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lunedì 19 febbraio 2018

La forma dell'acqua, della poesia e di quell'altra c❤sa





La forma dell'acqua – The Shape of Water
Regia: Guillermo del Toro
Cast: Sally Hawkins, Doug Jones, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer, Michael Stuhlbarg



venerdì 26 settembre 2014

OH MY GOD!ZILLA





Godzilla
(USA, Giappone 2014)
Regia: Gareth Edwards
Sceneggiatura: Max Borenstein
Cast: Bryan Cranston, Juliette Binoche, Aaron Taylor-Johnson, Elizabeth Olsen, Ken Watanabe, David Strathairn, Sally Hawkins, Godzilla
Genere: mostruoso
Se ti piace guarda anche: Transformers, Pacific Rim, gli altri film su Godzilla

Un cantante non è un grande cantante senza grandi canzoni. Pensate ad Adele. Immaginate se dovesse interpretare dei brani scritti da Kekko dei Modà. Altroché Grammy. Vincerebbe una testata.
Lo stesso vale al cinema. Un attore non è un grande attore senza un grande personaggio da interpretare. Vedi Bryan Cranston nei panni di Walt White nella pluripremiata e pluritelegattata serie Breaking Bad e pensi che quell’uomo potrebbe fare di tutto. Quell’uomo si merita tutti gli Emmy ed Oscar del mondo. Quell’uomo è un attore fenomenale.
Poi vedi Bryan Cranston in Godzilla e pensi…
Va beh, ma quand’è che inizia Better Call Saul, lo spin-off di Breaking Bad?

Non che sia degna di un Razzie Award, però l’interpretazione di Bryan Cranston in Godzilla è decisamente anonima. Sembra un attore come tanti. E l’interprete di Walt White – Walt White, cazzo! – non può apparire solo come uno tra tanti.
Con quel parrucchino in testa a metà strada tra Nicolas Cage e Antonio Conte poi non si può vedere!


Sono partito da Cranston, ma il discorso può benissimo essere esteso all’intera pellicola. Pellicola?
Diciamo una rottura di balle durata due ore che parte con ritmi lenti e i soliti drammi famigliari che vorrebbero essere toccanti ma sanno solo di già visto e fino a qua sarebbe ancora una noia tollerabile. Nella seconda parte il film si trasforma invece nel classico action catastrofico, con scene tra Jurassic Park dei poveri (si fa per dire, visto che il budget della pellicola è di $160 milioni) e un film a caso di Michael Bay, giusto un po’ meno concitato e tamarro.
In mezzo a personaggi umani stereotipati e a creature mostruose (che poi il Godzilla del titolo compare meno degli altri due kaiju del kazzo), non sono riuscito a trovare un solo anche vago motivo per provare interesse nei confronti del film. Colpa mia?
Può darsi. O magari è colpa di un’industria che appiattisce tutto e produce una serie di prodotti per il grande pubblico uno uguale all’altro.

Sono partito da Godzilla, ma il discorso può benissimo essere esteso all’intera Hollywood. I grandi studios stanno attenti a ciò che accade intorno a loro. Seguono le pellicole indie, le serie tv più cool in circolazione, quello che capita nei Festival. Seguono tutto e cannibalizzano tutto. Prendono l’attore più fenomenale del piccolo schermo degli ultimi anni, Bryan Cranston, e lo mettono insieme a un paio tra i giovani più promettenti visti sul grande schermo di recente, il Kick-Ass Aaron Taylor-Johnson e la Elizabeth Olsen fenomenale di La fuga di Martha e Silent House. In più, a dirigere il tutto ci mettono Gareth Edwards, uno che con il suo film d’esordio Monsters aveva raccolto un sacco di elogi, assolutamente meritati.

"OOOH, quanto ce l'ha grosso, quel Godzilla...
ehm volevo dire, quanto è grosso, quel Godzilla!"

"OOOH, ce l'ha più grosso di Rocco Siffredi...
ehm volevo dire che è più grosso dei mostri di Pacific Rim!"

Hollywood fa così. Prende i grandi talenti del cinema “piccolo”, il cinema indie, e li fa giocare in serie A. Una serie A a livello di budget, di incassi e di visibilità che corrisponde però a una serie Z in termini di qualità. C’è da chiedersi perché prendere dei talenti del genere per trasformarli poi in dei mestieranti qualunque. Tanto vale a questo punto assumere direttamente un Michael Bay, che sai già che è scarso e il risultato (ai botteghini) te lo porta a casa comunque. Invece no. Per colpa di Hollywood, il Gareth Edwards sorprendente di Monsters al suo secondo film è già diventato l’ombra di se stesso.
Come, e ancora peggio, quanto capitato di recente ad altri promettenti giovani registi, il cui portafogli sarà anche stato profumatamente riempito, ma cui contemporaneamente è stata svuotata del tutto la creatività. Penso a Marc Webb, che all’esordio mi aveva folgorato con lo scoppiettante e delizioso (500) giorni insieme e poi se n’è andato a dirigere gli spenti e poco amazing reboot di Spider-Man. E penso a Neill Blomkamp, autore di una delle migliori pellicole sci-fi recenti, District 9, subito dopo chiamato a fare una banale marketta commerciale per il divo Matt Damon con il banale Elysium.

