Scott Weiland era il cantante degli Stone Temple Pilots e dei Velvet Revolver.
Scott Weiland era una delle ultime rockstar in circolazione.
Scott Weiland era un animale da palcoscenico.
Scott Weiland era un figo della Madonna.
Scott Weiland era un'icona della musica grunge e degli anni '90.
Scott Weiland era uno dei miei idoli adolescenziali.
Scott Weiland era.
Cast: Meryl Streep, Mamie Gummer, Kevin Kline, Rick Springfield, Sebastian Stan, Audra McDonald, Nick Westrate
Genere: classic rock
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Dove eravamo rimasti?
Eravamo rimasti che il venerdì sera si usciva per divertirsi e non per farsi saltare per aria ma, a quanto pare, i tempi sono cambiati.
Dove eravamo rimasti?
Eravamo rimasti che Diablo Cody sembrava essere la nuova penna d'oro di Hollywood. La sua prima sceneggiatura è quella che qualunque esordiente avrebbe voluto realizzare. Con Juno, Diablo Cody ha fatto subito centro. Un centro fottutamente pieno. Ha vinto l'Oscar per la miglior sceneggiatura originale e la pellicola ha ottenuto un enorme successo di critica e di pubblico, arrivando a incassare oltre $140 milioni nei soli Stati Uniti, una cifra record per un piccolo lavoro indie del genere. Non solo un film. Juno si è rivelato un vero e proprio fenomeno della pop culture, in grado di lanciare una delle mode più assurde degli ultimi anni: quella delle teen mom. Il tema delle gravidanze minorili si è poi spostato soprattutto sul piccolo schermo, con serie fiction come La vita segreta di una teenager americana, decisamente fastidiosa ma che se non altro ha il merito di aver lanciato la giovane fenomena Shailene Woodley, e serie reality o pseudo reality come Teen Mom, 16 and Pregnant, 16 anni e incinta, 16 anni e zoccola e varianti varie.
Il “nuovo” dei Pink Floyd è il disco più noioso che abbia mai sentito in vita mia. Non mi sono annoiato tanto manco guardando i film La talpa, All Is Lost e La corazzata Potëmkin CONTEMPORANEAMENTE.
Il “nuovo” dei Pink Floyd più che un disco davvero nuovo è una raccolta di scarti dalle registrazioni di un album già di suo bruttarello di vent'anni fa. Un'ora e più di brani strumentali (a parte una tutt'altro che imprescindibile canzone cantata, "Louder Than Words", comunque il pezzo migliore del lotto) che nessuno al mondo si ascolterebbe manco sotto tortura, se il lavoro non fosse firmato con la sigla Pink Floyd, diventato ormai un brand più che un gruppo. Per un'operazione del genere la definizione “raschiare il fondo del barile” è persino offensiva nei confronti di chi raschia il fondo del barile con un minimo di decenza.
"Abbiate un po' di rispetto per noi, cari signori Pink Floyd."
“The Endless River” comunque un pregio lo possiede. Come la sua patetica copertina new-age suggerisce, è la colonna sonora ideale per venire traghettati verso la morte. La morte dei Pink Floyd e la morte della musica rock.
Il rock, almeno per quanto mi riguarda, significa trasgressione, eccitazione, ribellione, andare controcorrente. E significa gioventù. Gioventù mentale, non per forza anagrafica. Questo disco invece, sia a livello musicale che come operazione commerciale, è l'esatto opposto di tutto ciò. Non si può nemmeno dire che tecnicamente sia brutto, ma è qualcosa di peggio. Un album inutile, vuoto, triste.
A questo punto mi chiedo quale sarà il prossimo passo: una compilation di scoregge inedite di David Gilmour verrà profumatamente venduta come “il nuovo imperdibile ultimissimo disco dei Pink Floyd”?
Casale Monferrato (WC) – Vasco Rossi ha scelto una location inconsueta per la presentazione del suo ultimo disco, attesissimo soprattutto dai suoi fan più accaniti, i sordi. Lontano dagli stadi e dalle grandi arene, Vasco ha offerto l'ascolto in anteprima dell'album “Sono indecente” al pubblico di Casale Monferrato, sperduta cittadina nella provincia di Alessandria. Tra i presenti vi erano un sacco di giornalisti importanti e affermati. E poi c'ero anch'io.
L'ascolto del nuovo lavoro del Blasco ha diviso i presenti tra due correnti di pensiero molto differenti tra loro: chi lo considera un disco orripilante e chi lo considera un disco inascoltabile.
Alle orecchie di tutti, a parte quelle dei sordi che sono gli unici a essere rimasti fino alla fine, è però apparsa subito evidente una cosa: c'è stata una svolta metal. Non nel disco nuovo di Vasco, ma da qualche parte nel mondo ci sarà pure stata.
Forse, ma solo forse, “Sono innocente” non è allora l'album heavy-metal che i lettori di Kerrang! si aspettavano, però si tratta di certo di un lavoro molto hard rock. Nel senso che è davvero hard considerare 'sta roba rock.
Il disco è in ogni caso pieno di chitarre che richiamano certo trash rock degli anni '80. Solo molto trash, ben poco rock e ancor meno anni '80.
Per il resto si tratta del solito Vasco, quello che ancora una volta ci regala delle autentiche perle di poesia che andrebbero studiate nelle scuole al posto dell'ormai superato Leopardi (“Guai/Non devi dirlo mai/Che adesso non lo sai/Se poi mi amerai” canta nella raffinata “Guai”).
Quello che ci offre testi di una profondità mai raggiunta nemmeno dai Gazosa dei tempi migliori (“Accidenti come sei bella/Sei bella come quando l'acqua viene giù/Sei bella anche di più” dice nella romantica “Accidenti come sei bella”).
Quello che ci offre un nuovo esaltante inno da stadio, “Lo vedi”, dal testo trasgressivo che farà inorridire i benpensanti: “Lo vedi quello che respira l’aria intorno a te/Lo vedi quello che ti vuole fottere”.
Quello che ci regala ballatone distruggenti (no, non è un refuso) come “Aspettami”, “Quante volte” e il singolo “Dannate nuvole”.
Questa volta il Blasco ci offre anche una novità assoluta: ne “Il blues della chitarra sola” propone un coro “la la la la la laaaaa” mai sentito prima dentro un suo disco. Mai sentito prima cantato da sobrio. Che poi sarà stato davvero sobrio durante le registrazioni?
