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lunedì 17 agosto 2015

True Detective du is not megl che uan





True Detective
(serie tv, stagione 2)
Creata da: Nic Pizzolatto
Rete americana: HBO
Rete italiana: Sky Atlantic
Cast: Colin Farrell, Vince Vaughn, Rachel McAdams, Taylor Kitsch, Kelly Reilly, Abigail Spencer, Leven Rambin, David Morse, Lolita Davidovich, Yara Martinez, Emily Rios, C.S. Lee, Fred Ward
Genere: WTF
Se ti piace guarda anche: Strade perdute, Mulholland Drive, Collateral

Dei bei personaggi intrappolati dentro una storia di merda.
Volendo sintetizzare brutalmente, si può riassumere così la stagione 2 di True Detective. Se invece volete riassumerla in un altro modo, a voi la parola, se ne avete il coraggio. Cercare di parlare della trama di TD2 non è infatti proprio semplice, visto che non si è capita una mazza.
Alcune cose però si sono capite. Vai di elenco:

- A nessuno è mai fregata una cippa dell'omicidio del fantasmino Caspere. Nè tanto meno della questione dei gioielli.

"Hey, sono l'unica che ha seguito questa stagione solo per vedere come finiva il caso di Caspere?"

venerdì 6 giugno 2014

THE NORMAL HEART, UN CUORE MICA TANTO NORMALE




The Normal Heart
(USA 2014)
Regia: Ryan Murphy
Sceneggiatura: Larry Kramer
Ispirato all’opera teatrale: The Normal Heart di Larry Kramer
Cast: Mark Ruffalo, Matt Bomer, Julia Roberts, Taylor Kitsch, Jim Parsons, Alfred Molina, Jonathan Groff, Joe Mantello, Stephen Spinella, Adam B. Shapiro, Denis O’Hare, Finn Wittrock, Rob Tunstall, Corey Stoll
Genere: gay
Se ti piace guarda anche: Dallas Buyers Club, Milk, Dietro i candelabri, Looking

Pensate alla cosa più gay che avete mai visto.
Vi si ripropongono davanti agli occhi gli abiti e l’arredamento di casa Liberace in Dietro i candelabri?
State pensando a una maratona di episodi delle serie tv Looking e Queer as Folk?
O a Valerio Scanu con i boccoli biondi alla Lady Oscar?
O magari proprio a Lady Oscar?
O vi viene per caso in mente la guida galattica alle boy band di Pensieri Cannibali?
In ogni caso prendete tutte queste cose insieme, moltiplicatele per mille e non sarete andati nemmeno vicini alla cosa più gay che ho visto io: la prima scena di The Normal Heart.
I primi 5 minuti del nuovo film tv della HBO The Normal Heart sono quanto di più omosessuale si possa immaginare. Lo dico in senso positivo. Guardando i personaggi della pellicola che se la spassano mi è venuto il rimpianto di non essere un gay all’inizio degli anni Ottanta, quegli anni di rivoluzione sessuale in cui tutti scopavano con tutti liberamente, senza legami e senza problemi.
Perché mi piace la figa? Perché???
È una maledizione! Sarei potuto essere così felice, come gay e in particolare come gay all’inizio degli anni Ottanta.

Questo per quanto riguarda i primi 5 minuti di film, poi entra in scena il dramma ed essere gay negli anni Ottanta non appare più soltanto nei suoi risvolti tutti rose e fiori. In scena compare ciò che all’inizio di quel decennio veniva chiamato “il cancro dei gay” e successivamente diventerà noto come AIDS.
AIDS?
Hey, Pensieri Cannibali si sta per occupare di un argomento serio?


La pellicola va a indagare in una pagina parecchio oscura e misteriosa, quella dell’origine del virus. Nel 1981 cominciano i casi inspiegabili di morti all’interno della comunità omosessuale e nessuno capisce il perché o il per come la malattia si diffonda. La dottoressa sulla sedia a rotelle Julia Roberts suggerisce loro a questo punto di evitare orge e sesso promiscuo, ma viene vista come una repressa sessuale e in pochi le danno ascolto. Negli anni successivi si cerca di capirne di più, solo che il governo degli Stati Uniti non fa nulla per studiare la malattia. Sembra quasi un complotto per eliminare tutti i gay dalla faccia della Terra e l’amministrazione del conservatore bigotto yuppie repubblicano Ronald Reagan comincerà a interessarsi al problema soltanto quando a essere colpiti dal virus saranno pure uomini e donne eterosessuali.

La vicenda raccontata in The Normal Heart a grandi linee è questa ed è parecchio interessante anche e soprattutto per chi come me è nato nel 1982 ed è cresciuto con la consapevolezza che l’AIDS c’era e basta, senza sapere come ha cominciato a diffondersi. Al di là della ricostruzione storica, medica e pure politica, in cui il film si avvicina alle parti di Milk di Gus Van Sant, la carta vincente di questa bella pellicola tv HBO, che come Dietro i candelabri non ha nulla da invidiare alle produzioni per il grande schermo, è il suo cuore. Il suo normal heart. In più momenti la pellicola sa emozionare e lo fa per merito di una serie di interpretazioni magistrali di attori in stato di grazia che riescono a dare vita a dei personaggi pieni di vita (la ripetizione è voluta, bitches!).

