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martedì 22 gennaio 2019

Grazie Roma





Aò, bella regà. Che me dite?
Io mò ve racconto de quello che è successo lo scorso 22 dicembre. Nun 'n giorno qualunque. Er giorno de a partita Juventus – Roma.
A poche ore dar matche io stavo tutto agitato, vè, quand'ecco che m'arriva 'na telefonata 'naspettata. Me sta a chiamà la pischelletta che me piasce. Nun me caga mai de striscio manco pé sbàjo e me caga proprio er giorno in cui sto tutto teso pé a partita? A li mortacci sua!
Io comunque le rispondo tutto gentile: “Bella lì, che me racconti?”
Ciaaao! Niente, cioè, che ti va di venire a casa mia a vedere Roma?
Subito subito senza manco pensarci le ho risposto: “Minchia sì!”
E lei me fa: “Come, scusa?
Io me schiarisco la voce e le faccio: “Miii... piacerebbe moltissimo.”

Così niente, ce mettiamo d'accordo e io a sera sono lì sotto a citofonarle. Salgo da lei. È a prima volta che vado a casa sua. Anvedi che bell'appartamentino ai Parioli! Io in genere nun frequento molto la zona. Sò più 'n pischello de bassifondi. Che c'avete presente er quartiere de Bastogi che se vede in Come un gatto in tangenziale? Ecco, mò io abito 'na zona del genere. Casa sua invece tutta fighetta. C'ha er divano fighetto. Pure er computer ce l'ha fighetto, quello co' a mela. Me fa: “Ce lo vediamo su Netflix”.
Io le chiedo: “Ma che adesso gli incontri de calcio li stanno a fà vedè pure su Netflixe? Che è, vogliono fà le scarpe a DAZN?”.
Lei me interrompe e me fa: “Scusami, che c'entra il calcio?
“Juve – Roma. 'A partita. Stasera. Presente?”
Mi sa che c'è stato un misunderstanding”.
“Chi è che c'è stato? Che è, hai invitato n'antro?”
Intendevo dire che credo ci sia stato un piccolo fraintendimento. Io t'ho invitato a vedere Roma, il pluripremiato film di Alfonso Cuarón. Lo danno in streaming su Netflix. Non Juve – Roma.
Io lì per lì ho pensato: “Roma, er pluritelegattato filme de Astronzo Culón? Ma de che sta a parlà? Che s'è fumata, questa?”, poi me sò reso conto che tra noi c'era stato effettivamente 'n piccolo fraintendimento, o misunderstanding come le piace stà a dì a lei, e così pé rimedià le ho fatto: “Ma lo so. Te stavo a cojonà! Che ce sei cascata? Ma che me frega a me de a partita? È da quanno so' 'n pischelletto piccolo così che er calcio nun lo sto più a seguì. È tutto 'n magna magna, lo sanno tutti, daje.”

Lei me sembra che se la sia bevuta. O almeno me sembra che ha fatto finta de bersela. E a proposito de bere, m'ha versato 'n bicchiere, anzi 'n calice de vino che le han regalato i suoi da nun ho capito bene quale prestigiosa azienda vinicola de mii cojoni. A me comunque annava bene anche 'na birretta fresca presa ar Carrefourre. Nun pe' dì. Poi lei fa' partì er filme su Netflixe. Roma se chiama. In testa già me sto a girà un filme tutto mio. Aò, finalmente l'han fatto, penso. Han realizzato 'n filme su a Maggica. A Maggica Roma. Daje Astronzo Culón, faccè sognà!

Chissà su cosa si starà a concentrà? Sur Pupone? De sicuro deve parlà de er Pupone. E poi magari der Principe Giannini.
Sui titoli de testa così io chiedo alla pischella: “Ma che Giannini ce sta?”.
Giancarlo Giannini? No, non mi risulta sia nel cast.
Io penso: “Ma chi è 'sto fetentone de Giancarlo Giannini? Io stavo a parlà der mitico Giuseppe Giannini, naturalmente” però ho preferito nun dirglielo, ché me sembrava già tutta assorta a vedè er filme. Filme che è tutto in bianco e nero, manco l'avessero girato quei gobbi bastardi. Dopo qualche minuto me rendo conto che no, questo nun è 'n filme su a Maggica. Nun ce stà er Pupone e nun ce stà manco er Principe Giannini. E a dirla tutta nun è manco girato a Roma, 'tacci loro!

lunedì 26 ottobre 2015

Suburra - Ma fija de 'na miggnotta Capitale





Suburra
(Roma 2015)
Regia: Stefano Sollima
Sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Giancarlo De Cataldo, Carlo Bonini
Tratto dal roma-nzo: Suburra di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo
Cast: Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola, Alessandro Borghi, Giulia Elettra Gorietti, Greta Scarano, Antonello Fassari, Adamo Dionisi, Jean-Hugues Anglade
Genere: romano de Roma
Se ti piace guarda anche: Gomorra - La serie, 1992, La grande bellezza

Aò, 'a stronzi!
'A bbrutti fiji de 'na miggnotta!
Lo so che avete fatto. Avete visto Suburra, ma nù l'avete vvisto ar cine. L'avete visto a scrocco senza pagà sur l'Internette ed è 'na cosa che nù se fa'. Manco li Casamonica lo farebbero. Dovete sostenere er cine itajano. Er cine finanziato dà reggione Lazio. Basta che nù siate da' Lazio.
Mejo 'n fijo che guarda I Cesaroni, che 'n fijo da' Lazio!
E a proposito de Cesaroni, ma che l'avete visto Amendola, porcoddue?

lunedì 14 ottobre 2013

LA GRANDE BELLEZZA O LA GRANDE INCOMPIUTEZZA?