Anche per i detrattori di Vasco, ovvero tutte le persone sane di mente, c'è una buona notizia: nel pezzo “Rock Star” il celebre cantante di Zocca non canta. Prima di esultare, va però detto che è un pezzo strumentale di rara bruttezza in cui non manca qualche urlo di termini a caso in inglese. Il Blasco ha dovuto inserirli quando alcuni fan, al sentire che ci sarebbe stato un pezzo senza grida, avevano minacciato di boicottare il disco in favore dell'ultimo dei Modà, in cui gli strilli di Kekko non mancano nemmeno per un istante.
Tra pezzi solo brutti e quindi un pochino deludenti (“Cambia-menti”) e altri davvero agghiaccianti (“Sono innocente ma...”, “Duro incontro”, “L'ape regina” e “Marta piange ancora”), “Sono innocente”, più che un semplice disco, suona come il canto del cigno di Vasco Rossi. Prego le associazioni animaliste di non denunciarmi per tale affermazione. E pure le associazioni di cantanti.
La cosa migliore dell'album sembra allora essere il titolo. Non si può non considerare Vasco sincero mentre dice “Sono indecente”.
Come?
Un giornalista, uno di quelli importanti e affermati accanto a me, mi fa notare che il titolo del disco in realtà è “Sono innocente”. Allora mi correggo: questo album fa schifo sotto TUTTI gli aspetti.
Marco Ingoio
Questo post vi è stato gentilmente offerto da
Vasco “Sono innocente”
(voto 0+/10 di incoraggiamento)
ULTIM'ORA VASCO ROSSI, FERMATO DALLA POLIZIA STRADALE, E' RISULTATO NEGATIVO ALL'ETILOMETRO. IL CANTANTE, DISPERATO, CHIEDE GIUSTIZIA: "I RISULTATI SONO STATI FALSIFICATI. PRETENDO DI RIFARE IL TEST!"
Su Pensieri Cannibali è di nuovo tempo di lanciare band emergenti. E non intendo giù dalla finestra…
Ahahah, che battuta originale!
Dopo i punkettari Arevortik, è oggi il momento del pop-rock degli Animarma. Anche per loro apro con la stessa critica. Ma i ragazzi di oggi che razza di nomi danno alle loro band?
Sonic Youth, Sex Pistols, Dead Kennedys, Beastie Boys… questi sono nomi memorabili per un gruppo. Certo, ci sono poi band con nomi non eccezionali che hanno comunque fatto la storia della musica. Dico solo i Beatles. I coleotteri (e non scarafaggi come spesso si dice). Che nome è? Eppure…
Agli Animarma, nonostante il nome che si sono scelti non mi faccia impazzire, auguro quindi il loro stesso successo. Anche se credo che pure un successo un pochino inferiore a quello dei Beatles possa bastargli.
A livello musicale non siamo invece dalle parti dei Beatles, ma per quanto riguarda le fonti d’ispirazione della band restiamo sempre in terra inglese. Non credo sia solo una mia impressione, ma fin dal primo ascolto il punto di riferimento principale mi sembrano essere i Muse, soprattutto i Muse migliori, quelli dei primi album, e ciò è bene. Di contro, c’è da dire che in alcuni momenti il gruppo ricorda invece più Le Vibrazioni o i Negramaro, e ciò è meno bene.
Gli Animarma sono un gruppo bolognese giovanissimo, si sono formati nel 2011, hanno pubblicato il singolo “Big Bang” e ora un EP di 4 canzoni, tra cui "Quello che non sei" che potete ascoltare qui sotto. Sono quindi agli inizi e per loro i margini di miglioramento sono ancora ampi. Il consiglio che posso dar loro è quello di smarcarsi un pochino dal modello dei Muse per cercare un’identità sonora del tutto personale, e soprattutto di evitare le sbandate verso i territori non troppo esaltanti delle pop-rock band italiane sopra citate.
Il talento al gruppo non manca, tecnicamente suonano in maniera ottima, il cantante ha una gran voce e i ragazzi sanno come si scrivono canzoni efficaci e di buona presa. A questo punto devono solo trovare un suono maggiormente originale in occasione del loro album d’esordio vero e proprio, previsto in uscita nel corso del 2014 per la Fenix Records di Torino.
Quanto a voi gentili lettori, animo gente, armatevi di casse con un volume adeguato e date un ascolto a questi promettenti Animarma.
Indovinello: qual è quell’animale che cento ne pensa e cento ne fa?
Esatto, il Cannibale. Un animale strano, selvatico, che non pago di aver creato già classifiche e liste assortite di tutti i tipi, come la serie della vergogna e quella della crescita, adesso ha ideato un modo nuovo per propinarvi le sue Top 10.
Questa volta la scusa è di fare delle Top Dieci dedicate ad alcuni generi e sottogeneri musicali, rivisti sempre attraverso l’ottica cannibale, ovvio. Ad aprire le danze ci pensa un genere con cui l’animale Cannibale è stato allevato: il Britpop.
Se da buoni babbani non sapete cos’è, vi dico brevemente che è stata quella scena musicale sviluppatasi in Gran Bretagna – dal nome l’avreste mai detto? – nel corso degli anni ’90. Le radici del genere si possono trovare nei 60s, con band fondamentali come Beatles, Rolling Stones e Kinks, così come nel glam-rock 70s di David Bowie, ma un’influenza enorme l’hanno giocata anche gruppi successivi come Smiths e Stone Roses.
Da queste basi, nel corso degli anni ’90 e a partire dal 1993-94 circa, in tutto il Regno (Unito) c’è stato un enorme fermento musicale e sono salite alla ribalta un sacco di band dal suono pop-rock, che oggi potremmo definire indie-rock, ma che allora chiamavamo Britpop. Tra i primi a ottenere una grande notorietà ci sono stati gli Suede con il loro look androgino e il loro sound glam, ma l’apice della popolarità il genere l’ha toccato con la rivalità epica tra Blur e Oasis, alimentata da sfide a colpi di grandi canzoni e di battibecchi verbali, puntualmente riportati dalle riviste inglesi più cool del periodo, NME e Melody Maker.
Da lì in poi la scena si è ingigantita, sono nate un sacco di band cloni, non solo in Gran Bretagna ma ovunque, persino in Italia, dove c’erano i Lunapop che prendevano in prestito pezzi dagli Ocean Colour Scene, i Super B che scimmiottavano i Blur, Daniele Groff che imitava (malamente) gli Oasis. Qualcuno se li ricorda?
Verso la fine degli anni ’90 l’interesse nei confronti della scena, come per tutte le scene, è scemato, e il Britpop è passato di moda ma ora, a 20 anni di distanza, è tempo di revival. Per fare un tuffo in quel periodo potete dare un’occhiata alla serie My Mad Fat Diary e dare un ascolto alla mia playlist su Spotify, nonché alla mia immancabile Top 10 qui sotto.
