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mercoledì 14 maggio 2014

VAMPIRE ACADEMY, L’HOGWARTS PER I SUCCHIASANGUE




Vampire Academy
(USA, UK, Romania 2014)
Titolo originale: Vampire Academy: Blood Sisters
Regia: Mark Waters
Sceneggiatura: Daniel Waters
Ispirato al romanzo: L’accademia dei vampiri di Richelle Mead
Cast: Zoey Deutch, Lucy Fry, Olga Kurylenko, Gabriel Byrne, Danila Kozlovsky, Dominic Sherwood, Sarah Hyland, Cameron Monaghan, Sami Gayle, Joely Richardson, Claire Foy, Ashley Charles
Genere: teen fantasy
Se ti piace guarda anche: Percy Jackson, Harry Potter, Shadowhunters, Underworld, Byzantium, Wild Child
Uscita italiana: non ancora pervenuta

Non so voi, ma io stavo proprio sentendo la mancanza di un nuovo film sui vampiri. Negli ultimi anni ne sono usciti solo 3miliardi e io avevo bisogno del 3miliardeunesimo. Dopo Twilight, è stato tutto un proliferare di pellicole sui succhiasangue, con derive persino nel cinema d’autore, con l’intrigante Twixt di Francis Ford Coppola, il soporifero Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch e il più riuscito Byzantium firmato da Neil Jordan, che già aveva partecipato all’ondata vampiresca degli anni ’90, quella andata dal Dracula di Bram Stoker dello stesso Francis Ford Coppola a Buffy – L’ammazzavampiri, con il suo Intervista col vampiro.
A essere contagiato dal successo commerciale della saga di Twilight è stato soprattutto il sottogenere del fantasy teen, che ha dato origine a una serie infinita di pellicole con vampiri e altre creature mostruose assortite, senza dimenticare le incursioni televisivo/trash di The Vampire Diaries e True Blood.

"Non è vero che noi giovani non leggiamo.
Io sto finendo la saga di Twilight, vedi?"
Insomma, si sentiva davvero il bisogno di un nuovo film sui vampiri… peccato che questo non sia un film sui vampiri. Non fatevi ingannare dal titolo. I personaggi di Vampire Academy non gradiscono essere chiamati vampiri, e manco vampirli.
La protagonista è Rose Hathaway, una Dhampir. Cosa cacchio è un Dhampir?
È un essere metà uomo e metà donna? No. Quello si chiama Conchita Wurst. Un Dhampir invece è metà umano e metà vampiro e lo scopo della sua inutile vita è quello di fare da guardia del corpo a un Moroi. Cosa cacchio è un Moroi?
È un vampiro, che però non vuole essere chiamato vampiro ma Moroi e in più è un vampiro buonista, uno che convive in pace con gli umani e si contrappone agli Strogoi. E cosa cacchio sono gli Strogoi?
Allora non sapete proprio niente, vi devo dire tutto io! Gli Strogoi non sono miei parenti stronzi (il mio nome è Marco Goi nda), ma sono dei vampiri cattivoni che pure loro non gradiscono essere definiti vampiri, anche se a tutti gli effetti lo sono visto che uccidono gli umani per nutrirsi del loro sangue. Almeno qualche ciucciasangue vecchio stile esiste ancora, in questo malato mondo ripieno di vampiri vegani, pacifisti e, ma solo secondo Berlusconi, pure comunisti.