"The streets of Philadelphia...
Ah, come? Siamo a New York?"
Una nota di merito particolare va a Mark Ruffalo, protagonista principale che porta sullo schermo Ned Weeks, uno scrittore che si batte in maniera molto sentita per sensibilizzare un’opinione pubblica e un governo cui del problema dell’AIDS pare non fregare un tubo. Mark Ruffalo che una decina d’anni fa appariva ovunque, dal cinema d’autore (Se mi lasci ti cancello, In the Cut) alle commedie romantiche (Se solo fosse vero, 30 anni in un secondo) ai thrilleroni (Collateral, Zodiac) e sembrava destinato a diventare una delle più grandi star che Hollywood avesse mai avuto e poi invece, come accade a un sacco di attori, non è mai esploso del tutto. Questo ruolo televisivo molto intenso (in alcune scene forse persino troppo) potrebbe rappresentare una svolta per la sua carriera, così come per quella di Taylor Kitsch che fa dimenticare i dimenticabili ruoli da macho in flopponi come John Carter e Battleship per tirare fuori un inaspettato e molto credibile ruolo da gay. Bravissimi poi anche attori noti soprattutto al pubblico delle serie tv come Jim Parsons, lo Sheldon Cooper di Big Bang Theory, e Matt Bomer, il bellone di White Collar che qui dà tutto se stesso, con una trasformazione fisica degna di Christian Bale.

In mezzo a tanti lui c’è poi una lei, la divina Juliona Roberts che, dopo la pazzesca interpretazione ne I segreti di Osage County, giganteggia un’altra volta. Che le è successo?
Probabilmente ha cominciato a prendere le stesse droghe di Matthew McConaughey, visto i due che sono passati dal titolo di reuccio e reginetta delle commediole romantiche al diventare un attore come Dio comanda e un'attrice della Madonna.

"Già sono tutti gay, in più sono su una sedia a rotelle e poi mi hanno pure imbruttita.
Le mie probabilità di chiavare in questo film le vedo un po' bassine..."

"Per favore, aiutatelo:
ha appena scoperto che Sex & the City non andrà mai più in onda!"
E perché invece tanti attori, soprattutto negli ultimi tempi, si stanno cimentando in pellicole a tematica gay?
Chiamatelo "effetto Brokeback Mountain". Quel film ha rappresentato una svolta a Hollywood, facendo poi avvicinare attori dalla forte identità etero come Michael Douglas e Matt Damon e in questo caso Mark Ruffalo e Taylor Kitsch a parti omo.

A firmare la regia c’ha pensato uno che nella tematica gay c’ha sempre sguazzato e che qui ha avuto il modo di metterci dentro se stesso al 100%. Sto parlando di Ryan Murphy, l’autore delle serie Nip/Tuck, American Horror Story, Glee, Popular e The New Normal, che come regista firma la sua opera più personale e riuscita, dopo i poco convincenti Correndo con le forbici in mano e Mangia prega ama. Il suo stile mi ricorda un po’ quello di Gabriele Muccino e, prima di considerarlo un insulto, preciso che sembra una versione gay del Muccino migliore, quello dei primi tempi, quello delle sue pellicole italiane, prima che si sputtanasse a Hollywood con una serie di lavori uno più terrificante dell’altro. Come quel Muccino, il Muccino quando era magro, Murphy utilizza riprese vorticose, tiene alto e concitato il ritmo per quasi tutte le oltre 2 ore di durata, spinge i suoi attori sempre al limite del melodramma, a tratti in maniera eccessiva, ma sempre intensa. The Normal Heart è proprio così: intenso, super gaio, esagerato, troppo lungo e con al suo interno troppi temi e troppi personaggi, eppure allo stesso tempo non si fa mancare l’elemento più importante in grado di fare da collante al tutto. Un cuore normale? No, un cuore eccezionale.
(voto 7,5/10)

giovedì 27 febbraio 2014

LONE SURVIVOR – NE RESTERÀ SOLTANTO UNO




Lone Survivor
(USA 2013)
Regia: Peter Berg
Sceneggiatura: Peter Berg
Ispirato al libro: Lone Survivor: The Eyewitness Account of Operation Redwing and the Lost Heroes of Seal Team 10 di Marcus Luttrell, Patrick Robinson
Cast: Mark Wahlberg, Taylor Kitsch, Emile Hirsch, Ben Foster, Eric Bana, Alexander Ludwig, Jerry Ferrara, Yousuf Azami, Ali Suliman, Rick Vargas
Genere: bellico
Se ti piace guarda anche: Captain Phillips, Zero Dark Thirty, Friday Night Lights

Avete visto Zero Dark Thirty?
No?
Risposta sbagliata. Questa non era una domanda in cui tutte le risposte vanno bene. No è la risposta sbagliata, quindi correte subito a vederlo.

