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venerdì 21 agosto 2015

Il . sulle serie tv 2015: telefilm thriller





Ci sono tante serie tv in giro e ce ne sono un sacco di cui ancora non ho mai parlato. Perché?
Perché non c'avevo voglia, ecco perché. Prima che parta la nuova stagione 2015/2016 e rimanere definitivamente indietro è però meglio fare un recap della situazione su quanto visto nei mesi passati. Perché?
Perché adesso m'è venuta voglia, ok?
La prima puntata di questi post telefilmici è dedicata al genere thriller.

Wayward Pines

Spacciata come serie-evento, venduta come l'erede di Twin Peaks, attesissima e pompatissima, Wayward Pines si è rivelata...

lunedì 30 marzo 2015

CE NE VANNO DI 50 CENT PER POTER DIVENTARE RICH





Get Rich or Die Tryin’
(USA, Canada 2005)
Regia: Jim Sheridan
Sceneggiatura: Terence Winter
Cast: 50 Cent, Joy Bryant, Terrence Howard, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Omar Benson Miller, Viola Davis, Tory Kittles, Serena Reeder
Genere: hip-hop
Se ti piace guarda anche: Empire, 8 Mile, Notorious, Hustle & Flow - Il colore della musica, Get On Up, Ray

Yo yo, raga, oggi si parla di rap. Si parla di un rapper. Si parla di 50 Cent.
Mani su se volete un post su 50 Cent! Mani su se volte un post su 50 Cent!

lunedì 12 gennaio 2015

ST. VINCENT, IL SANTO PATRONO DEI DILUDENDI





St. Vincent
(USA 2014)
Regia: Theodore Melfi
Sceneggiatura: Theodore Melfi
Cast: Bill Murray, Jaeden Lieberher, Melissa McCarthy, Naomi Watts, Terrence Howard, Ann Dowd, Chris O'Dowd, Nate Corddry, Dario Barosso
Genere: vecchietto meets bimbetto
Se ti piace guarda anche: About a Boy, Gran Torino, Up

St. Vincent aveva tutte le carte in regole per piacermi. Persino per diventare un mio nuovo cult. Forse persino per diventare un mio nuovo santino personale.
Per prima cosa, si tratta di una pellicole indie, e io in genere adoro le pellicole indie. Sono proprio un maledetto hipster. Anche se ultimamente, va detto, tendono a somigliarsi un po' tutte e quindi da questo punto di vista ormai ricordano i “nemici” hollywoodiani, ovvero pellicole prodotte in serie senza un briciolo di originalità.
Quindi ci sono i due protagonisti, un vecchietto e un bambinetto, per quello che si preannuncia un “About a Boy della terza età”, come definito in maniera azzeccata da Mr. Ink. About a Boy è un film che io amo, tratto per altro da uno dei miei romanzi preferiti, Un ragazzo di Nick Hornby. Non è mica finita qui: il protagonista interpretato da Hugh Grant è addirittura uno dei miei modelli esistenziali assoluti.
Quanto alle “pellicole sulla terza età”, non ne sono un gran fan, però in questo caso il vecchietto protagonista è Bill Murray, l'idolo di film come Ghostbusters e Lost in Translation, qui dalle parti di Pensieri Cannibali sempre parecchio apprezzato, sia per l'ironia che accompagna molti dei suoi personaggi che per le scelte raramente scontate delle pellicole da interpretare.
Bill Murray porta qui sullo schermo un vecchietto stronzetto, ma diciamo anche stronzone. Un tipo all'apparenza burbero, menefreghista, scontroso, con in più una passione per prostitute, alcool, cibo spazzatura e gioco d'azzardo. Praticamente è come potrei essere io tra 50, diciamo anche 60 anni. A parte la passione per il gioco d'azzardo, che non ho mai avuto.