"Non sono un mostro, GRRR!"
Raccontato così può sembrare un gran casino e un pochino lo è. Alcuni passaggi non sono spiegati benissimo e si ha come l’impressione che possano essere compresi appieno soltanto da chi ha letto i libri della saga teen fantasy scritta da Richelle Mead cui il film si ispira. Se però avete più di 12 anni è probabile che siate oltre la fase romanzi young adult e potete accontentarvi della versione cinematografica. Una versione che negli USA si è rivelata un flop e quindi difficilmente proseguirà, sebbene il finale della pellicola sia fatto apposta come collegamento per un secondo episodio.
Nonostante la confusione generale della trama si riesce comunque a entrare in questo mondo fantasy, sarà che è simile ad altri mondi fantasy, non solo vampireschi, come quelli di Pirla Jackson Percy Jackson e Harry Potter. Solo che l’ambientazione della pellicola è quella di una scuola non di magia, come Hogwarts, bensì un’accademia per addestrare sia i vampiri buoni, pardon i Moroi, sia i loro aiutanti/schiavetti, ovvero i Dhampir.
È qui che sta la particolarità, o se non altro la minima variante rispetto alle altre saghette vampiresche viste in abbondanza di recente. La protagonista è fedelissima alla sua vampirella Moroi che protegge, ma allo stesso tempo è una simpatica combina guai dalla battuta sempre pronta, e allo stesso tempo è pure un po’ una bimbaminkia superficiale style Hanna delle Pretty Little Liars. È lei il personaggio che rende gradevole la visione di questo fantasyno girato in maniera alquanto anonima da Mark Waters, il regista del cultissimo del 2004 Mean Girls, una delle pellicole che più hanno lasciato il segno nella pop culture americana degli ultimi 10 anni.

"Mi sembra proprio di essere in una puntata di The Vampire Diaries.
Per i vampiri?
Ma va, perché c'è un ballo studentesco!"
La protagonista mezza vampira e mezza umana è interpretata da una a sorpresa convincente Zoey Deutch.
Chi cacchio è Zoey Deutch?
Scommetto che non sapete nemmeno questo. Va beh, come al solito ve lo dico io. Zoey Deutch aveva la parte della figliastra di Sarah Michelle Gellar (ex Buffy, sarà un caso?) nella pessima serie Ringer e lì mi era sembrata un’attrice davvero cagna. Forse era solo colpa di quell’oscenità di serie, perché qui Zoey Deutch, per quanto non sia diventata all’improvviso una fenomena, è piuttosto convincente e riesce a reggere alla grande l’intera pellicola che, per il resto, vanta un cast abbastanza di prestigio, quanto svogliato. In ruoli-macchietta ci sono l’affascinante Olga Kurylenko e un pessimo Gabriel Byrne, mentre sono abbastanza sprecati i giovani Cameron Monaghan della serie Shameless US e Sarah Hyland della Modern Family, così come Sami Gayle già vista nel film Detachment – Il distacco. A non funzionare proprio del tutto è invece l’altra protagonista principale, la bionda Lucy Fry, che dovrebbe essere la vampirona gnoccona di turno e invece appare parecchio scialba.

"Cannibal Kid è l'unico al mondo che non massacra del tutto il nostro film."
"E' proprio un bimbominkia!"
A questo punto, so già che avrete un’altra domanda e questa volta non riguarda più Damphir, Moroi, Strogoi o qualche altro diavolo di assurdo modo hipster in cui vogliono essere chiamati i succhiasangue al giorno d’oggi. La domanda che vi starete ponendo è: ma questo Vampire Academy un’occhiata la merita, si o no?
La risposta è no, se di filmetti sui vampiri non ne potete più. Questo non dice assolutamente niente di nuovo sul tema e non è certo un capolavoro imperdibile. Se poi cercate una pellicola dai risvolti anche solo vagamente horror, tenetevi alla larga. Questo è un teen fantasy, non un film dell’orrore.
La risposta è invece sì se cercate una pellicoletta adolescenziale scema di discreto intrattenimento. Rispetto a porcherie assolute come Shadowhunters, questo si fa guardare con discreto piacere e, grazie alla simpatia della protagonista, con il sorriso sulle labbra. E poi dai, avete già visto 3miliardi di film sui vampiri, volete perdervi proprio il 3miliardeunesimo?
(voto 5+/10)

giovedì 27 marzo 2014

THE CONGRESS, IL FILM IBRIDO




The Congress
(Israele, Germania, Polonia, Lussemburgo, Francia, Belgio 2013)
Regia: Ari Folman
Sceneggiatura: Ari Folman
Ispirato al romanzo: Il congresso di futurologia di Stanislaw Lem
Cast: Robin Wright, Harvey Keitel, Kodi Smit-McPhee, Sami Gayle, Paul Giamatti, Danny Huston, Michael Stahl-David, Michael Landes, Sarah Shahi
Genere: ibrido
Se ti piace guarda anche: Essere John Malkovich, S1m0ne

