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mercoledì 10 dicembre 2014

QUADROPHENIA: VIVA I MOD E ABBASSO I ROCKER!





Quadrophenia
(UK 1979)
Regia: Franc Roddam
Sceneggiatura: Dan Humphries, Martin Stellman, Franc Roddam
Cast: Phil Daniels, Leslie Ash, Sting, Ray Winstone, Mark Wingett, Philip Davis, Toyah Willcox, Trevor Laird, Michael Elphick
Genere: mod
Se ti piace guarda anche: Tommy, Spike Island, Trainspotting

Quadrophenia è il film dei The Who. Cosa che detta così può suonare nella maniera sbagliata. A qualcuno può infatti venire in mente “Come in un film”, il film dei Modà, oppure “Where We Are”, il film dei One Direction, o ancora “Never Say Never”, il film di Justin Bieber.
Tranquilli. Questa è tutta un'altra musica. Non solo perché la proposta musicale dei The Who è “leggermente” superiore rispetto a quella degli artistoni sopra citati, ma inoltre perché in questo caso non ci troviamo di fronte a un documentario su un concerto fatto giusto per strappare qualche soldo alle fan urlanti. Quadrophenia è un film film, con una trama, dei personaggi, una sceneggiatura vera e propria. È una opera rock che prende ispirazione dai testi dell'album omonimo della band, forse il gruppo più celebre e importante nella Storia del rock'n'roll inglese dopo i Beatles e i Rolling Stones. Una volta detto questo, è una pellicola godibile indipendentemente dalla conoscenza dell'album, o dall'essere dei patiti dei The Who. I fan si esalteranno a vedere comparire il faccione di Pete Townshend su un poster nella cameretta del protagonista, così come in tv, e a sentire le loro canzoni all'interno della pellicola. La colonna sonora non è però ad esclusivo appannaggio dei The Who, che saranno sì megalomani, ma non fino a questo punto. In mezzo alle loro “My Generation”, “The Real Me” e altre c'è spazio infatti anche per la trascinante “Louie Louie” dei Kingsmen, per la splendida “Zoot Suit” degli High Numbers, per girl band retrò come Ronettes, Chiffons e Crystals e per l'immancabile evergreen “Green Onion” di Booker T. & the MG's, in quello che è un vero e proprio tripudio degli anni Sessanta che farà eiaculare i nostalgici dell'epoca.

venerdì 25 ottobre 2013

PLUSH, IL THRILLER CAZZATONA




Plush
(USA 2013)
Regia: Catherine Hardwicke
Sceneggiatura: Catherine Hardwicke, Arty Nelson
Cast: Emily Browning, Thomas Dekker, Xavier Samuel, Cam Gigandet, Dawn Olivieri, Brandon Jay McLaren, Frances Fisher, James Kyson
Genere: thriller cazzatona
Se ti piace guarda anche: Fear – Paura, Swimfan, Attrazione fatale, The Runaways, What We Do Is Secret

Plush è il nuovo film di Catherine Hardwicke e Catherine Hardwicke è famosa, meglio dire famigerata, per essere la regista di Twilight.
A questo punto tutti a dire: “Catherine Hardwicke merda e merda chi non lo dice.”
Però io devo venire in difesa della fanciulla. Beh, fanciulla più o meno, visto che i suoi 57 anni buoni sul groppone ce li ha. Va riconosciuto infatti che il primo Twilight è un capolavoro, se considerato al confronto dei seguiti. Ma avete visto gli ultimi due terrificanti capitoli Breaking Dawn diretti da Bill Condom Condon, l’uomo adesso pronto alla revisione disneyana della vita di Julian Assange nel nuovo Il quinto potere?
Con il materiale stephaniemeyeriano a disposizione, Catherine Hardwicke con il primo Twilight è riuscita a fare ancora un piccolo miracolo. La regista dalla sua ha poi realizzato anche un ottimo film sul mondo degli skaters con Lords of Dowtown, ha gettato un interessante sguardo sulle babyminkia con Thirteen e ha pure girato il criticatissimo Cappuccetto rosso sangue, che io sono tra i pochi al mondo ad aver moderatamente apprezzato.
Una regista più odiata che amata quindi che pure con questa nuova pellicola è destinata a ricevere fischi e bottigliate, più che applausi e awards. A ragione? A torto?