L’avete visto adesso?
Bravi. Cosa c’entra Lone Survivor con Zero Dark Thirty?
A livello cinematografico non molto. Zero Dark Thirty è un quasi capolavoro, Lone Survivor è un film quasi decente. A livello di tematica hanno però qualcosa in comune. Il filmissimo di Kathryn Bigelow si concentrava soprattutto sull’ossessione di una donna nei confronti di un uomo. Non si trattava però né di una romcom, né della pellicola su una stalker psicopatica. L’uomo a cui dava la caccia era infatti un certo bin Laden.
Ma uno più bello cui dare la caccia no, eh?” si chiederà qualcuno a questo punto.
La parte finale di Zero Dark Thirty comunque era incentrata sulla missione compiuta dai Navy SEALs per stanarlo e catturarlo.
Lone Survivor è su questi ultimi che si concentra. Non ci racconta della stessa missione, ma ce ne presenta un’altra, avvenuta qualche anno prima, più precisamente nel 2005. Una vicenda veramente accaduta raccontata in un libro diventato ora una pellicola cinematografica, tra l’altro di grande successo negli USA dove ha sfondato il muro dei $100 milioni di incasso, traguardo niente male per un film bellico.

Se in Zero Dark Thirty la protagonista era Jessica Chastain, esticazzi, qui in Love Survivor la storia è incentrata sui Navy SEALs, buuu. Nella prima mezz’ora, la parte migliore della pellicola, assistiamo a un interessante spaccato della loro esperienza nell’esercito, con qualche lampo riguardante la loro vita privata che ci consente di avvicinarci un pochino a loro. Una cosa che in altri recenti film survival, perché pur sempre di questo alla fin fine fondamentalmente si tratta, come All Is Lost e Gravity non avviene. Un aspetto positivo che metterei di certo tra i punti, purtroppo non molti, a favore del film.

"SOS! Sullo smart phone non mi funzionano più le app.
Potete fare subito qualcosa che devo finire una partita a Quiz Duello?"
La parte iniziale è quindi promossa, anche perché fin dal primo istante si sente il tocco del regista Peter Berg.
Chi è Peter Berg?
È quello di Friday Night Lights, pellicola sul football americano di una decina d’anni fa diventata anche una omonima fortunata, almeno negli USA, serie tv di cui dalle parti di Pensieri Cannibali si è parlato sempre bene. I primi minuti fanno ben sperare, grazie alle musiche post-rock degli Explosions in the Sky e a dialoghi e atmosfere delicate che paiono dirigerci nella visione di una specie di versione bellica dello stesso Friday Night Lights, con i mitra al posto dei palloni ovali. Pure in questo caso, così come nella serie tv, si riesce ad andare oltre i classici stereotipi da cameratismo militaresco per provare a proporci un’immagine un pochino diversa dal solito dei soldati: dei ragazzi che vanno ai concerti dei Coldplay, ballano sulle note di Jamiroquai e a tavola disquisiscono amabilmente di carta da parati e arredamento. Verosimile o meno che ciò sia, non è la tipica rappresentazione di militari che si limitano a ruttare, scoreggiare, masturbarsi e ascoltare i Metallica. Quando si va oltre gli stereotipi, è sempre un bene.

Bene, bravo Peter Berg. Se il film si fermasse dopo mezz’ora, ci troveremmo di fronte finalmente a una pellicola bellica recente decente e originale. Poi però Peter Berg si ricorda di essere non solo l’autore di Friday Night Lights, ma anche il regista di Battleship e così Lone Survivor si trasforma nell’ora successiva in un filmone fracassone che spettacolarizza la guerra.
Io non ho niente contro la spettacolarizzazione della violenza. Il mio regista preferito è un certo Quentin Tarantino, ormai dovreste saperlo. Laddove però la sua è una violenza esagerata e fumettistica, persino quando si muove in contesti storici come quelli di Bastardi senza gloria e Django Unchained, qui ci troviamo in una pellicola tratta da una storia vera e che punta a un certo realismo di fondo. In un contesto del genere, certe scene spettacolarizzate non le ho davvero capite, come la tragicomica e insistita caduta da un dirupo, che mi ha ricordato quando Homer Simpson saltava la Gola di Springfield e cadeva rovinosamente. In quel caso l’effetto era comico, qua si rimane soltanto senza parole. Stesso discorso per la scena della morte di uno dei personaggi del film. Perché mostarcela in un modo così esagerato e con un tatto quasi degno di Vittorio Feltri? Bah.

"Forse la mattina appena sveglio dovrei prendere l'abitudine di lavarmi la faccia..."
Dopo Battleshit, ehm Battleship, Peter Berg si conferma allora come un Michael Bay intimista. Ha buone intuizioni, ci regala qualche momento niente male, ma poi finisce nella trappola del cinema-spettacolo ammericano più facile. Non stupisce che il pubblico yankee abbia apprezzato tanto la pellicola. Laddove come film giocattolo funziona ancora, se non altro più di un altro survival-realistico analogo come il soporifero Captain Phillips, a mancare alla visione è un minimo di profondità.
Il film non cerca di impelagarsi in implicazioni politiche. Questo da una parte è un bene, perché se non altro non scade nella propaganda pro-Bush che sarebbe apparsa discutibile già nel 2005, figuriamoci oggi. Dall’altra parte, non proponendo alcuna visione politica, Lone Survivor resta un action fine a se stesso. Una celebrazione dell’eroismo da parte di un gruppo di ragazzi, di uomini pronti a dare la loro vita, ma non si sa bene per quale motivo.