Ci sono dei film che hanno tutte le carte in regola per diventare dei cult, o se non altro per far parlare di loro, e invece non se li fila nessuno. The Congress è uno di questi. Dopo essere stato presentato al Festival di Cannes 2013, è passato del tutto sotto silenzio e in Italia, ovviamente, manco è uscito nelle sale ma si può comunque trovare grazie alla sempre preziosa rete e ai sempre attivi sottotitolisti nostrani. Dio benedica loro, altroché quegli stronzi della distribuzione. Senza offesa per nessuno, eh.

The Congress è un film molto originale. Vabbè, molto magari no, però è un esperimento interessante. Un mix tra attori in carne e ossa e animazione. Il pensiero a questo punto corre subito verso Chi ha incastrato Roger Rabbit, ma in questo caso le parti live action e quelle animate sono distinte.
La pellicola è inoltre un mix tra realtà e finzione. La protagonista Robin Wright interpreta infatti se stessa. Interpreta Robin Wright l’attrice famosa unicamente per due film, La storia fantastica e Forrest Gump, mentre per quanto riguarda il resto della sua carriera ha compiuto un sacco di scelte sbagliate e si è imbattuta in una numerosa serie di flop, fino almeno all’approdo tv recente con la fortunata serie House of Cards. Nella prima parte del film si parla proprio di questo, di un’attrice arrivata alla fatidica soglia dei 40 e rotti anni che a Hollywood, per un’interprete femminile, cominciano a non essere pochi, e che si trova di fronte a una scelta radicale. Gli viene offerto di cedere i diritti per lo sfruttamento della sua immagine a uno studio cinematografico, la Miramount (un ironico incrocio tra Miramax e Paramount), per digitalizzarla e renderla un’attrice finta, virtuale, a completa disposizione degli studios. Allo stesso tempo, la vera Robin Wright dovrà ritirarsi dalle scene, lasciando spazio al suo alter ego digitale. Una pensione anticipata che, soprattutto in tempo di crisi, non si rifiuta. E così Robin Wright accetta e…

Non ve lo dico. Scopritelo da soli. Il film una visione la merita, però, c’è un però. La prima parte della pellicola è una riflessione notevole sull’industria cinematografica e ha uno spunto sci-fi niente male, vicino alla serie tv inglese Black Mirror o vagamente anche al recente capolavoro di Spike Jonze Lei – Her. Magari niente di nuovissimo, in fondo pure S1m0ne di Andrew Niccol con Al Pacino proponeva già dieci e passa anni fa una vicenda simile, però una pellicola incentrata sul mondo del cinema e sul mestiere dell’attore almeno per chi è appassionato di films è sempre interessante da vedere. Robin Wright, attrice che personalmente non è mi mai piaciuta, offre poi qui una prova recitativa notevole e molto sincera. D’altra parte, se non lo è facendo la parte di se stessa, quando può esserlo?
Tutto bene, allora?