mercoledì 15 gennaio 2014

THE BUTLER – UN BLOGGER ALLA CASA BIANCA




Buongiorno badroni bianghi, cosa vi botere bortare?
Voi volere recensione di The Butler?
Lo so che voi aspettare già da un bo’, berò io essere imbegnato con classifiche di fine anno e boi essere imbegnato a servire un tibo abbastanza imbortante, uno che vive in una casa bianga, bianga come voi, e quindi scusare tanto se no trovare tembo ber fare recensione. Che boi non essere una di quelle recensioni fondamentali, amico. No si trattare di una di quelle che esaltare e consigliare di vedere il film a tutti i costi, e no si trattare nemmeno di stroncatura secca. Essere biuttosto una di quelle recensioni medie per una bellicola media che avere bregi e difetti e io boi berché barlare così? Io avere studiato in ottima scuola con voi bianghi e boi in questo film gente no barlare così, io confondere con Australia di Baz Luhrmann, quindi io ora smettere di barlare così, okay badroni?


The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca
(USA 2013)
Titolo originale: The Butler
Regia: Lee Daniels
Sceneggiatura: Danny Strong
Ispirato all’articolo: A Butler Well Served by This Election di Wil Haygood
Cast: Forest Whitaker, Oprah Winfrey, David Oyelowo, Cuba Gooding Jr., Terrence Howard, Yaya Alafia, Jesse Williams, Lenny Kravitz, John Cusack, Robin Williams, James Marsden, Minka Kelly, Liev Schreiber, Nelsan Ellis, Alan Rickman, Jane Fonda, Mariah Carey, David Banner, Alex Pettyfer, Vanessa Redgrave
Genere: servizievole
Se ti piace guarda anche: The Help, Forrest Gump

La prima cosa di una pellicola che salta all’occhio di un pubblico di bianchi sono i difetti. Ah, i bianchi, mai contenti di niente! Sempre a guardare il lato negativo delle cose. The Butler è un film di quelli che trattano una tematica impegnata, come lo schiavismo e il razzismo, è pieno di retorica, è un’americanata ruffianata, in pratica. Questo è un difetto, senza dubbio. Però al suo interno non ci sono solo difetti.
Gli attori sono bravissimi e questo potrebbe non sembrare un difetto, però forse un po' lo è perché sono di quel bravissimo perfetto per l’Academy e per i premi vari. Un bravissimo talmente perfetto che perfino l’Academy potrebbe non cascarci più, considerando ad esempio come ai Golden Globe il film a sorpresa sia stato ignorato alla grande. Ed è un peccato, perché Forest Whitaker offre una performance notevole, non ai livelli di Ghost Dog, che quello rimane un film che vale una carriera e pure una vita, però è comunque notevole. Molto più ad esempio del pessimo Tom Hanks del pessimissimo Captain Findus. E ancor più degna di nota è la non protagonista Oprah Winfrey. Sì, “quella” Oprah Winfrey. La presentatrice più importante e ricca della tv americana, qui davvero fenomenale nei panni vestiti in maniera dannatamente naturale della moglie di Forest Whitaker.


Stupisce pure una irriconoscibile Mariah Carey in un piccolo ruolo, mentre Lenny Kravitz si conferma caratterista di razza ed è ormai capace di far dimenticare di essere una rockstar sexy e desiderata in tutto il mondo. Al cinema anzi è proprio bruttarello. È più bello Forest.
Da tenere d’occhio poi la fighissima e stylosissima Yaya Alafia (anche nota come Yaya DaCosta), quella de I ragazzi stanno bene, e il giovane David Oyelowo, che ha la parte del figlio maggiore di Whitaker. È proprio nel rapporto padre/figlio, nello scontro tra due differenti generazioni e tra due differenti modi di essere “negro” che il film ha i suoi momenti più intensi ed efficaci. È qui che sta il cuore del film.


