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martedì 19 maggio 2020

Qui, qui non è Hollywood


Hollywood
(miniserie)
Creata da: Ryan Murphy, Ian Brennan
Cast: David Corenswet, Jeremy Pope, Darren Criss, Laura Harrier, Jake Picking, Samara Weaving, Joe Mantello, Jim Parsons, Patti LuPone, Holland Taylor, Dylan McDermott, Mira Sorvino, Mauda Apatow, Queen Latifah, Michelle Krusiec


Lo dico subito, così potete incazzarvi con me subito: non mi ha convinto un granché, la miniserie Hollywood. Dico anche un'altra cosa subito: io sono un fan di Ryan Murphy, quindi non ho intenzione di attaccarlo. Produce, scrive, dirige, crea, distrugge talmente tante cose che alcune volte ci prende, altre meno. Spesso divide in maniera estrema. Nip/Tuck per esempio per alcuni era troppo trash e forzatamente provocatorio, per me ha cambiato radicalmente il volto alla TV contemporanea, a colpi di chiurgia estetica ma soprattutto grazie a delle trovate coraggiose e rivoluzionarie.

domenica 12 ottobre 2014

AMERICAN HORROR STORY: BOWIE SHOW





American Horror Story: Freak Show
(serie tv, stagione 4, episodio 1)
Con la nuova, quarta stagione, American Horror Story ha finalmente gettato la maschera e mostrato la sua vera natura. Più che una serie tv qualunque, è un Freak Show. L'aspetto più importante della creatura di Ryan Murphy non è tanto la narrazione, quanto mettere in scena uno spettacolo di attrazione, un circo capace di far esclamare: “OOOH!” al pubblico. Il primo episodio ne è stato un esempio lampante. Quanto capiterà nel corso del resto della stagione non è ben chiaro, però si è trattato di uno show che ha messo vari singoli momenti e svariati personaggi bene in mostra. Vediamo quali.


venerdì 6 giugno 2014

THE NORMAL HEART, UN CUORE MICA TANTO NORMALE




The Normal Heart
(USA 2014)
Regia: Ryan Murphy
Sceneggiatura: Larry Kramer
Ispirato all’opera teatrale: The Normal Heart di Larry Kramer
Cast: Mark Ruffalo, Matt Bomer, Julia Roberts, Taylor Kitsch, Jim Parsons, Alfred Molina, Jonathan Groff, Joe Mantello, Stephen Spinella, Adam B. Shapiro, Denis O’Hare, Finn Wittrock, Rob Tunstall, Corey Stoll
Genere: gay
Se ti piace guarda anche: Dallas Buyers Club, Milk, Dietro i candelabri, Looking

Pensate alla cosa più gay che avete mai visto.
Vi si ripropongono davanti agli occhi gli abiti e l’arredamento di casa Liberace in Dietro i candelabri?
State pensando a una maratona di episodi delle serie tv Looking e Queer as Folk?
O a Valerio Scanu con i boccoli biondi alla Lady Oscar?
O magari proprio a Lady Oscar?
O vi viene per caso in mente la guida galattica alle boy band di Pensieri Cannibali?
In ogni caso prendete tutte queste cose insieme, moltiplicatele per mille e non sarete andati nemmeno vicini alla cosa più gay che ho visto io: la prima scena di The Normal Heart.
I primi 5 minuti del nuovo film tv della HBO The Normal Heart sono quanto di più omosessuale si possa immaginare. Lo dico in senso positivo. Guardando i personaggi della pellicola che se la spassano mi è venuto il rimpianto di non essere un gay all’inizio degli anni Ottanta, quegli anni di rivoluzione sessuale in cui tutti scopavano con tutti liberamente, senza legami e senza problemi.
Perché mi piace la figa? Perché???
È una maledizione! Sarei potuto essere così felice, come gay e in particolare come gay all’inizio degli anni Ottanta.

Questo per quanto riguarda i primi 5 minuti di film, poi entra in scena il dramma ed essere gay negli anni Ottanta non appare più soltanto nei suoi risvolti tutti rose e fiori. In scena compare ciò che all’inizio di quel decennio veniva chiamato “il cancro dei gay” e successivamente diventerà noto come AIDS.
AIDS?
Hey, Pensieri Cannibali si sta per occupare di un argomento serio?