Tutti registi esordienti scoppiettanti. Tutti già scoppiati al secondo film. A Garreth Edwards è andata ancora peggio rispetto ai colleghi. Ha diretto senza personalità il classico blockbuster di cassetta. Peccato che le cassette ormai siano estinte e sarebbe bello se pure i mostri alla Godzilla lo fossero.
Quello che purtroppo non è estinto è il cinemone mostruoso dei mostroni giganti, dei Transformers, dei Pacific Rim e dei Godzilla. Purtroppo, a quanto pare è questo quello che vuole la ggente. È questo che vuole Hollywood. Solo, non è quello che voglio io.
(voto 3/10)

domenica 29 giugno 2014

IL DOPPIO VOLTO DI THE DOUBLE




Vi chiedo scusa fin da subito se ruberò qualche minuto del vostro prezioso tempo, ma oggi vorrei portare alla vostra gentile attenzione un film che mi ha molto colpito. The Double è l’opera seconda di Richard Ayoade, attore della serie The IT Crowd che aveva debuttato come regista con il folgorante Submarine, uno degli esordi più sorprendenti del cinema britannico e non solo degli ultimi anni. Scordatevi però le atmosfere hipster da Wes Anderson inglese di quella splendida pellicola, perché qui abbiamo tutto un altro mood. Qui siamo dalle parti di un incubo a occhi aperti, un incrocio tra il mondo malato di David Lynch e quello perverso di David Cronenberg, riletto però in una chiave più leggera, non troppo distante dalla visione di un Michel Gondry o di uno Spike Jonze. Senza dimenticarsi pure di aggiungere all'insieme un certo tocco alla Terry Gilliam e una punta di cignesco Darren Aronofsky. Qual è però la vera fonte di ispirazione principale del film?
The Double è liberamente tratto dal romanzo ottocentesco Il sosia di Fëdor Dostoevskij perché, ebbene sì, forse dal titolo potevate già averne il sospetto, viene qui affrontato l’eterno tema del doppio. Una vicenda grottesca dai contorni kafkiani da cui, nonostante tutti i confronti con i nomoni cinematografici e letterari finora menzionati, il giovane regista Ayoade, anche grazie al fratello di Harmony Korine Avi Korine che ha partecipato come co-sceneggiatore, ha tirato fuori una pellicola che si smarca da simili paragoni. I richiami importanti sono molti, questo è certo, eppure lui è riuscito a creare una dimensione sua, un universo parallelo dotato di una sua coerenza. E dotato di una sua bellezza.
In un cast in cui in vari ruoli minori troviamo molti attori del suo precedente Submarine, più il musicista J. Mascis dell’alternative-rock band Dinosaur Jr., a spiccare è soprattutto la splendida (doppia) prova recitativa del protagonista Jesse Eisenberg, proprio il Mark Zuckerberg di The Social Network, che riesce a caratterizzare bene due personaggi tanto identici a livello fisico tanto opposti in quanto a comportamento. Se nella parte del perfido cattivone James è convincente, a toccare le corde dell’anima è soprattutto la sua interpretazione di Simon, il povero Simon di cui nessuno si ricorda mai e che passa inosservato sotto lo sguardo dell’assurdo, folle mondo in cui vive. Il povero Simon che si sente come Pinocchio: solo un burattino e non una persona vera. Il suo amore per Mia Wasikowska, come sempre affascinante nel suo magnetico misterioso modo, è straziante. La sua vita è straziante. Se a livello visivo la pellicola è splendida ma non ancora al livello di un Lynch o di un Cronenberg dei tempi d’oro, il suo punto di forza sta in una grande, profonda umanità. Non importa allora che la tematica del doppio non sia così di primo pelo, The Double non parla soltanto al cervello, non conquista solo gli occhi, ma si rivolge soprattutto al cuore. Se non vi emozionerà almeno un pochino, mi scuso con voi ma ve lo devo dire: siete proprio delle persone malvagie.
Kid
(voto di Kid 9/10)


The Double?
E che è?
Quel thrillerazzo con Richard Gere di un paio di anni fa?
No? C’è un altro film che si chiama The Double? Cos’è, uno scherzo? Una pellicola che si chiama The Double ha un doppio?
Ah sì, ora ricordo. L’ho pure visto e non c’entra niente con quell’altro The Double. Questo me l’ha consigliato quello scimunito di Kid. Lui si commuove sempre per questi film stramboidi pseudo autoriali intellettuali del cazzo girati da qualche sconosciuto autore emergente britannico. Per lui The Double è stata una visione magnifica, originale, toccante…
Ma va a cagher, Kid! Vattelo a pigliare in quel posto, una buona volta!
The Double è il filmetto di un regista che si fa le seghe con le videocassette di David Lynch e David Cronenberg, senza però possedere la visionarietà del primo, né la crudezza carnale del secondo. È solo la storiella di Simon, un nerd sfigato stalker con la faccia del coglione che ha inventato Facebook, innamorato della Vaginoska, che ovviamente non riuscirà mai e poi mai a scoparsi. Chi riesce a farsela, e alla grande, è invece il suo doppio figo, ovvero James. Lui sì che è l’idolo del film, quello che mi ha fatto destare dal coma in cui ero caduto nella prima parte. Grazie al suo arrivo, la pellicola assume contorni da thriller avvincente. Non al livello del capolavoro dallo stesso titolo con il grande Richard Gere, ma se non altro sono riuscito ad arrivare a fine visione. Sveglio.
La prossima volta però ci penso bene prima di guardarmi un film sponsorizzato da quello sfigato di Kid. L’ultima pellicola decente che ha consigliato è stata Piranha 3D dove più che piranha c’era un sacco di patata. Un altro thriller-dramma kafkiano tratto da Dostoevskij invece col cazzo che me lo guardo!
Cannibal
(voto di Cannibal 5/10)


The Double
(UK 2013)
Regia: Richard Ayoade
Sceneggiatura: Richard Ayoade, Avi Korine
Ispirato al romanzo: Il sosia di Fëdor Dostoevskij
Cast: Jesse Eisenberg, Jesse Eisenberg, Mia Wasikowska, Wallace Shawn, Sally Hawkins, Paddy Considine, Chris O’Dowd, Craig Roberts, Noah Taylor, Cathy Moriarty, Phyllis Somerville, Yasmin Paige, James Fox, J. Mascis
Genere: grottesco
Se ti piace guarda anche: Mood Indigo – La schiuma dei sogni, Brazil, Inseparabili, eXistenZ, Il cigno nero
(voto di Cannibal Kid 7/10)