Top 10 canzoni Britpop (secondo Pensieri Cannibali)
I Pixies sono tornati, con il loro primo album da 23 anni a questa parte. Una delle più importanti band alternative o indie-rock che dir si voglia della Storia, nonché uno dei migliori gruppi in generale di sempre di nuovo in azione e non è manco un pesce d'aprile?
Finalmente una bella notizia…
O almeno questo è ciò che ho pensato prima di aver ascoltato l’album. Indie City altro non è che la raccolta dei pezzi già presenti nei loro tre EP usciti negli ultimi mesi e intitolati con grande fantasia EP1, EP2 ed EP3. Tre EPs tutt’altro che eccezionali messi insieme e ora l’impressione che è emersa chiara, ascoltando le varie canzoni una in fila all’altra, è quella di una delle peggiori reunion di sempre. Black Francis e compagni suonano spenti, svogliati, vecchi. Sembrano una pessima cover band dei Pixies che furoreggiavano tra fine anni ’80 e primissimi anni ’90. Un’ombra della formazione che ci ha regalato capolavori totali come “Where Is My Mind?”, “Monkey Gone to Heaven”, “Gigantic”, “Here Comes Your Man” e molte altre. Qui le uniche canzoni a salvarsi, quasi quasi, sono “What Goes Boom” e la title-track “Indie Cindy”. Il resto suona a metà strada tra il tragico e il deprimente e l'assenza della bassista Kim Deal pesa come un macigno. È una auto pugnalata al cuore dirlo, ma i Pixies sono un gruppo senza più niente da dire e niente da dare. Una delusione totale. Se Kurt Cobain, loro storico grande fan, fosse ancora vivo, dopo aver sentito questo album andrebbe subito a suicidarsi.
Una mosca è volata fino alla mia palude, ma non sto parlando di insetti, né di qualcosa che ha che fare con un film di David Cronenberg, se non per la follia. Sto parlando di una band. E che band.
I Mosca nella palude sono un gruppo toscano composto da Giovanni Belcari, Luca Benedetti, Daniele Belcari, Giacomo Tongiani, Daniele Cecconi e Andrea Coco e hanno pubblicato da poco il loro valido album d’esordio “Ultrafuck”, che si segnala per un gran titolo e… basta.
Ah no, c’è anche la musica.
Il loro genere di appartenenza è il rock, però declinato in una maniera assolutamente personale e assolutamente pazza. La prima cosa che colpisce di questi ragazzi è proprio il loro essere fuori. Fuori, nel senso di fuori di testa, e lo dico come complimento. Lo so, non sono bravo a fare i complimenti, da questo punto di vista ho ancora ampi margini di miglioramento, però in questo caso va intesa come una cosa positiva, molto positiva. E sono fuori non solo di testa, ma anche dalla musica che va oggi per la maggiore. I Mosca nella palude non hanno infatti molto in comune con la scena indie attuale, né tanto meno con le molte lagne neo-folk che sono tanto cool, non si capisce bene perché, in questi tempi malati. Il loro è un rock che va a richiamare soprattutto sonorità popolari a cavallo tra fine anni ’80 e primi ’90. Cose come i Faith No More di Mike Patton, uno dei gruppi più fuori (anche qui lo intendo come complimento) nella storia della musica. Qua e là emergono inoltre inflessioni funk-rock alla Primus e alla Red Hot Chili Peppers, qualche influenza metal e nu-metal tra Korn e System of a Down e pure un pizzico di hip-hop alla Beastie Boys, il tutto riletto in chiave inedita e insana. La giovane band possiede ancora ampi margini di miglioramento, soprattutto dovrebbe sviluppare meglio il suo lato melodico, anche se magari non è tra le sue principali priorità, però la sua proposta suona talmente fresca e devastante che si può anche chiudere un occhio su questo aspetto e aprire tutte e due le orecchie.
Detto in altre parole: “Ultrafuck” dei Mosca nella palude possiede un suono crossover ad alto grado di figosità, da suonare possibilmente a un volume da arresto.
Detto ancora in altre parole: io vi consiglio di ascoltarli. Se volete approfondire la loro conoscenza potete sentire qualche loro pezzo su ReverbNation, acquistare il loro album QUI, oppure seguirli sulla loro pagina Facebook, oltre a beccarvi il loro video per il pezzo "Beastie Toys" qui sotto.
La scena mainstream rock mondiale assomiglia sempre di più alla scena politica italiana. Negli ultimi 20 anni (ma forse anche di più) è come se non fosse cambiato niente. Non c’è stato un vero e proprio ricambio generazionale e volti e nomi sono sempre gli stessi.
Tra il “nuovo” album dei Pearl Jam e uno di 20 anni fa non ci sono sostanziali differenze, così come non ci sono tra il video messaggio di Silvio Berlusconi del 1994 e il “nuovo” che aveva lanciato qualche settimana fa. L’unica differenza rispetto al passato è che sia Berlusconi che Eddie Vedder oggi hanno più capelli; il primo grazie a Cesare Ragazzi, il secondo grazie a Madre Natura. A livello politico, Berlusconi e i Pearl Jam sono decisamente agli antipodi, è vero, ma per il resto è sempre la stessa musica.
Eddie Vedder sembra accontentarsi di provare cose diverse da solista, tra lavori più riusciti (la bellissima colonna sonora di Into the Wild) e altri meno (il modesto Ukulele Songs). Quello con i Pearl Jam pare invece essere un semplice lavoro di routine che ogni tanto gli tocca adempiere, ma in “Lightning Bolt” di vera ispirazione e urgenza espressiva ne emerge ben poca.
Le nuove (sicuri siano nuove e non le abbiano riciclate dai precedenti dischi?) canzoni della band di Seattle non sono nemmeno brutte, per carità, anche se le uniche davvero degne di nota mi sembrano il singolo “Sirens” e “Infallible”, mentre pezzi come "Mind Your Manners", "My Father's Son" e "Yellow Moon" un tempo non l'avrebbero usati manco come B-sides. Non canzoni brutte, in ogni caso, piuttosto una versione invecchiata e stanca di quelle di una volta. Dell’impeto e dell’energia del passato grunge non vi è più traccia. “Lightning Bolt” suona come un disco famigliare e non è manco colpa loro. Il rock è ormai diventato un genere per famiglie e i Pearl Jam si sono solo adeguati.
Ieri guardavo Misfits. Nuova stagione, primo episodio. Verso fine puntata hanno suonato “Pale Blue Eyes”, brano dei Velvet Underground scritto e cantato da Lou Reed. Mi sono ricordato di quanto era, di quanto è bella questa canzone.
