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lunedì 8 giugno 2015

UN POST DI ORDINARIA FOLLIA





Un giorno di ordinaria follia
(USA, Francia, UK 1993)
Titolo originale: Falling Down
Regia: Joel Schumacher
Sceneggiatura: Ebbe Roe Smith
Cast: Michael Douglas, Robert Duvall, Barbara Hershey, Rachel Ticotin, Tuesday Weld, Frederic Forrest, Lois Smith, D.W. Moffett
Genere: folle
Se ti piace guarda anche: Phone Booth - In linea con l'assassino, Collateral

Oggi faccio una follia. Mi guardo un film di Joel Schumacher. Joel Schumacher è l'autore di film pessimi come Batman Forever e Batman & Robin, quest'ultimo il film più scandaloso dedicato all'uomo pipistrello. Quello con George Clooney, Chris O'Donnell, Alicia Silverstone e Arnold Schwarzenegger, nel caso beati voi l'aveste rimosso. Ed è anche il regista di robacce come 8MM - Delitto a luci rosse e Trespass, ma in entrambi i casi il protagonista era Nicolas Cage e allora può darsi che la colpa del disastro sia da attribuire più a lui che al regista. Oggi comunque mi guardo il film forse più acclamato di Joel Schumacher, Un giorno di ordinaria follia.

venerdì 7 novembre 2014

DICHIARO THE JUDGE COLPEVOLE DI...





Processo n. 189764
Lo Stato del Cinema contro The Judge, accusato di essere un film troppo ruffiano e piacione


Giudice
La parola alla Difesa



Avvocato della Difesa
Signor Giudice, chiamo al banco dei testimoni il Signor Cannibal, o meglio il Signor Kid. Il teste è stato convocato in quanto blogger esperto di cinema. C'è chi lo definisce il Vittorio Sgarbi della critica cinematografica, mentre c'è chi parla di lui come di un Mereghetti 2.0 molto più tecnologico e figo. Comunque lo si voglia descrivere, si tratta di una delle massime autorità nel campo della critica filmica attualmente in circolazione in Italia e, forse, nel Mondo.

sabato 11 maggio 2013

QUINTO POTERE DI GRAYSKULL


"Su Pensieri Cannibali si parla finalmente di un film storico? Miracolo!"
Quinto potere
(USA 1976)
Titolo originale: Network
Regia: Sidney Lumet
Sceneggiatura: Paddy Chayefsky
Cast: Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Robert Duvall, Ned Beatty
Genere: televisivo
Se ti piace guarda anche: The Newsroom, The Truman Show, Good Night, and Good Luck.

La tv è spettacolo. E anche le notizie devono avere un che di spettacolo.
Diana Christensen (Faye Dunaway), Quinto Potere

Immaginate Enrico Mentana che annuncia il suo suicidio in diretta.
Io una cosa del genere me la sono immaginata veramente. Ci sono volte in cui conduce della maratone televisive che durano giornate intere, dedicate spesso a eventi futili come l’elezione del Presidente della Repubblica che tanto non cambiano un bel nulla, e non so come faccia a essere sempre così preparato e professionale, il tutto in diretta, con a malapena qualche pausa per i bisogni corporali.
“Enrico, 60 secondi per fare la pipì e poi sei in onda, che tu abbia finito di farla o meno.”
Certe volte allora ho immaginato che all’improvviso sclerasse e facesse qualcosa di del tutto inaspettato. Al momento, si è limitato a cancellarsi da Twitter, mentre qualcosa di più estremo capita all’inizio di Quinto potere.



"Ecco cosa succede ad attaccare
Pensieri Cannibali..."
Lo dico subito a scanso di equivoci: Quinto potere non è l’atteso sequel di Quarto potere di Orson Welles.
Quei soliti burloni di titolisti italiani vorrebbero farcelo credere e invece no. Anche perché il titolo originale di Quarto potere era Citizen Kane, quello originale di questo è Network. Andando a vedere a livello massmediologico possiamo anche vedere delle connessioni notevoli tra le due pellicole, sebbene l’esordio di Welles fosse qualcosa di più di una riflessione sul mondo dell’editoria e si concentrasse soprattutto sulla figura del cittadino Kane.
In Quinto Potere ci sono dei personaggi molto interessanti, l’attenzione principale, i riflettori della pellicola sono però puntati principalmente sulla televisione. Sul potere della televisione, così come ci si concentra anche in una riflessione sul giornalismo e sull’industria dell’informazione.
Volendo, con The Social Network si passerà al sesto potere, ma direi di lasciare per il momento perdere internet e Facebook e tornare a occuparci di tv.