IL DOPPIO VOLTO DI THE DOUBLE




The Double?
E che è?
Quel thrillerazzo con Richard Gere di un paio di anni fa?
No? C’è un altro film che si chiama The Double? Cos’è, uno scherzo? Una pellicola che si chiama The Double ha un doppio?
Ah sì, ora ricordo. L’ho pure visto e non c’entra niente con quell’altro The Double. Questo me l’ha consigliato quello scimunito di Kid. Lui si commuove sempre per questi film stramboidi pseudo autoriali intellettuali del cazzo girati da qualche sconosciuto autore emergente britannico. Per lui The Double è stata una visione magnifica, originale, toccante…
Ma va a cagher, Kid! Vattelo a pigliare in quel posto, una buona volta!
The Double è il filmetto di un regista che si fa le seghe con le videocassette di David Lynch e David Cronenberg, senza però possedere la visionarietà del primo, né la crudezza carnale del secondo. È solo la storiella di Simon, un nerd sfigato stalker con la faccia del coglione che ha inventato Facebook, innamorato della Vaginoska, che ovviamente non riuscirà mai e poi mai a scoparsi. Chi riesce a farsela, e alla grande, è invece il suo doppio figo, ovvero James. Lui sì che è l’idolo del film, quello che mi ha fatto destare dal coma in cui ero caduto nella prima parte. Grazie al suo arrivo, la pellicola assume contorni da thriller avvincente. Non al livello del capolavoro dallo stesso titolo con il grande Richard Gere, ma se non altro sono riuscito ad arrivare a fine visione. Sveglio.
La prossima volta però ci penso bene prima di guardarmi un film sponsorizzato da quello sfigato di Kid. L’ultima pellicola decente che ha consigliato è stata Piranha 3D dove più che piranha c’era un sacco di patata. Un altro thriller-dramma kafkiano tratto da Dostoevskij invece col cazzo che me lo guardo!
Cannibal
(voto di Cannibal 5/10)


Vi chiedo scusa fin da subito se ruberò qualche minuto del vostro prezioso tempo, ma oggi vorrei portare alla vostra gentile attenzione un film che mi ha molto colpito. The Double è l’opera seconda di Richard Ayoade, attore della serie The IT Crowd che aveva debuttato come regista con il folgorante Submarine, uno degli esordi più sorprendenti del cinema britannico e non solo degli ultimi anni. Scordatevi però le atmosfere hipster da Wes Anderson inglese di quella splendida pellicola, perché qui abbiamo tutto un altro mood. Qui siamo dalle parti di un incubo a occhi aperti, un incrocio tra il mondo malato di David Lynch e quello perverso di David Cronenberg, riletto però in una chiave più leggera, non troppo distante dalla visione di un Michel Gondry o di uno Spike Jonze. Senza dimenticarsi pure di aggiungere all'insieme un certo tocco alla Terry Gilliam e una punta di cignesco Darren Aronofsky. Qual è però la vera fonte di ispirazione principale del film?
The Double è liberamente tratto dal romanzo ottocentesco Il sosia di Fëdor Dostoevskij perché, ebbene sì, forse dal titolo potevate già averne il sospetto, viene qui affrontato l’eterno tema del doppio. Una vicenda grottesca dai contorni kafkiani da cui, nonostante tutti i confronti con i nomoni cinematografici e letterari finora menzionati, il giovane regista Ayoade, anche grazie al fratello di Harmony Korine Avi Korine che ha partecipato come co-sceneggiatore, ha tirato fuori una pellicola che si smarca da simili paragoni. I richiami importanti sono molti, questo è certo, eppure lui è riuscito a creare una dimensione sua, un universo parallelo dotato di una sua coerenza. E dotato di una sua bellezza.
In un cast in cui in vari ruoli minori troviamo molti attori del suo precedente Submarine, più il musicista J. Mascis dell’alternative-rock band Dinosaur Jr., a spiccare è soprattutto la splendida (doppia) prova recitativa del protagonista Jesse Eisenberg, proprio il Mark Zuckerberg di The Social Network, che riesce a caratterizzare bene due personaggi tanto identici a livello fisico tanto opposti in quanto a comportamento. Se nella parte del perfido cattivone James è convincente, a toccare le corde dell’anima è soprattutto la sua interpretazione di Simon, il povero Simon di cui nessuno si ricorda mai e che passa inosservato sotto lo sguardo dell’assurdo, folle mondo in cui vive. Il povero Simon che si sente come Pinocchio: solo un burattino e non una persona vera. Il suo amore per Mia Wasikowska, come sempre affascinante nel suo magnetico misterioso modo, è straziante. La sua vita è straziante. Se a livello visivo la pellicola è splendida ma non ancora al livello di un Lynch o di un Cronenberg dei tempi d’oro, il suo punto di forza sta in una grande, profonda umanità. Non importa allora che la tematica del doppio non sia così di primo pelo, The Double non parla soltanto al cervello, non conquista solo gli occhi, ma si rivolge soprattutto al cuore. Se non vi emozionerà almeno un pochino, mi scuso con voi ma ve lo devo dire: siete proprio delle persone malvagie.
Kid
(voto di Kid 9/10)


The Double
(UK 2013)
Regia: Richard Ayoade
Sceneggiatura: Richard Ayoade, Avi Korine
Ispirato al romanzo: Il sosia di Fëdor Dostoevskij
Cast: Jesse Eisenberg, Jesse Eisenberg, Mia Wasikowska, Wallace Shawn, Sally Hawkins, Paddy Considine, Chris O’Dowd, Craig Roberts, Noah Taylor, Cathy Moriarty, Phyllis Somerville, Yasmin Paige, James Fox, J. Mascis
Genere: grottesco
Se ti piace guarda anche: Mood Indigo – La schiuma dei sogni, Brazil, Inseparabili, eXistenZ, Il cigno nero
(voto di Cannibal Kid 7/10)

venerdì 31 gennaio 2014

NEL BLU DIPINTO DI BLUE JASMINE




"Una recensione di Blue Jasmine? Oh, ma che bello!"
Blue Jasmine
(USA 2013)
Regia: Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Cast: Cate Blanchett, Alec Baldwin, Sally Hawkins, Bobby Cannavale, Michael Stuhlbarg, Louis C.K., Alden Ehrenreich, Peter Sarsgaard
Genere: alleniano
Se ti piace guarda anche: qualunque altro film di Woody Allen a parte To Rome With Love che quello te lo puoi anche risparmiare