Ascolti “Pale Blue Eyes”, ti metti sdraiato, chiudi i tuoi eyes e nient’altro esiste più. il mondo si ferma. Il tempo si ferma.
Era questo l’effetto che facevano, che fanno le canzoni più belle di Lou Reed. Non solo “Pale Blue Eyes”, ma anche “Perfect Day”, “Sunday Morning”, “Femme Fatale”, “Venus in Furs”, “Satellite of Love”, “All Tomorrow’s Parties”, “Walk on the Wild Side”, “Stephanie Says”, “Here She Comes Now”, “Sweet Jane”, tanto per citare le mie preferite del suo vasto repertorio.
“Sweet Jane”, per dirne una, che splendore…
Le canzoni più belle di Lou Reed erano così. Sono così. Fanno fermare il mondo. Fanno fermare il tempo. Adesso il tempo si è fermato per lui e non c’è altro da fare che ringraziarlo per quello che ci ha regalato, che è davvero tanta roba.
“Dottore, dottore. Mi dica, come se la passa il mio Nonno Rock?”
“Come vuoi che se la passi, figliolo? Il Rock è ormai come la Sinistra italiana: un malato terminale in attesa dell’estrema unzione.”
“Oh caccio, Dottore. Possibile che non ci sia più niente da fare?”
“Proprio niente niente, no. Proviamo con 3 delle ultime band che forse hanno ancora qualcosa da dire. Ascoltiamoci un po’ i loro nuovissimi album, leggiamoci le recensioni di Pensieri Cannibali e vediamo se questi gruppi riusciranno a salvarlo.”
Nine Inch Nails “Hesitation Marks”
Bello, il nuovo album dei Nine Inch Nails di Trent Reznor.
Sì, bello schifo.
(voto 4/10)
"Ragazzi, tutti pronti per andare a punire il Cannibale?"
“Mi spiace figliolo, il primo tentativo è fallito. Passiamo al secondo.”
Franz Ferdinand “Right Thought, Right Words, Right Action”
Il nuovo disco dei Franz Ferdinand sarebbe esaltante. Se solo fosse ancora il 2004. O se solo fosse ancora piena estate. Arrivato così alle porte dell’autunno, è un ascolto piacevole ma nulla più.
Right Thought, Right Words, Right Action, but wrong timing.
(voto 6/10)
"No, fermi! Prendiamocela con Cannibal, non tra di noi."
“Niente da fare, figliolo. I Franz Ferdinand c’hanno provato, ma non ce l’hanno fatta.”
“Oh mio Dio e adesso?”
“Facciamo ancora un ultimissimo tentativo.”
Arctic Monkeys “AM”
Le scimmiette artiche sanno il fatto loro, va riconosciuto. Alex Turner è uno dei migliori autori della sua generazione e lo conferma in una serie di splendidi pezzi, su tutti le ballad da favola “No. 1 Party Anthem” e “Mad Sounds” (quest’ultima con un’apertura stile “Tender” dei Blur), l’ipnotica “Do I wanna Know?”, l’esaltante “R U Mine” e la piacevolmente pop e saltellante “Why’d You Only Call Me When You’re High?”. Qua e là compare qualche piacevole sebbene leggerissima influenza hip-hop nei ritmi, però per il resto le scimmiette proseguono nell’evoluzione naturale del loro solito sound. Hanno tirato fuori un bel disco, un altro bel disco, eppure c’è qualcosina che non convince del tutto… Sono proprio i pezzi più tradizionalmente rock’n’roll ad apparire un po’ debolucci, come il sound generico da Virgin Radio di “I Want It All”, o qualche momento ancora troppo derivativo nei confronti dei Queens of the Stone Age del loro santino musicale Josh Homme. Nel complesso un buon album, uno dei migliori in ambito rock dell’anno, ma non un album così importante o fondamentale, visto che non sposta di un centimetro i confini della musica rock, anche perché la band non sembra avere la minima intenzione di farlo.
L’impressione è allora che Alex Turner, con le sue scimmiette o con il progetto parallelo Last Shadow Puppets o pure in versione da solista come per la soundtrack di Submarine, possa fare ancora di meglio di così.
(voto 7+/10)
"Noi non ci muoviamo, siamo troppo infighettati per sporcarci le mani con il sangue cannibale."
“Ma allora, Dottore? Almeno gli Arctic Monkeys sono riusciti a salvare Nonno Rock?”
“Difficile dirlo con certezza. L’hanno riportato a una forma splendida? No, quello no. Però se non altro gli hanno dato un po’ d’ossigeno. Forse per qualche mese, facciamo per qualche settimana, anzi diciamo qualche giorno, può ancora tirare avanti. Come la Sinistra italiana.”
Era da un po’ che non ero più eccitato per una nuova uscita dei Placebo, band che avevo amato parecchio, soprattutto a fine anni Novanta. Poi era arrivato l’inevitabile calo creativo, d’altra parte capitato alla gran parte delle band gloriose nei 90s. Un calo nemmeno così preoccupante, anche se l’ultimo “Battle for the Sun” potevano risparmiarcelo, però abbastanza da far pensare che i bei tempi dei primi due album, l’esordio rivelazione “Placebo” e soprattutto il loro capolavoro “Without You I’m Nothing”, fossero andati.
Quest’estate è invece arrivato il nuovo singolo “Too Many Friends” e ha fatto ben sperare, riportando a sorpresa alla mente quei bei tempi de ‘na vorta. Un pezzo in cui anche dalle lyrics Brian Molko sembrava aver ritrovato l’ispirazione antica, rinnovata con una notevole dose di autoironia: “My computer thinks I’m gay/I threw that piece of junk away”, canta in quella che si rivela una specie di ode contro i social network. Una canzone notevole per di più accompagnata da un video che presenta come narratore speciale il mio scrittore idolo Bret Easton Ellis.
Dopo una così buona premessa, il resto dell’album delude. Qualche pezzo purtroppo sbanda sui sentieri dello stadium rock urlato a squarciagola, e si poteva evitare. L’apripista “Loud Like Love” ad esempio me la immagino cantata in coro ai concerti manco fosse “Balliamo sul mondo”. Con la differenza che i fan dei Placebo la grideranno con in mano un mascara nero, quelli del Liga si scatenano con in mano un fiasco di lambrusco.