La grande bellezza
(Italia 2013)
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Cast: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Isabella Ferrari, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Giorgio Pasotti, Pamela Villoresi, Serena Grandi, Massimo Popolizio, Ivan Franek, Roberto Herlitzka, Giusi Merli, Anna Della Rosa, Giovanna Vignola
Genere: esistenzialista
Se ti piace guarda anche: La dolce vita, 8 ½, Reality, L’uomo in più, L’amico di famiglia, The Tree of Life

La grande bellezza è il film italiano in corsa agli Oscar del prossimo anno. Cosa che non significa sia già in nomination. Significa solo che è la pellicola scelta a rappresentare il nostro paese e se la dovrà vedere con ben altri 75 concorrenti in arrivo da tutte le parti del mondo. Potete leggere l’elenco completo dei film in lizza qui.

Scelta giusta? Scelta sbagliata?
Io di film italiani negli ultimi mesi ne ho visti pochi. In genere mi fanno venire l’orticaria, quindi tendo a evitarli per il bene della mia salute, mica per altro. Pur avendone guardati pochi, è comunque questo il titolo su cui avrei puntato anch’io. Se ad esempio fossi l’allenatore dell’Argentina, anche senza conoscere ogni singolo calciatore del paese, punterei tutto su Messi e andrei sul sicuro. Paolo Sorrentino è un po’ il Messi del nostro cinema, anche se da buon napoletano forse preferirebbe il paragone con Maradona, quindi pure con lui si fa una scelta senza rischi. O quasi.
I film di Sorrentino sono sempre un azzardo. Per quanto ormai abbia una sua poetica e un suo stile piuttosto definiti, il nostro regista più talentuoso ama mettersi in gioco ogni volta. Dopo l’acclamazione internazionale de Il divo ha cambiato completamente registro, si è spostato dall’altra parte dell’Oceano per girare il suo primo film in lingua inglese, ma l’ha fatto a modo suo. Non ha realizzato la classica pellicola hollywoodiana. Non ha fatto la “muccinata”. E dopo la discussa pellicola con Sean Penn This Must Be the Place, parecchio criticata ma da me parecchio amata, ha deciso di fare qualcosa ancora di diverso. Tornare in Italia, più precisamente nella capitale, Roma, e girare il suo film più ambizioso. Girare la sua Dolce vita. Il guagliò può negarlo fin che vuole e può continuare a scansare lo scomodo paragone, però c’è poco da fare. Dentro La grande bellezza ci sono tante cose, ma l’influenza numero 1 è quella felliniana, con un pizzico di 8 ½ e soprattutto con tanta Dolce vita.

Ci troviamo dunque di fronte a una copia spudorata?
No, per niente.
Allora, deciditi: è come La dolce vita o non è come La dolce vita?
L’ispirazione è la stessa, il talento registico è simile, lo sfondo è sempre Roma, il protagonista è anche in questo caso un giornalista mondano barra scrittore radical-chic. Eppure è tutto diverso. Della splendida Roma anni Sessanta qui è rimasta soltanto un’ombra scura. Un riflesso appannato. Un’immagine distorta e grottesca. E il protagonista è un vecchio. Questo non è un paese per giovani. Non è più il paese del giovane Marcello Mastroianni/Marcello Rubini. Non è più il paese del “Marcello, come here.” Oggi è il paese da cui scappare. È il paese del “Marcello, go away.

"Ah Sabrì, ma quelle chiappe te le han fatte gli artigggiani della qualità?"
La grande bellezza sta a La dolce vita come l’Inferno sta al Paradiso. Il giornalista specialista in intrattenimento, cultura, gossip e frivolezze Marco Goi Jep Gambardella, interpretato dal solito immenso Toni Servillo, è una maschera che si aggira con un finto sorriso stampato in faccia per le strade di Roma, tra amori bruciati in fretta, con disinteresse, tra una Isabella Ferrari che di lavoro fa la “ricca” e una Sabrina Ferilli che fa la stripper quaranteenne malinconica come la Marisa Tomei di The Wrestler. Jep Gambardella tira dritto, a 65 anni suonati vive ancora le notti più dei giorni, fila come un trenino che non va da nessuna parte, se non da un evento all'altro, una rappresentazione artistica senza senso all’altra, da una festa all’altra.
Alcune delle pellicole più belle e interessanti, così come anche più controverse e criticate, di quest'anno mettono in scena il vuoto esistenziale. È curioso notare come i film più profondi degli ultimi tempi siano quelli che riflettono sulla superficialità. Sul mondo dei party continui. Spring Breakers, Bling Ring, Il grande Gatsby, questo La grande bellezza sono tutti ambientati in una dimensione parallela. In un paese dei balocchi, per dirla con il blogger Emmegì, dove la festa è perenne. La cosa più straniante è notare come nessuno in questi ambienti si diverta veramente. Forse le ragazze puttanpop di Spring Breakers sì, all’inizio, eppure pure per loro il party si trasforma presto in routine, diventa quasi un lavoro. Quanto al grande Gatsby, lui il più delle volte manco si degna di partecipare alle sue feste, e la baby-gang di tope d’appartamento di Bling Ring è troppo apatica per poter provare un qualche moto di gioia in quello che fa.

Lo stesso vale per Jep Gambardella, l’uomo che non voleva essere semplicemente un mondano, voleva diventare il re dei mondani. Una volta riuscito in questa ambiziosa impresa, cosa gli rimane?
ATTENZIONE SPOILER
Niente. Non l’amore, che sembra incapace di provare. Non una famiglia. Non un amico. O meglio, un amico sì, un impagabile Carletto Verdone, che però deciderà di andarsene via, perché Roma l’ha deluso.
FINE SPOILER