Continuo a non capire. Woody Allen mi piace o meno?
Ci sono alcuni suoi film che ho apprezzato parecchio (Midnight in Paris e Io & Annie su tutti), altri che invece considero sopravvalutati (Match Point e Manhattan, per esempio), mentre altri sono proprio delle porcatone (Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni e l’atroce To Rome with Love), e ancora ve ne sono alcuni che mi sembrano piuttosto buoni ma non eccezionali (come Sogni e delitti, Vicky Cristina Barcellona, Scoop e Basta che funzioni). E ce ne sono un sacco che non ho visto perché questo gira un film all’anno e per recuperarli tutti bisognerebbe prendersi un anno sabbatico soltanto per recuperarli.
Di Woody adoro il suo tipo di umorismo, cinico, bastardo e vagamente, ma neanche troppo vagamente, intellettualoide. Mi piace la sua attitudine snob. Ai Golden Globe Awards che si sono tenuti una manciata di settimane fa ad esempio gli hanno fatto l’onore di consegnargli il premio alla carriera e lui non s’è manco scomodato di andare a ritirarlo, tanto per dire quanto è snob. Di Woody adoro inoltre l’influenza che ha avuto sulle nuove generazioni, su serie come Girls o Louie.

"Non è iniziata benissimo. Meglio berci su."
Il mio problema con Woody Allen… qual è il mio problema con Woody Allen?
Il principale è proprio quello che gira un sacco di film. Uno all’anno è troppo, considerando il tempo e la cura necessari che si devono riporre sia nella fase di scrittura che nella pre-produzione che poi nel girare. Ormai Woody ha sviluppato un suo modello di lavorazione che gli consente di sfornare una pellicola dopo l’altra come se fosse in catena di montaggio e il problema è proprio questo. Spesso si ha la sensazione di un compitino annuale svolto con diligenza, senza però il fuoco dentro. Senza che ci sia una reale urgenza creativa. La voglia di dire e di fare, nonché l’anarchia di una pellicola come Io & Annie, sono ormai un ricordo lontano, persino nelle sue pellicole recenti più riuscite. C’è sempre l’impressione di una costruzione eccessiva, finta e ormai affiora una certa ripetitività. I personaggi di Woody continuano a essere una variante di Woody, pure in questo ultimo Blue Jasmine. Non inganni l’aspetto di Cate Blanchett, decisamente poco somigliante all’occhialuto regista newyorkese. Jasmine non è altro che un altro, l’ennesimo alter-ego di Allen. Come sarebbe Woody se fosse una bionda ricca che improvvisamente si trova con le pezze al culo?
Sarebbe così, sa-sa-sa-sarebbe Ja-ja-ja-jasmine.
"Beh dai, non sta andando nemmeno troppo male."

Con Blue Jasmine, Woody conferma comunque la sua abilità di scrittura perché questo, checché possa sembrare, è un altro esercizio di scrittura del regista e sceneggiatore precursore degli hipster. I dialoghi sono anche questa volta ottimi, i personaggi sono ben costruiti, qualche battutina azzeccata emerge qua e là, anche se l’umorismo è diventato più acido e feroce del solito.
La cosa migliore di Blue Jasmine è questa. Ci propone un Woody Allen incazzato. Non si sa bene in particolare con chi o con cosa. Forse con tutti. Ce n’è sia per la upper class che per i proletari.


"Io come Meryl Streep? Ma che scrive, quel Cannibal Kid?"
Eppure il film non morde del tutto. Così come l’interpretazione di Cate Blanchett. Brava, bravissima Cate Blanchett, ma la sua è una di quelle performance che sembrano più una strizzatina d’occhio all’Academy e alle varie giurie di premi piuttosto che un far vivere per davvero il suo personaggio. Uno di quegli esercizi di recitazione, una di quelle interpretazioni impeccabili alla Meryl Streep. La blue Jasmine della Blanchett è un personaggio notevole, ma resta per tutto il tempo un personaggio di fiction, non si trasforma mai in una persona vera. Anche le scene di maggior follia, recitate con una notevole intensità, non sfociano mai in un lasciarsi andare completo, liberatorio, come la straordinaria Natalie Portman de Il cigno nero, tanto per fare un esempio non a caso, o come il sorprendente Leonardo DiCaprio di The Wolf of Wall Street. Quindi brava, bravissima Cate Blanchett, ma l’Oscar io non glielo darei. Tanto l’Academy glielo consegnerà di sicuro, quindi a cosa conta la mia opinione?

"Beh, almeno noi non ci possiamo certo lamentare..."
Ho amato invece Sally Hawkins. Sally Hawkins sì che è un fenomeno. Come già capitato con la idola Poppy di Happy Go Lucky, Sally Hawkins è una di quelle attrici che riescono a trasformare un personaggio in una persona, una persona a tutto tondo, nonostante la costruzione molto fiction del cinema di Allen. La Hawkins l’ho adorata, così come anche Louis C.K., il grandissimo comico della sopra citata serie Louie. Uno che ha un tipo di umorismo parecchio alla Woody Allen, uno per giunta di New York City, uno quindi che non poteva mancare di comparire prima o poi in un suo film. In attesa che Woody gli regali una pellicola da protagonista assoluto, qui Louie, per quanto in un ruolo piccolo, ci regala i momenti più divertenti della visione. Applausi pure per gli altri attori del cast, soprattutto il tamarro Bobby Cannavale, il sempre più promettente Alden Ehrenreich che qui fa il figliastro della Cate Blanchett e il sempre sottoutilizzato e sottovalutato Peter Sarsgaard.