Plush inizia quasi come un rockumentary. Un rockumentary fittizio visto che è la storia di una rock band, i Plush, che non esiste realmente. Una band che è capitanata da un fratello chitarrista, Thomas Dekker, e da una sorella cantante, Emily Browning. Solo che lui…
ATTENZIONE SPOILER
Muore!
FINE SPOILER
ANZI NO, GLI SPOILER CONTINUANO
Senza il fratello, scomparso per una misteriosa overdose, che fa tanto cliché rocknrolla, Emily Browning si trova in crisi creativa e dà alle stampe un disco che fa abbastanza pena. Tutti lo criticano, Pitchfork in testa, e qui possiamo vedere un parallelo tra la protagonista della pellicola e la regista Catherine Hardwicke, habitué alle critiche feroci nei confronti dei suoi lavori.
La band e soprattutto Emily Browning ritrovano ispirazione quando lei si mette a lavorare a stretto contatto con il nuovo chitarrista, Xavier Samuel, che assomiglia tanto, ma proprio tanto, al suo fratello scomparso. Il rapporto tra i due diventa sempre più intimo, non solo a livello musicale, benché lei sia sposata. D'altra parte, non sarebbe un film della Hardwicke se non ci fosse un triangolo romantico.
Una storia molto sex, drugs & rock’n’roll con un’aggiunta di sottotrama sentimentale che, per quanto piena zeppa di stereotipi, scorre via in maniera leggera.

Questa però non è che la prima parte. Con calma, con molta calma, quasi verso la fine, il film poco a poco si trasforma, in maniera non del tutto imprevista ma nemmeno così scontata, fino a diventare un thrillerino di quelli molto anni ’90. Tutta la pellicola è molto anni ’90, già il titolo richiama una splendida canzone degli Stone Temple Pilots. Riferimento non so se voluto o meno, ma comunque presente. E anche la band dei Plush, con quel suo suono electro-trip-hop-rock tra Garbage e Republica, fa molto anni ’90.
Nella sua componente da thriller-stalker movie, la sua anima molto anni ’90 si palesa ancora più chiaramente e finisce dalle parti di quei film stile Fear – Paura con Reese Witherspoon e Mark Wahlberg, o La mia peggiore amica con Drew Barrymore, o se vogliamo pure Basic Instinct, o insomma quelle cazzatone di thrillerini pseudo soft erotici super patinati che circolavano un paio di decenni orsono e che sapevi erano delle cazzatone, ma allo stesso tempo ti tenevano incollati fino al termine allo schermo e pure con una buona dose di tensione addosso. Lo stesso avviene per Plush. La recitazione è così così, Xavier Samuel in versione darkone appare parecchio fuori parte, mentre Emily Browning pur non convincendo fino in fondo se la cava ancora. La parte musicale è piuttosto valida, la Browning impegnata anche in veste di cantante ha una vocina niente male, come aveva già dimostrato nella soundtrack di Sucker Punch, sebbene da una pellicola così rock’n’roll sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosina di più a livello sonora. La regia di Catherine Hardwicke fa poi molto video alternative rock, molto anni ’90, ovvio, e insomma questo film è un thriller cazzatona come quelli che andavano nel periodo post-grunge. Un thriller cazzatona che fondamentalmente mi è piaciuto. Fino alla fine. Che pure quella è una cazzatona.
(voto 6,5/10)



giovedì 1 marzo 2012

This Must Be the Movie

"O sooooole mio!"
This Must Be the Place
(Italia, Francia, Irlanda 2011)
Regia: Paolo Sorrentino
Cast: Sean Penn, Frances McDormand, Judd Hirsch, Eve Hewson, Olwen Fouere, Kerry Condon, Harry Dean Stanton, David Byrne, Shea Whigham, Liron Levo, Seth Adkins, Heinz Lieven
Genere: vita da (ex) rockstar
Se ti piace guarda anche: Una storia vera, Somewhere, L’amico di famiglia, Sideways, Elizabethtown

“Potremmo uscire insieme qualche sera.”
“Che musica ascolti?”
“Mariah Carey.”
“Grazie dell’invito, ma sono impegnata per i prossimi 14 anni.”