La pellicola va a indagare in una pagina parecchio oscura e misteriosa, quella dell’origine del virus. Nel 1981 cominciano i casi inspiegabili di morti all’interno della comunità omosessuale e nessuno capisce il perché o il per come la malattia si diffonda. La dottoressa sulla sedia a rotelle Julia Roberts suggerisce loro a questo punto di evitare orge e sesso promiscuo, ma viene vista come una repressa sessuale e in pochi le danno ascolto. Negli anni successivi si cerca di capirne di più, solo che il governo degli Stati Uniti non fa nulla per studiare la malattia. Sembra quasi un complotto per eliminare tutti i gay dalla faccia della Terra e l’amministrazione del conservatore bigotto yuppie repubblicano Ronald Reagan comincerà a interessarsi al problema soltanto quando a essere colpiti dal virus saranno pure uomini e donne eterosessuali.

La vicenda raccontata in The Normal Heart a grandi linee è questa ed è parecchio interessante anche e soprattutto per chi come me è nato nel 1982 ed è cresciuto con la consapevolezza che l’AIDS c’era e basta, senza sapere come ha cominciato a diffondersi. Al di là della ricostruzione storica, medica e pure politica, in cui il film si avvicina alle parti di Milk di Gus Van Sant, la carta vincente di questa bella pellicola tv HBO, che come Dietro i candelabri non ha nulla da invidiare alle produzioni per il grande schermo, è il suo cuore. Il suo normal heart. In più momenti la pellicola sa emozionare e lo fa per merito di una serie di interpretazioni magistrali di attori in stato di grazia che riescono a dare vita a dei personaggi pieni di vita (la ripetizione è voluta, bitches!).

"The streets of Philadelphia...
Ah, come? Siamo a New York?"
Una nota di merito particolare va a Mark Ruffalo, protagonista principale che porta sullo schermo Ned Weeks, uno scrittore che si batte in maniera molto sentita per sensibilizzare un’opinione pubblica e un governo cui del problema dell’AIDS pare non fregare un tubo. Mark Ruffalo che una decina d’anni fa appariva ovunque, dal cinema d’autore (Se mi lasci ti cancello, In the Cut) alle commedie romantiche (Se solo fosse vero, 30 anni in un secondo) ai thrilleroni (Collateral, Zodiac) e sembrava destinato a diventare una delle più grandi star che Hollywood avesse mai avuto e poi invece, come accade a un sacco di attori, non è mai esploso del tutto. Questo ruolo televisivo molto intenso (in alcune scene forse persino troppo) potrebbe rappresentare una svolta per la sua carriera, così come per quella di Taylor Kitsch che fa dimenticare i dimenticabili ruoli da macho in flopponi come John Carter e Battleship per tirare fuori un inaspettato e molto credibile ruolo da gay. Bravissimi poi anche attori noti soprattutto al pubblico delle serie tv come Jim Parsons, lo Sheldon Cooper di Big Bang Theory, e Matt Bomer, il bellone di White Collar che qui dà tutto se stesso, con una trasformazione fisica degna di Christian Bale.

In mezzo a tanti lui c’è poi una lei, la divina Juliona Roberts che, dopo la pazzesca interpretazione ne I segreti di Osage County, giganteggia un’altra volta. Che le è successo?
Probabilmente ha cominciato a prendere le stesse droghe di Matthew McConaughey, visto i due che sono passati dal titolo di reuccio e reginetta delle commediole romantiche al diventare un attore come Dio comanda e un'attrice della Madonna.

"Già sono tutti gay, in più sono su una sedia a rotelle e poi mi hanno pure imbruttita.
Le mie probabilità di chiavare in questo film le vedo un po' bassine..."