Chi a me personalmente non ha mai deluso invece è Paolo Sorrentino. Già con il suo film d’esordio L’uomo in più diceva tutto: “A vita è ‘na strunzata”. Si sarebbe potuto fermare lì e tanto ormai la più grande verità di questo mondo l’aveva già rivelata. Invece no, è andato avanti e c’ha regalato altre pagine di poesia, le più belle provenienti dal libro del cinema italiano recente. Le conseguenze dell’amore è l’anti romcom per eccellenza; L’amico di famiglia è lo scatto perfetto sull’Italia annichilita di oggi; Il Divo è un film politico di raro coraggio che in pochissimi da noi avrebbero avuto il coraggio di fare ma anche il ritratto, l’ennesimo nel suo cinema, di un uomo triste; This Must Be the Place è in apparenza la parabola discendente di una rockstar sul viale del tramonto, in realtà è la sua pellicola più ottimista.
La grande bellezza da un punto di vista registico è il suo punto più alto. Se i suoi precedenti erano girati da fenomeno, questo è girato da Dio. Roba che il Terrence Malick di The Tree of Life non è poi così distante. Le sequenze fluiscono l’una nell’altra in una maniera naturale, con una cura nelle riprese e un lavoro di montaggio da restare estasiati nel senso religioso del termine. Le scene scorrono con una musicalità che nel cinema italiano non si vede. Mai. Sorrentino trasforma “Far l’amore” e “Mueve la colita” in sinfonie. Fa diventare le ridicole coreografie e i pietosi balli delle discoteche bene di Roma pura poesia per immagini.

La grande bellezza ha diviso pubblico e critica tra chi lo considera un capolavoro e chi lo considera una cagata pazzesca. Ai secondi posso dire: “Fatelo voi un film così. Un film così in Italia, se ne siete capaci.” Ai primi posso dire che no, almeno per quanto mi riguarda non è un capolavoro assoluto. Avrei voluto che lo fosse e per quasi tutta la sua durata ci va vicino ad esserlo. A un certo punto però capita qualcosa che con il cinema di Sorrentino non m’è mai successa. Non mi riferisco alla canzone e al cameo di Antonello Venditti, evitabili ma che, vista l’ambientazione romanaccia, gli posso concedere per il rotto della cuffia. E con rotto della cuffia intendo che a me i pezzi di Venditti romperebbero le cuffie, se solo li ascoltassi. I film di Sorrentino io finora li ho sempre adorati nella loro totalità, pur con i loro difettucci, pur con le loro stramberie che li rendono ancora più intriganti. E pure dentro quest’ultimo film di stramberie ce ne sono, dalla nanetta lynchiana all’allucinante studio del mago del botox con una mostruosa Serena Grandi in prima linea, fino alle folli performance artistiche cui si può assistere in giro per Roma, in particolare quella pazzesca della bambina che fa action painting.


ATTENZIONE SPOILER
"Quella cosa lì è Serena Grandi?"
La parte finale di questa grande bellezza però no. Non m’è andata giù del tutto. Non sono riuscito a digerirla completamente. Il film è molto giocato, fin dall’inizio, sul contrasto tra sacro e profano. La presenza religiosa aleggia forte lungo tutta la visione, d’altra parte parlando di una città come Roma, la vera grande protagonista della pellicola, era inevitabile. Però “La Santa”, Suor Maria, la mummia di 104 anni interpretata da Giusi Merli (che spero per lei in realtà abbia qualche anno di meno), una figura che diventa centrale nella parte conclusiva, ma era proprio necessaria? La Santa ricorda a Jep che le radici sono importanti, gli fa ritrovare l’ispirazione perduta per ricominciare a scrivere, lavorare al suo secondo romanzo a decenni di distanza dal primo. Un’illuminazione divina, con tanto di apparizione di uno stormo di fenicotteri, che appare piuttosto forzata. Una grande bellezza tanto ricercata che paradossalmente fa perdere fascino a un film fino a quel momento bellissimo. Mi è sembrato che Sorrentino con questa svolta religiosa abbia cercato il colpo a effetto finale, quello che rendeva La dolce vita il capolavoro che è, con quella sua conclusione meravigliosa. Un colpo non riuscito che si trasforma in un clamoroso autogoal, una sbandata come l’inconcepibile finale mistico di Lost. Roba da far venir voglia di prendere a schiaffi Sorrentino, non per fargli del male, ma per farlo rinsavire. L’alternativa meno violenta è chiedergli: “Perché l’hai fatto, Sorrentì? Perché c’hai messo dentro ‘sta Santa?” Al che lui, con tutte le ragioni del mondo, potrebbe rispondere come fa una performer intervistata da Jep: “Io sono un’artista. Non ho bisogno di spiegare un cazzo.

I 10 minuti di delirio finale, come per Lost, lasciano disorientati però non cancellano del tutto quanto di buono fatto vedere prima di allora. Con una parte conclusiva così, più che La grande bellezza resta la grande incompiutezza. Allo stesso tempo, i film di Paolo Sorrentino continuano a essere una delle cose più belle che il nostro cinema ci regala da diverso tempo a questa parte. Dai tempi di Federico Fellini.
La Roma de La grande bellezza non è più quella de La dolce vita. O forse sì. Peccato solo che sia rimasta la stessa nel senso che si è immobilizzata, vive con nostalgia in un glorioso passato ormai lontano. Una città, un paese in cui non c’è stato un ricambio generazionale e in cui Jep Gambardella altri non è che un Marcello Rubini invecchiato male. Questa non è la dolce vita. Questa è l’amara vita di oggi.
(voto 8-/10)



martedì 23 ottobre 2012

Li mortacci tua, Woody Alien!

"Roberto, come la chiamate qui in Italia una terrible actress?"
"La chiamiamo Mastronardi, maestro."
To Rome With Love
(USA, Italia, Spagna 2012)
Regia: Woody Allen
Cast: Woody Allen, Roberto Benigni, Jesse Eisenberg, Greta Gerwig, Alec Baldwin, Ellen Page, Alison Pill, Flavio Parenti, Alessandro Tiberi, Alessandra Mastronardi, Penelope Cruz, Riccardo Scamarcio, Antonio Albanese, Judy Davis, Fabio Armiliato, Monica Nappo, Ornella Muti, Carol Alt, Vinicio Marchioni
Genere: ao’
Se ti piace guarda anche: Vac(c)anze di Natale vari, I Cesaroni

Dopo l’ottimo Midnight in Paris, non volevo credere alle voci negative riguardo al nuovo film di Woody Allen ambientato in Rome. Infatti le voci negative si sbagliavano. Oh, se si sbagliavano.
La verità è che è molto ma molto peggio. Ma molto.