"Se giravo una scena così a Napoli, m'avevano già fottuto
la telecamera e pure le ruote del SUV..."
Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole?
No, che bella cosa vedere un posto che si chiama This Must Be the Place. Ti lascia con la speranza nel cuore. Ti fa capire che non tutti gli Italiani sono sintonizzati su Sanremo, sulle stronzate di Celentano, sulle canzoni di Emma, Modà, Povia (quest’anno non c’era? vabbè, l’importante è criticarlo comunque) e non tutti i registi italiani per farsi notare all’estero devono per forza fare un cinema da cartolina alla Mediterraneo o alla Baarìa o saltare sulle sedie dell’Academy…
Dopo 4 film tutti parecchio strepitosi girati in Italia, Paolo Sorrentino ha voluto girare una storia ambientata tra Dublino e le immense highway americane, ma affrontando la pericolosa trasferta straniera con una produzione italiana e con il suo team di collaboratori fidati.
Sorrentino non ha quindi fatto la marketta americana come il Gabriele Muccino con i due film girati per cercare di far nominare Will Smith agli Oscar, anche noti come La ricerca della felicità e Sette anime.
Sorrentì ha scritto una storia sua, o meglio a quattro mani con Umberto Contarello, e al suo progetto si è poi unito volentieri uno Sean Penn alla ricerca di nuove sfide. Il regista napoletano se n’è andato a girarlo negli Stati Uniti d’America, facendo armi (che negli USA servono sempre) e bagagli come sempre sognato dal personaggio di Fabrizio Bentivoglio ne L’amico di famiglia, quello che voleva andare a vivere nel Tennessee.
“Ma perché nel Tennessee?”
“Perché è lontano.”

"Scrivi un po' a Bono, tuo papà. Chiedigli quand'è che torna
a scrivere una canzone decente..."
Quello che ne è uscito è un film così poco italiano da essere orgogliosi di vedere dietro la macchina da presa un nostro connazionale, il nostro Sorrentino che in riferimento all’Italia e in particolare alla sua Napoli ha inserito giusto un commento ironico nel primo dialogo del film (“Quando hai fatto il bagno a Posillipo ti hanno rubato scarpe e vestiti.” “Napoli è una città violenta.”).
Tra le varie recensioni lette sulla sua ultima pellicola This Must Be the Place, ho notato come anche diverse tra quelle positive sottolineassero che non era il suo film migliore. Perché è come se gli mancasse qualcosa. Ma cosa manca a una pellicola del genere?
Per me ci sta tutto quello che ci deve stare in un grande racconto esistenziale: la vita, la morte, la musica, l’amore, l’amicizia, la famiglia, battute e dialoghi memorabili degni di quel memorabile “La vita è ‘na strunzata” pronunciato nel suo esordio L’uomo in più. C’è pure un tema scomodo, il tema forse più scomodo in assoluto della Storia recente, quello dell’Olocausto, affrontato con rara leggerezza e poesia. E poi c’è una strepitosa avventura on the road, la più bella e pregna di significati con cui ho viaggiato dai tempi di Una storia vera. Il film di David Lynch ha rappresentato di certo una fonte d’ispirazione e un modello per il Sorrentì, eppure le due pellicole sono due trip parecchio distinti, grazie a due personaggi che più differenti non li si potrebbe immaginare.
Chissà cosa penserebbe il vecchino Alvin Straight che viaggia sopra un lento tosaerba per le strade della vita e dell’America, di una sagoma come il Cheyenne?

Lo Cheyenne (da non confondere con il Porsche Cayenne) ritratto con disarmante sincerità da Sean Penn è una rockstar dark-wave popolare negli anni ’80 che da una ventina buona di anni si è ormai dedicato a una sorta di pensione dorata. La sua vita procede tranquilla e priva di scossoni, lontano dai riflettori, lontano dalla musica, tra un rapporto ottimo con la moglie Frances McDormand e una serie di frequentazioni alquanto particolari: un suo (inspiegabile) amico (inspiegabile) playboy, una signora che ha perso il figlio e la di lei figlia darkona. Cheyenne, in versione moderno Cupido con l’eye-liner intorno agli occhi e il rossetto sulle labbra, cercherà di farla mettere insieme al ragazzo timido della tavola calda che ascolta… Mariah Carey!
Tipa darkona interpretata dalla promettente Eve Hewson che nella realtà è la figlia di Bono degli U2, roba che ti fa pensare che finalmente qualcosa di bono nella vita l'ha davvero combinata.
(scherzo, Bono, quelle 3 o 4 canzoni belle nella tua carriera le hai anche scritte!)