"Sì, nel mondo dei cartoni siamo ancora incazzati per quell'Oscar
rubato dal tuo caro Forrest Gump a Pulp Fiction."
Eh, insomma…
Il regista è Ari Folman, quello di Valzer con Bashir, uno dei miei film d’animazione preferiti di tutti i tempi. Si dice spesso che il cinema d’animazione non è necessariamente per bambini e tutto, ed è vero per carità, però intanto anche nei tanto celebrati capolavori Pixar e Disney e DreamWorks eccetera, le bambinate e le scenette che ammiccano al pubblico dei più piccoli ci sono sempre. Giustamente, per carità. Devono pur sempre riempire le sale e con Frozen negli ultimi tempi ci sono riusciti alla grande. Valzer con Bashir invece è un film d’animazione adulto al 100%, senza bambinate, oltre che un film non tanto e non solo sulla guerra, quanto esistenziale. Una roba davvero bella, in pratica. Dopo quella pellicola meritatamente celebrata, vincitrice del Golden Globe e nominata agli Oscar come miglior film straniero, questo nuova lavoro del regista israeliano cade proprio sulla parte animata.
Non che le animazioni non siano di alto livello, tutt’altro. Appaiono come un incrocio affascinante tra il suo precedente Valzer con Bashir e una pellicola dello Studio Ghibli di Miyazaki a caso. Il problema sta nelle derive filosofeggianti della trama, ispirata a un romanzo dello scrittore polacco Stanislaw Lem, da cui era stato tratto anche Solaris di Andrej Tarkovskij. La prima parte del film era una riflessione niente male sul cinema e su quello che potrebbe essere il cinema del futuro. Tra apparizioni di un simil-Tom Cruise a cartoni, accenni di critica a film troppo digitalizzati alla 300 e persino una citazione del Dr. Stranamore di Stanley Kubrick, andava bene così, ce n’era già abbastanza per farne un film completo. Ari Folman invece non si è accontentato e nella seconda parte ha alzato il tiro, realizzando un’altra pellicola a tematica esistenziale, senza però riuscire a eguagliare gli splendidi livelli di Valzer con Bashir. Qui la storia si incasina eccessivamente tra salti temporali repentini e discorsi che avvicinano il film alle tematiche di Matrix, giusto un pochino fuori tempo massimo. Giusto di una quindicina d’anni.

"Ammazza! Si sta peggio qua che nell'ultima carrozza di Snowpiercer."
The Congress è allora il classico esempio di film che si sputtana con le proprie mani, un lavoro che ha al suo interno tante idee, tante buone idee, e anziché focalizzarsi su quelle già mostrate ne tira fuori delle altre che non sono poi così brillanti e finisce per rovinare tutto. O quasi, perché comunque The Congress resta un esperimento cinematografico affascinante, sebbene non del tutto riuscito.
Se però il film non se l’è filato quasi nessuno non credo sia tanto per le sue derive filosofiche allucinate della parte finale, ma più per la sua natura ibrida. The Congress è un film metà recitato e metà animato. Metà a tematica cinematografica e metà a tema esistenziale. Metà interessante e metà vaccata. Una pellicola divisa tra due strade, tra due mondi, e anche tra due tipi di cinema differenti: molto precisa e pulita, sia come narrazione che a livello registico la prima metà, molto incasinata e psichedelica, pure troppo, la seconda. Due film al prezzo di uno in pratica, uno niente male, l’altro più da “Bah!”, quando sarebbe stato meglio prendere una direzione sola. One direction per una volta non sarebbe stato sinonimo di qualcosa di maligno. Invece no. Ari Folman ha voluto fare il megalomane, lo sborone, ha voluto fare tutto e da bambino cattivo ha finito per pisciare fuori dal vaso.
(voto 6,5/10)

martedì 26 giugno 2012

Detachment - Il distacco della retina per eccesso di bellezza

"Ragazzi, oggi lezione di cinema: verrò a trovarci Cannibal Kid..."
Detachment - Il distacco
(USA 2011)
Regia: Tony Kaye
Cast: Adrien Brody, Sami Gayle, Christina Hendricks, Betty Kaye, Marcia Gay Harden, James Caan, Lucy Liu, Bryan Cranston, Blythe Danner, Tim Blake Nelson, William Petersen, Celia Au, Renée Felice Smith
Genere: educational (non Rai)
Se ti piace guarda anche: La classe, American History X, Afterschool, Elephant