ATTENZIONE SPOILER
I titoli di coda che ci mostrano i veri soldati che sono morti durante l’operazione rappresentata nel film vorrebbero essere emozionanti, e immagino che per una parte del pubblico lo siano anche, ma a me sono sembrati una ruffianata degna di Studio Aperto. Del tutto fuori luogo poi le note di “Heroes” di David Bowie, qui proposta nella cover di Peter Gabriel. Che fossero uomini coraggiosi non lo metto in dubbio, ma eroi? Per quale motivo? Perché hanno combattuto per George W. Bush?

George W. Bush con Marcus Luttrell, interpretato nel film da Mark Wahlberg

Al di là di un discorso di tipo moralistico, sì oggi mi sento molto moralizzatore delle Iene, da un punto di vista cinematografico Lone Survivor è una pellicola troppo lunga, incerta se proporre una visione umanista oppure fracassona della guerra, con una serie di interpretazioni non molto memorabili da parte del solito poco efficace Mark Wahlberg e dei questa volta parecchio sottotono Ben Foster ed Emile Hirsch. Quello più in parte sembra Taylor Kitsch, cocco di Peter Berg che non è mai stato un mostro di recitazione. E il fatto che il migliore sia lui la dice lunga sull’impegno da parte degli altri…

Lone Survivor è allora la classica occasione sprecata. Non partivo con grosse aspettative ma la prima mezz’ora, dannato Peter Berg, era accattivante e promettente e mi aveva fatto ben sperare, peccato che poi il film diventi la solita americanata. E allora vai, anche questo post adesso si trasforma in un’americanata!

Dai, tutti con la mano sul cuore a cantare:

Oh, say can you see by the dawn's early light
What so proudly we hailed at the twilight's last gleaming?
Whose broad stripes and bright stars thru the perilous fight,
O'er the ramparts we watched were so gallantly streaming?
And the rocket's red glare, the bombs bursting in air,
Gave proof through the night that our flag was still there.
Oh, say does that star-spangled banner yet wave
O'er the land of the free and the home of the brave?
(voto 5,5/10)

venerdì 9 novembre 2012

La belva e le bestie

Le belve
(USA 2012)
Titolo originale: Savages
Regia: Oliver Stone
Sceneggiatura: Shane Salerno, Don Winslow, Oliver Stone
Tratto dal libro: Le belve di Don Winslow
Cast: Blake Lively, Taylor Kitsch, Aaron Johnson, John Travolta, Benicio Del Toro, Salma Hayek, Demián Bichir, Sandra Echeverría, Emile Hirsch, Shea Whigham, Mia Maestro
Genere: pulp
Se ti piace guarda anche: Domino, Alpha Dog, Traffic, Natural Born Killers, Weeds

Solo perché vi racconto questa storia,
non vuol dire che alla fine io sia viva.

Una scena del tutto a caso dal film Le belve, che vede protagonisti
Aaron Johnson e Blake Lively le chiappe di Blake Lively.
La voce off di Blake Lively a inizio visione sembra scaraventarci in una puntata di Gossip Girl particolarmente tossica e sessualmente esplicita, giusto un pelo più influenzata da Viale del tramonto e American Beauty anziché da Dallas e The O.C.. Invece no. Invece non è Gossip Girl. Invece questa è la nuova pellicola di Oliver Stone. Oliver Stone, eccheccazzarola.
Ma torniamo al punto in cui tutto è iniziato, come la suadente voce della suadente Gossip Girl ci invita a fare. E allora partiamo dal titolo: Le belve. Un titolo molto tarantiniano che fa il verso a Le iene, per un film dalle tinte tarantiniane. Quello originale invece era Savages, parola che svolge un ruolo centrale all’interno della pellicola e che purtroppo non poteva essere tradotta qui da noi, poiché esiste già il film Selvaggi. Pellicola di Carlo Vanzina del 1995 parecchio sottovalutata ma che in realtà è la vera fonte d’ispirazione principale della serie Lost.
Pensateci su: non raccontano alla fine della fiera la stessa identica storia? E gli scontri tra Ezio Greggio e Antonello Fassari non ricordano un po’ quelli tra Jack e Sawyer? E il finale in cui finiscono nel Triangolo delle Bermuda non fa altrettanto sci-fi?

"Yes we canne! Perché se non fumi guardando questo film, godi solo a metà."
Dopo aver svelato questo mistero su Lost, torniamo ai selvaggi del film Savages. Selvaggi che hanno le fattezze glamour di una versione californiana dei The Dreamers di Bernardo Bertolucci.
Troviamo la bionda Blake Lively presa a sandwitch in un ménage à trois con i cannabis kids Taylor Kitsch (la serie Friday Night Lights, piuttosto che i dimenticabili Battleship e John Carter) e Aaron Johnson (Kick-Ass, ma anche il video dei R.E.M. “Überlin”). Il film potrebbe andare avanti con loro due che si scambiano nel letto con la gossip girl e credo nessuno avrebbe da lamentarsi troppo, però la sceneggiatura tratta da un romanzo di Don Winslow prevede ulteriori sviluppi. Un intreccio criminale parecchio incasinato e non troppo originale, che sfocia nel classico rapimento della sgnaccherona Blake Lively e in una serie di situazione che più che da un romanzo sembrano prese in prestito dalle missioni del videogame Grand Theft Auto.