All’inizio l’interpretazione di Penn può sembrare una macchietta. Fisicamente ricalca Robert Smith dei Cure e ogni parola che pronuncia sembra il suo ultimo rantolo di vita, proprio come Ozzy negli Osbournes. Eppure scena dopo scena Scion si trasforma in Scieien in tutto e per tutto. Con o senza trucco e parrucco. Un personaggio favoloso che oltre a un’icona dark anni tanto Ottanta finisce per ricordare anche Michael Jackson, eterno Peter Pan incapace di crescere. Che è poi quello che sono un po’ tutte le pop e rockstars. Intrappolati. Condannati a essere giovani per sempre.

"La smettete di dire che somiglio al cantante dei
Cure? È lui che ha copiato me!"
Oltre ad essere esistenziale, riflessivo, profondo, This must be the place è uno dei film più divertenti che mi sia capitato di vedere di recente. Ma il mio senso del divertimento va preso con le molle, visto che l’altra pellicola più spassosa degli ultimi tempi per me è stata l’horror The Innkeepers. Non proprio due film comici nel senso comune del termine.
Ho trovato esilarante la stralunaggine di Cheyenne, la sua risatina isterica, la sua tranquillità che ogni tanto esplode all’improvviso in un “Fuck fuck fuck” (consiglio di vedere il film possibilmente in lingua originale, per gustare tutte le finezze della recitazione di Scion Scion Penn). E poi ci sono dei momenti del tutto pazzeschi e inspiegabili, come il tizio sui roller che si schianta a terra nel parco di New York. Elementi bislacchi che rendono questa pellicola unica, nonostante il Sorrentino guardi a un certo cinema indie a stelle strice da qualche parte all’incrocio tra le strade di Jim Jarmush, Wes Anderson e il Gus Van Sant dei vecchi tempi.
Notevoli le due scene musicali del film: il concerto di David Byrne, in un piano sequenza che qualche altro regista avrebbe accorciato e invece Sorrentino decide di farci vivere per intero quasi si trattasse di un documentario musicale. E la scena del bambinetto che canta il leit motiv nonché title track del film, This must be the place, presentandolo come un pezzo degli Arcade Fire anziché dei Talking Heads.
Ciliegina sulla torta: le musiche del film sono firmate da Will Oldham, meglio conosciuto con l’alias Bonnie “Prince” Billy, e naturalmente da David Byrne dei Talking Heads. Chi se non lui?
Se vogliamo dare una (non richiesta e del tutto pretestuosa) lettura musicale al film: nella ricerca di Cheyenne possiamo anche vedere il genere rock’n’roll depresso e annoiato degli ultimi anni che cerca una sua nuova identità. Ok, questa è la classica interpretazione da critico cinematografico fallito e strafatto che il regista non si segnava nemmeno lontanamente qualcuno potesse dare al suo lavoro.

La prima parte del film ci mostra il mezzo del cammin della vita della rockstar/ex-rockstar Cheyenne dei Cheyenne and the Fellows e risulta una sorta di versione più riuscita del solo parzialmente riuscito - Dio mi perdoni per aver detto una cosa del genere - Somewhere della Sofia Coppola, sebbene spostato sul lato musicale dello showbiz. Il tutto in quel place stupendo che è Dublino. La seconda parte si evolve invece in un grandioso on the road in giro per le infinite distese di campi e asfalto americani, in compagnia del più improbabile dei viaggiatori. Cheyenne va alla ricerca di se stesso e riscopre un legame, seppure solo post-mortem, con il padre con cui non parlava da 30 anni. Il figlio, il più pazzesco dei figli, riuscirà a portare a termine ciò che il papà non era riuscito a fare nella sua intera vita? A voi il piacere di scoprirlo, arrivando a una parte finale che è qualcosa di delizioso.
Sorrentino cede alle emozioni ma non allo stucchevole. Grazie alla componente emotiva, ben presente dietro all’eyeliner di Sean Penn, mi ha regalato il suo film che personalmente ho amato di più. Laddove i suoi precedenti lavori, tutti girati in maniera magistrale, rimanevano sempre un po’ freddi, qui Sorrentì ci ha presentato un uomo nuovo, un grande protagonista finalmente più positivo (seppure non privo delle sue ombre dark) rispetto ai due Antonio Pisapia, al Titta Di Girolamo, al Geremia de’ Geremei e a un certo Giulio Andreotti.
Cheyenne è l’uomo in più con in più il cuore. L’amico di famiglia che cerca di unire la dark con il non-dark. Il divo che ha vissuto le conseguenze dell’amore e del successo ed è ora finalmente pronto a crescere. A diventare uomo con una boccata di sigaretta.

