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lunedì 24 febbraio 2014

12 ANNI SCHIAVO, UN FILM IN CORSA PER LA LIBERTÀ E PURE PER L’OSCAR




12 anni schiavo
(USA, UK 2013)
Titolo originale: 12 Years a Slave
Regia: Steve McQueen
Sceneggiatura: John Ridley
Ispirato al libro: 12 Years a Slave di Solomon Northup
Cast: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Lupita Nyong'o, Sarah Paulson, Kelsey Scott, Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Scoot McNairy, Taran Killam, Chris Chalk, Michael K. Williams, Paul Giamatti, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Alfre Woodard, Brad Pitt
Genere: libero
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Questo post è liberamente ispirato a una storia vera

A fine 2013, in un paese teoricamente civile e teoricamente democratico come l’Italia, comincia la promozione del film 12 Years a Slave, nel nostro paese 12 anni schiavo. La pellicola racconta la vera storia di Solomon Northup, un violinista di colore, un uomo libero che nel 1841 viene rapito e ridotto in schiavitù. A interpretare questo personaggio troviamo uno strepitoso Chiwetel Ejiofor nominato agli Oscar per questa parte.
Quello che la distribuzione italiana si è chiesta a questo punto è stato un fragoroso: “Chiiiiiwetel chiiiiiiiiii?”
Si tratta di un attore che ha lavorato con registi prestigiosi come Steven Spielberg e Spike Lee, girato film come Amistad, Love Actually, Lei mi odia, Piccoli affari sporchi e American Gangster, però raramente in ruoli da protagonista e quindi non è che sia in effetti proprio notissimo.
A questo punto, come promuovere in Italia un film con un protagonista così poco conosciuto?
Meglio puntare sui nomi di richiamo nel cast dei comprimari. Ad esempio Michael Fassbender e Brad Pitt.


Ora, Michael Fassbender ci può ancora stare. Ha un ruolo da non protagonista notevole per cui è stato nominato agli Oscar 2014. Ma Brad Pitt…
Brad Pitt in 12 anni schiavo compare dopo 1 ora 40 e ha giusto un paio di scene. Il suo personaggio gioca un ruolo cruciale nella storia, però il suo è giusto poco più di un cameo. Tra l’altro è il peggiore del cast. Appare, fa un po’ il figo e non c’azzecca un granché con il resto della pellicola, ma vabbé, Pitt è uno dei produttori del film e quindi il regista Steve McQueen poteva mica dire di no a una sua apparizione.
La sua è l’unica prova recitativa discutibile di un cast per il resto in stato di grazia in cui spiccano tra gli altri Paul Dano, Sarah “American Horror Story” Paulson, Paul Giamatti, Benedict “Sherlock” Cumberbatch, e soprattutto la rivelazione Lupita Nyong'o, con un ruolo durissimo che è valso pure a lei la nomina agli Oscar 2014. Brava, molto brava, però la statuetta deve comunque andare a Julia Roberts o a Jennifer Lawrence, ok?
Al di là del fatto che Pitt è quello che si segnala di meno in questo grandioso cast, il suo è inoltre un ruolo davvero minuscolo. Dedicargli il poster è una cosa ridicola. È come se sulla locandina di Django Unchained avessero messo Franco Nero. E a questo punto è strano che in Italia non ci abbiano pensato…


Va bene, però adesso vogliamo parlare del film, che se no facciamo come quelli che mettono sulla locandina Brad Pitt invece di concentrarsi sugli aspetti davvero importanti della pellicola, che no, non riguardano Brad Pitt?