"Cannibal Kid, sono parecchio adirata con te!"
Menzione negativa invece per Michael Stuhlbarg e il suo macchiettistico personaggio del dentista maniaco.
Un’altra cosa che non mi convince mai del tutto nei film di Allen sono poi le musiche. Questo jazzettino che usa spesso e volentieri cosa mi rappresenta? È poco emozionante, poco trascinante e, più che come accompagnamento di una pellicola cinematografica, andrebbe bene come musica da ascensore. A spiccare qui è giusto una rilettura in chiave jazzata di “Blue Moon”, che pure è carina ma è incapace di creare un vero trasporto emotivo. Almeno per quanto mi riguarda. Tutto il film mi ha dato la stessa impressione. Guardabilissimo, scivola via che è un piacere, eppure la sensazione che manchi qualcosa non mi ha abbandonato dall’inizio alla fine. Per quanto questa volta sia incentrato su un personaggio femminile, per quanto sia un po’ meno comedy e più amarognolo del solito, alla fine è sempre il solito Woody. Non certo al suo peggio, in confronto al precedente To Rome with Love il livello è tornato per fortuna a essere molto ma molto più alto, però nemmeno al suo meglio. È un Woody medio, con tutti i pregi e i difetti del caso. Perché?
Ancora una volta torniamo lì. Al fatto che gira troppo. In questo Blue Jasmine c’è fondamentalmente solo un’idea narrativa: alternare il presente da miserabile poveretta in quel di San Francisco della protagonista al passato in cui era una benestante, molto benestante in quel di New York. Un espediente non certo nuovo e che dalla serie Lost in poi è diventato alquanto abusato e che comunque qui tutto sommato funziona. Basta che funzioni. Peccato sia anche l’unico spunto del film e te credo, quando uno ne gira uno all’anno, non è che può avere tutte le volte tremila idee.
Posso allora solo immaginare cosa tirerebbe fuori se girasse una pellicola ogni dieci anni. Ma so già che non lo scoprirò mai. Woody continuerà a sfornare il suo film annuale, io continuerò a guardare e apprezzare di più o di meno o a storcere il naso a secondo del caso, senza però mai rimanere travolto completamente dal suo cinema. Senza mai amarlo del tutto. E per questo motivo oggi mi sento un blue Cannibal.
(voto 6+/10)

martedì 11 ottobre 2011

Jane in a bottle

Jane Eyre
(UK, USA 2011)
Regia: Cary Fukunaga
Cast: Mia Wasikowska, Michael Fassbender, Judi Dench, Jamie Bell, Sally Hawkins, Imogen Poots, Craig Roberts, Valentina Cervi, Holliday Grainger, Tamzin Merchant
Genere: vittoriano
Se ti piace guarda anche: Bright Star, La duchessa, Orgoglio e pregiudizio

Trama semiseria
Jane Eyre, rimasta orfana, può scegliere se venira data in affidamento alla nonna e diventare la giovane streghetta protagonista di The Secret Circle oppure andare a stare con la ziastra che al confronto Crudelia de Mon è una cara persona. Sceglie la seconda. La ziastra le vuole talmente bene che la manda in un istituto dove il primo giorno la mettono in punizione e dicono a tutte le altre bambine che se mai parleranno con lei finiranno a condurre la rubrica “Salviamo le forme” di Studio Aperto per tutta la vita. Uscita da questo simpatico istituto, la nostra Jane diventa un’insegnante privata per una bambina che parla solo francese e scoprirà poi…
che il padre della bambina è Sarkozy e sua madre è Carlà?

Recensione cannibale
Beata ignoranza.
C’è chi sostiene che la felicità consista nell’ignoranza del vero. Un certo Leopardi, ad esempio. Forse ha ragione. Ad esempio se ignori che la Gelmini è l’attuale Ministro dell’istruzione, sei più felice. Oppure se ignori che un pianeta sta per colpire la Terra, è più improbabile tu sia depresso rispetto a uno che lo sa. Ma su quest’ultimo punto torneremo in occasione di Melancholia. Fatto sta che forse ha ragione Leopardi. Meglio non saperle, le cose.
Tutto questo per dire che io, dall’alto della mia ignoranza sulle opere delle Brontë sisters (che per gli altri ignoranti come me in ascolto non sono una nuova cool band al femminile, ah yeah, ma delle sorelle scrittrici dell’Ottocento) non conoscevo Jane Eyre. O meglio, la conoscevo di nome ma non conoscevo la sua storia, non avendo letto il romanzo della Charlotte Brontë e non avendo mai visto nessuna delle miliardi di trasposizioni per il cinema e la tv realizzate fino ad oggi. No, nemmeno quella di Zeffirelli con la mia adorata Charlotte Gainsbourg, sulla quale pure in questo caso torneramo sempre in occasione di Melancholia.
Tutto quest’altro per dire che mi è piaciuta, questa nuova versione cinematografica di Jane Eyre prodotta dalla BBC, e magari a chi ha ben presente la storia sembrerà una versione non eccezionale. Io però non so dire se possa rientrare tra i migliori o peggiori adattamenti del romanzo, né so quali elementi qui presenti siano più originali rispetto alle altre versioni e quali elementi siano stati tralasciati. Quindi in pratica questa pseudo recensione è del tutto inutile.