"Se non fumi, godi solo a metà! Capito, chiappette d'oro?"
Oliver Stone negli ultimi tempi sembra un po’ riciclare se stesso: con W. su George W. Bush tornava sui sentieri politici di JFK, con Wall Street - Il denaro non dorme mai tornava sulla scena del delitto del primo Wall Street alla luce della crisi economica attuale e ora con Le belve torna agli anni ’90 pulp di U Turn - Inversione di marcia e Assassini nati. Tutti hanno paragonato i Savages ai Natural Born Killers, però, a guardarli più da vicino, sono creature molto differenti. Entrambi i film sono violenti, è vero, ma Assassini nati era una vera e propria riflessione sulla violenza. Qui c’è una violenza più action, più fumettistica, più divertente, se la violenza può essere considerata divertente. E se siete fan del pulp sapete che sì, può esserlo eccome.
Le belve è puro entertainment, prendere o lasciare. Un divertissement a tratti godurioso e piacevole, seppure tirato un po’ troppo per le lunghe. Al termine delle 2 ore e passa di visione di questo noir poco noir e molto solare, si rimane disorientati e storditi da una storia che non sembra sapere dove andare a parare, sensazione confermata pure dal doppio finale che ci spara.

"Qualcuno sa dirmi che fine hanno fatto i miei capelli?"
Il reparto attoriale è di gran prestigio e mescola giovani speranze (i tre glamour dreamers sopra citati) insieme a vecchie (ma non troppo) glorie, come i molto pulp John Travolta, Salma Hayek e Benicio Del Toro. Eppure nessuno convince in pieno. Blake Lively è più bona che brava a recitare, ma non è comunque una cagna totale, Aaron Johnson sarebbe bravo ma qui non si applica, e Taylor Kitsch continua a non convincere su grande schermo come faceva invece in tv in Friday Night Lights. Quanto a John Travolta, è solo l’ombra del Vincent Vega che era in Pulp Fiction, Benicio Del Toro sembra la brutta copia del suo personaggio in Traffic e Salma Hayek è invecchiata muy bien ma pure per lei vale la regola: più bona che brava. Per i cronici della cronaca, va annotata anche la presenza del sempre valido Emile Hirsch, ma gli è stato affidato un ruoletto davvero troppo minuscolo, quindi per lui scatta il senza voto come ai calciatori che entrano a 5 minuti dalla fine della partita.

"Se mi togliete la benda, vi dimostrerò che oltre a delle belle ciappette
ho anche molto da dire... Hey, ma perché state tutti ridendo?"
Le belve vanta poi una colonna sonora ultra cool che frulla di tutto e di più insieme, dai Massive Attack ai Talking Heads in versione bossanova, e sfoggia una regia di Oliver Stone in grado di gasare solo a tratti, specialmente all’inizio, poi anche lui si rilassa nell’atmosfera da cannabis di Ben & Chon e si appittisce in riprese piuttosto standard. Alla fine comunque ci si diverte e il ritmo è alticcio per quasi tutta la durata, sebbene la sceneggiatura sia priva di quei dialoghi ironici, geniali e ricchi di riferimenti alla pop culture che fanno la differenza tra uno script ordinario e un capolavoro tarantiniano.
Una pellicola pulp dal contenuto pressoché inesistente, ma di splendida superficie. Non una Stone miliare nella carriera di Oliver, però comunque un film che ha il suo perché. Anche se non credo di aver ancora capito quale.
(voto 7+/10)


giovedì 7 giugno 2012

Batt*na navale

Battleship
(USA 2012)
Regia: Peter Berg
Cast: Taylor Kitsch, Brooklyn Decker, Alexander Skarsgård, Rihanna, Jesse Plemons, Tadanobu Asano, Liam Neeson, Hamish Linklater, Adam Godley, Louis Lombardi, Stephen Bishop
Genere: fanta-naval-bellico
Se ti piace guarda anche: Armageddon, Transformers, 2012, Top Gun, Independence Day, Pearl Harbor


"Ho bisogno di rinforzi! A Rihanna uno solo non basta..."
E così hanno fatto un film tratto da Battaglia navale.
Cosa? Un adattamento cinematografico di Battaglia navale???
Battaglia navale, quella roba a cui giocavamo tutti, almeno noi figli degeneri degli anni ’80, ma penso ci giocassero anche prima. Non so se oggi ci giochino ancora. Adesso non ho intenzione di dire: “Ah, bei tempi, quelli in cui c’erano giochi come battaglia navale”, perché era un gioco abbastanza di merda, diciamolo. Molto meglio le diavolerie tecnologiche di oggi.
Il prossimo passo comunque quale sarà? Una pellicola su rubamazzetto? Sullo scopone scientifico l’hanno già fatto, con Alberto Sordi, ma a quando un remake americano? Qualche anno fa avevo sentito persino di un progetto cinematografico dal Monopoli cui starebbe lavorando Ridley Scott. Ma spero di averlo solo immaginato.
E l’impiccato?
Da quel gioco, sì che ne uscirebbe un bel film horror. Cazzo, quasi quasi la scrivo io una sceneggiatura basata sull’impiccato. Ne potrebbe uscire fuori una discreta porcheria commerciale. Hollywood, arrivo!