Nonostante questa sbandata, per il resto nell’album non c’è niente che non vada. Le canzoni non sono nemmeno malaccio, soprattutto "Hold On to Me". Il sound ricorda i vecchi tempi. Solo che quei bei tempi ormai sono andati, c’è poco da fare, e questa è solo una replica, troppo ripulita, troppo iperprodotta. L’unico brano davvero ispirato resta “Too Many Friends”. Il resto scivola via liscio, gradevole all’ascolto. Solo, non lascia traccia. Con un pizzico di malinconia, è ora di affrontare la realtà: mi sa che ormai è tempo di cambiare terapia. Era inevitabile, l’effetto placebo ha perso la sua efficacia. È ora di passare alle medicine vere.
Certo che sì, almeno se non siete dei marziani e forse pure in quel caso è probabile li conosciate comunque.
Bene, bravi. Prendete i Rolling Stones e metteteli da parte, perché questo film non parla di loro. Not Fade Away parla di un gruppo musicale, uno dei tanti, che nessuno conosce. Uno di quei gruppi che uno mette su da ragazzino e che poi non vanno da nessuna parte. Anche io ne avevo uno, ai tempi del liceo. Più che un gruppo vero e proprio, era solo un abbozzo di gruppo. Eravamo io e un mio amico e non siamo andati oltre la scrittura di qualche canzone e il tentativo (poi abortito) di imparare a suonare la chitarra. Ci chiamavamo Paranoid Androids, in onore del celebre pezzo dei Radiohead, e qui in esclusiva mondiale vi propongo il testo della nostra prima canzone, leggermente incazzosa: "Stupid Queen".
Paranoid Androids "Stupid Queen"
(lyrics by: Carlo & Marco)
You are a witch, ‘coz you’re a bitch
you are a star, you are so far
you’re sucking dicks, with your fuckin’ lips
you use Chanel, but you smell like hell!
(chorus)
And you feel like Marilyn
but you’re just a stupid queen
Your pussy is open, but your heart is broken
you’re very easy, but you’re always busy
your body smells, like the fire of the hell
your skirt is shirt, like all your flirts
(chorus)
And you think you’re Marilyn
but I think you’re a stupid queen
So you fuck for all the day, but you always make them pay
you want it bigger than a bus, to take it in your lonely ass
(chorus)
And you feel like Marilyn
but you’re just a stupid queen
and you want to kiss James Dean
but you’re always a stupid queen
So you’re adored,
‘coz you’re a whore
Scrivere canzoni si rivelava più che altro un modo piacevole per passare il tempo mentre i prof spiegavano le loro noiose lezioni. Oltre che un modo per migliorare il nostro inglese. I Paranoid Androids sono rimasti però giusto un tentativo di mettere su una band. Più in là nel tempo, una volta abbandonata ogni speranza di imparare a suonare in maniera decente la chitarra, mi sarei dedicato alla carriera solista, passando alla musica elettronica con il nickname Cannibal Kid che mi accompagna ancora tutt’oggi in qualità di blogger.
Tutta questa intro non necessaria per dire che la storia della musica è sì fatta dai gruppi che tutti ammiriamo e amiamo, ma è anche fatta di band sconosciute, di semplici ascoltatori appassionati che hanno tentato di suonare, magari con risultati non eccezionali. Proprio come la band protagonista del film di cui oggi vi vado a parlare.
"Grandi Rolling Stones! Ecco... noi non diventeremo mai come loro."
Not Fade Away
(USA 2012)
Regia: David Chase
Sceneggiatura: David Chase
Cast: John Magaro, Bella Heathcote, Jack Huston, James Gandolfini, Dominique McElligott, Meg Guzulescu, Christopher McDonald, Brad Garrett, Isiah Whitlock Jr.
Genere: rock band
Se ti piace guarda anche: Killing Bono, Nowhere Boy, The Runaways, Control, Sex & Drugs & Rock & Roll
Not Fade Away rappresenta l’esordio cinematografico di David Chase.
Avete presente David Chase?
No?
È meno grave rispetto a non conoscere i Rolling Stones, però significa che avete qualche lacuna nell’ambito delle serie tv. David Chase è infatti il creatore de I Soprano, serie che non ho mai amato più di tanto, ma comunque a sua modo storica. Saper fare grande tv non sempre significa anche saper fare grande cinema e questo film lo dimostra. Not Fade Away sarebbe un episodio pilota notevole per una nuova serie, mentre come pellicola cinematografica a se stante non funziona del tutto, sebbene una visione se la meriti tutta.
Come preannunciato nella intro, Not Fade Away racconta di un gruppo di ragazzi che nei favolosi anni ‘60 mettono su un gruppo che poi non diventerà celebre, ma ciò non significa che non abbia giocato un ruolo importante nella loro vita. Anche se non faranno il botto vero e proprio, la loro vicenda segue la tipica parabola raccontata in molte altre pellicole musicali su band un pochino più famose, da Nowhere Boy sui primissimi Beatles a Control sui Joy Division, da The Doors sui… The Doors a The Runaways sulle… The Runaways, finendo per ricordare soprattutto Killing Bono, la storia di una band vissuta all’ombra della popolarità dei maledetti U2.
"Uff, non scriverò mai una hit come gli Stones. E manco come PSY..."
La regia di David Chase è molto classica, di stampo televisivo (un televisivo buono, sia inteso), senza lampi particolari. Così come non dà il massimo il suo pupillo James Gandolfini, l’ex Tony Soprano che al cinema continua a collezionare un sacco di ruoli e particine varie, nessuna in grado di lasciare il segno.
Da tenere d’occhio invece i ggiovani del cast: il protagonista John Magaro qui ha un personaggio un po’ stronzetto e non ispira molta simpatia, però non se la cava male; Jack Huston finalmente abbiamo l’occasione di vederlo con tutta la faccia e con tutti e due gli occhi, mentre in Boardwalk Empire lo vediamo solo a metà e Bella Heathcote, nuova pupilla di Tim Burton che l’ha lanciata nel suo Dark Shadows, per adesso è più bella che brava a recitare, d'altra parte si chiama Bella mica Brava. Il tempo, comunque, così come per gli altri giovani promettenti attori, è dalla sua parte. Time is on my side, come cantano i Rolling Stones qui coverizzati dalla band al centro delle vicende del film, nella scena che più rimane impressa di tutta la pellicola. Yes it is.
"Ah Bob Dylan, vieni un po' qui a falciare il prato!"