Forest Whitaker è il cameriere di colore che passa la sua vita al servizio dei bianchi. Vive dentro al Sistema ma, zitto zitto, contribuisce in qualche modo a cambiarlo. Se oggi alla Casa Bianca siede un uomo di colore è anche grazie a uno come lui. Dall’altra parte il figlio David Oyelowo è invece un rivoluzionario, un ribelle, una Black Panther, uno che non ci sta a servire l’uomo bianco, lo Zio Tom, sì badrone. È anche grazie a quelli come lui se oggi alla Casa Bianca siede un uomo di colore. È qui che il presunto buonismo della pellicola, molto evidente in superficie, comincia a non essere poi tanto evidente. A contribuire al cambiamento sociale, al Change, ci sono stati pure i movimenti violenti. Questo è ciò che suggerisce il film e non è che sia proprio un messaggio così ruffiano o politically correct, che ne bensate, badroni?
La vera mazzata offerta dallo script di Danny Strong, mitico Jonathan in Buffy – L’ammazzavampiri e goldenglobbizzato per l’ottima sceneggiatura del film tv HBO Game Change, è però un’altra. Il film paragona infatti in maniera esplicita la segregazione razziale americana ai campi di concentramento nazisti, una cosa che non si sente certo tutti i giorni in una grossa produzione hollywoodiana. Non ad esempio nel ben più ruffiano Forrest Gump, film che voi badroni bianchi tanto amare.

"Il mio nome è Forest Gum... volevo dire Forest Whitaker."

Peccato che non tutta la pellicola sia altrettanto coraggiosa. Non lo è ad esempio la regia di Lee Daniels. L’autore del notevole Precious sembra aver messo da parte la ferocia di quel film, potente non solo a livello di contenuti ma anche stilisticamente, e qui adotta una regia molto formale, molto piatta. È come se Lee Daniels fosse passato dall’essere un giovane ribelle nero incazzato, come David Oyelowo nel film, a un uomo maturo che cerca di convivere dentro il sistema giocando secondo le regole, come Forest Whitaker nel film. Ed è così che ha firmato una pellicola che a livello registico poteva osare di più e che a livello di contenuti ha qualche spunto non male ma poi a un certo punto è come se tirasse indietro la mano, mentre a livello emotivo non riesce a essere coinvolgente tanto quanto una pellicola che affronta una tematica simile come il più efficace The Help.

La sfida di un racconto diluito parecchio nel tempo come questo, si parte dagli anni ’20 e si arriva al presente, era ardua. La sceneggiatura di Danny Strong ne esce in maniera tutto sommato decente, considerando i quasi 100 anni da raccontare. Nel voler trattare una storia e una Storia tanto ampie e lunghe, a essere tratteggiati in maniera inevitabilmente superficiale sono i vari presidenti degli USA per cui il personaggio di Forest Whitaker lavora: John Cusack nonostante il nasone che gli hanno appiccicato in faccia non c’azzecca un granché con Richard Nixon, Robin Williams è un Eisenhower macchiettistico, James Marsden si sforza ma non è per niente un JFK convincente, Liev Schreiber come Lyndon Johnson si poteva evitare, mentre Alan Rickman come Ronald Reagan ci sta, così come Jane Fonda nei panni della moglie Nancy Reagan.


Tanto tempo, troppo tempo, troppi Presidenti, troppi decenni da raccontare, troppi cambiamenti epocali e parecchi ovviamente non trovano lo spazio che avrebbero meritato. Da una materia così complessa, sia a livello temporale che di contenuti, si poteva tirare fuori un disastro, invece The Butler riesce a portare il suo servizio a buon, diciamo discreto compimento. Il film non dice niente di troppo nuovo a parte il citato paragone schiavismo/nazismo, e ci racconta storie che già conoscevamo. Eppure si lascia guardare dall’inizio alla fine e alcuni momenti, per quanto noti, è sempre bello riviverli. Come l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, un passaggio storico epocale almeno quanto il primo passo dell’uomo sulla Luna.

Si poteva, era legittimo pretendere un maggiore coraggio, certo. Ma a volte è meglio non strafare. A volte è meglio agire in maniera più composta, più sotterranea, e contribuire anche così a mutare le cose. C’è poco di rivoluzionario in un film come The Butler, però solamente un paio di passaggi di sceneggiatura per niente politically correct e scontati, come in questo caso, possono bastare. Le cose si possono cambiare pure così. Passo dopo passo. Presidente dopo Presidente. Film dopo film. Un pochino alla volta. Come fare Forest Whitaker in questo The Butler e come fare io, umile cameriere blogger al servizio di voi breziosi e illustri lettori bianghi di Bensieri Cannibali. Certo berò che una volta voi botere anche lasciare a me mancia, brutti badroni sbilorci!
(voto 6+/10)