"Per favore, aiutatelo:
ha appena scoperto che Sex & the City non andrà mai più in onda!"
E perché invece tanti attori, soprattutto negli ultimi tempi, si stanno cimentando in pellicole a tematica gay?
Chiamatelo "effetto Brokeback Mountain". Quel film ha rappresentato una svolta a Hollywood, facendo poi avvicinare attori dalla forte identità etero come Michael Douglas e Matt Damon e in questo caso Mark Ruffalo e Taylor Kitsch a parti omo.

A firmare la regia c’ha pensato uno che nella tematica gay c’ha sempre sguazzato e che qui ha avuto il modo di metterci dentro se stesso al 100%. Sto parlando di Ryan Murphy, l’autore delle serie Nip/Tuck, American Horror Story, Glee, Popular e The New Normal, che come regista firma la sua opera più personale e riuscita, dopo i poco convincenti Correndo con le forbici in mano e Mangia prega ama. Il suo stile mi ricorda un po’ quello di Gabriele Muccino e, prima di considerarlo un insulto, preciso che sembra una versione gay del Muccino migliore, quello dei primi tempi, quello delle sue pellicole italiane, prima che si sputtanasse a Hollywood con una serie di lavori uno più terrificante dell’altro. Come quel Muccino, il Muccino quando era magro, Murphy utilizza riprese vorticose, tiene alto e concitato il ritmo per quasi tutte le oltre 2 ore di durata, spinge i suoi attori sempre al limite del melodramma, a tratti in maniera eccessiva, ma sempre intensa. The Normal Heart è proprio così: intenso, super gaio, esagerato, troppo lungo e con al suo interno troppi temi e troppi personaggi, eppure allo stesso tempo non si fa mancare l’elemento più importante in grado di fare da collante al tutto. Un cuore normale? No, un cuore eccezionale.
(voto 7,5/10)

sabato 1 febbraio 2014

AMERICAN HORROR STORY: IL COVEN DELLE STREGHEN




American Horror Story: Coven
(Serie tv, USA 2013-2014)
Rete americana: FX
Reti italiane: Fox, Deejay Tv
Creata da: Ryan Murphy, Brad Falchuk
Cast: Jessica Lange, Sarah Paulson, Taissa Farmiga, Emma Roberts, Gabourey Sidibe, Jamie Brewer, Lily Rabe, Kathy Bates, Denis O’Hare, Evan Peters, Angela Bassett, Danny Huston, Josh Hamilton, Patty LuPone, Lance Redick, Grey Damon, Alexandra Breckenridge, Stevie Nicks
Genere: stregonesco
Se ti piace guarda anche: The Secret Circle, Le streghe di Eastwick, Witches of East End, Streghe
(voto 7-/10)

Tremate, tremate, queste streghe sono delle figate.
American Horror Story: Coven è la versione perfida di Harry Potter, la versione figa de Le streghe di Salem, un The Secret Diaries + Streghe + Le streghe di Eastwick + Sabrina vita da strega + Willow di Buffy all’ennesima potenza. Una magia che vi fa rimanere incollati allo schermo chiedendone ancora! ancora!

Bene, questo è l’entusiasmo scatenato dalla visione del primo episodio. Il resto della stagione è stato invece via via sempre meno entusiasmante, per poi riprendersi con un finale che ha chiuso la vicenda delle streghette fighette in maniera magari non del tutto sorprendente ma comunque efficace e coerente.
Il problema di American Horror Story è sempre quello: parte a mille e finisce a mille, peccato che in mezzo inserisca di tutto e di più, finendo volentieri per perdersi in mezzo a tante idee e tanti personaggi. Se la prima stagione Murder House procedeva tra alti e bassi, la seconda Asylum era quella più equilibrata, con pochi episodi riempitivo (qualcuno però era comunque presente), e finora è anche quella che complessivamente possiamo considerare più riuscita. La terza stagione Coven è tornata a parlare il linguaggio della prima, con alcune puntate davvero esaltanti e divertenti, altre piuttosto inutili.
Insomma: c’è stato di che godere, nel corso della visione del Coven, ma allo stesso tempo resta addosso un pizzico di delusione perché non tutte le ottime premesse iniziali sono state portate a compimento da Ryan Murphy e dai suoi amichetti sceneggiatori della serie.
Tra alti e bassi, vediamo cosa ha funzionato di più e cosa di meno in questa American Horror Season con i miei personali Top e Flop.