Riguardo alla storia di questo gruppo, ci viene raccontata attraverso conflitti di personalità piuttosto tipici: il batterista canta meglio del cantante e quindi si trova a sostituirlo come leader del gruppo, l’ex cantante non la prende troppo bene e iniziano i problemi, soprattutto perché il batterista diventato cantante comincia a tirarsela manco fosse il nuovo Bob Dylan. Non manca naturalmente anche una storia d’amore, ma tutto resta troppo abbozzato. Proprio come questa band. Ha del potenziale, potrebbe fare grandi cose, però alla fine non ce la fa. Non le realizza. Stesso discorso per l’intero film. Parte bene, riesce a rendere quella che poteva essere l’eccitazione di mettere su una band rock’n’roll nel pieno degli anni Sessanta, comincia a coinvolgere nella vita dei suoi protagonisti, ma non riesce mai a decollare veramente.
Eppure va bene così. C’è bisogno anche di questo. Così come c’è bisogno di band che non fanno la storia della musica, a volte ci si può godere pure un film non del tutto riuscito e con un finale scemotto campato per aria. Una pellicola che non farà certo la storia del cinema, ma che riesce almeno a trasmettere una genuina passione per la musica. Non è poco. E poi, per fare un film davvero grande, l’esordiente classe 1945 David Chase ha ancora tempo.
Cast: Johnny Depp, Amy Locane, Iggy Pop, Traci Lords, Susan Tyrrell, Polly Bergen, Ricki Lake, Stephen Mailer, Darren E. Burrows, Willem Dafoe
Genere: rockabilly
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One, two, three o'clock, four o'clock rock,
five, six, seven o'clock, eight o'clock rock,
nine, ten, eleven o'clock, twelve o'clock rock,
we're gonna rock around the clock tonight!
Nooo, non siete finiti su Virgin Radio con la sua ultima hit, non avete sbagliato posto, è proprio il vostro Dj Cannibal Kid che vi sta parlando, qui, in diretta, live su Radio Pensieri Cannibali, oh yeah.
Sentite un po’, oggi vi presento Cry Baby, una novità assoluta, l’ultimo film con Johnny Depp…
Aspettate, mi avvertono dalla regia che abbiamo una chiamata, scusate per l’interruzione.
Pronto, ciao bello, dicci tutto:
“Cry Baby non è un film nuovo. È vecchio come il cucco e poi…”
Oops, scusa bello, devo aver fatto confusione con le date, comunque che altro volevi dirmi?
“E poi Rock Around the Clock è ancora più vecchia del cucco, coglione!”
Ok, grazie bello per le precisazioni fatte in maniera molto educata ma non è colpa mia, su Virgin Radio me l’hanno spacciata come la nuova hit del momento, quindi sorry a tutti gli amici in ascolto e mi confermano dalla regia che in effetti no, “Rock Around the Clock” non è un pezzo nuovo, lo so, sono shockato anch’io.
Anyways, amici belli in ascolto, andiamo avanti.
"Chissà perché mi chiamano Cry-Baby? Sono mica un piagnone..."
Cry Baby, dicevo, un film non nuovo bensì del 1990 e ambientato ancora più indietro nel tempo, pensate un po’ che storia, fino agli anni ’50. Gli anni ’50 del primo rock’n’roll, oh yeah guys, avete capito bene. Il rock’n’roll è ancora vivo e vegeto, alive and kicking, solo qui su Radio Pensieri Cannibali, dove vi teniamo compagnia 24 ore su 24 con musica, parole e tanta pubblicità.
Perché vi consiglio di guardare Cry Baby, amici belli in ascolto? Perché è il non plus ultra del rockabilly. Cioè, in questo film vi potete beccare un sacco di tipi stilosissimi vestiti in perfetto stile rockabilly, con i capelli brillantinati all’indietro e la banana alla Elvis the Pelvis in Memphis Presley. Oh yeah guys, sto parlando proprio di lui, The King. The one and only, you know what I mean? No? Manco io, stavo solo sputando fuori frasi random in inglese perché fa tanto deejay figo one nation one English lesson.
Tra questi tizi rockabilly super figosi c’è anche lui, il più figo di tutti.
Elvis the Melphis in Memphis Presley?
No, non lui. Diciamo allora il secondo dei più fighi figosi di tutti, Johnny Depp!
"Davvero non si spiega perché continuano a chiamarmi Cry-Baby..."
Sì, proprio lui. L’attore rock’n’roll per eccellenza. Quello che si è ispirato a Keith Richards per il suo Jack Sparrow nei Pirati dei Caraibi e ha vagamente imitato il re del pop Michael Jackson nella sua versione di Willy Wonka. That’s right, guys! Questa è la sua prima storica performance rock’n’roll dove veste i panni proprio di Cry Baby, il personaggio title track, il protagonista della simpatica pellicola. E il Johnny che di sicuro ci sta sentendo in questo momento live su Radio Pensieri Cannibali, quindi lo saluto, è un mio amico, ciao Johnny, è proprio in parte. Lui è nato per fare il rocker, è anche un ottimo chitarrista, ha suonato su alcuni dischi di suoi altri amici rocker oltre a me come gli Oasis e Marilyn Manson. Proprio un tipo giusto, uno rock, no? E quindi se la cava alla stragrande, anche se va detto che i pezzi in cui Cry Baby canta non sono interpretati proprio da lui, Johnny, bensì dal cantante rockabilly James Intveld, così come i brani cantati dalla protagonista femminile, Amy Locane, in realtà non sono interpretati dalla protagonista femminile bensì dalla singer Rachel Sweet, oh, che dolce! Ma a proposito di Amy Locane, in questo film sembrava la sorella maggiore di Kirsten Dunst e poi che fine ha fatto? Mah! Amy, se sei in ascolto anche te di Radio Pensieri Cannibali, chiamaci e facci sapere come ti vanno le cose nella vita, che ci manchi. Ciao Amy, e ciao piccolo Tony, anche tu ci manchi.
Perché ho parlato tanto di cantare? Perché questo film è una specie di musical. Se odiate i musical, non preoccupatevi. I momenti musicali non sono tantissimi, non hanno il sopravvento sul resto e soprattutto non sono stracciapalle come quelli di Les Miserables. Sono anzi dei momenti molto figosi e molto rock’n’roll. You know what I mean? No? E allora ve ne faccio sentire uno, qui, in diretta solo su Radio Pensieri Cannibali.
Uh Johnny, che voce aauh! Volevo dire… James Intveld, che voce!
Visto? Sentito? Ve l’avevo detto che i momenti musicali non sono una mazzata sulle palle. Sono in verità tra i momenti forti del film. Non ci credete ancora? E allora ve ne propongo un altro, miscredenti.
"Al rogo Pensieri Cannibali."
Niente male, vero?