Cosa conta davvero per un network televisivo?
Garantire prodotti di qualità, offrire una completa informazione giornalistica?
No. Quello che conta sono gli ascolti, dati dal rating negli USA e dall’auditel da noi. Due meccanismi astrusi e complessi il cui reale funzionamento è sconosciuto persino ai loro ideatori. Fatto sta che i dati che escono da questi meccanismi di misurazione sono fondamentali per far andare avanti la vostra serie o il vostro programma tv preferito. Vox populi. Normale che sia così. Per quanto riguarda i telegiornali, la funzione sociale e informativa dovrebbe invece prevalere. Non è così. Non è così già da parecchio tempo e negli USA ciò avveniva ancor prima che nascesse la tv commerciale in Italia.
Tv commerciale in Italia? Diciamo Mediaset e basta, visto che è stata a lungo l’unico competitor della Rai e per i grandi ascolti lo è ancora, con La7, Mtv, Deejay Television, reti satellitari e digitali varie che si contendono giusto le briciole. Negli USA la concorrenza è maggiore, ci sono i network nazionali (ABC, NBC, CBS, Fox e di recente si è aggiunta la rete ggiovane The CW) e poi i vari canali via cavo (HBO, AMC, Showtime, FX, CNN, History Channel, etc.).

Il film Quinto potere ci mostra come già negli anni Settanta la guerra per gli ascolti fosse spietata negli Spietati Uniti attraverso la storia fittizia, ma non così irrealistica, di un anchorman televisivo ormai sul viale del tramonto. Quando gli annunciano che verrà licenziato, lui in diretta televisiva annuncia a sua volta il suo suicidio in programma per la settimana successiva, durante la sua ultima conduzione di un telegiornale. Il fatto ovviamente crea scalpore e riporta il vecchio giornalista sulla cresta dell’onda.
Il medium diventa il messaggio, come Marshall McLuhan insegnava, il giornalista diventa la notizia, così come capitato di recente alla tizia cinese che durante il suo stesso matrimonio ha interrotto la cerimonia per documentare il terremoto.



Cosa succede, poi?
Succede che ve lo scoprite da soli, perché la sceneggiatura di questo film è davvero fenomenale e imprevedibile, nonché di notevolissima attualità anche a più di 30 anni di distanza, e anche a chilometri di distanza, considerando come sia una riflessione perfetta pure sul nostro sistema televisivo. Un sistema, preso genialmente per i fondelli nella serie di Maccio Capatonda Mario, dominato da un’informazione che si è sempre più trasformata in infotainment e in cui l’ultimo baluardo del giornalismo vero e proprio rimastoci sembra essere quell’Enrico Mentana di cui si diceva in apertura.

"Cannibal ha apprezzato la mia interpretazione neanche fossi
una delle giovani sgallettate che tanto gli piacciono? Siamo sicuri?"
Se a ciò aggiungiamo la regia precisa di Sidney Lumet e delle interpretazioni grandissime, dal protagonista via via sempre più folle Peter Finch a Robert Duvall, fino a un’enorme Faye Dunaway nei panni della direttrice dei programmi senza scrupoli, ci ritroviamo di fronte a una di quelle pellicole che andrebbero proiettate nelle scuole. Di quelle che andrebbero trasmesse una volta all’anno a rete unificate su tutti i canali. Perché che sia il 1976 o il 2013, il potere più grande resta sempre quello. Il quinto potere. La televisione. E per poterlo fermare l’unico modo è quello di vederlo in… televisione.

Ommioddio, non riusciremo mai a fermarla.
NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOooooooooooooooooooooooo
(voto 8,5/10)

Post pubblicato anche sul sito L'OraBlù, sponsorizzato dal nuovo Minimal Poster creato da C(h)erotto.