“Non hai mai fumato perché sei rimasto un bambino.
I bambini sono i soli che non provano mai il desiderio di fumare.”

Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e so...rrentino.
(voto 9/10)

mercoledì 6 aprile 2011

E vaccinatevi, per Dio!

The Vaccines “What did you expect from the Vaccines?”
Genere: rocknrolla
Provenienza: Londra
Se ti piacciono ascolta: Strokes, Libertines, Arctic Monkeys, Interpol, Vines, Pulp
Pezzi cult: Wreckin' Bar (Ra Ra Ra), Post Break-Up sex


L’antidoto contro la musica noiosa? Ce la danno I Vaccines. Già definiti gli Strokes inglesi, gli sbarbi UK ricordano in effetti la freschezza dell’esordio dei newyorkesi, anche se la voce è più sull’Ian Curtisiano andante (e quindi di riflesso vengono in mente pure gli Interpol). Una manciata di canzoni esaltanti e dal tiro melodico notevole che sembrano uscite dalla colonna sonora di Skins (anzi, li hanno davvero suonati in Skins), tra qualche mese forse non saranno più niente di così memorabile però questo è uno dei pochi dischi rock’n’roll usciti negli ultimi mesi su cui valga la pena pogare. Merce sempre più rara, oggigiorno.
(voto 7+)


sabato 19 marzo 2011

Strokazz*

(il titolo del post mi è stato suggerito in sogno da Laura Palmer)


La questione è di quelle toste. Perlomeno parlando di questioni poi non così serie come nucleare, guerre o terremoti. La questione tosta ma poi non così tanto è la seguente: le band musicali devono cercare di evolversi e proporre qualcosa di nuovo e differente oppure, quando non ne sono in grado, dovrebbero semplicemente limitarsi a fare ciò che sanno fare meglio?
L’atroce dilemma se lo pongono tutti i gruppi (e pure i loro fan) con ormai un discreto passato alle spalle; abbiamo visto ad esempio nelle ultime settimane come i Radiohead proseguano nel loro percorso di ricerca, pur all’interno di coordinate elettroniche già esplorate ma in continua evoluzione, e di come invece i R.E.M. rimangano fermi a fare la stessa musica, rischiando di autoclonarsi ma allo stesso tempo fornendo comunque il loro sempre più che gradito contributo alle nostre orecchie. E gli Strokes, giunti dopo una lunga pausa al loro quarto album, cos’hanno deciso di fare?

10 anni passati da Is This It, uno degli ultimi album rock’n’roll davvero decisivi per le sorti della musica mondiale. All’epoca gli Strokes l’avevano definito un vero e proprio greatest hits della band, più che un semplice disco d’esordio. Guardando alla loro carriera successiva possiamo dire che l’affermazione non si discostava affatto dal vero, visto che il meglio della loro intera produzione anche futura era già (quasi) tutto contenuto in quel disco. L’album numero due Room on fire si faceva infatti ascoltare che era un piacere, ma fondamentalmente era una replica (riuscita) dell’esordio. Il disco numero tre invece non mi aveva convinto più che altro per i suoni e per la produzione troppo ricercata, quando la loro arma migliore è sempre stata quella di fare un rock’n’roll grezzo e senza troppi orpelli. Peccato, perché le canzoni c’erano anche, basti ascoltare la splendida “I’ll try anything once” usata in Somewhere di Sofia Coppola, che altro non era se non la versione demo di “You only live once”.

Dopo di ché i newyorkcity cops si sono presi una lunga pausa per dedicarsi a una serie di progetti solisti tutti piuttosto riusciti ma anche tutti piuttosto dimenticabili. Il cantante Julian Casablancas ha pubblicato l’anno scorso un disco confuso eppure a tratti irresistibilmente 80s; il chitarrista Albert Hammond Jr. ha fatto uscire in proprio un paio di dischi solisti con dentro qualche perla non male; l’altro chitarrista Nick Valensi ha suonato con Sia e Regina Spektor; il bassista Nikolai Fraiture fa parte dei validi Nickel Eye; il batterista Fabrizio Moretti infine ha fondato il gradevole side-project Little Joy e s’è mollato con Drew Barrymore. Ma veniamo al qui e ora.