ATTENZIONE: QUALCHE SPOILER PRESENTE QUA E LÀ
12 anni schiavo è una pellicola impegnata ma non è una mazzata. È una frustata. Un’Odissea dentro lo schiavismo, quasi un’Apocalyspe Now della segregazione razziale, sebbene privo di quella follia e quella genialità in grado di far passare un film dall'essere buonissimo, perché 12 anni schiavo è un film buonissimo, a un Capolavoro assoluto.
Più che buonissimo, 12 anni schiavo è un film cattivissimo. Cattivissimi sono tutti i bianchi presenti, a parte il Santone Pitt, seppure con sfumature di cattivo diverse. È inoltre una pellicola che non ci risparmia alcuna violenza o atrocità. Non lo fa però con lo stile esagerato e quasi fumettistico di un Quentin Tarantino nel suo Django Unchained. Non lo fa nemmeno con lo stile esasperato e quasi horror del Mel Gibson de La passione di Cristo. Lo fa con uno stile suo. Steve McQueen in qualche modo rende poetica la violenza dei suoi film. Il suo è un cinema molto fisico, viscerale, che non può lasciare indifferenti. Steve McQueen fa male male male. Ce l’aveva fatto notare con il suo primo cazzotto, Hunger, ce l’ha ricordato con una seconda mazzata come lo splendido immenso Shame, e ce lo conferma adesso. Con una frustata. Una? Molto più di una. Quelle che Chiwetel Ejiofor è costretto a infliggere alla povera Lupita Nyong'o. Quelle che quel bastardo di Michael Fassbender gode a infliggere alla sempre più povera Lupita Nyong'o. Quelle che Julia Roberts o Jennifer Lawrence dovranno infliggere a una ancora più povera Lupita Nyong'o, perché mi spiace, ma nonostante questo piano sequenza sia impressionante, l’Oscar deve pur sempre andare alla Roberts o alla Lawrence, ok?
La scena fisicamente più sconvolgente è questa. Cinematograficamente parlando invece è quella dell’impiccagione di Chiwetel Ejiofor, in cui Steve McQueen utilizza delle lunghe riprese fisse. Una sequenza che qualche altro regista più gentile avrebbe tagliato, avrebbe risparmiato a noi pubblico sensibile. Steve McQueen invece no. Come un Michael Haneke ancora più sadico decide di non spostare la macchina da presa. Questo è l’immobilismo di chi non ha fatto niente per cambiare le cose, per anni, decenni, secoli. Se servisse una solo scena per rappresentare secoli di segregazione razziale nei tanto democratici Stati Uniti d’America, sarebbe questa.

Non è l’unica. Ci sono diverse scene fenomenali, in questo film. Tanto che a ripensarci l’idea che non sia un capolavoro comincia a vacillare un pochino. La scena del tentativo di fuga, ad esempio. Noi che non abbiamo vissuto in una situazione di merda del genere, nella sicurezza e nel comodo delle nostre casette ci possiamo domandare: “Sì, vabbè, ma perché questi non si ribellano allo schiavismo, perché non scappano?”.
Questa scena ci mostra come non ci fosse una via d’uscita. No exit. Era come vivere dentro The Walking Dead, solo con al posto degli zombie gli schiavisti e al posto degli umani degli attori migliori.
E ci sono diverse altre scene difficili da cancellare dalla mente, come quella della compravendita degli schiavi venduti come carne in macelleria, o quella del faccia a faccia notturno di Michael Fassbender con Chiwetel Ejiofor degna di un thriller tesissimo, così come resta impresso e fa venire la pelle d’oca a risentirlo lo splendido tema musicale composto da Hans Zimmer e poi quel momento in cui Ejiofor si unisce al coro gospel “Roll Jordan Roll” in maniera sempre più convinta e disperata. Allora capisci che 12 anni schiavo non sarà un capolavoro assoluto ma quasi quasi gli si avvicina. È un film potente, emozionante, forte, che ti rimane incollato addosso, come una frustata che lascerà per sempre la sua ferita profonda sulla tua pelle.

Il cinema di Steve McQueen non è un cinema di parole. È un cinema di immagini, di sequenze come quelle appena citate che lacerano la pelle. Eppure in questo 12 anni schiavo il regista inglese, pescando nel libro scritto dal protagonista di questa incredibile vicenda, Solomon Northup, ci regala anche alcune parole meravigliose, su tutte:
“Io non voglio sopravvivere. Io voglio vivere.”
12 anni d’applausi.

Steve McQueen con questo film non ci prende per mano per raccontarci una storiella edificante, come avrebbe potuto fare uno Steven Spielberg. Steve McQueen ci scaraventa in mezzo al 1800 e ci abbandona lì. Non da soli, bensì insieme a Solomon Northup/Chiwetel Ejiofor, e ci propone una storia differente da quella di altre pellicole sulla tematica dello schiavismo. Solomon era un uomo libero che, da un giorno all’altro, è stato trasformato in uno schiavo. La pellicola mostra cosa significa perdere la libertà per chi la libertà ce l'ha avuta. 12 anni schiavo sbatte in faccia al pubblico della White America e a noi pubblico bianco tutto l’assurdità della schiavitù, ficcandoci in testa una domanda: “E se capitasse a noi? E se facessero questo a noi?”.
La vicenda di Solomon Northup sarà ovviamente vissuta in maniera più vicina dalle persone di colore, ma la sua è una storia universale che racconta la perdita del bene più prezioso dell’uomo, la libertà. Una parola che purtroppo troppo spesso negli ultimi tempi è stata usata a vanvera, fino a essere svuotata del suo vero significato.
Si potrà dire che 12 anni schiavo gioca bene le sue carte per ammiccare le giurie dei premi che contano, Golden Globe così come Oscar. Eppure, in una delle ultime scene, l’inquadratura sul volto di Chiwetel Ejiofor che ritorna a casa non si può considerare una ruffianata. Quella è la rappresentazione della liberazione. La rappresentazione di un uomo che si rende conto di aver riacquistato tutto quello che aveva perduto. Perché la libertà è tutto. Quello è lo sguardo di chi ha smesso di sopravvivere e ora può tornare a vivere.
(voto 8+/10)