"Buonasera... sempre pronto a sacrificarmi per la patria!"
Parlare di “adattamento cinematografico” qui è peraltro esagerato. Questo Battleship non è cinema. Non può essere considerato cinema. È un giocattolone. Come tutti i giocattoli, il suo unico scopo è quello di intrattenere e, possibilmente, divertire. Obiettivo riuscito solo in parte. La prima parte, la prima mezz’ora, da questo punto di vista è ottima. Vabbè, decente più che ottima. Ha una buona dose di umorismo e introduce per bene i personaggi, seppure siano ovviamente molto stereotipati: il protagonista cazzaro che non sa cosa combinare nella vita opposto al fratello militare rigido e precisino. Per metterlo in riga dopo l’ennesima bravata, il soldatino lo fa arruolare in marina insieme a lui e, nel giro di appena pochi mesi, misteriosamente diventerà uno dei sottoufficiali più importanti del corpo della marina americano. Misteri del cinema (e forse anche della marina) americani, visto che in Italia per raggiungere un simile livello di potere devi avere almeno 60 anni. Di esperienza, non di età.

"Rihanna, vuoi che partecipi anch'io alla tua personale battaglia anale navale?
Oltre alla storia dell’arruolamento, il protagonista Taylor Kitsch, già visto nel memorabile telefilm Friday Night Lights e nel dimenticabile film John Carter, si innamora. Ma non di una tipa qualunque. Di una delle più grandi fighe mai viste su grande schermo (e non solo) dai tempi di Megan Fox in Transformers, ovvero Brooklyn Decker. Per gli amici, anche Poppe di Brooklyn. Giusto per fare un po’ di vera cul-tura, vi informo che è una modella divenuta famosa grazie alle sue “apparizioni” (è proprio il caso di usare questa parola) su Sports Illustrated, mentre nel cinema aveva esordito con l’orrido Mia moglie per finta. Se già lì il suo body si ergeva a unica cosa decente del film, in Battleship buca davvero lo schermo. Come attrice non sarà fenomenale, però è fin da ora una seria candidata all’Oscar di Miglior Corpo cinematografico dell’anno.
Ma se lei è la Dea del film, la Battona navale cui è dedicato il titolo del post è un’altra.


Rihanna, chi se non lei?
Rihanna è talmente una battona navale, che non ce la fa a non fare la zoccola nemmeno in presenza di quello stoccafisso di Chris Martin dei Coldplay.


Rihannal che qui è al vero e proprio esordio cinematografico. A lei a sorpresa è stato dato il ruolo non della ninfomane, che avrebbe interpretato benissimo, bensì di personaggio simpatico del film. Non sorprende quindi se la pellicola, dopo una prima parte in grado di strappare più di un sorriso, quando affida a lei i momenti divertenti non è che faccia proprio morire dal ridere. Sentirla dire: “Mahalo, stro**o!” prima di uccidere un alieno, infatti più che ridere fa piangere.


"Recitare? What is recitare???"
Non so voi, ma io comunque con una Rihanna che mi protegge il culo da una minaccia aliena, mi sento un po’ più sicuro. Per aiutare le popolazioni terremotate, ad esempio, un po’ di Rihanna non farebbe male. Un qualche modo per tornare utile, credo si riesca a trovarglielo.

Tornando dalla battona navale alla battaglia navale, è qui che arrivano le note dolenti del film. Se la parte introduttiva della pellicola funziona bene, tra gag più o meno comiche e qualche risvolto romantico alla Michael Bay di Armageddon, dopo la prima mezzoretta arrivano gli alieni e il film diventa una guerra intergalattica fracassona e noiosa. In perfetto stile Michael Bay di Transformers.
Comunque la si veda, il riferimento cinematografico (?) massimo del film è Michael Bay.
Ci sarebbe anche un filo di Top Gun, soprattutto all’inizio, peccato che la parte dedicata all’addestramento del protagonista, che sarebbe potuta essere la più interessante e divertente, sia saltata a piè pari e si ritrovi  il ragazzo già bell’e che pronto a guerreggiar in mezzo al mar.
(non prima di aver tirato durante una partita di calcio un rigore alle stelle che manco il Baresi di USA '94!)


"Siamo i Daft Punk. Siam venuti sulla Terra per liberarvi dalla musica di Rihanna."
Peccato, perché il regista Peter Berg è l’autore di Friday Night Lights, serie davvero interessante e originale, mentre qui non osa niente e sembra essersi limitato giusto a svolgere il compitino per fare una pellicola spettacolare e commerciale il giusto. Obiettivo agganciato sulla griglia della battaglia navale solo in parte, visto che negli USA si sta rivelando un floppone notevole mentre nel resto del mondo è ancora andato benino.
Da Friday Night Lights, oltre al protagonista Taylor Kitsch qui con un taglio di capelli corto da bravo aspirante novello Tom Cruise, Peter Berg si è portato appresso anche il rosso Jesse Plemons, vero spirito umoristico del film (altroché Rihanna), nonché idolo incontrastato della pellicola. Nel cast figurano poi Alexander Skarsgård, tanto per far bilanciare il rapporto fighi-fighe all’interno del film in maniera equilibrata, e Liam Neeson che di solito non sopporto ma che qui nella parte del marine scorbutico e odioso calza a pennello.
"Ma fo**etevi, Daft Punk alieni!"