The Strokes “Angles”
Genere: rock’n’roll
Provenienza: NYC, USA
Se ti piace ascolta anche: Vaccines, Arctic Monkeys, Julian Casablancas, Albert Hammond Jr., Little Joy, Nickel Eye
Pezzi cult: “Taken for a fool”, “Life is simple in the moonlight”

Fatto sta che dopo tutte le cose sopra elencate i fantastici 5 si sono ricordati di avere pure una band insieme e quindi ha dato ora alle stampe questo nuovo “Angles”, in cui ogni membro sembra però starsene nel suo angolo anziché andare al centro del ring a confrontarsi e combattere insieme agli altri. Quello che ne è uscito è un lavoro che a tratti prova la via di un ritorno alle origini con risultati piuttosto buoni e a tratti prova invece nuove direzioni, con risultati già più discutibili.
Il meglio arriva quindi quando gli Strokes fanno gli Strokes. Sebbene nei numeri più rock manchi la stessa freschezza, irreplicabile, del primo disco, qualche numero gli si avvicina: la fantastica e poppy “Taken for a fool”, l’emozionante “Games” o il primo singolo “Under cover of darkness”, grazie a quelle sue aperture malinconiche e a un assolo di chitarra da favola (e io di solito odio gli assoli di chitarra).


I numeri meno Strokes invece mi fanno storcere un po’ il naso e la sensazione è che la colpa non sia tanto del mio naso, sempre ben disposto nei confronti dei gruppi che vogliono prendersi dei rischi, quanto piuttosto di una band fatta di 5 unità separate e non comunicanti tra loro, con ognuna che se ne va a spasso per conto suo. Un’ipotesi confermata dal fatto che Julian ha cantato le sue parti in uno studio a parte e anche gli altri membri hanno spesso lavorato da soli. Quello che infatti ne è uscito non è certo il suono di una band unita (e il video di “Under Cover of Darkness” è molto emblematico in tal senso).
Tra le song meno azzeccate c’è una “Metabolism” molto lagnosa e francamente evitabile, mentre “You’re so right” è il numero ipnotico Strokes meets Radiohead, con voci sovrapposte che sembra di sentire Thom Yorke ubriaco con sotto una chitarrina molto Jonny Greenwood. Peccato che non siano i Radiohead.
Alti e bassi, quindi, ma qualche pezzone ce lo portiamo comunque a casa, come nelle atmosfere Strokes-congeniali della ballad “Life is simple in the Moonlight” che chiude l’album lasciandoci con un buon odore addosso. La puzza di sudore dei primi bei tempi però se n’è andata e adesso lasciano più che altro una scia di profumo francese. Non proprio la cosa più rock’n’roll del mondo, ma nemmeno una cosa per cui lamentarsi troppo.
(voto 6/7)

giovedì 10 febbraio 2011

Undercovers

Rock and Roll is back!
"Under Cover of Darkness", la nuova canzone degli Strokes, anzi diciamo The Strokes che se no si incazzano, si può scaricare gratuitamente dal loro sito. Un ritorno alle sonorità del primo album uscito ormai una decina d'anni fa.

Fate in fretta, c'è tempo giusto un paio di giorni. Vabbé poi si potrà scaricare nei soliti altri modi, però finché si può farlo con l'approvazione dei diretti interessati, perché non approfittarne?

domenica 21 novembre 2010

mercoledì 17 novembre 2010

My Chemical Streaming “Dark Days – The True Lives of the Fabulous Killjoys”

Il nuovo album rocknroll dei My Chemical Romance interamente in streaming? Ce lo presenta un deejay che sembra uscito dritto da “Punto zero” o “I guerrieri della notte”.
Here it is


01 – Look Alive, Sunshine
02 – Na Na Na (Na Na Na Na Na Na Na Na Na)
03 – Bulletproof Heart
04 – SING
05 – Planetary (GO!)
06 – The Only Hope For Me Is You
07 – Jet-Star And The Kobra KidTraffic Report
08 – Party Poison
09 – Save Yourself, I’ll Hold Them Back
10 – SCARECROW
11 – Summertime
12 – DESTROYA
13 – The Kids From Yesterday
14 – Goodnite, Dr. Death
15 – Vampire Money

mercoledì 30 giugno 2010

Sesso, handicap e rock'n'roll

Sex & Drugs & Rock & Roll
(UK, 2010)
Regia: Mat Whitecross
Cast: Andy Serkis, Naomie Harris, Olivia Williams, Ray Winstone, Mackenzie Crook, Toy Jones, Bill Milner

In un tempo lontano lontano (un paio di giorni fa) vi ho parlato del film sulle rockers anni ’70 Runaways e ora è tempo di aggiornarvi con un nuovo biopic musicale ambientato all’incirca in quel periodo, ma stavolta dedicato a Ian Dury, strambo personaggio famoso soprattutto in Gran Bretagna, autore con i suoi Blockheads di un paio di grandi hit come Hit me with your rhythm stick e soprattutto il pezzo che dà anche il titolo al film: Sex and drugs and rock and roll.
Oh yes.