"Woody, se te becco te faccio 'na faccia così!"
Una prima cosa non proprio positiva da rilevare su quest’ultima ennesima fatica alleniana riguarda gli stereotipi su Roma e sull’Italia. Ma su di quelli si è espresso già molto chiaramente Carlo Verdone, uno il cui ultimo film Posti in piedi in Paradiso non sarà un granché, ma al confronto di ‘sta roba è un Fellini. Ecco cos’ha detto:

"Il film di Woody Allen sulla mia città? Non fa per niente ridere, anzi, fa piagne: è un'opera assolutamente inutile, mostra una capitale che non esiste, magari esistesse, e che secondo me non è mai esistita. Non sta né il cielo né in terra: punto. Un'operazione solo turistica, la sua: si voleva fare una vacanza e basta. […] Mi dispiace dirlo di Woody, ma è così: la sua ultima fatica è un presepe finto, in cui non ha fatto altro che giocare coi luoghi comuni. È una Roma vista con gli occhi degli americani, che quando viaggiano sperano di trovarla così: gente bonacciona, un po' sguaiata, i monumenti, se mangia bbene... Roma invece è una città piena di problemi, che amo tantissimo, che mi sta a cuore, ma è diventata impossibile."

"Ciao Woody, vuoi che reciti nel tuo prossimo film? Eh, come no!
Le cose che ho detto su To Rome With Love?
Ma no. Sai com'è, noi romani stiamo sempre a scherzà..."
E questa questione l’ha espressa bene il Carletto. Se a ciò aggiungiamo personaggi che si chiamano Michelangelo e Leonardo, ma purtroppo mancano Donatello e Raffaello altrimenti si poteva anche fare una reunion delle Tartarughe Ninja, più qualche marchettona marchionnara della 500 e le note di “Nel blu dipinto di blu” sparate subito subito sui titoli di testa, la cartolina dell’Italia idealizzata è bell’e che servita.
Se vogliamo, anche il precedente di Allen Midnight in Paris era ricchissimo di stereotipi, su Parigi e sull’età dell’oro degli anni ’20, e su Parigi negli anni ’20. Però il film funzionava. Era una splendida fiaba e allo stesso tempo una riflessione nostalgica su come il passato sembri sempre meglio del presente. Vero anche questo: il vecchio Allen era meglio di quello nuovo.
Quello nuovo di To Rome With Love non se pò vedé.

"Penelope, la prossima scena me la fai un po' più Ruby Rubacuori, ok?"
Non c’è comunque da disperare troppo. In fondo, dopo il modestissimo Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, a sorpresa è tornato in grande spolvero in quel di Parigi. In fondo, Woody Allen è fatto così. Di film ne gira tanti, troppi, alcuni sono belli, altri meno, qualcuno come questo è davvero brutto. Certo, un tonfo imbarazzante del genere non l’aveva mai fatto, almeno non tra le sue pellicole che ho visto (una piccola percentuale, visto che come ho detto ne gira davvero troppi), però chissà che con il suo ritorno negli USA per il suo prossimo progetto ancora senza titolo non ritrovi l’ispirazione perduta.

Gli stereotipi danno fastidio sempre, quando ci vanno a toccare in prima persona in quanto italiani sono ancora più fastidiosi e posso capire l’ulteriore disappunto dei romani come Verdone. Ma quali sono gli altri problemi del film? La questione fondamentale è che al di là della cornice idealizzata, stereotipata ecc., è proprio il film una fetecchiona. La sceneggiatura è imbarazzante. Mette insieme una serie di storielle degne di un cinepanettone. O di una barzelletta. E a tratti, To Rome With Love somiglia persino a una puntata dei Cesaroni, e pure di quelle scritte male. Ammesso e non concesso ne esistano di scritte bene. Siamo talmente dalle parti della fiction di Canale 5 che mi sono stupito di non vedere arrivare Matteo Branciamore da un momento all’altro a cantare “Sai cosa c’è…” poi non so più come va avanti. Che volete? Non sono mica un fan dei Cesaroni come Wudy Aia.
Non ci sarà Branciamore, almeno quello, ma le musiche utilizzate sono penose e fanno molto film di Pierino. Senza offesa per i film di Pierino.

"Alessandro, perché tutti mi chiamano cagna maledetta? Sai che vuol dire?"
"Chi io? Non ne ho la più pallida idea..."
Dicevamo comunque delle storielle messe insieme alla buona. La più agghiacciante, e chissà perché non ne sono stupito, è quella che vede come protagonisti gli attori italiani. Dai citati Cesaroni, ecco a voi Alessandra Mastronardi. Se Carla Bruni nel precedente Midnight in Paris era stata molto tagliata nel montaggio finale e compariva giusto per pochi secondi, riuscendo comunque a rimediare una figura barbina, qui la Cesarona ce la dobbiamo sorbire a lungo. E com’è la sua intepretazione? Terribbbile.
Con lei c’è anche Alessandro Tiberi che si vede che ha studiato la recitazione alleniana e ne propone una versione/imitazione italiana accettabile. Ebbravo lo stagista di Boris!
Parecchio spento Antonio Albanese, del tutto fuori parte come latin lover e super divo del cinema italiano, mentre convince Riccardo Scamarcio, che nella sua fugace apparizione arriva, tromba la bernarda della mastronarda e va via. Così si fa!
"Adoro il tuo social network, Mark. Ci passerei tutto il giorno..."
"Come devo ripetertelo che non sono Zuckeberg? Comunque ti addo agli amici!"
Nell’episodio compare inoltre la spagnola Penelope Cruz, ennesima “dea dell’amore” alleniana. Diciamo solo che la spagnola ha offerto prove migliori in film migliori.