TOP

Emma Roberts
È stata lei la streghetta più stronzetta della stagione, superando persino la Suprema Jessica Lange. Bitch witch.


Jessica Lange
Per quanto si sia fatta bagnare il naso dalla novellina Emma Roberts, pure lei c’ha regalato dei bei momenti. Meglio ancora: dei momenti supremi.


Il primo episodio
L’inizio di stagione è stato una bomba totale. Peccato solo che poi l’intera stagione non si sia mantenuta sugli stessi livelli…

L’ultimo episodio
Dopo l'ottimo pilot, il livello è caduto sempre più giù fino all’ultimo episodio che invece si è ripreso grazie alle sfide “Seven Wonders”, una versione stregonesca e in stile talent-show delle 12 fatiche di Asterix Ercole, e una degna, degnissima chiusura del cerchio per tutti i protagonisti della stagione o quasi.

Gabourey Sidibe e Jamie Brewer
Partite un po’ in sordina, le loro Queenie e Nan si sono rivelate delle witches oltre che singolari anche molto cazzute. Brave.


Balenciaga
Se si prende il titolo della serie alla lettera, American Horror Story può rivelarsi una delusione. Di horror nel senso di pauroso non è che ci sia molto. Il primo episodio della prima stagione era parecchio teso, per il resto non è che la faccia fare sotto dalla paura. American Horror Story è più una serie divertente che spaventosa e le battute e i riferimenti alla pop culture, così come alla moda (vedi alla voce Balenciaga), sono il tocco di classe in pieno stile Ryan Murphy che rendono ogni episodio, anche quelli più spenti, un bello spasso da vedere.



Stevie Nicks
Come in passato, anche quest’anno la colonna sonora di AHS ci ha regalato delle ottime cose. Stevie Nicks e i suoi Fleetwood Mac hanno monopolizzato forse un po’ troppo la soundtrack, però canzoni come “Seven Wonders”, “Rihannon” ed “Edge of Seventeen” sono suonate davvero perfette, così com’è stata spettacolare la metamorfosi dell’ottima Lily Rabe in sosia della Nicks da giovane.


E se invece le protagoniste del Coven fossero delle cantanti della scena pop attuale? Ecco qua un’immagine scovata in rete (grazie al sempre ottimo Baingiu), in cui viene suggerita qualche ipotesi. Sebbene io come Emma Roberts puttanpop della situazione avrei scelto Miley Cyrus.


Sarah Paulson
Dopo l’exploit nell’Asylum, questa stagione Sarah Paulson è apparsa a tratti sottotono e attapirata. Ma pure lei e il suo personaggio hanno saputo regalarsi e regalarci delle soddisfazioni e alla fine non posso fare a meno di inserirla tra le top witches.




FLOP

Taissa Farmiga ed Evan Peters
I loro personaggi sono la rappresentazione perfetta di cosa è andato storto in questa stagione. Partiti alla grandissima, con una storia che sembrava una versione strega + zombie di Romeo + Giulietta, si sono persi per strada e, da protagonisti quali parevano essere, sono passati a ricoprire un ruolo da comprimari piuttosto dimenticabili.


Kathy Bates
Kathy Bates nelle vesti della perfida razzista Delphine LaLaurie è stata parecchio inquietante, soprattutto nelle prime puntate. Poi il suo personaggio si è anch'esso ammosciato parecchio, così come il tema della schiavitù non è stato approfondito più di tanto.

Angela Bassett
La sua Marie Laveau sembrava dovesse spaccare il mondo e invece è rimasta sempre piuttosto in ombra e persino la supersfida tra le due congreghe di streghe black VS white si è trasformata in una bella delusione.


Episodi riempitivo
Troppi, troppi, troppi questa stagione. Troppi.

Denis O’Hare
Spalding poteva essere il personaggio cult della stagione. Invece è rimasto solo la copia poco divertente del maggiordomo di Scary Movie 2. Involontariamente ridicolo.