Quello che posso dire dal basso del mio personale ignorante punto di vista è quanto ho apprezzato di più: i due attori riescono a rapire lo sguardo, conducendoci al cuore della vicenda. Lei, Jane Eyre, è Mia Wasikowska (ora sui nostri schermi anche con L'amore che resta di Gus Van Sant), l’attrice australiana di origini polacche (sempre sia tu lodata, Wikipedia libera) il cui cognome viene ormai usato come scioglilingua nelle principali accademie di dizione del mondo. A parte quelle dell’Est Europa, perché vabbé lì immagino non lo trovino così complesso da pronunciare. Lui, Mr. Rochester, è Michael Fassbender, attore tedesco naturalizzato irlandese (sempre e always thank you, free Wikipedia), coppa Volpi all’ultimo Festival di Venezia per il film Shame. Vergogna. No, non è una vergogna che abbia vinto, volevo solo dire che “shame” in italiano significa “vergogna”. Il film invece non l’ho ancora visto (altra ignoranza), ma considerata la solita bravuta dell’interprete di certo il premio non è stato una vergogna.
La cosa più affascinante del film è proprio la tensione sessuale sottesa che all’improvviso si sprigiona tra le due anime in pena. Questa è una frase che forse alla Brontë sarebbe piaciuta. Eh sì, bambini, avete letto bene, ho detto: tensione sessuale. Siete arrossiti come Jane al primo incontro con il macho Rochester? Lui, il Fassbender, fin dall’inizio ha infatti lo sguardo (vedi foto a destra) di chi pensa: “Puoi provare a resistermi, piccola, ma tanto te trombo!”. Lei, la Wasikowska, ha invece lo sguardo peccaminoso (vedi foto sopra) di quella che pensa: “Faccio finta di resisterti, ma al terzo appuntamento te la smollo.”
E così la coppia di protagonisti funziona alla grande, anche perché al di là della tensione sessuale, sono due signori attori, tra i più lanciati del panorama attuale.

"Hey, Billy Elliot, mai pensato di iscriverti al Glee club?"
"Hey, Alice, vuoi che mi tolga i pantaloni e ti mostri il paese delle meraviglie?"
A funzionare meno, ma ricordo ancora che non conoscendo l’opera originale non so se ciò sia amputabile al romanzo o a questa versione, è invece il contorno. Gli altri personaggi rimangono per forza di cose minori, dalla perfida zia Sally Hawkins (la grande Sally Hawkins, qui convincente nella parte della stronza), al cugino Craig Roberts (il mitico protagonista del mitico Submarine, dove pure lì c'era anche la Hawkins), dall’aspirante provolone Jamie Bell (proprio il ballerino gay Billy Elliot; come, non era gay? stupidi stereotipi!) alla governante Judi Dench. Ma ad essere sacrificato è soprattutto il personaggio della pazza Bertha Mason, interpretata dalla “nostra” Valentina Cervi (anche in versione cantante in soundtrack con la sua versione del traditional Ada), che avrebbe meritato un maggiore approfondimento in grado di regalare alla pellicola un ulteriore gothic touch e invece si ritaglia appena una misera scena.

Se la fotografia è di ottimo livello e ci (o almeno mi) riporta alla mente le atmosfere sospese di Bright Star, manca però una forte impronta registica come quella di Jane Campion, ma comunque Cary Fukunaga, qui alla sua seconda opera dopo l’acclamato Sin Nombre (che pure questo, continuo ad ammettere la mia ignoranza, non ho visto), dimostra di possedere un buon occhio e uno sguardo attento.
La colonna sonora dell’altro “nostro” Dario Marianelli (premio Oscar per Espiazione) è azzeccata e conferma, manco ne avessimo bisogno, la teoria della fuga dei cervelli. E qui ritorniamo alla questione di partenza. Se, ad esempio, ignorassimo di vivere in un paese in cui il talento viene considerato come la Peste, saremmo più felici?
Penso di sì.
E allora beata ignoranza.
(voto 7/10)

P.S. Confesso che il finale ha (quasi) sciolto il mio freddo cuore.

lunedì 29 agosto 2011

Sottomarino marino marino, ti voglio al più presto sposar

Submarine
(UK, USA 2010)
Regia: Richard Ayoade
Cast: Craig Roberts, Yasmin Paige, Noah Taylor, Sally Hawkins, Paddy Considine, Gemma Chan
Genere: strano, anzi strange
Se ti piace guarda anche: Skins UK (serie tv), Fish Tank, Fuga dalla scuola media, Cashback, I quattrocento colpi

Il ragazzino protagonista di Submarine è Oliver Tate, un tipo particolare, strambo. È un nerd ma è anche un bullo. Si veste in maniera del tutto particolare e ha un look fuori dal tempo, con quei capelli da baronetto e con sempre indosso quel cappottino a metà strada tra lo stiloso e lo sfigato, potrebbe sembrare gay invece non lo è, e per quanto singolare sia desidera fortemente anche integrarsi e lui stesso si autoconsidera piuttosto cool. Insomma, è davvero difficile decifrarlo ma allo stesso tempo è uno dei ritratti adolescenziali per quanto strambi anche più veri, perché non fa rientrare il personaggio in un semplice stereotipo, ma racconta di come in giovine età sia difficile trovare una propria precisa identità. Di come si vaghi nell’oscurità senza meta alla ricerca della propria via, della propria voce. E allora, per quanto difficile sia ritrovarsi nella totalità dei suoi contraddittori comportamenti, questo suo vagare incerto rende possibile l’immedesimazione non dico per tutti gli spettatori, ma per molti o almeno alcuni probabilmente sì.


Prodotto da Ben Stiller, uno che ogni tanto qualcosa di buono la fa, Tratto da un romanzo di Joe Dunthorne, Submarine è l’opera prima di Richard Ayoade, personaggio pure lui parecchio strambo, regista di videoclip (tra gli altri di Arctic Monkeys e Last Shadow Puppets, come vedremo dopo non a caso) attore nerd protagonista dell’esilarante serie tv UK The It Crowd, una sorta di antecedente di The Big Bang Theory, e da buona opera prima ha tutti i pregi & difetti del caso: parte a razzo, ci presenta un protagonista davvero unico che ci accompagna per manina con la sua voce fuori campo, ci consegna alcune scene di magia cinematografica notevole, e poi verso metà si perde un pochino, come un sottomarino che si è smarrito nelle profondità dell’oceano, o proprio come il protagonista confuso della storia. Il bello comunque è anche questo. Se nella prima parte c’è spazio per un umorismo obliquo e contemporaneamente esilarante, nonché per le rane allo stomaco provocate dalla prima cotta, più in là ci si concentra soprattutto sui problemi coniugali dei genitori, il tutto sempre visto attraverso gli occhi del protagonista. La vicenda perde qui leggermente in mordente, nononostante le ottime interpretazioni del padre Noah Taylor (E morì con un felafel in mano), della madre, una sempre grande Sally Hawkins (già elogiata da queste parti per La felicità porta fortuna e We Want Sex) e del suo pseudo-amante interpretato da Paddy Considine (In America, 24 Hour Party People).
Se il cast di contorno vede impegnati dei volti affermati del notevolissimo panorama attoriale british, a sorprendere sono però i due giovanissimi attori principali, la fidanzatina del protagonista, Yasmin Paige, affascinante naturalmente in maniera strana, e soprattutto il protagonista assoluto, Craig Roberts, con quel suo volto che rimane impresso e che ricorda un po’ quello del cantante degli Arctic Monkeys. A sorprendere meno allora a questo punto è ritrovare appunto Alex Turner come firma e voce delle canzoni originali composte appositamente per il film, una vera chicca in grado di regalare al film un’atmosfera unitaria e unica, e con un paragone importante potremmo scomodare persino il lavoro fatto da Simon & Garfunkel per Il laureato.
Massì, scomodiamolo, che questo è quasi Il laureato di oggi.
Ho esagerato?
Ho esagerato.
Come al solito, cazzo!
(sei stato stupido, cannibal, stupido e cattivo!)