"Il post è finito, andate in pace."

sabato 8 settembre 2012

Un film che non si può rifiutare. Oppure sì?

Il padrino
(USA 1972)
Titolo originale: The Godfather
Regia: Francis Ford Coppola
Cast: Marlon Brando, Al Pacino, James Caan, Robert Duvall, Richard S. Castellano, Diane Keaton, Abe Vigoda, Talia Shire, Gianni Russo, John Cazale, Simonetta Stefanelli, Franco Citti Roman Coppola, Sofia Coppola
Genere: mafioso
Se ti piace guarda anche: Il padrino – Parte II, Il padrino – Parte III, I Soprano, Quei bravi ragazzi, Scarface, Boardwalk Empire

“Cannibal Kid ha intenzione di parlare male de Il padrino? Amuninne picciotti, andiamo a dargli una bella lezione!”
Calma, raga, volevo dire: picciotti. Calma. Non è che abbia proprio intenzione di parlarne male. Nessuno, nemmeno io, mette in dubbio che Il padrino sia una pietra miliare del Cinema, o che sia recitato in maniera sontuosa, o che la regia del Coppola senior sia degna di ogni riverenza. Dico solo che a me personalmente non ha emozionato molto. Non ha toccato il mio cuoricino poco avvezzo a farsi coinvolgere da questi mafiosi. Quindi calma, picciotti.
Premettiamo una cosa: a me le storie di Mafia non piacciono. C’è poco da fare, non mi coinvolgono. Così come i western, i film sulla Mafia a me proprio non dicono nulla. Sarà per la presenza eccessiva di stereotipi sugli Italo-americani o perché non fanno altro che ammazzarsi per vendetta o per uno sgarro, o chissà perché. Il padrino quindi non l’avevo mai manco visto tutto. Avevo iniziato, poi mi ero rotto, ci avevo riprovato, mi ero fermato e quindi niente.
Adesso è stata la volta buona per vederlo. Finalmente visione integrale. A un anno di distanza da Apocalypse Now, con calma, sto scoprendo i grandi capolavori di Francis Ford Coppola. Tra un anno, con calma, magari sarà la volta pure del padrino – Parte II. Laddove però Apocalypse mi aveva fatto esclamare: “Wow!”, questo Padrino m’ha lasciato emotivamente molto più impassibile.
E dopo aver detto questo, m’è stata recapitata una testa di cavallo nel letto. Chissà come mai…



Tolto il sangue dalle lenzuola, ritorno a scrivere. A mio rischio e pericolo.
Narrativamente, Il Padrino è un film grandioso. Tratto dal romanzo omonimo di Mario Puzo, che ha lavorato a fianco di Coppola anche alla sceneggiatura, presenta una struttura sontuosa, con le storie dei vari personaggi che si intrecciano in maniera fluida eppure imprevedibile, e con una serie di svolte e di colpi di scena notevoli.
La sequenza iniziale del matrimonio della figlia del padrino è costruita in maniera impeccabile. Attraverso l’alternarsi delle immagini della festa con quelle dei vari personaggi, facciamo conoscenza con la famigghia, e in particolare con un Marlon Brando magistrale.
Cosa succede poi?
La notoria scena della testa di cavallo consegnata nel letto…
Una sequenza di enorme tensione, quasi horror, che certo non ha lasciato indifferente nemmeno me.
E poi, ancora, che altro succede?
C’è l’attentato a Don Vito Corleone. Dopo manco tre quarti d’ora, il film rischia di perdere il suo protagonista, il padrino del titolo. Il bello della sceneggiatura del padrino è proprio la sua imprevedibilità. Tutto può succedere, tutti possono morire, regola d’oro riscoperta di recente anche dalle serie tv, come Game of Thrones.