lunedì 11 febbraio 2013

RE DELLA TERRA SELVAGGIA: CI VUOLE UN FISICO BESTIALE

Re della terra selvaggia
(USA 2012)
Titolo originale: Beasts of the Southern Wild
Regia: Benh Zeitlin
Sceneggiatura: Lucy Alibar, Benh Zeitlin
Tratto dall’opera teatrale: Juicy and Delicious di Lucy Alibar
Cast: Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Gina Montana, Levy Easterly, Lowell Landes, Pamela Harper
Genere: selvaggio
Se ti piace guarda anche: Nel paese delle creature selvagge, Rebelle - War Witch, The New World - Il nuovo mondo, The Tree of Life, Tideland

Un giorno verrà un uragano,
il terreno sprofonderà e l'acqua arriverà così in alto
che non ci sarà più Bathtub, solo una grande quantità d'acqua.
Ma io e il mio papà resteremo qui.
È per noi, che c’è la terra.
Hushpuppy

Incanto


Meraviglia


Stupore fanciullesco


Beasts of the Southern Wild è il più bel film di Terrence Malick non girato da Terrence Malick, bensì dall’esordiente Benh Zeitlin, nome da qui in poi da tenere pesantemente sott’occhio perché questo qua - e spero di non portagli sfiga nel dirlo - è destinato a regalarci altre cose grandiose in futuro.
La storia è quella di Hushpuppy, una bambina che mi ha ricordato un incrocio tra Bam Bam e Ciottolina dei Flintstones che vive insieme al padre nel profondo Sud.
Napoli?
No, più a Sud.
Palermo?
Più a Sud ancora, in una piccola comunità della Louisiana, nel profondo Sud degli Stati Uniti. Al di fuori della civiltà per come la intendiamo. Una vita fuori dai confini, ai margini, dove la quotidianità prosegue serena, lontana dagli stress della vita di città. Una comunità che vive senza internet, Facebook e iPhone. Senza nemmeno Ruzzle!
La tranquillità in questa comunità non è però destinata a continuare, perché una tempesta è in arrivo…

Un dramma neorealista?
Un ritratto socio-antropologico?
Una riflessione sull’uragano Katrina e sulle macerie che ha lasciato?
Beasts of the Southern Wild è più un… fantasy. Ebbene sì. Niente hobbit, solo una pellicola magica, con la macchina da presa che guarda sempre dal basso, ad altezza di bambino. Ad altezza della straordinaria bambina protagonista, Quvenzhané Wallis, una che un agente bravo del mondo occidentale, del mondo al di sopra del Southern Wild, gli consiglierebbe subito di trovarsi un nome d’arte perché Quvenzhané ci va una laurea in lingue soltanto per tentare di pronunciarlo correttamente.

Re della terra selvaggia è una pellicola che sa stupire, soprattutto nella prima meravigliosa parte, che guarda al naturalismo di Malick ma con un soprendente tocco più “infantile”, sia detto nell’accezione positiva del termine, da qualche parte tra Guillermo del Toro e lo Spike Jonze de Nel paese delle creature selvagge, il tutto con uno stile nuovo, personale. Occhio quindi a Benh Zeitlin, segnatevi il suo nome, anche se pure a lui un agente bravo gli consiglierebbe di trovarsi un nome d’arte di più facile memorizzazione, e orecchio pure all’autore delle musiche Dan Romer, che presto immagino diventerà richiesto quanto Alexandre Desplat.
Oddio, spero per lui anche un po’ meno richiesto, visto che a Desplat - poveretto - ormai gli fanno sfornare una decina di soundtracks all’anno. Roba che io mi immagino i registoni e produttoroni di Hollywood che lo frustano, “pregandolo” gentilmente di realizzare una nuova colonna sonora nei tempi stabiliti.

Oltre che una gioia per gli occhi e per le orecchie, Beasts of the Southern Wild è pura emozione e a sorpresa contiene pure una delle scene più esilaranti degli ultimi mesi (quella del vecchino che esce totalmente ubriaco fuori dal bar dopo l’uragano e cade in acqua). Un gioiellino che segna un qualcosa di nuovo, finalmente, nel cinema americano. L’esordio più promettente dell’anno, premiato e candidato ovunque (Camera d’Or a Cannes 2012 per la miglior opera prima, gran premio della giuria a Sundance, 4 nominations agli Oscar 2013), e graziato da un’interpretazione della giovanissima protagonista di quelle bestiali.
E voi?
Non fate le bestie e non fate i selvaggi. Guardate Beasts of the Southern Wild.
(voto 8,5/10)

Post pubblicato anche su L'OraBlù, con tanto di minimal poster griffato C(h)erotto.




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