E a proposito di paragoni non da poco, se l’anno scorso era stato l’altra ottima produzione british Fish Tank ad avere l’onore di essere accostata a I quattrocento colpi di Francois Truffault (l’avevano definito un 400 colpi hip-hop), questa volta il paragone mi sembra ancora più azzeccato per questo Submarine (che potremmo definire un 400 colpi indie).
Se non l’avete ancora capito, trattasi quindi di un film britannico imperdibile per chi cerca uno sguardo nuovo, sulla vita e sul cinema. Un sottomarino con cui immergersi nelle profondità dell’animo di un giovane uomo… ok, detto così sembra una cosa pesante, e invece vi ritroverete a galleggiare come sopra un materassino. Pensavate mica che l’estate fosse già finita?
(voto 8/10)

(un’uscita italiana non è ancora prevista, sorprendente vero?)

mercoledì 20 aprile 2011

La felicità porta fortuna, Berlusconi porta sfiga

La felicità porta fortuna
(UK 2008)
Titolo originale: Happy-Go-Lucky
Regia: Mike Leigh
Cast: Sally Hawkins, Alexis Zegerman, Eddie Marsan, Andrea Riseborough, Samuel Roukin, Sinead Matthews, Nonso Anozie
Genere: commedia leggera
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Trama semiseria
Il film si limita semplicemente a seguire la vita piuttosto ordinaria di un personaggio straordinario. Poppy però non ha super poteri, non deve salvare il mondo, non va nemmeno in giro come Amelie a mettere le cose a posto nella vite degli altri. Semplicemente, è una tipa stralunata che sorride alla vita, una maestra delle elementari single che non si preoccupa di fare in fretta e furia una famiglia o sfornare figli. Semplicemente si gode la vita. Una pazza, per le convenzioni del mondo, una idola totale, per me.

Recensione cannibale
Amo Sally Hawkins. Qualche tempo fa mi chiedevo perché questa attrice fosse tanto osannata, non riuscivo a spiegarmelo; l’avevo già vista in Sogni e delitti di Wudy Aia Allen e in un paio di particine dentro An Education e Non lasciarmi ma qui, forse abbagliato dalla presenza in entrambi i film di Carey Mulligan, l’avevo decisamente ignorata. Poi ho guardato We Want Sex, di cui ho parlato qualche giorno fa, e ho pensato che: “Cazzo se è brava!” Allora mi sono recuperato questo La felicità porta fortuna e allora lì ho capito: Sally Hawkins è un mito. Non si può nemmeno spiegare a parole, dovete vederla in azione. Io dopo aver visto questo film vorrei avere una Sally Hawkins tutta per me. Non pensate subito male, non per quella cosa lì (oddio se poi ci scappa pure quello non mi tiro indietro), ma perché vorrei vedere cosa farebbe lei in una qualunque situazione. Ma più che lei, vorrei vedere cosa farebbe la sua Poppy, le sue facce, le sue espressioni, le sue stralunate cazzate, come ad esempio abbordare un barbone nel mezzo della notte.

La Poppy protagonista di questo film è una 30enne single che cazzeggia con le amiche in giro su una inguardabile Panda gialla (e qualcuno si lamenta pure se le vendite europee della Fiat stanno calando di brutto), si ubriaca, entra in una libreria scherzando con il proprietario che la guarda come fosse un’aliena, insegna in una scuola elementare e a sua volta prende lezioni di flamenco e di guida. Perché la ragazza oramai cresciutella non ha ancora la patente e per ottenerla si affida alle lezioni di un istruttore schizofrenico, razzista e fissato, con una visione tutta sua del mondo. Per dire: quando passano due tranquillissimi tipi di colore in bici, lui intima a Poppy di chiudersi dentro l’auto, per sicurezza. A interpretare questo schizzato troviamo un cattivissimo e allucinato Eddie Marsan, straordinario attore inglese dalla faccia da tasso (l’animale).

La commedia tra lezioni impartite e lezioni ricevute procede con un passo più vicino alla Nouvelle Vague che non al neorealismo come la trama (inesistente) lascerebbe supporre e possiede una grazia unica grazie a una Sally Hawkins in stato di grazia: immaginate un Roberto Benigni dentro il corpo di Amelie però nell’Inghilterra di oggi e non ci sarete andati nemmeno vicini. Come ho già detto, Sally Hawkins nei panni di Poppy bisogna vederla in azione con i propri occhi, c’è poco da fare. L’unico rischio che si corre, uomini o donne, ottimisti o pessimisti che siate, è di essere travolti dalla sua irresistibile energia vitale e innamorarsene. Perché io amo Sally Hawkins, ho già detto anche questo?
(voto 7/8)


giovedì 24 marzo 2011

All we need is sex papparapapa

We Want Sex. Noi vogliamo il sesso. Una frase che se a dirla sono delle donne sono considerate delle sgualdrine, se a dirla sono degli uomini sono dei maniaci allupati, se a dirla sono degli uomini sessuali sono dei pervertiti, se a dirla sono delle donne sessuali è una figata. E se a pronunciarla sono dei pedofili? Tranquilli, vi trovate solo in un convento di preti cattolici.