Se vi aspettavate un Grease parte seconda, a parte che esiste veramente e ha come protagonisti tale Maxwell Caulfield e Michelle Pfeiffer al posto di John Travolta e Olivia Newton-John, questa è un’altra storia. Una storia rock and roll, ok guys? Cry Baby è più che altro una quasi parodia di Grease e, nonostante il titolo, più che piangere, si ride, o, se preferite, si piange dal ridere. La pellicola è infatti firmata da John Waters, quel matto di John Waters, amici belli in ascolto. Un pazzo totale, il re dei freaks, regista di cult movies come Mondo Trasho, e poi di altre spassose genialate come La signora ammazzatutti, Pecker e A morte Hollywood!, così come anche di un altro musical come Grasso è bello - Hairspray. Uno sempre dalla parte dei diversi, degli outsiders, degli strambi e anche questo Cry Baby è un inno alla diversità, uno sfottò all’omologazione, un ennesimo sberleffo ricco di ironia firmato da John Waters, signori e signore, ladies & gents, girls & boys.
Un film in pratica che non può mancare nella collezione di ogni rockabilly che si rispetti, oltre che una pellicola perfetta semplicemente per chi vuole godersi una visione divertente e rock’n’roll, quindi andate a procurarvelo. Ultima curiosità: tra gli attori del cast ci sono pure l’ex pornostar Traci Lords, più Willem Dafoe, già protagonista del film rockabilly di Kathryn Bigelow The Loveless, più la tipa con la faccia più strana del mondo Kim McGuire, e poi c’è Iggy Pop. Sì, l’Iguana in persona, that’s right. Che altro aspettate ancora a vedere questo Cry Baby? Io adesso vi saluto e, visto che Rock Around the Clock mi hanno fatto notare che può suonare un po’ datata, non so bene perché, vi lascio in compagnia di una band rock’n’roll di giovanissimi, i One Direction. Buon ascolto!
(voto 7+10)
"I One Direction? Evvai!"
Dj Cannibal Kid è stato immediatamente licenziato. Ci spiace, fans dei One Direction, ma al loro posto Radio Cannibale vi propone un’altra song dalla pellicola Cry Baby. Vai Johnny!
Questo post è stato pubblicato anche sul sito rock'n'roll L'OraBlù, in compagnia del nuovo mitico poster realizzato dal grafico numero 1 in the world, Mr. C[h]erotto, oh yeah!
Non è finita qui! Questo post partecipa inoltre alle celebrazioni del Johnny Depp Day.
Il Depp oggi proprio oggi, compie 50 anni, ebbene sì, portati direi più che bene. That's right.
Ai festeggiamenti partecipano anche i seguenti mitici, quasi tutti mitici blog:
I 30 Seconds to Mars sono uno dei casi musicali più clamorosi degli ultimi anni. Non perché la loro proposta musicale sia rivoluzionaria, anche se di certo è molto personale e il loro sound è immediatamente riconoscibile. La cosa più impressionante è il loro seguito. Un seguito che non ha nulla da invidiare al Movimento 5 Stelle o a Scientology. Un seguito di tipo quasi religioso che ha pochi pari. Sono un po’ i Terrence Malick della musica. Nei loro confronti si può riporre una Fede assoluta, o in alternativa considerarli dei ciarlatani. Non ci sono mezze misure e, massì, non ci sono più manco le mezze stagioni.
Il motivo di tanto amore/odio nei loro confronti sta più che altro in una figura. Lui. Il Leader. Jared Leto.
Perché è tanto venerato/disprezzato?
In entrambi i casi, perché è un figo pauroso. C’è poco da fare. Jared Leto ha quel tipo di fascino magnetico cui è impossibile resistere, e allo stesso tempo è impossibile non provare nei suoi confronti una notevole dose di invidia. Jared Leto è nato per fare l’idolo adolescenziale. Sempre e comunque. Negli Anni ’90/primi Anni Zero, grazie alla serie cult My So-Called Life e a una serie di ruoli in film ancora più cult come Fight Club, Requiem for a Dream, La sottile linea rossa e American Psycho. La tv e il cinema però non erano sufficiente. Visto che non era ancora figo abbastanza, ha deciso di mettersi a fare pure la rockstar, ha deciso.
Con i suoi 30 Seconds to Mars ha costruito piano piano non solo una band, ma un vero e proprio culto, con tanto di simbologia, un fanclub che è una truppa chiamata Echelon, e tutto un immaginario musicale e visivo, con tanto di splendidi video diretti dallo stesso Jared Leto (perché recitare e cantare per lui non era ancora abbastanza), sotto lo pseudonimo di Bartholomew Cubbins.
Pur non essendomi arruolato nei fan Echelon, io sono sempre stato dalla parte dei 30 Seconds to Mars, di Jared o di Bartholomew che dir si voglia. Come attore ho seguito la sua intera carriera e negli ultimi tempi bisogna riconoscere che sta diventando sempre più bravo, si vedano le sue ultime rare e impressionanti parti al cinema in Mr. Nobody e Chapter 27, dove ingrassatissimo interpreta l’assassino di John Lennon.
"Attento a quello che scrivi, Kid, che il nostro esercito di fan ti bombarda!"
Negli ultimi anni, il suo impegno si è però concentrato soprattutto sui 30 Seconds to Mars. Qualcuno, forse facendosi prendere dall’invidia nei confronti dell’enorme figosità di Jared Leto, li ha etichettati semplicemente come una teen emo band per ragazzine in calore. In realtà si tratta di un gruppo che, pur con qualche eccesso di epicità alla Muse non sempre facile da digerire, propone uno stadium rock di notevole impatto, ma spesso lontano da ruffianate o facili trucchetti commerciali. Il loro primo omonimo album è anzi un disco di space rock con ben poche concessioni radiofoniche, più dalle parti di Tool e A Perfect Circle che non del sound tipico da teen idols.
Ma il botto, quello vero, è arrivato solo con il secondo disco “A Beautiful Lie” e nemmeno subito. Canzone dopo canzone, video dopo video, i loro followers soprattutto in rete sono cresciuti in maniera esponenziale. Merito della figosità di Jared Leto, naturalmente, ma anche di pezzi notevoli come “From Yesterday” e “The Kill”, accompagnati da video enormi e ricchi di citazioni cinematografiche.
Il successivo “This Is War” ha proseguito sulla stessa fortunata rotta e anche il nuovissimo quarto album “Love, Lust, Faith + Dreams” non si discosta molto dalla loro formula consueta. Cosa che significa epicità a manetta, Jared Leto che urla spesso e volentieri, un sacco di cori, ma anche un sound più orientato verso l’elettronica, atmosfere ancora più tese, thriller, cinematiche. Un album che colpisce nella sua interezza, nel suo magma sonoro in cui qua e là con gli ascolti emergono squarci di notevole bellezza.
