voi siete qui, l’altro sul sito di Repubblica.
Dopo questa parentesi politica, torniamo ora a quanto dicevo all'inzio del post.

No?
Per me è un film da sì.
(voto 7+/10)


venerdì 16 novembre 2012

Cogito Argo sum

"Oh, ma qua poster di Lady Gaga non ne hanno?"
Argo
(USA 2012)
Regia: Ben Affleck
Sceneggiatura: Chris Terrio
Ispirato a un articolo di: Joshuah Bearman
Cast: Ben Affleck, Bryan Cranston, Alan Arkin, John Goodman, Victor Garber, Tate Donovan, Christopher Denham, Scoot McNairy, Kerry Bishé, Clea DuVall, Rory Cochrane, Kyle Chandler, Chris Messina, Zeljko Ivanek, Titus Welliver, Farshad Farahat, Taylor Schilling
Genere: arguto
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"...E non c'è manco uno che mi chiede l'autografo. Ma dove sono finito?"
Fino a poco tempo fa, quando pensavi a Ben Affleck pensavi a Ben Affleck il sex symbol, Ben Affleck ‘o sciupafemmene che passa da J.Lo a Jennifer Garner, Ben Affleck l’attore modesto. L’attore modesto e dall’espressività limitata che però ti dava l’impressione di avere qualcosa in più da offrire. Sarà per quella sceneggiatura da Oscar scritta a quattro mani insieme all’amichetto Matt Damon, quella per Will Hunting - Genio ribelle, il film che ha rivelato entrambi. Che dopo ce l’ha messa tutta, per farsi dimenticare di essere uno sceneggiatore da Oscar, intepretando filmetti come Pearl Harbor, Daredevil o Amore estremo. E invece, il Ben aveva una carta inaspettata da giocarsi, quella da regista.
Contro ogni aspettativa, Ben Affleck esordiva ben bene, con il thriller parente di Mystic River, Gone Baby Gone. Al che pensavi che vabbé, un film decente può riuscire a chiunque. È riuscito persino a Ligabue, con l’esordio Radiofreccia, non c’è da stupirsi troppo sia venuto fuori a Ben Affleck.
Con il secondo film, lo splendido The Town, i dubbi che a Ben il primo colpo non fosse uscito per puro caso arrivavano. Si aveva semmai l’impressione che con l’esordio fosse persino andato con il freno tirato, mentre per le strade di The Town Affleck scorrazzava che è un piacere.
Se un indizio può non voler dire niente e due indizi possono rappresentare un semplice caso, al terzo non c’è più spazio per i dubbi. Il terzo è una prova. Argo è una prova.
Prova di cosa?
Prova che Ben Affleck è un dannato grande regista. Uno dei migliori in circolazione negli USA al momento.
Chi l’avrebbe detto? Probabilmente nemmeno lui stesso, visto che con autoironia, attraverso un dialogo presente nel film, schernisce la sua nuova professione:

“Si impara a fare il regista in un giorno?”
“Perfino una scimmia impara a fare il regista in un giorno.”

"Signore, mi spiace ma questo coso pieno di cocaina è leggermente illegale.
Se però se lo infila nel didietro, faccio finta di non aver visto niente..."
Un grande merito dell’Affleck regista è quello di sapersi scegliere delle belle storie da raccontare. Dopo i romanzi da cui erano tratti i suoi due film precedenti, a ispirare questa sceneggiatura impeccabilmente firmata dall’esordiente Chris Terrio è invece un articolo. Una storia talmente da film da essere vera.
A cavallo tra il 1979 e il 1980, 6 diplomatici americani si ritrovano rifugiati politici dell’ambasciata canadese in Iran. Il governo degli USA vuole farli tornare in patria, ma come fare, vista la delicatissima situazione in quel paese?
"Certo che come produttore sei proprio braccine corte, Ben. Non solo
il pranzo ce lo dobbiamo fare sugli scalini con la roba del McDonald's,
ma hai pure usato i buoni sconti, hai usato. Te credo che J.Lo t'ha lasciato!"
ATTENZIONE SPOILER
È qui che arriva Ben Affleck bello fresco, in versione consulente della CIA, e propone un’idea singolare e folle per riportarli negli Stati Uniti: organizzare le riprese di un finto film di fantascienza, intitolato per l’appunto Argo, e fingere che i 6 facciano parte della troupe, giunta in Iran per dei sopralluoghi per le location. Ce la faranno i mezzi del cinema a riuscire laddove la politica sembra fallire?