La storiella (relativamente) più interessante e meglio recitata è invece quella con Mark Zuckerberg Jesse Eisenberg e Greta Gerwig. Lei gli presenta una sua amica attrice, Ellen Page, dicendogli che tutti gli uomini finiscono per innamorarsi di lei e anche lui naturalmente finirà per… innamorarsi di lei. D’altra parte, Ellen Page è la cosa migliore di questo film e il suo personaggio, per quanto anch’esso tratteggiato con enorme leggerezza, è l’unico raggio di sole in una Roma che qui appare cinematograficamente molto nuvolosa. Il personaggio “off” di un buon Alec Baldwin invece no, quello è davvero odioso. Una sorta di grillo parlante non richiesto che rompe le balle a Zuckerberg Eisenberg, alla Page e soprattutto allo spettatore.

"Va bene, Alec, ti taggo insieme a me!"

"Alec, eddaje! Vuoi essere taggato pure qua?"

"Woody sta guardando dall'altra parte? Io allora mi do' alla fuga!"
La storiella di Roberto Benigni è quella nelle intenzioni più “profonda”. Una riflessione su come oggi si possa diventare famosi per niente. Qualcuno ha detto Paris Hilton?
Bella l’idea, che forse sarebbe stata più efficace per un cortometraggio, realizzazione stancante, con un Benigni che per un paio di minuti fa anche ridere, subito dopo stufa. Che poi, il tema della celebrità è una costante in tutte le vicende, peccato sia trattato in una maniera davvero superficiale e non dice fondamentalmente niente di nuovo sull’argomento.

"Bravo Cannibal. Sul post non siamo molto d'accordo,
però sulla Mastronardi come darti torto?"
Un’altra storiella di questo puzzle di ispirazione boccaccesca (il titolo iniziale del film era Bop Decameron) vede impegnato lo stesso Woody Allen, di rientro davanti alla macchina da presa, ed è l’unico che azzecca 1 battuta 1 in tutto il film, quando va dai genitori del fidanzato della figlia, che hanno una ditta di onoranze funebri, e dice: “Abbiamo seguito il primo carro funebre e l’abbiamo trovata”. Per il resto, come detto dal bianco rosso Verdone, più che ridere se piagne.
Al di là di questo unico momento ilare della pellicola, la storiella è di quelle talmente ridicole da poter risultare geniali, se solo fossero affidate a uno Spike Jonze o a un Michel Gondry, non a questo spento Woody Allen. Il padre del futuro marito di sua figlia (una sprecatissima Alison Pill) è un tipo che sotto la doccia, e solo sotto la doccia, si rivela un cantante lirico alla Pavarotti, Caruso o Bocelli. Tanto per non farci mancare pure questo stereotipo italiota. E così Allen lo incoraggia a esibirsi a teatro… sotto la doccia.
Uno spunto grottesco potenzialmente interessante che si risolve, come tutto il resto del film, in farsa. Anche se a me è sembrata più che altro una tragedia.

Non so se gliel’hanno gridato a Roma, nel caso rimedio io:
ah Wood Alien, ma vedi di andare a pijartelo 'nder cu..
(voto 3/10)

mercoledì 6 giugno 2012

A.C.A.Z. (All Celerinis Are Zozzis)

A.C.A.B. All Cops Are Bastards
(Italia, Francia 2012)
Regia: Stefano Sollima
Cast: Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini, Andrea Sartoretti, Domenico Diele
Genere: celerino
Se ti piace guarda anche: Polisse, This is England, The Shield, Diaz,Scialla

Celerino, figlio di puttana.
Non sto cercando di insultare nessuno. È solo che questa cantilena, questo coro da stadio, è la cosa che più rimane impressa in testa finita la visione di A.C.A.B.. Quando un film si fa ricordare solo, o quasi, per una cosa del genere, per un inno da ultras, fate voi se entrerà nella storia del cinema…
A.C.A.B. prende il titolo in prestito da una canzone dei 4-Skins, gruppo di punk skinheads degli anni ’80, un inno più o meno nazi contro i poliziotti bastardi (anche in questo caso non sto cercando di insultare nessuno, lo dice la canzone e pure il titolo del film).


Il giro di basso del pezzo è simile a quello di “Seven Nation Army” dei White Stripes, usata a inizio pellicola e che suona quasi come una sigla. Cosa interessante, perché A.C.A.B. potrebbe essere la puntata pilota piuttosto valida di una serie tv. Quello che manca invece è l'odore del cinema vero. Con questo non voglio intendere che le serie televisive siano di serie B rispetto ai films. Assolutamente no. Chi mi conosce lo sa, non sono più carabiniere. E, citazioni di Alberto Tomba a parte, chi mi conosce lo sa che adoro i telefilm.
Però c’è differenza tra i due mezzi. A.C.A.B. suona come la premessa per qualcos’altro. Introduce i personaggi, nessuno particolarmente memorabile comunque, ce li fa incontrare, ci fa stringere la loro mano, ma non riusciamo a conoscerli davvero fino in fondo. Non riusciamo ad avere una vera conversazione con loro. Solo un veloce scambio di battute. Rimangono stranieri che intravediamo di sfuggita e che poi se ne vanno senza lasciare un segno nelle nostre vite. Per questo dico che come pilot potrebbe funzionare. Stuzzica un po’ di curiosità e lascia intravedere degli sviluppi che eventualmente potrebbero portare a una serie tv valida. Eventualmente. Se l’apertura è da sigla tv, anche la chiusura sospesa sulle note cool dei Kasabian lascia presagire a qualcosa che verrà dopo, a un secondo episodio. Non essendo l’episodio pilota di un telefilm, come pellicola a sé stante lascia invece parecchio perplessi.
Non è un caso allora che il regista esordiente nel cinema Stefano Sollima arrivi proprio dall’esperienza di Romanzo Criminale - La serie, che non starò a commentare visto che ho visto soltanto l’episodio pilota, non mi ha entusiasmato e poi l’ho abbandonata. Un Sollima che a livello visivo se la cava anche bene, peccato che al suo film manchi qualcosa. Cosa? Manca il film.

