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"O sooooole mio!" |
This Must Be the Place
(Italia, Francia, Irlanda 2011)
Regia: Paolo Sorrentino
Cast: Sean Penn, Frances McDormand, Judd Hirsch, Eve Hewson, Olwen Fouere, Kerry Condon, Harry Dean Stanton, David Byrne, Shea Whigham, Liron Levo, Seth Adkins, Heinz Lieven
Genere: vita da (ex) rockstar
Se ti piace guarda anche: Una storia vera, Somewhere, L’amico di famiglia, Sideways, Elizabethtown
“Potremmo uscire insieme qualche sera.”
“Che musica ascolti?”
“Mariah Carey.”
“Grazie dell’invito, ma sono impegnata per i prossimi 14 anni.”
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"Se giravo una scena così a Napoli, m'avevano già fottuto
la telecamera e pure le ruote del SUV..." |
Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole?
No, che bella cosa vedere un posto che si chiama This Must Be the Place. Ti lascia con la speranza nel cuore. Ti fa capire che non tutti gli Italiani sono sintonizzati su Sanremo, sulle stronzate di Celentano, sulle canzoni di Emma, Modà, Povia (quest’anno non c’era? vabbè, l’importante è criticarlo comunque) e non tutti i registi italiani per farsi notare all’estero devono per forza fare un cinema da cartolina alla Mediterraneo o alla Baarìa o saltare sulle sedie dell’Academy…
Dopo 4 film tutti parecchio strepitosi girati in Italia, Paolo Sorrentino ha voluto girare una storia ambientata tra Dublino e le immense highway americane, ma affrontando la pericolosa trasferta straniera con una produzione italiana e con il suo team di collaboratori fidati.
Sorrentino non ha quindi fatto la marketta americana come il Gabriele Muccino con i due film girati per cercare di far nominare Will Smith agli Oscar, anche noti come La ricerca della felicità e Sette anime.
Sorrentì ha scritto una storia sua, o meglio a quattro mani con Umberto Contarello, e al suo progetto si è poi unito volentieri uno Sean Penn alla ricerca di nuove sfide. Il regista napoletano se n’è andato a girarlo negli Stati Uniti d’America, facendo armi (che negli USA servono sempre) e bagagli come sempre sognato dal personaggio di Fabrizio Bentivoglio ne L’amico di famiglia, quello che voleva andare a vivere nel Tennessee.
“Ma perché nel Tennessee?”
“Perché è lontano.”
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"Scrivi un po' a Bono, tuo papà. Chiedigli quand'è che torna
a scrivere una canzone decente..." |
Quello che ne è uscito è un film così poco italiano da essere orgogliosi di vedere dietro la macchina da presa un nostro connazionale, il nostro Sorrentino che in riferimento all’Italia e in particolare alla sua Napoli ha inserito giusto un commento ironico nel primo dialogo del film (“Quando hai fatto il bagno a Posillipo ti hanno rubato scarpe e vestiti.” “Napoli è una città violenta.”).
Tra le varie recensioni lette sulla sua ultima pellicola This Must Be the Place, ho notato come anche diverse tra quelle positive sottolineassero che non era il suo film migliore. Perché è come se gli mancasse qualcosa. Ma cosa manca a una pellicola del genere?
Per me ci sta tutto quello che ci deve stare in un grande racconto esistenziale: la vita, la morte, la musica, l’amore, l’amicizia, la famiglia, battute e dialoghi memorabili degni di quel memorabile “La vita è ‘na strunzata” pronunciato nel suo esordio L’uomo in più. C’è pure un tema scomodo, il tema forse più scomodo in assoluto della Storia recente, quello dell’Olocausto, affrontato con rara leggerezza e poesia. E poi c’è una strepitosa avventura on the road, la più bella e pregna di significati con cui ho viaggiato dai tempi di Una storia vera. Il film di David Lynch ha rappresentato di certo una fonte d’ispirazione e un modello per il Sorrentì, eppure le due pellicole sono due trip parecchio distinti, grazie a due personaggi che più differenti non li si potrebbe immaginare.
Chissà cosa penserebbe il vecchino Alvin Straight che viaggia sopra un lento tosaerba per le strade della vita e dell’America, di una sagoma come il Cheyenne?
Lo Cheyenne (da non confondere con il Porsche Cayenne) ritratto con disarmante sincerità da Sean Penn è una rockstar dark-wave popolare negli anni ’80 che da una ventina buona di anni si è ormai dedicato a una sorta di pensione dorata. La sua vita procede tranquilla e priva di scossoni, lontano dai riflettori, lontano dalla musica, tra un rapporto ottimo con la moglie Frances McDormand e una serie di frequentazioni alquanto particolari: un suo (inspiegabile) amico (inspiegabile) playboy, una signora che ha perso il figlio e la di lei figlia darkona. Cheyenne, in versione moderno Cupido con l’eye-liner intorno agli occhi e il rossetto sulle labbra, cercherà di farla mettere insieme al ragazzo timido della tavola calda che ascolta… Mariah Carey!