Lo scopriremo con Ben Affleck che ci terrà la manina attraverso i vari registri della pellicola. Dopo una prima parte prettamente politica, Argo diventa una visione con vari spunti divertenti e una serie di battute scoppiettanti. Perché Argo è un film di fantascienza all’interno della finzione narrativa della pellicola stessa, mentre l’Argo firmato da Ben Affleck è una pellicola politica e spionistica, ma trova pure il tempo di concedersi qualche sberleffo nei confronti di Hollywood e dei suoi meccanismi. Sberleffo e al contempo una celebrazione di Hollywood, visto che la missione è organizzata con l’aiuto di un paio di producers cinematografici, due gigionissimi Alan Arkin e John Goodman, i migliori di un cast ricchissimo e mega-telefilmico.

"Siamo troppo retrò in questa foto, altroché Instagram!"
Accanto al Ben Affleck protagonista, che tra Argo e The Town si dimostra attore più convincente quando si auto dirige, compaiono infatti un sacco di volti proveniente perlopiù dal mondo delle serie tv: Bryan Cranston di Breaking Bad qui come in Drive e Detachment si ritaglia solo un ruolo marginale, però almeno fa dimenticare una serie di comparsate in pellicole dimenticabili come Larry Crowne e Total Recall; sfilano poi Tate Donovan di The O.C. e Damages, Clea DuVall attualmente guest-star di American Horror Story Asylum, Kyle Chandler di Friday Night Lights, Titus Welliver Uomo in nero di Lost, Chris Messina di Damages e The Mindy Project, e questo solo per citarne alcuni. Occhio poi pure a una manciata di rivelazioni indie da tenere appunto d’occhio: Christopher Denham, di recente visto nel notevole Sound of My Voice, Scoot McNairy di Monsters e la gnocchetta Kerry Bishé vista in Red State.
Ma è un cast talmente ricco che si farebbe prima a nominare chi non è presente. Matt Damon, ad esempio. Che Ben & Matt negli ultimi tempi non siano più BFF come una volta?

"Ma stiamo girando Argo il finto film all'interno del vero film, oppure Argo
il vero film ispirato a un fatto reale? Non ci capisco più niente neanch'io..."
Oltre a un gran cast, a una splendida cura nella fotografia, nei costumi e persino nelle pettinature tardo ’70, a funzionare è il ritmo. Ben Affleck sa come tenere il tempo. Dopo averci divertito con la parte dedicata al dorato mondo di Hollywood, ci scaraventa in una parte finale al cardiopalma, in cui la tensione raggiunge gli stessi livelli delle puntate migliori delle migliori serie spionistiche dell’ultimo decennio, Homeland e 24.
Ben Affleck sembra quindi ricalcare le orme del suo altro amichetto, George Clooney, che non a caso figura tra i produttori di questo Argo. Entrambi sex symbol, entrambi attori non fenomenali, eppure migliorati pure in questo campo negli ultimi tempi. Da quando fanno i registi. Che poi fare i registi è la cosa che riesce loro meglio. A parte fare gli sciupafemmene in giro. Almeno Ben, viste le voci che circolano sul conto del bel George…

E allora Ben Affleck, gran figlio di una buona donna, did it again. E se un indizio può non voler dire niente e due indizi possono rappresentare un semplice caso, al terzo non c’è più spazio per i dubbi. Il terzo è una prova. Argo è una prova. Anzi, come prova basterebbe la sola grandiosa scena di montaggio alternato tra la conferenza stampa tenuta da un’attivista iraniana e quella tenuta dai producers del finto film Argo, un magistrale alternarsi di realtà e fiction, nonché di due diversi approcci al mondo, che racchiude tutta la grandezza del vero film Argo.
Ah, ho dimenticato una cosa fondamentale: cosa vuol dire Argo?
Argo vaffanculo se non lo guardate!
(voto 8/10)

Post pubblicato anche su L'orablu.

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