venerdì 15 novembre 2013

PRISONERS, PRIGIONIERI E PRIGIONOGGI




Prisoners
(USA 2013)
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura: Aaron Guzikowski
Cast: Jake Gyllenhaal, Hugh Jackman, Maria Bello, Terrence Howard, Viola Davis, Paul Dano, Melissa Leo, Dylan Minnette, Zoe Borde, Erin Gerasimovich, Kyla Drew Simmons, Wayne Duvall, David Dastmalchian
Genere: labirintico
Se ti piace guarda anche: A History of Violence, Mystic River, Amabili resti, The Village, The Killing, Broadchurch

Prisoners, prigionieri, non lo siamo forse un po’ tutti?
Prigionieri delle convenzioni sociali. Prigionieri dello Stato. Prigionieri di Equitalia (evvai di populismo!). Prigionieri nel rapporto con gli altri. Prigionieri di quello che le persone si aspettano da noi. Prigionieri del personaggio che ci siamo creati. Chi può dire di essere davvero libero?
Io ad esempio mi ritrovo quasi costretto moralmente a scrivere stupidaggini e cacchiate, perché è questo a cui il personaggio Cannibal Kid ha ormai abituato il suo (esiguo) pubblico. Ma adesso basta. Oggi cercherò di scrivere una recensione seria. Forse.

ATTENZIONE: C’E’ QUALCHE SPOILER QUA E LA’. NIENTE DI CLAMOROSO, MA QUALCHE SPOILERINO POTRESTE BECCARVELO, QUINDI SE NON AVETE ANCORA VISTO IL FILM OCIO!


Come detto, chi più, chi meno siamo tutti prigionieri. Tra i “chi più” ci sono i personaggi di Prisoners. Da un film con un titolo del genere, cos’altro vi aspettavate?
Nei sobborghi di una cittadina della Pennsylvania, la tipica cittadina inquietante americana, due tipiche famiglie americane, una black e una white, passano insieme il Giorno del Ringraziamento, la festa americana più americana che ci sia. La giornata passa in maniera piacevole e tranquilla e molto americana, i grandi stanno tra grandi a fare cose da grandi, i piccoli stanno tra piccoli a fare cose da piccoli. Tipo sparire nel nulla. Solo che non è nascondino. Passano le ore, viene sera e le due bambinette delle due famiglie non si trovano più. Dove sono finite? Voi le avete viste? Io no. Chi potrebbe saperne qualcosa è il tizio che stava sul furgone parcheggiato nella via dove le bimbe sono sparite. Forse.

Parte così quello che può sembrare un thriller tradizionale e in parte lo è. Un thriller tradizionale di quelli che così bene, ah, non ne facevano da quando ero anch’io piccolo come le bimbette scomparse. Tipo da Il silenzio degli innocenti del 1991. In tv qualcosa di non troppo distante per storia e qualità di recente lo si è pure visto, come The Killing e Broadchurch, al cinema non tanto.
Prisoners comunque è anche qualcos’altro. È un thriller-politico un po’ come The Village di M. Night Shyamalan era un horror-politico. Sì, proprio quel M. Night Shymalan, quello di porcherie come L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, però prima che si bevesse completamente il cervello. Perché dico questo? Perché si può tentare una lettura politica, riguardo a ciò che succede in Prisoners.