Con Marlon Brando ancora in vita ma ricoverato malconcio in ospedale, cominciamo a coinvolgerci allora più per le vicissitudini del figlio, Al Pacino. Poco dopo, questi commette un omicidio e viene costretto a lasciare la città, per andare in esilio per un tempo indefinito. E così ci siamo giocati i due protagonisti principali a manco metà della durata della pellicola?
Non esattamente, visto che le attenzioni si concentrano quindi sull’esilio siciliano di Al Pacino. E qui, grazie anche al magnifico tema musicale di Nino Rota, abbiamo la parte più coinvolgente da un punto di vista dei sentimenti, grazie al colpo di fulmine di Al Bacino per una picciotta locale, l’attrice romana Simonetta Stefanelli che poi nella vita reale s’è sposata non con Al Bacino ma con Michele Placido e insieme hanno avuto Violante e pure Brenno e poi hanno divorziato e adesso Michele Placido si è risposato con una ragazza più giovane di sua figlia Violante e chissà cosa ne pensa Violante Placido di chiamare matrigna una che ha sette anni in meno di lei e chissà cosa ne pensa suo padre di un film da schifo come The American interpretato dalla figlia e insomma la famigghia Placido dev’essere ancora più interessante di quella del padrino.

Tornando live sul film, quella siciliana e romantica è una parte che avrebbe magari meritato un ulteriore sviluppo, però siamo pur sempre dentro una pellicola criminale e quindi si ritorna a sparare, a far saltare in aria, a uccidere.
Il bello del padrino è questo, come detto. Tutto può succedere. Tutti possono morire in qualunque momento. Però alla fine è anche il suo limite, il limite emotivo di una pellicola che ci presenta i vari personaggi della famigghia, ma non ci fa avvicinare, mai fino in fondo, a nessuno di loro.
In mezzo a una lunga scia di morti e di vendette, assistiamo comunque alla cosa più notevole della pellicola: la progressiva trasformazione di Al Pacino in Al Padrino.

Film splendido, magistrale, enorme?
Certo, certo, certo.
Capolavoro?
Assolutamente sì. Solo, non è un cult cannibale.
Volete farmene una colpa? Volete davvero farmene una colpa?
Un’altra testa di cavallo m’avete consegnato?


Certo che voi picciotti siete belli vendicativi!
(voto 8-/10)

Post pubblicato anche su L'orablu



lunedì 27 giugno 2011

Apocalypse Wow

Apocalypse Now
(USA 1979)
Regia: Francis Ford Coppola
Cast: Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Dennis Hopper, Laurence Fishburne, Harrison Ford, Frederic Forrest, Sam Bottoms, Scott Glenn, Francis Ford Coppola, Colleen Camp, Linda Carpenter, Cynthia Wood
Genere: odissea nella guerra
Se ti piace guarda anche: La sottile linea rossa, Full Metal Jacket, Platoon

Per la serie: anche la rivalità con il mio blogger-nemesi Mr. James Ford può portare a qualcosa di buono. Dopo una discussione con quel guerrafondaio sui film di guerra, genere cinematografico che io in genere non amo molto, ho deciso di recuperarmi Apocalypse Now (in goduriosa versione Redux), che colpevolmente ammetto di non aver mai visto. Fino a pochi giorni fa.
Avevo fatto male? No, perché secondo me i film vanno gustati al momento giusto della propria vita e magari fatta qualche anno fa questa visione non mi avrebbe sconvolto così tanto. E invece si vede che era arrivata l’ora giusta. L’ora “Apocalisse ora”.


La cosa che più ha colpito di questo film (tra l’altro appena uscito in Blu-Ray per quegli sbadati come me che se l’erano perso) non è stata tanto la tanto celebrata interpretazione di Marlon Brando o il risolvimento finale, perarltro grandiosi. È tutta la lunga prima parte, quella dell’attesa che cresce, quella che pur non trattandosi di un thriller monta su una suspence incredibile, quella del grande mistero che avvolge la figura del Colonnello Kurtz prima ancora di poterlo vedere: sentiamo la sua voce registrata, leggiamo il suo curriculum vitae bellico, ne sentiamo parlare ma rimane un punto interrogativo avvolto in una nuvola.
Attraverso gli occhi del protagonista Martin Sheen, il padre di quel degenerato di Charlie (che non fa surf, ma si fa solo delle gran pornostar e delle gran piste di coca), ci troviamo di fronte all’orrore l’orrore della guerra in Vietnam. Non attraverso scene di puro pietismo o espedienti da lacrime facili, né tanto meno attraverso quella retorica tronfia ed epica che attraversa tanti war movies, e neanche con una prevedibile condanna della guerra. No no. Niente di tutto ciò, bensì tutta la follia dei soldati americani. Più che un film sulla guerra o sulla violenza, lo definirei quindi un film sulla follia umana.