"Giocate tranquilli, Azzurri, ma se fate pena agli Europei ve famo un culo così!"
A.C.A.B. ha spezzato in due il pubblico e la critica, tra chi l’ha esaltato come grande novità per il cinema italiano, finalmente una pellicola coraggiosa e moderna, e chi l’ha bollato come una boiata assoluta, una visione stereotipata del corpo di polizia, uno pseudo documentario sulle forze dell’ordine o poco più.
Questa volta mi tocca fare la Svizzera neutra della situazione, benché odi farlo, e tenderei a sminuire sia gli entusiasmi degli uni che le critiche feroci degli altri.
Di nuovo, fondamentalmente, in questo film non c’è niente. Per il cinema italiano vecchio non come la politica italiana, ma quasi, capisco che possa anche apparire come qualcosa di moderno o quantomeno al passo coi tempi, però il confronto con ad esempio il ben più vitale cinema francese di oggi è impietoso. Polisse ad esempio parte da un assunto parecchio simile, quello di raccontare in maniera nuda e cruda, senza filtri né censure, la vita di un corpo di polizia. In quel caso l’Unità di Protezione dei minori di Parigi, in questo caso i celerini (figli di puttana) di Roma.
Ma chi o cosa è un celerino (figlio di puttana)? Meglio chiedere a Wikipedia per una risposta precisa ed esauriente.

“Celerino è il nome tradizionale degli agenti della Polizia di Stato impegnati nelle operazioni di ordine pubblico. Il nome deriva da "la Celere", ovvero l'insieme dei "Reparti Celeri" autotrasportati di Pubblica Sicurezza istituiti nell'immediato dopoguerra dal ministro Giuseppe Romita adibiti al pronto intervento (da cui il nome) di piazza. Oggi questo servizio viene svolto dai Reparti Mobili della Polizia di Stato.”


"Occhio, Cannibal, che se fai il furbo ce n'è anche per te!"
Se Polisse riesce a rendere a 360° non solo la vita professionale ma anche gli aspetti personali dei suoi vari protagonisti, lo stesso non si può dire di un ACAB che se la cava ancora ancora nel raccontare la dimensione lavorativa degli sbirri, ma fallisce ampiamente nell’offrire un vero spaccato sul piano personale. Ci sono un sacco di stereotipi, che non metto in dubbio siano anche veri, come le simpatie nazi-fasciste (ma This Is England era tutt'altra cosa), il tipo che si sposa con la cubana, l’altro tipo che cerca l’aiuto di un politico del PDL (cosa che probabilmente impedirà al film di passare mai su Mediaset), però è tutto raccontato in maniera superficiale. Anche gli stessi legami tra i celerini non sono poi così definiti. Si parla tanto di spirito di squadra e di attaccamento ai valori (quali?), ma il momento di unione maggiore è giusto quello di un episodio di nonnismo goliardico.

Cercando invece tra gli aspetti positivi, i personaggi non prendono vita del tutto, è vero, eppure lasciano la voglia di scoprire qualcosa in più su di loro. Su tutti spicca soprattutto il celerino perennemente incazzato interpretato da Pierfrancesco Favino, attore che sto rivalutando negli ultimi tempi, ma anche gli altri non sarebbero poi così male, in bilico come sono tra l’essere dei veri inglorious basterds e il cercare di tirare avanti dignitosamente con le loro vite. Sono sbirri stile The Shield all’amatriciana che sfogano le proprie frustrazioni personali sul lavoro, eppure hanno anche qualche lampo di umanità e di senso della giustizia che in qualche distorto modo ogni tanto viene fuori. Personaggi certo non positivi eppure nemmeno del tutto negativi, personaggi quindi sfaccettati e vivi che avrebbero avuto solo bisogno di un maggior approfondimento.

Già pronto il sequel del film...
Il film di Sollima, tratto dall’omonimo libro del giornalista Carlo Bonini e l'approccio giornalistico se sente, non riesce a trovare una via del tutto sua. Tra tentazioni di un approccio documentaristico contrapposto a un approccio spettacolare, finisce per prendere una via spesso più videoclippara che cinematografica e soprattutto rischia in diversi punti di finire nel cronachistico, con troppi riferimenti all’attualità (ormai non più così attuale), dal caso Reggiani alla morte di Gabriele Sandri. Così come anche un’altra produzione italiana recente come Romanzo di una strage (Diaz invece devo ancora vederlo), non riesce a trasformare la cronaca in grande cinema, appiattendosi quando va male su stilemi ancora troppo vicini alle fiction nostrane, oppure  quando va bene agli speciali di Mtv News, peraltro alcuni, come quello sui ragazzi terremotati di L’Aquila, più interessanti di questo ACAB.

Pur con vari limiti e difetti e pur avendomi lasciato con una sensazione di ennesima occasione fallita per il cinema italiano, l'esordio di Sollima è comunque una visione che vale la pena di affrontare ed è in grado di fornire qualche spunto di riflessione. In più, una bella scena ce la regala pure, grazie al pogo liberatorio di Favino sulle note di “Police On My Back” dei Clash.
Anche se la “canzone” che rimane impressa nella testa alla fine è un'altra…
Celerino, figlio di puttana.
(voto 5,5/10)

martedì 20 marzo 2012

Coriolanus: Voldemort in love

"Harry Potter, piccolo nerd, prima o poi ti ammazzerò!"
Coriolanus
(UK 2011)
Regia: Ralph Fiennes
Cast: Ralph Fiennes, Gerard Butler, Vanessa Redgrave, Jessica Chastain, Lubna Azabal, Brian Cox, James Nesbitt, Ashraf Barhom
Genere: Shakespeare 2.0
Se ti piace guarda anche: Il gladiatore, The Hurt Locker, La donna che canta

Quando la sceneggiatura te l’ha scritta un certo William Shakespeare, tutto diventa più facile.
Il Bardo, o meglio il Brigitte Bardo, Bardo è infatti una garanzia. Sia per quanto riguarda le comedy che per quanto riguarda il drama. Se fosse in circolazione oggi risolverebbe i problemi di creatività di molte serie tv.
In questo caso di drama si tratta e quindi sapete già cosa aspettarvi anche perché chi, meglio di lui, sa fare il drama? Rapporti conflittuali tra genitori e figli, forti rivalità, interessanti risvolti politici, scene epiche a iosa, sete di vendetta, personaggi dalla forte personalità che portano fino alle estreme conseguenze le loro convinzioni... In Coriolanus c’è tutto questo e anche di più.