IT’S LETTURA POLITICA TIME
Il personaggio di Hugh Jackman, il padre della bambina bianca scomparsa, è l’America post 11 settembre della Guerra al terrore. Quella che tortura i propri nemici per avere le info che vuole. Quella che fa di tutto, non importa quanto ciò trasformi il torturatore in un mostro alla pari se non peggiore dei terroristi che combatte. In due parole: Jack Bauer. In tre parole: George W. Bush.
Il personaggio di Terrence Howard, il padre della bambina di colore scomparsa, è invece l’America del post Guerra al terrore. È l’America che non si sporca in prima persona le mani con il sangue, non ufficialmente, però non è nemmeno contraria a usare qualunque – QUALUNQUE – mezzo pur di ottenere ciò che vuole. Quella che non usa violenza, ma nemmeno ci prova a fermarla. Si limita a guardare dall’altra parte. Nel comportamento di Terrence Howard e della moglie Viola Davis possiamo vedere un riflesso degli Stati Uniti di oggi, gli Stati Uniti di Barack Obama.
E noi?
Dove sta l’Europa?
Maria Bello è l’Europa. Maria Bello, la moglie di Hugh Jackman, che si imbottisce di sonniferi e psicofarmaci e preferisce non sapere quello che il marito sta facendo.
Raccontato così, Prisoners potrebbe apparire un film anti-americano. Quello del regista canadese Denis Villeneuve potrebbe sembrare un atto d’accusa nei confronti degli Stati Uniti e invece…
Invece è una pellicola che preferisce non dare una morale. Non imprigiona lo spettatore a un pensiero unico. Chi guarda può farsi la propria idea. In fondo questo è solo un thriller, o no?
IT’S THE END OF THE LETTURA POLITICA TIME AS WE KNOW IT (AND I FEEL FINE)

"No, non è di mia foglia. E' mio. Chi lo dice che sono troppo grande per giocare con i pupazzi?"

A livello politico il film consente varie chiavi di lettura, questa è solo la mia personale, ognuno può trovare la propria. C’è chi può vederci dentro una condanna o al contrario una giustificazione di quanto fatto dagli americani a Guantanamo e non solo a Guantanamo (si veda Zero Dark Thirty) per ottenere le informazioni dai terroristi, e c’è anche chi può vedere la lettura politica come una forzatura e godersi semplicemente il film, che è un thrilerazzo della Madonna. Due ore e mezzo di tensione costante, che non scende fino alla fine. Di recente mi era capitato di rado di rimanere prigioniero di una pellicola con un livello di coinvolgimento simile. Anche nei bei film, può capitare un calo per un paio di minuti. Qui manco per un istante. Erano mesi che non mi capitava qualcosa del genere, ma che dico mesi? dico giorni. Anche un altro film nel passato recente mi ha coinvolto (quasi) allo stesso modo di Prisoners, ma ne parlerò a breve.

Il regista Denis Villeneuve ha un super potere: quello di schiantarti dentro i suoi film. Era capitato con il raggelante Polytechnique, era ricapitato con lo splendido La donna che canta, è riricapitato ora con Prisoners. Merito del canadese, che evita virtuosismi ma dirige con una precisione pazzesca. Detto così, potrebbe apparire uno stile freddo, in realtà Villeneuve fa sentire vicini ai suoi personaggi come pochi altri registi contemporanei. C’è una scena in particolare, quella in cui Hugh Jackman riconosce il calzino con il coniglietto della figlia, che mi ha messo i brividi. E io che ho i brividi per una scena con Hugh Jackman è una cosa mai successa. MAI.

"Donna invisibile, m'è appena sparita la figlia. Scusa neh, ma non ho tempo per venire a giocare a nascondino con te.

Se Wolverine è alla sua migliore interpretazione in assoluto, che dire di Jake Gyllenhaal, qui il detective che cerca di risolvere il mistero della sparizione delle due bimbe?
Jake Gyllenhaal, che attore straordinario! Il suo personaggio, oltre a un taglio di capelli scalato di quelli alla Rihanna/Miley Cyrus/Skrillex che vanno tanto tra i ggiovani d’oggi, ha un tic agli occhi pauroso. Non so se la cosa era presente in sceneggiatura, oppure è una particolarità che ha voluto aggiungere lui al personaggio, però recitare così è un rischio. Rischi di fare la figura dello scemo e sputtanare il film, invece Gyllenhaal è riuscito così a farci avvicinare ancora di più al suo detective. Il suo è un personaggio all’apparenza “neutro”, non troppo distante da quello di Jessica Chastain in Zero Dark Thirty; di entrambi sappiamo pochissimo, non vivono travolgenti storie d’amore, non li vediamo con la famiglia o con gli amici o altro. Nessuna nota personale. Li vediamo impegnati solo nella loro ossessiva caccia all’uomo, eppure tutti e due, grazie alle performance larger than life dei loro interpreti, sono dei personaggi vivissimi e umani come non capita spesso di vedere, non nei thrilleroni americani, se non altro.
Altra strepitosa prova è poi quella di un’irriconoscibile Melissa Leo, ma attenzione anche al volto nuovo David Dastmalchian e nota di merito pure per Paul Dano, alle prese con un personaggio super sfigato, persino più dei suoi soliti, in cui si trova parecchio a suo agio. Sarà un caso?