Se il primo singolo “Up in the Air” è cazzuta ma anche abbastanza pop da passare in (qualche) radio, il vero pezzone dell’album, quello che rischia di allargare ancora di più la truppa di loro fan-soldati, è “City of Angels”. Faccio un paragone esagerato dei miei?
E lo faccio, massì, lo faccio. “City of Angels” è la “Under the Bridge” della nuova generazione. E che nessuno si scandalizzi perché:
1) I Red Hot Chili Peppers non è che adesso sono tutti ‘sti paladini del rock alternativo.
2) I miei paragoni sono famigerati per essere assurdi e credo di averne sparate ancora di più grosse.
3) Sono entrambe canzoni su Los Angeles e quindi non rompete il ca**o.
Il resto dell’album procede tra altri buoni pezzi, come l’esaltante “The Race”, qualche numero bell’e pronto per essere utilizzato in una soundtrack come “Pyres of Varanasi” e “Convergence”, l’elettronica di “Do or Die” e un’altra ballatona strappamutande come “Bright Lights”.
Un disco con un suono di insieme intrigante, ma sopra a tutto si erge la citata “City of Angels”, futuro classico del repertorio della band. Ché proprio quando pensi che Jared Leto non possa diventare più figo, lui ti tira fuori un pezzo così e allora non ti resta che amarlo ancora di più.
Amarlo o odiarlo.
I Primal Scream sono un gruppo che ho sempre amato particolarmente e che allo stesso tempo ho sempre trovato molto sfuggente. Nel senso che la loro musica per me ha un permanente alone di mistero e di impenetrabilità addosso, cosa che contribuisce solo ad aumentarne il fascino. Ogni volta che penso di averli capiti, di essere riuscito ad afferrarli, ecco che loro mi sfuggono via dalle mani e mi escono con qualcosa di diverso e imprevisto. Che poi nella loro musica a guardare bene c’è un impronta rock’n’roll molto classica. Se c’è un gruppo di degni eredi dei Rolling Stones in circolazione, sono sicuramente loro. Allo stesso tempo, i Primal hanno però anche un’anima più elettronica, innovativa, che li porta altrove rispetto alle altre rock band tradizionali in giro. I loro dischi, almeno quelli più riusciti, sono un gran calderone di suoni e influenze diverse, che posso ascoltare e riascoltare più volte, ma scoprendoci dentro sempre nuovi aspetti. È come se non riuscissi mai a conoscere fino in fondo un loro album. E ciò è stupendo.
I primi due album “Sonic Flower Groove” del 1987 e l’omonimo “Primal Scream” del 1989 tra shoegaze e atmosfere dilatate guardano già al futuro, verso gli anni Novanta e oltre, con un sound indie non distante da molti gruppi cool di oggi. Niente male entrambi, ma sono solo un antipasto di ciò che la band di Bobby Gillespie avrà in serbo per noi da lì in poi.
“Screamadelica” è il loro primo capolavoro. Un album fondamentale dal sound molto baggy, psichedelico, ipnotico e pure house, che getta le basi per una parte di Britpop così come soprattutto di una buona fetta di musica elettronica degli anni ’90, risultando fondamentale per band come, per dirne un paio, Chemical Brothers e Daft Punk, mica dei cretini. E poi “Higher than the Sun” ancora oggi che pezzo della Madonna è?
Dopo la parentesi più puramente rock’n’roll e stonesiana di “Give Out But Don’t Give Up”, valido ma che non mi ha mai esaltato più di tanto, con il successivo “Vanishing Point” realizzano un altro autentico capolavoro di inafferabilità. A 15 anni di distanza, è ancora un’auto lanciata a folle velocità che non riesco a fermare. Pazzesco come ad ogni ascolto mi sembri un disco nuovo, fresco d’uscita. Un album cinematografico come pochi, che al suo interno contiene anche “Trainspotting”, un brano composto indovinate per quale film, e realizzato come se fosse una seconda colonna sonora non ufficiale del cult movie 70s Punto zero - Vanishing Point.
Il successivo “XTRMNTR” è un altro album enorme, con un sound da devasto che ancora oggi pare provenire dal futuro. Niente male, per una band rock’n’roll dalle semplici influenze stonesiane.
Dopodiché, i Primal calano, ma lo fanno progressivamente. “Evil Heat” non è al livello dei lavori precedenti, ma è ancora una bella botta, con dentro una bomba come “Miss Lucifer” che si mangia tutti i gruppi techno-rock da Playstation del mondo a colazione, il mattino dopo un rave sfrenato.
A questo punto, i Primal tirano fuori il loro album più deboluccio, “Riot City Blues”, rock country tradizionale, naturalmente stonesiano ma non troppo ispirato. Va un po’ meglio nel 2008 con “Beautiful Future”, che contiene l’esaltante “Can’t Go Back” e una notevole varietà sonora, tra pop, rock ed elettronica. Il tutto però suona troppo pulito e precisino rispetto ai loro standard.
Primal Scream "More Light"
Dopo due dischi sottotono e dopo questa lunghissima premessa, eccoci arrivare infine e finalmente al loro ultimo album, “More Light”. Ve lo dico subito (subito? ma se il post è già iniziato da mezz’ora!): si tratta di un lavoro degno dei loro migliori. Lo si capisce fin dall’apertura ipnotica e accattivante, che ricorda ai più sbadati l’anno in cui ci troviamo.
L’ispirazione, quella vera, è tornata. L’effetto che provoca l’ascolto è quello dei loro album più riusciti. Ti porta in un’altra dimensione, ti colpisce nel suo insieme con il suo potere enigmatico. Un mare di suoni che ti trascinano in un fiume di dolore (la stupenda “River of Pain”), ti fanno muovere la testa come pochi altri rocker oggi (“Culturecide”, “Hit Void”, “I Want You”), ti accompagnano figosi a visitare una città invisibile (“Invisible City”), ti portano dentro un film di Quentin Tarantino (“Goodbye Johnny”), ti fanno fare un trip acido da acido (“Sideman”) ti regalano il blues più cool dell’anno (“Elimination Blues”), ti cullano con una ninna nanna (“Walking with the Beast), ti fanno sentire come se nel mondo tutto per una volta può andare bene (It’s Alright, It’s Ok”) e alla fine ti hanno stordito talmente tanto che non c’hai capito niente e vuoi riascoltare il disco da capo, anche se sai già che nemmeno questa volta riuscirai ad afferrarlo nella sua interezza, perché i Primal Scream sono così. Per me sono così. Il gruppo più inafferrabile della mia vita.
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