Danny Huston
Altro personaggio buttato via piuttosto che no: Axeman, il jazzista serial killer che sembrava dovesse affettare l’intera stagione e che invece si è rivelato solo di una noia mortale. Una noia che un certo altro personaggio dovrà sopportare solo per l’eternità...
Quanto alla quarta stagione di AHS, cambierà di nuovo tutto e sembra sarà ambientata negli anni '50. Si preannuncia un ritorno alle atmosfere retrò dell'Asylum?

venerdì 23 luglio 2010

Sasso carta forbici

Correndo con le forbici in mano
(USA, 2006)
Titolo originale: Running With Scissors
Regia: Ryan Murphy
Cast: Joseph Cross, Annette Bening, Brian Cox, Evan Rachel Wood, Alec Baldwin, Gwyneth Paltrow, Joseph Fiennes, Jill Clayburgh, Gabrille Union, Kristin Chenoweth

Rischioso, correre con le forbici in mano. Rischioso quanto girare un film da un libro best seller di culto di Augusten Burroughs. Ci ha provato, Ryan Murphy, il genio dietro a serie altrettanto cult come Nip/Tuck e il supersuccessone dell’ultima annata Glee. Sembrava anche essere l’uomo giusto, vista la sua famigliarità con la tematica gay e con la rappresentazione di personaggi strambi e al limite del borderline. Anzi, in questo caso proprio schizzati forti. Epperò la pellicola non convince appieno. Non si entra dentro la storia. I momenti in cui il montaggio cerca di accelerare il ritmo (alla Magnolia, film che tanti provano senza successo ad imitare) non si trasformano in accelerazioni nelle emozioni e si ha la sensazione che la pellicola non vada in nessuna direzione. D’altra parte anche Tim Burton sembrava l’uomo perfetto per rendere la schizofrenia di Alice nel paese delle meraviglie, e invece ha fallito miseramente.
Per fortuna non è così disastroso il risultato di Murphy, pure giustificabile, considerato come sia alla sua prima esperienza cinematografica e abbia ancora tanta pellicola da macinare. Presto ci sarà la possibilità di vedere se avrà fatto progressi, visto che è al timone del nuovo film con Julia Roberts e Javier Bardem “Mangia, Prega, Ama”. E poi va sottolineato che anche in tv il buon Murphy era partito in sordina, con il telefilm teen Popular, che offriva qualche spunto di interesse ma non era eccezionale, come al contrario saranno poi Nip/Tuck (una delle migliori serie dello scorso decennio) e Glee (una delle migliori serie del prossimo decennio).

Correndo con le forbici in mano è la storia (biografica, ma probabilmente anche un filetto romanzata) dell’adolescenza di Burroughs, cresciuto prima con la madre aspirante scrittrice fallita, e quindi nella casa del di lei strizzacervelli, uno di gran lunga più pazzo dei suoi pazienti: basti dire che crede che i suoi escrementi comunichino con Dio! Ambientato negli anni 70 (ma siamo lontani dalle bellezza della fotografia de Il giardino delle vergini suicide, Amabili resti o The Box), un classico racconto di formazione con tanto di prime esperienze sessuali e amicizie con gli altri membri della schizzata famiglia.
Il cast è notevole, ma non si impegna al massimo. Annette Bening è troppo sopra le righe, Evan Rachel Wood rimane la numero 1 ma il suo personaggio è troppo abbozzato, Gwyneth Paltrow non m’è mai piaciuta ma le va dato il merito di accettare piccoli ruoli da antidiva (qui come nell’altra folle famiglia dei Tenenbaum), Joseph Fiennes è in versione irriconoscibile anni 70 con tanto di baffoni ma dà l’ennesima conferma di essere un non-attore, Alec Baldwin un paio di anni più tardi farà il bis negli 70s con un personaggio simile nell’altrettanto incompiuto Lymelife.
Bella la colonna sonora, con la springsteeniana “Blinded by the light” in versione Manfred Mann e la sempre efficace “Year of the rat” di Al Stewart che spicca in una delle scene più azzeccate del film. Ma è solo un lampo, in un classico film che ha l’odore bruciante della grande occasione mancata.
(voto 5/6)

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