Tipa darkona interpretata dalla promettente Eve Hewson che nella realtà è la figlia di Bono degli U2, roba che ti fa pensare che finalmente qualcosa di bono nella vita l'ha davvero combinata.
(scherzo, Bono, quelle 3 o 4 canzoni belle nella tua carriera le hai anche scritte!)
All’inizio l’interpretazione di Penn può sembrare una macchietta. Fisicamente ricalca Robert Smith dei Cure e ogni parola che pronuncia sembra il suo ultimo rantolo di vita, proprio come Ozzy negli Osbournes. Eppure scena dopo scena Scion si trasforma in Scieien in tutto e per tutto. Con o senza trucco e parrucco. Un personaggio favoloso che oltre a un’icona dark anni tanto Ottanta finisce per ricordare anche Michael Jackson, eterno Peter Pan incapace di crescere. Che è poi quello che sono un po’ tutte le pop e rockstars. Intrappolati. Condannati a essere giovani per sempre.
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"La smettete di dire che somiglio al cantante dei
Cure? È lui che ha copiato me!" |
Oltre ad essere esistenziale, riflessivo, profondo, This must be the place è uno dei film più divertenti che mi sia capitato di vedere di recente. Ma il mio senso del divertimento va preso con le molle, visto che l’altra pellicola più spassosa degli ultimi tempi per me è stata l’horror
The Innkeepers. Non proprio due film comici nel senso comune del termine.
Ho trovato esilarante la stralunaggine di Cheyenne, la sua risatina isterica, la sua tranquillità che ogni tanto esplode all’improvviso in un “Fuck fuck fuck” (consiglio di vedere il film possibilmente in lingua originale, per gustare tutte le finezze della recitazione di Scion Scion Penn). E poi ci sono dei momenti del tutto pazzeschi e inspiegabili, come il tizio sui roller che si schianta a terra nel parco di New York. Elementi bislacchi che rendono questa pellicola unica, nonostante il Sorrentino guardi a un certo cinema indie a stelle strice da qualche parte all’incrocio tra le strade di Jim Jarmush, Wes Anderson e il Gus Van Sant dei vecchi tempi.
Notevoli le due scene musicali del film: il concerto di David Byrne, in un piano sequenza che qualche altro regista avrebbe accorciato e invece Sorrentino decide di farci vivere per intero quasi si trattasse di un documentario musicale. E la scena del bambinetto che canta il leit motiv nonché title track del film, This must be the place, presentandolo come un pezzo degli Arcade Fire anziché dei Talking Heads.
Ciliegina sulla torta: le musiche del film sono firmate da Will Oldham, meglio conosciuto con l’alias Bonnie “Prince” Billy, e naturalmente da David Byrne dei Talking Heads. Chi se non lui?
Se vogliamo dare una (non richiesta e del tutto pretestuosa) lettura musicale al film: nella ricerca di Cheyenne possiamo anche vedere il genere rock’n’roll depresso e annoiato degli ultimi anni che cerca una sua nuova identità. Ok, questa è la classica interpretazione da critico cinematografico fallito e strafatto che il regista non si segnava nemmeno lontanamente qualcuno potesse dare al suo lavoro.
La prima parte del film ci mostra il mezzo del cammin della vita della rockstar/ex-rockstar Cheyenne dei Cheyenne and the Fellows e risulta una sorta di versione più riuscita del solo parzialmente riuscito - Dio mi perdoni per aver detto una cosa del genere -
Somewhere della Sofia Coppola, sebbene spostato sul lato musicale dello showbiz. Il tutto in quel place stupendo che è Dublino. La seconda parte si evolve invece in un grandioso on the road in giro per le infinite distese di campi e asfalto americani, in compagnia del più improbabile dei viaggiatori. Cheyenne va alla ricerca di se stesso e riscopre un legame, seppure solo post-mortem, con il padre con cui non parlava da 30 anni. Il figlio, il più pazzesco dei figli, riuscirà a portare a termine ciò che il papà non era riuscito a fare nella sua intera vita? A voi il piacere di scoprirlo, arrivando a una parte finale che è qualcosa di delizioso.
Sorrentino cede alle emozioni ma non allo stucchevole. Grazie alla componente emotiva, ben presente dietro all’eyeliner di Sean Penn, mi ha regalato il suo film che personalmente ho amato di più. Laddove i suoi precedenti lavori, tutti girati in maniera magistrale, rimanevano sempre un po’ freddi, qui Sorrentì ci ha presentato un uomo nuovo, un grande protagonista finalmente più positivo (seppure non privo delle sue ombre dark) rispetto ai due Antonio Pisapia, al Titta Di Girolamo, al Geremia de’ Geremei e a un certo Giulio Andreotti.
Cheyenne è l’uomo in più con in più il cuore. L’amico di famiglia che cerca di unire la dark con il non-dark. Il divo che ha vissuto le conseguenze dell’amore e del successo ed è ora finalmente pronto a crescere. A diventare uomo con una boccata di sigaretta.
“Non hai mai fumato perché sei rimasto un bambino.
I bambini sono i soli che non provano mai il desiderio di fumare.”
Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e so...rrentino.
(voto 9/10)