Apriamo il file Tony Kaye: chi è e che fine aveva fatto?
Tony Kaye è il regista di American History X, pellicola strepitosa del 1998 che riusciva a parlare di razzismo e neo-nazismo in maniera dura, cruda, nuda, senza moralismi o buonismi assortiti e con un Edward Norton impossibile da dimenticare con quella svastica tatuata sul petto. Una delle intepretazioni più magistrali nella storia del cinema incredibilmente non premiata con l’Oscar. Quell’anno hanno preferito consegnarlo nelle mani del nostro Roberto Benigni. L’unico attore italiano uomo di sempre ad aver avuto l’Oscar di miglior protagonista (tra le nostre attrici ce l’hanno invece fatta Anna Magnani e Sophia Loren) e lo vanno a dare al pur simpatico Benigni, recitativamente nemmeno lontanamente paragonabile all’American Norton X? Robe da non credere…
File Norton messo da parte in un’altra cartella, torniamo al file Tony Kaye. Al di là dell’interpretazione enorme del suo protagonista, American History X era un film girato alla grande, in grado di coniugare un cinema indie con qualche tentazione sperimentale al racconto preciso e puntuale di una storia. E che storia.

"Chi preferisce lasciare l'aula piuttosto che sentir parlare Cannibal Kid?"
Dopo quel gran film d’esordio, Tony Kaye è sparito dai radar, almeno di quelli del “cinema che conta” (scusate se non ho trovato una definizione migliore). Nel 2004 ha girato Snowblind, nel 2007 Lobby Lobster, nel 2009 Black Water Transit. Qualcuno li ha visti? Qualcuno li ha anche solo sentiti nominare? Si tratta di pellicole indipendenti, senza nomi di richiamo nel cast e che anche a livello di festival e/o critica cinematografica sono passati piuttosto inossevati. Quasi inutile aggiungere che in Italia non sono mai nemmeno arrivati. L’ultimo anzi non è nemmeno ancora uscito ufficialmente neppure negli USA.

"Questa è la mia relazione sull'intervento di Cannibal Kid: in pratica dice
che è la più grande marea di idiozie che io abbia mai sentito..."
La curiosità era dunque altissima per vedere questo suo nuovo film che, per quanto sempre pellicola indie, ha un cast di discreto richiamo: Adrien Brody, Marcia Gay Harden, Lucy Liu, James Caan, Blythe Danner, Tim Blake Nelson, più stelle dei telefilm come Christina Hendricks, William Petersen e Bryan Cranston. Con attori di questo livello e una distribuzione che raggiunge (a sorpresa) anche l’Italia, finalmente allora abbiamo l’occasione di scoprire se questo Tony Kaye è una meteora riuscita a fare il colpaccio con l’opera d’esordio per poi perdersi clamorosamente con i film successivi, come capita a un sacco di registi. Tra i casi recenti mi vengono in mente Florian Henckel von Donnersmarck, l’innominabile tedesco passato da Le vite degli altri all’inguardabile The Tourist, o Anton Corbijn, l’olandese fiondato dal bel Control al pessimo The American.

"Preferisco battere in strada piuttosto che sentire Cannibal in aula."
"Anch'io!"
Non potendo valutare le altre 3 pellicole uscite in mega-sordina e alla luce solo di questo nuovo Detachment, personalmente mi sento di affermare che Tony Kaye possa essere inserito di diritto tra i grandi registi mondiali contemporanei. Questa pellicola è una delle opere più belle sulla e nella scuola degli ultimi anni. Rispetto all’Elephant di Gus Van Sant è meno glaciale e più umano, rispetto al francese La classe di Laurent Cantet è meno neorealistico e più movimentato e inventivo, sia da un punto di vista cinematografico che da uno fisico, visto che non è ambientato interamente dentro le mura della classe. In ogni caso entra nella meglio scuola messa in scena al cinema.
Detachment ci introduce in un liceo americano, ma non è per nulla una pellicola teen o qualcosa di vicino alle solite high-school. Se proprio dobbiamo trovare un paragone, mi ha ricordato la serie Boston Public, per la durezza della rappresentazione di una scuola con studenti definiamoli “problematici”, oppure un Friday Night Lights, ma senza il football.
Gli studenti in questa storia rimangono piuttosto sullo sfondo (salvo il caso di una studentessa), però se non altro è un caso più unico che raro in cui non vediamo la solita divisione tra sportivi e cheerleader da una parte, e nerd e loser vari dall’altra. Qui gli studenti sono tutti in qualche modo senza speranza e senza futuro. Proprio come i professori. E il film è su di loro che si concentra.