Partivo un po’ scettico nei confronti del Ralph Fiennes, qui alla sua prima prova nelle vesti di regista.
Come attore infatti mi sta proprio qua (sto indicando lo stomaco, non le palle, preciso). Ho adorato il suo Lenny Nero in Strange Days, è vero. In Schindler’s List era un bastardo con i controcoglioni, è vero. Infatti non ho detto che mi sta sulle palle. Mi sta solo sullo stomaco.
Fiennes mi risulta infatti difficile da digerire anche con un doppio giro di ammazzacaffè per via di alcuni film insopportabili come Il paziente inglese e per la sua parte di Voldemort nella saga di Harry Potter. Un cattivo davvero ridicolo, non so se per colpa sua o proprio del personaggio.
E poi come fratello si ritrova Joseph Fiennes, un altro fissato con Shakespeare, meglio se è in love. Peccato solo che sia uno degli attori più scarpe, anzi shoes, dell'intero Regno Unito.


"Li mortacci, sei più bona de er Hermione!"
In ogni caso, per questo esordio dietro la macchina da presa Ralph Fiennes si è avvalso di una troupe e di un cast eccelsi, dal direttore della fotografia di The Hurt Locker, con cui questo Coriolanus condivide un crudo realismo bellico, a una serie di attori che definir notevoli è far poco.
Come personaggi minori si è preso un ottimo Brian Cox e una ancor più ottima Lubna Azabal, già intensa protagonista de La donna che canta in versione sindacalista guerriera. Come la Camusso?
No, ho detto guerriera.
Come rivale del suo Coriolanus si è quindi preso Gerard Butler, non convincente al 100 per 100, invero.
Come moglie del suo Coriolanus, mica scemo il Fiennes, s’è preso Jessica Chastain. Come al solito perfetta e che continua a non sbagliare una pellicola. È vero che la sua carriera è fatta di un numero ancora esiguo di titoli, ma tutti oscillano tra l'almeno sufficiente e il capolavoro. Se vogliamo trovare un difetto a questo film, va detto che c’è troppo poca Jessica Chastain. Però oh, la sceneggiatura l’ha fatta 'sto Shakespeare, quindi non è che si potesse ampliare di più la sua parte. Chissà, se ai tempi il Bardo avesse saputo che in futuro la moglie di Coriolanus sarebbe stata interpretata da Jessica Chastain, magari avrebbe regalato al personaggio qualche battuta in più. Comunque…
Come madre del suo Coriolanus, Fiennes si è quindi accaparrato Vanessa Redgrave. Nonostante la presenza della Chastain, la migliore del lotto in questo lotto, va detto, è la Redgrave. Davvero impressionante la sua prova.
Bravino, sebbene con qualche momento enfatico di troppo, pure lo stesso Ralph Fiennes, che per sé si è ritagliato solo la parte del... protagonista assoluto. Per l’occasione, l’attore ora anche regista ha sfoggiato un duplice look: quello da pelato bastardo stile Voldemort e poi quello da capellone alla Gesù Cristo, ma per lo più sfoggia il primo, meglio se con la capa insanguinata.

Se tutto, o quasi, va per il meglio in questo suo esordio da regista, Ralph Fiennes lo deve soprattutto al Bardo. La scelta compiuta è stata quella di attualizzare il suo Coriolano in un contesto contemporaneo, ma mantenendo i dialoghi shakespeariani in maniera del tutto fedele. La vicenda viene dunque spostata nella Roma attuale. O meglio, in una Roma attuale che non corrisponde alla vera Roma alemanniana del presente.
Più che altro, è una versione di oggi di Roma se fosse ancora a capo del Sacro Romano Impero. Cosa che, per quanto le mie conoscenze storiche possano essere approssimative, non credo sia più da parecchio, parecchio tempo. È una Roma strana, quindi. Una Roma straniante, li mortacci der Fiennes. Ma è anche una Roma molto shakespeariana e per questo affascinante. Charming.

I dialoghi sono ripresi pari pari e pure la storia è la stessa concepita dallo Shakespeare: Caio Marzio si batte valorosamente in guerra e diventa un eroe cittadino mejo der Totti de’ na vorta, quello dello scudetto 2000-2001. È talmente decisivo nello sconfiggere l’esercito dei Volsci capitanato non da Paolo Di Canio, bensì dall’ex spartano Gerard Butler, che dopo la battaglia nella città di Corioli gli viene affibbiato il soprannome di Coriolano. Non il massimo, ma sempre meglio di Pupone…
Da lì, il passo dall’esercito alla politica è breve. Per Caio Marzio, intendo. Non per Totti. Non ancora, almeno, anche se per il futuro non lo escluderei del tutto. Dopo tutto, potrà mica far peggio der Trota?
L’aspetto più interessante del personaggio di Caio Marzio è che, pur essendo uno stronzone di prima categoria, non è un lecchino. Non è un ruffiano che per piacere al popolo decide di mentire o fare il piacione. Non si comporta in pratica come il classico politico nella Roma de oggi, porcoddue!
È un personaggio crudele, spietato, fortemente negativo eppure ricco di sfumature, di quelli che solo i grandi autori, per quanto prendendo ispirazione dal Caio Marzio realmente esistito, riescono a sfornare e a rendere con tanta forza. Yo, it’s Shakespeare, bitches.
La sua incapacità a piegarsi ai bisogni e ai voleri della politica porterà quindi Coriolanus a uno scontro sia con il popolo che con la propria famiglia, ma adesso mi sono rotto di parlare della trama e poi non è che vi devo stare a raccontare tutta la storia. Guardatevi il film o recuperatevi le parole del Bardo.