La cosa che riesce a tenere un po’ vivo l’interesse nei confronti del film, oltre alla Brooklyn Decker che se ne va a spasso in un’ambientazione hawaiiana ma più che altro lostiana, è la commistione di generi.
Fondamentalmente, è una pellicola bellica, visto che le estenuanti scene di guerra occupano un numero esagerato di minuti. Però è anche una storia catastrofica, di cui in questi giorni tra l’altro faremmo pure volentieri a meno. Ed ha anche un minimo di componente fantascientifica, visto che la minaccia arriva dallo spazio, da dei misteriosi alieni la cui psicologia non è manco minimamente spiegata. Sono arrivati qui con dei caschi alla Daft Punk, vogliono distruggerci e gli umani, o meglio gli americani (con un piccolo aiuto cinese, perché oggi la Cina è diventata un mercato cinematograficamente importante) salvano il mondo.

ATTENZIONE SPOILER
Per la precisione è Rihanna che sparando un missile ci salva tutti.
E che Rihanna con un pistolone per le mani ci sapesse fare, credo nessuno avesse il minimo dubbio.


Non fosse stato ispirato a Battaglia navale e non ci fossero un’ora e mezza di noiose battaglie navali di troppo, sarebbe anche stato un discreto intrattenimento action. Così com’è uscito, invece, è un giocattolone di quelli che ti divertono per qualche minuto, ma che dopo poco hai già dimenticato in fondo all’armadio, seppellito da nuovi e più esaltanti games. Fino a che non ti decidi a buttarlo via.
Sorry, Battleshit: colpito e affondato.
(voto 5,5/10)

martedì 5 giugno 2012

John Farter

John Carter
(USA 2012)
Regia: Andrew Stanton
Cast: Taylor Kitsch, Lynn Collins, Daryl Sabara, Dominic West, Mark Strong, Bryan Cranston, Samantha Morton, Willem Dafoe, Thomas Haden Church, James Purefoy, Ciaran Hinds, Polly Walker
Genere: avventura poco avventurosa
Se ti piace guarda anche: Stargate, Avatar, La Mummia, Timeline, Prince of Persia - Le sabbie del tempo, Tron: Legacy

Premessa: John Carter è un film tratto dal romanzo Sotto le lune di Marte, scritto da Edgar Rice Burroughs nel 1911, più di cento anni fa. Nel libro, il protagonista finisce su Marte, un pianeta che all’epoca poteva essere immaginato pieno di vita.
Adesso sappiamo che non è così. Su Marte non c’è vita, almeno non in superficie. Sorry, David Bowie. E se anche ci fossero delle vaghe forme di vita, di certo non sarebbero degli insettoni verdi che sembrano una versione dei na’vi dopo essersi accoppiati selvaggiamente con Shrek.
E, di certo, su Marte non c’è figa.


Che poi, a dirla tutta, la Lynn Collins è figa e tutto, assomiglia pure a Evangeline Lilly e a differenza della quasi omonima Lily Collins ha persino delle sopracciglia da essere umano, nonostante sia marziana, però a fare proprio gli schizzinosi possiamo dire che potevano anche prendere di meglio. Chessò, una Jennifer Lawrence o una Amber Heard, per esempio. Anche perché a livello recitativo la Collins è su livelli decisamente bassini. A sua difesa, va detto che l’ottimo cast arruolato per la pellicola si trova di fronte a una sceneggiatura talmente ridicola, che è difficile risultare decente per chiunque.
Persino per Bryan Cranston, il fenomenale protagonista della serie Breaking Bad.

"Riportami sul set di Breaking Bad, te ne prego!"

E, a proposito di Breaking Bad, ecco il poster della stagione 5, che così alziamo - e di brutto - il livello qualitativo di questo post.


Se nella realtà sappiamo che su Marte non c’è vita, o almeno non c’è figa, gli sceneggiatoroni di John Carter potevano allora decidere di spostare l’azione (azione? ma se ‘sto film fa dormire?) su un pianeta fittizio. Giusto per dare al tutto un minimo di credibilità. Perché va bene la sospensione dell’incredulità, però in questo caso andrebbe accompagnata anche a una bella sospensione della patente di sceneggiatori.