Detchment ci parla dell’insegnamento, della professione del professore, della disperazione di questi insegnanti. In particolare di uno, il protagonista interpretato da Adrien Brody. Un attore che non mi ha mai convito del tutto, fatta eccezione per The Village di M. Night Shyamalan, dove faceva lo scemo del villaggio e guarda caso quella parte gli usciva alla perfezione. Dopo una serie di filmetti più o meno sbagliati, ma più più sbagliati che meno meno sbagliati, Brody qua mi è invece piaciuto parecchio. Il suo personaggio è quello di un supplente piombato a insegnare letteratura in una classe di degenerati. In qualche modo, riuscirà a far breccia nelle loro menti poco propense all’apprendimento e lo farà come capitano mio capitano alternativo. Un po’ Brody è un modello di ispirazione per questi ragazzi, un po’ è un’anima in pena nel mezzo del cammin della sua vita, e per certi versi è ancora più in pena lui di loro. Più che una guida, è una non-guida. Più che una persona, è una non-persona. Un personaggio estremamente sfaccettato, difficile da decrifrare e il suo bello è questo.

Tra gli altri nomi del super cast si segnala soprattutto Christina Hendricks. La rossa di Mad Men dopo Drive si ritaglia un’altra particina in un filmone e si conferma una delle poche attrici “tettone” in grado di recitare davvero bene. Per me che faccio parte della generazione cresciuta a pane e Baywatch non è una cosa così scontata. Per la mia generazione, le attrici tettone sono infatti buone solo a correre al rallentatore sul bagnasciuga. Almeno fino all’arrivo della Jimi Hendricks del cinema.
Attenzione poi all’emergente Sami Gayle, interprete di una giovanissima prostituta che incrocierà il suo destino con quello di Adrien Brody, mentre la studentessa preferita del prof. è interpretata da Betty Kaye, la figlia del regista. Nonostante le accuse di nepotismo che si potrebbero avanzare, diciamo subiot che se la cava bene.

Gli altri personaggi del film sono invece più abbozzati e l’errore che è stato fatto, se possiamo parlare di errore, è quello di aver preso volti parecchio conosciuti. Uno vede ad esempio Bryan Cranston di Breaking Bad e si aspetta che compaia più di due secondi. Oppure uno vede William Petersen nella sua prima e finora credo unica apparizione da quando ha finito l’impegno decennale di CSI e si aspetta che il suo sia un personaggio fondamentale nella storia. Lo stesso per gli altri, da Lucy Liu a Marcia Gay Harden. Comprimari di lusso e poco altro, eccetto un James Caan che riesce a ritagliarsi un paio di grandi scene.
Se proprio vogliamo trovare un difetto a questo film, è quindi quello di presentare troppi personaggi dal potenziale notevole e non riuscire, anche per mantenere un minutaggio decente, a svilupparli tutti del tutto. Detachment nel suo eccesso di creatività a tratti appare persino un poco pasticciato (vedi i titoli di testa con le interviste a veri professori), eppure offre così tanti spunti che potrebbe risultatare un’ottima fonte di ispirazione per un’intera serie tv, una serie in grado di riscrivere le regole della rappresentazione liceale classica.
Non credo ciò avverrà, però il legame tra film e mondo dei telefilm, si veda anche il già citato cast, è stretto. Al di là del fatto che potrebbe essere il pilota per una serie, Detachment resta comunque un film fatto e finito, con qualche imperfezione che però riesce solo a renderlo ancora più umano, più sofferto, più intenso.

Concludo come fa Adrien Brody in veste di professore in questo film: lui non obbliga i suoi studenti a restare in classe. Chi non ha voglia di imparare, è libero di andarsene seduta stante. Lo stesso faccio io: più che consigliarvi di guardarvi assolutamente questo film non posso fare. Se invece volete lasciare l'aula e perdervi questa nuova perla di American Tony Kaye X, che a tratti sembra di vedere un film di Terrence Malick sotto MDMA, non lamentatevi poi se di fianco al vostro nome comparirà la perentoria scritta: BOCCIATO.
(voto 8,5/10)

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