Il Colonnello Kilgore interpretato da Robert Duvall è il numero uno. Un capo supremo. Un folle supremo. Un cretino supremo. Un annusatore di Napalm al mattino. Un’anticipazione fuori di testa del Colonnelo Kurtz. Il senso senza senso della guerra in Vietnam, ma in fondo di qualunque guerra, sta tutto nella scena in cui invita i suoi soldati a fare surf mentre dal cielo piovono missili. Cos’altro ci deve dire di più Coppola? Omini che giocano alla guerra. La guerra come divertimento. La guerra come droga, ci confermerà poi in seguito Kathryn Bigelow con il suo The Hurt Locker da Oscar (tiè Avatar!). La guerra come casa, ci dice quel Martin Sheen che dal Vietnam non riuscirà mai a venirne fuori. La sua testa rimarrà per sempre lì.
Le donne presenti nel film cercano di ridare umanità ai soldatini deumanizzati dalla guerra, ma ci riescono? Mi sa proprio di no. Le conigliette di Playboy compaiono come una fantasia che improvvisamente si materializza, come un’oasi in mezzo al deserto, e come tali vengono trattate, con il soldato che invece di godersi la compagnia della fanciulla le mette una parrucca per farla sembrare la coniglietta di un altro mese. Una fantasia che diventa realtà, ma continua ad essere vissuta come una fantasia: effetto di una guerra che ha fatto perdere ai soldati qualunque concetto di cosa sia la vera realtà.

Un’Odissea lunga e avvincente, soprattutto sorprendente, che ci porta a sprofondare sempre più in un’Apocalisse spaventosa e allo stesso tempo stranamente estremamente affascinante e, tra una cavalcata delle Valchirie entrata nella leggenda e un formidabile Dennis Hopper che probabilmente ha recitato del tutto strafatto, Martin Sheen arriva infine all’uomo-obiettivo della sua missione segreta (si fa per dire, segreta). Il colonnello Kurtz appare un uomo stanco, proprio come Silvio Berlusconi in questi giorni. Una persona che ha davvero visto e fatto di tutto e che ormai sembra stufo persino della venerazione che lo circonda. Al di là del fatto che il personaggio interpretato da Marlon Brando sia molto più profondo e intenso nelle sue riflessioni esistenziali e adotti una via comunicativa ben lontana dai proclami Dux-style del Berlusca, i due mi sembrano davvero simili. Hanno violato le leggi comunemente accettate e se ne sono create di proprie, creandosi un seguito che si avvicina al fanatismo religioso, eppure non ce la fanno più. Sono arrivati a fine corsa e hanno bisogno di qualcuno che abbia il coraggio e la prontezza di staccar loro la spina, qualcuno che faccia smettere di battere il loro cuore di tenebra. Kurtz lo troverà nel capitano Willard, l’altro invece lo sta ancora cercando.

In questa Disneyland bellica che ci mostra un Vietnam inedito tra surfisti, conigliette, colonnelli impazziti e soldati psicopatici, Francis Ford Coppola fa un uso estremamente moderno del montaggio e della colonna sonora, con una The End dei Doors che assume il ruolo di protagonista assoluta, suggerendoci come l’inizio sia in realtà la vera fine del film e viceversa, e questa è una cosa che forse sarà stata detta da moltissime altre analisi sulla pellicola, o forse è solo un viaggio mentale che mi sono fatto io.
Forse Martin Sheen nemmeno c’è mai stato in Vietnam.
Forse è tutto un sogno post-alcolico che ha vissuto nella sua stanzetta di motel.
Forse invece ci siamo andati noi, in Vietnam, a uccidere i colonnelli Kurtz delle nostre esistenze.
(voto 10)


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