"Scorreggiare ti mette le aaali!"
La prima parte del film non è neanche così male. Sul serio. E con prima parte intendo i 15 minuti circa, o forse meno, iniziali ambientati sulla Terra. Il problema è tutta la seconda parte, che fa risultare il film eccessivamente lungo. Giusto di quelle due ore di troppo.
Dopo la prima parte introduttiva, non si sa bene perché, non si sa bene per come, manco ci interessa scoprirlo, John Carter all’improvviso si ritrova fiondato su Marte. Qui scopre di avere un potere particolare: può compiere dei salti pazzeschi. Perché? All’inizio non lo sa, ma poi scoprirà che ogni volta che scoreggia, liberandosi del gas corporeo creato da una dieta a base di pasta & fagioli alla Bud Spencer & Terrence Hill (arriva pur sempre da un periodo vicino a quello del vecchio West), diventa più leggero e riesce a compiere incredibili evoluzioni aeree.
Gli alieni, vedendolo, cominciano così a chiamarlo John Farter ed è con questo nome che entrerà per sempre nella leggenda di Marte.

Che altro succede, in questo film, a parte i salti scorreggioni? Ben poco, o meglio, le solite cose che ci si può aspettare da una pellicola del genere, e con genere intendo “film scoreggione” o anche una sorta di Stargate in tono minore. O un La Mummia di serie B. E già La Mummia era cinema di serie B, senza offesa per i veri B-movies, quindi questo John Carter cos’è? Serie C? Serie D? O serie E-vitar? Gli effetti speciali e tutta la lunga, estenuante parte su Marte ricordano infatti da vicino proprio le atmosfere dello scult cameroniano Avatar. E dalle parti di Pensieri Cannibali non esiste paragone peggiore, ormai dovreste saperlo.

"Hey, cosi verdi, qualcuno di voi mi presta dell'insetticida?"
Tra le cose davvero sorprendenti che succedono, ci sono le solite scenone (ben poco) epiche di guerre e combattimenti insensati vari, i soliti effettoni speciali, tra l’altro particolarmente brutti, a cercare di supplire alle evidenti falle di sceneggiatura, e poi il protagonista terrestre che si innamora della principessa marziana figa che però era già promessa sposa a uno stronzo (Dominic West delle serie The Wire e The Hour) con un matrimonio combinato e insomma è una storia davvero così inedita e fantasiosa che solo per questo la pellicola merita di essere considerata di genere fantasy, nevvero?
E, a proposito di termini desueti, questo film appare arrivare in leggero ritardo sui tempi. Giusto di un secolo. La storia da cui è tratto poteva infatti sembrare originale e magari persino una figata cento anni fa, all’indomani della sua pubblicazione, ma oggi dopo l’arrivo di miliardi di milioni di film/romanzi/serie tv sci-fi simili non è che sia proprio di primo pelo. È una pellicola che, al limite, ci sarebbe potuta stare bene negli anni ’90, visto anche il look da capellone grunge del protagonista Taylor Kitsch, già visto nell’ottima serie Friday Night Lights.

"È inutile che tenti di sedurmi. Siamo in un film Disney, non faremo sesso."
"Ma nemmeno un lavoretto di mano?"
E parliamo di Taylor Kitsch, allora: il giovane promettente (almeno prima di questo film) attore innanzitutto dovrebbe cambiare cognome perché kitsch è davvero di pessimo gusto.
Che battuta! Ahahaha
Taylor Kitsch per seconda cosa dovrebbe smetterla di fare film kitsch.
Che seconda battuta! Ahahah
Tra questo e quell’altra produzione commerciale di Battleship (comunque un capolavoro al confronto di John Carter), la sua carriera cinematografica non sta prendendo una bella piega. Si sta trasformando semmai in una piaga. Anche perché entrambi sono stati due bei flopponi al box-office. Soprattutto questo John Farter, costato 250 milioni di dollari ma si mormora anche di più e in grado di incassarne negli Usa appena una 70ina.
Taylor Kitsch, insomma, smettila con questi flopponi spaziali e passa al cinema indipendente, che almeno in quell'ambito incassare poco significa aver realizzato qualcosa di artisticamente troppo avanti per i tempi.

"John, te lo facciamo noi un lavoretto, non quella zoccoletta.
Guarda quante mani abbiamo!"
Uno dei problemi del film, oltre a essere tremendamente noioso e sorpassato, è che le cose succedono senza una ragione. Si passa da una dimensione all’altra così, alla cazzo di cane. Come nella serie Awake. In Matrix, per quanto assurdi, i passaggi avevano un senso. In Inception ce l’avevano. Qui e in Awake no.
L’altro problema è la produzione edulcorata della solita Disney, con i buoni che sono più che buoni e i cattivi che sono più che cattivoni. Non a caso il regista è Andrew Stanton, comunque decisamente più a suo agio con l’animazione, visto che i suoi Wall-E e Alla ricerca di Nemo sono due tra i migliori film Pixar. Una Disney che poi nega persino mezza scena di sesso ai due protagonisti anche dopo essere convolati a giuste nozze, con lui che invece di ciularsi la neo-mogliettina preferisce star fuori a prendersi una boccata d’aria insieme a questo mostruoso cagnolino marziano…

"Baciami, John Carter. Baciami ora!"

Il film comunque ha dalla sua un paio di note positive. La prima è che il cast raccattato è di buon livello, peccato sia del tutto sprecato. La seconda è che la visione si regge su livelli quasi decenti. Peccato sia solo per i primi 15 minuti, perché quando John Carter parte su Marte, la pellicola diventa una porcheria senza arte né parte.
(voto 3/10)

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