Ok, questa scena forse è più stalloniana che shakespeariana...
Storia, dialoghi e personaggi, come visto, sono davvero notevoli. La fedeltà di Fiennes a Shakespeare è apprezzabile e contemporaneamente è anche il limite maggiore della sua opera prima.
Lo sceneggiatore chiamato ad adattare il Bardo per questo film è John Logan, già dietro gli script de Il gladiatore, The Aviator, Hugo Cabret, Ogni maledetta domenica e un sacco di altri film, alcuni più riusciti altri meno, ma comunque tutti sempre piuttosto classici, tradizionali e impeccabili. Sarà per l’enorme mole di lavoro che si ritrova (5 sceneggiature tra le mani nel 2011, 2 previste nel 2012), ma il Logan qua ha fatto il suo compitino per portarsi a casa lo stipendio e nulla più.
Ha pensato, senza nemmeno avere tutti i torti, di sfangarsela facendo un semplice copia e incolla da Shakespeare, cercando di attualizzarlo giusto un minimo. Il suo lavoro di adattamento sarebbe potuto essere fatto in maniera parecchio più accurata. Ad esempio si poteva cercare di rendere il meccanismo politico più vicino a quello attuale, visto che Caio Marzio passa dall’essere eletto console all’essere bandito dalla città, entrambe le volte a furor di popolo, nel giro di appena un’ora. Si poteva giocare di più anche con i meccanismi televisivi, considerato come una delle scene più intense veda Caio Marzio partecipare proprio a un talk-show. Si poteva magari inserirlo nel contesto di un reality-show… Ehm, no. Questo meglio di no.
Si poteva creare, volendo, anche una cornice più pop, come fatto in maniera strabiliante da Baz Luhrmann con il suo Romeo + Juliet. Forse era chiedere troppo però, volendo proporre un Coriolano moderno, allora tanto valeva renderlo ancora più attuale e contemporeaneo. E chissà che non nasca, tra questo film, il Cesare deve morire dei Taviani e il pessimo Anonymous, un nuovo revival cinematografico del Bardo come negli anni '90...
Comunque va bene così. Ralph Fiennes non possiede ancora uno sguardo del tutto personale ma se non altro, per essere alla sua opera prima, se la cava più che dignitosamente.
Anche se, certo, se alle spalle hai un testo di tale livello firmato da un certo Shakespeare, tutto diventa più facile…
(voto 7-/10)

martedì 16 agosto 2011

18 anni - Er monno a mi fette

Diciottanni - Il mondo ai miei piedi
(Italia 2011)
Regia: Elisabetta Rocchetti
Cast: Marco Rulli, Elisabetta Rocchetti, G-Max, Marco Iannitello, Nina Torresi, Rosa Pianeta, Alessia Barela
Genere: teen de’ noantri
Se ti piace guarda anche: un film di e/o con Silvio e/o Gabriele Muccino

Ho visto questo film qualche tempo fa grazie alla proiezione sul sito MyMovies, che spesso organizza delle anteprime online live, a volte interessanti, altre meno. In questo caso il grazie si dice giusto per educazione, visto che non ci ha regalato certo un capolavoro indimenticabile… Ma di cosa parla questo film che dal titolo fa venire in mente immagini mocciane?

Ludovico ha 18 anni.
“Ma va? Dal titolo non l’avremmo mai detto, Cannibal…”
Ok, fatemi finire: Ludovico ha 18 anni e il mondo ai suoi piedi.
“Cazzo, Cannibal, dicci qualcosa che non sappiamo!”
Beh, non è che ci sia poi molto altro da dire su questo film.
Ludovico (quello di 18 anni e con il mondo ai suoi piedi) è orfano, vivo con lo zio, ed è pieno di soldi lasciatigli in eredità dai genitori. Con il suo fascino da Scamarcio 2.0 (non a caso l’attore ha interpretato la parodia del suo Step di 3MSC in Ti stramo di Pino Insegno), Ludovico si fa un sacco di tipe di un po’ tutte le età, comprese l’amante di suo zio, la mamma del suo migliore amico e la fidanzata del suo migliore amico. La cosa più assurda del film è che nonostante gli scopi la madre e la ragazza, il tipo rimane comunque il suo migliore amico!!! O è una cosa del tutto inverosimile, oppure questo ragazzo è destinato a diventare Santo subito prima di Karol Wojtyla (che per ora, a quanto ne so, è solo Beato… tra le donne?).

Yo, anzi ao': c'è anche G-Max dei Flaminio Maphia!
Il film è stato girato presumibilmente con pochi, pochissimi soldi, una telecamera digitale prestata da un amico, e una sceneggiatura costruita da una serie di dialoghi tra l’imbarazzante e l’imbarazzato. Nonostante le battute non proprio degne di note, il cast se la cava, in particolare i giovani: il protagonista Marco Rulli regge più o meno decentemente per tutto il film, in un piccolo ruolo c’è la piccola grande Nina Torresi (di cui mi ero innamorato vedendo La bellezza del somaro di Sergio Castellitto), e pure G-Max (sì, proprio uno dei Flaminio Maphia, quello più in carne) nei panni dello zio cocainomane del protagonista risulta alquanto credibile.
Nonostante il film sia fatto veramente di niente, sarà per la (per me) sempre simpatica parlata romanesca, ma comunque si lascia vedere fino alla fine con un numero di sbadigli ancora accettabile. Certo che il finale è davvero terribile, proprio tanto brutto. Però non me la sento di infierire troppo, anche perché all’interno del panorama italiano non è un prodotto così da buttare (Moccia sa regalarci di molto peggio) e poi Elisabetta Rocchetti (anche attrice) è all’esordio alla regia, un minimo di potenziale sembra possederlo e il suo sguardo sulla gioventù romana qualche spunto di riflessione lo offre.
Per curare i dialoghi del suo prossimo film però mi offro volontario io: così almeno se proprio bisogna scadere nel trash lo facciamo per bene, ok?
(voto 4+)

martedì 14 dicembre 2010

Aspettando meteoriti

Julian Assange verrà liberato su cauzione, unica notizia positiva di una giornata che nemmeno un horror

e sperare che domani ci colpisca un meteorite

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