Colpito da poliomielite in tenera età, Ian rimane storpio a vita, ma questo non gli impedisce di prendere la vita di petto, salire su un palco e diventare un grande intrattenitore. Perché di questo si tratta, lui stesso non si definisce un cantante (le sue doti canore non è che siano proprio eccelse, d’altra parte) però è un entertainer notevole e, soprattutto, un funambolo della parola, un giocoliere che si destreggia in rime e assonanze pazzesche. Il suo è uno stile very davvery british che influenzerà parecchia musica successiva (i Blur degli anni 90 o gli Arctic Monkeys, soprattutto per il modo di raccontare storie, ma anche The Streets e molti rapper made in England).
A vestire i panni di questo singolare personaggio (una sorta di folle incrocio tra Johnny Rotten e il Dr. House) c’è Andy “tessssoro” Serkis, nientepocodimenoche il Gollum nella trilogia de Il signore degli anelli.
La diversità viene però gestita da Dury in maniera ironica (vedi il pezzo “Spacticus Autisticus”); la tematica principale su cui il film si sofferma non è dunque questa quanto il controverso rapporto di Dury con il padre e con il figlio. Sullo sfondo ci sono anche le due donne della sua vita, interpretate peraltro da due ottime attrici: la glaciale Olivia Williams (vista nella serie tv Dollhouse) e l’afroamericana Naomie Harris.


Il regista Mat Whitecross adotta uno stile videoclip pop velocissimo alternato a momenti più lenti e riflessivi, eppure non convince al 100%. Anche perché alla fine si ha come la sensazione di aver “vissuto” un’esistenza molto interessante, ma è come mancasse un tassello per dare al racconto un valore superiore, così come i pezzi di Dury sono interessanti (e splendidi a livello di lyrics) ma musicalmente non eccelsi. Manca qualcosa, insomma. Come dice però lo stesso Ian Dury: “E la morale della storia è… non andate a cercare morali nelle storie. Se volete un messaggio, levatevi dalle palle e andate all’ufficio postale.”
(voto 7)

Considerata la non enorme popolarità del personaggio in Italia, non so se questo film arriverà da noi tanto presto. La versione in lingua originale per fortuna è QUI, con i sottotitoli italiani QUI.

lunedì 29 marzo 2010

A girl named London

London
Regia: Hunter Richards
Cast: Chris Evans, Jessica Biel, Jason Statham, Isla Fischer, Joy Bryant, Kelli Garner

Ambientato nonostante il titolo a New York, questo film del 2005 segue la folle nottata coca & delirio di un tizio (Chris Evans dei Fantastici 4) che a una festa si ritrova con la ex di nome London (ecco spiegato il titolo, a interpretarla è Jessica Biel) e di cui è ancora innamorato. Per evitare di incontrarla, si chiude in bagno a spararsi piste di coca & a sparare discorsi deliranti insieme a un tizio appena conosciuto, un certo Bateman. Uno che pure lui non ha tutte le rotelle a posto. Non bastasse l'ambientazione tipica del suo mondo patinato/drogato, il riferimento ai romanzi di Bret Easton Ellis si palesa nominalmente con questo richiamo al Patrick Bateman di “American Psycho” e allo Sean Bateman de “Le regole dell’attrazione”.
I dialoghi allucinati e la miriade di flashback portano poi vagamente in direzione Tarantino versus Trainspotting, e allora sembra una pellicola fatta apposta da/per me.
Un film fuori di testa che seppure non del tutto focalizzato e senza realizzare in pieno la genialità degli altissimi modelli di riferimento cui si ispira, è diventato subito un mio piccolo cult personale.
(voto 7,5)

Uscito in sordina e ignorato da pubblico & critica, potete recuperarlo in DVD oppure vederlo in streaming QUI.

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