Dopo questa pessima battutaccia d’apertura, passiamo a parlare più propriamente del film. We Want Sex.

We Want Sex
(UK 2010)
Titolo originale: Made in Dagenham
Regia: Nigel Cole
Cast: Sally Hawkins, Bob Hoskins, Rosamund Pike, Jaime Winstone, Geraldine James, Miranda Richardson, Andrea Riseborough, Daniel Mays, Rupert Graves, Andrew Lincoln
Genere: rivoluzionario
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Trama semiseria
1968. In Inghilterra la Ford ha 55mila operai, di cui solo 187 sono donne. Eppure è proprio da loro che parte la rivoluzione. Guidate da Rita O’Grady, una semplice addetta alla cucitura dei sedili, nel giro di poche settimane proveranno a far raggiungere alle donne la parità (o quasi) di paga nei confronti degli uomini. Mentre questi al massimo gridano “We want sex” sulla statale, le donne reclamano “We want sex equality”. La otterranno? Se conoscete la storia dei diritti femminili saprete già la risposta, se non la conoscete è a questo che servono i film storici. Mica a raccontarci la favoletta di Bertie il povero re balbuziente come ne Il discorso del re.

Recensione cannibale
“Quando sono cambiate le cose? Quando abbiamo in questo paese deciso di smettere di lottare?” chiede Rita O’Grady in un suo discorso. È quello che ci chiediamo anche noi, 40 e passa anni dopo, qui in Italia, oggi, mia cara Rita. Noi forse abbiamo smesso negli anni Ottanta, bombardati dalle tette & culi del Drive In, dalle telepromozioni Aiazzone sulle reti locali, dal sogno di giocare in borsa e diventare nel giro di poche ore ricchi e fichi come Gordon Gekko. Abbiamo smesso quando i potenti ci hanno fatto capire che contro di loro non abbiamo nessuna possibilità di ottenere qualcosa. Abbiamo smesso quando abbiamo realizzato che era più facile arrendersi e lasciarsi travolgere da questa società della finta opulenza.

“Noi non siamo divisi dal sesso. Ma divisi solo tra quelli disposti a subire le ingiustizie e quelli che sono pronti ad andare in battaglia per ciò che è giusto,” dice ancora Rita O’Grady, sempre nel 1968. È difficile stabilire cosa sia giusto o meno: è giusto ad esempio fare una guerra contro un dittatore che fino a poche settimane era il nostro migliore amico e alleato, a cui baciavamo allegramente le mani, a cui servivamo su un piatto d’argento 500 troi… hostess? Non so se sia giusto, anche perché di questa guerra non si capisce nulla e le informazioni in proposito sono troppo parziali, controllate, (volutamente?) caotiche, quindi è davvero complicato riuscire a dare una spiegazione a quanto sta succedendo. È giusto voler fermare un pazzo criminale, ma è giusto farlo alla cazzo di cane in quella che potrebbe trasformarsi in una guerra lunga e inutile quanto l’Afghanistan?

La battaglia cui si riferiva la O’Grady però era certamente giusta: stessa paga alle donne così come agli uomini. Una lotta simbolo del movimento femminista che però è oggi più che mai attuale applicata a qualunque tipo di ingiustizia e il cui spirito sembra rivivere nel “Se non ora quando?” visto nelle piazze italiane appena poche settimane fa; un’altra battaglia importante partita proprio dalle donne.
Il film We Want Sex ha il merito di rendere in pieno e con grande sforzo lo spirito di queste proteste, con un tocco non retorico ma anzi leggero e ironico (a tratti persino esilarante) come solo gli inglesi sanno essere. Nella parte di Rita O’Grady c’è un’eccellente Sally Hawkins, attrice che ho cominciato ad adorare da qui e di cui avrò ancora occasione di parlare per l’altra sua splendida prova in La felicità porta fortuna. La sua Rita (personaggio fittizio eppure incredibilmente vero) è una donna qualunque, non ha mai militato in nessuna forza politica, è combattiva come sono le nostre mamme (o almeno la mia). È una forza nuova, dirompente, in grado di travolgere i dirigenti della Ford che mai si sarebbero aspettati di essere messi in ginocchio da una (apparentemente) semplice casalinga ben poco desperate. E invece a cambiare la storia, a dare una svolta vera, sono spesso proprio quei personaggi che nessuno si aspetta.

Tra i pregi del film vi è anche una recitazione come al solito nelle produzioni british di classe superiore, con un Bob Hoskins in un ruolo insolitamente simpatico e un cast femminile notevole in cui spiccano Jaime Winstone (vista anche nella serie horror Dead Set), la disinibita Andrea Riseborough e la maestosa Rosamund Pike, che tra questo film e An Education sta ormai diventando la risposta inglese alla January Jones 60s di Mad Men. In un piccolo ruolo, come al solito da stronzo, c’è pure il protagonista di The Walking Dead Andrew Lincoln.

Se proprio vogliamo trovare un difetto al film, direi che io avrei giocato di più sulla musica 60s che invece ricopre un ruolo un po’ di secondo piano. Per il resto è una storia che suona una sveglia anche (e forse soprattutto) per noi uomini che qui dentro facciamo una figura davvero barbina, e regala una grande ispirazione e una voglia di cambiare tutte le cazzo di ingiustizie di questo mondo o perlomeno di questo cazzo di paese.

Per chiudere, visto che nel corso del post sono stato troppo serio, un altro (pessimo) momento battuta:
Che bello doveva essere vivere in un’epoca in cui le uniche escort di cui si parlava erano le Ford Escort...
(voto 7/8)

Canzone cult: Jimmy Cliff “You can get it if you really want”

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