"Oh, ma che è? Rompermi il deretDano è diventato il nuovo sport nazionale americano?"
"Hey Donnie, lasciami. Non sono Paul Dano!"
"Ah ok scusami, ti avevo scambiato per lui..."

In tutto questo ben di Dio registico e recitativo il punto di forza assoluto è però un altro ancora. E non mi riferisco nemmeno alla splendida colonna sonora da brividi composta dall’islandese Jóhann Jóhannsson, impreziosita da “CODEX”, una chicca dei Radiohead, già usati dal regista pure in La donna che canta, dove “You and Whose Army?” era un po’ il tema sonoro che accompagnava la pellicola. Villeneuve possiamo quindi considerarlo a tutti gli effetti un fan delle teste di radio ed è una ragione in più per amarlo.
La vera arma di distruzione di massa messa in campo da Prisoners a cui mi riferisco è la sua fenomenale sceneggiatura, firmata dal quasi esordiente Aaron Guzikowski. Una sceneggiatura non tratta da romanzi, graphic novel, seghe fantasy, giochi da tavolo o altro. Una sceneggiatura originale, finalmente. La storia come detto non è nuova, il mistero della sparizione di ragazzine è una situazione in cui il genere thriller ha sempre giocato e continua a farlo, però è raccontata con la giusta dose di personalità, con un sacco di riferimenti come visto alla politica ma anche alla religione. È una sceneggiatura costruita in maniera perfetta, impeccabile, stratosferica, che Villeneuve è riuscito a trasformare in una pellicola incentrata sul simbolismo, tra labirinti, serpenti, effigi cristiane, un Jake Gyllenhaal che non parla con dei coniglioni ma è comunque parecchio ossessionato e un Hugh Jackman che non tira fuori gli artigli dalle mani ma riesce a fare di peggio.
Prisoners è un film che sa spiazzare, senza sparare fuori colpi di scena assurdi o improbabili, ma che colpisce solo con colpi (di scena e allo stomaco) ben assestati. Un film su cosa significa restare prigionieri che ti fa suo prigioniero per 2 ore e mezza senza mai darti alcuna certezza, lasciandoti in costante tensione e restandoti incollato dentro pure al termine. Un film che mostra cosa significa avere Fede, non solo da un punto di vista religioso, e soprattutto cosa significa perderla. Un film che fa finalmente fa riacquistare la Fede nel thrillerone americano.

IT’S LABIRINTO TIME
Per scoprire il voto cannibale a questo film, dovete risolvere il seguente labirinto.


Okay, potete scoprirlo anche senza risolverlo, ma sappiate che state barando.



domenica 28 aprile 2013

LA REGOLA DEL SILENZIO NON SBAGLIA MAI


La regola del silenzio
(USA 2012)
Titolo originale: The Company You Keep
Regia: Robert Redford
Sceneggiatura: Lem Dobbs
Tratto dal romanzo: La regola del silenzio di Neil Gordon
Cast: Shia LaBeouf, Robert Redford, Susan Sarandon, Anna Kendrick, Brit Marling, Julie Christie, Nick Nolte, Terrence Howard, Chris Cooper, Stanley Tucci, Brendan Gleeson, Richard Jenkins, Jackie Evancho, Sam Elliott
Genere: thriller politico
Se ti piace guarda anche: Il debito, Leoni per agnelli, La donna che canta, La chiave di Sara

La regola del silenzio non sbaglia mai. Se sei amico di una spia in galera finirai. E comunque chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù, va laggiù da quel folletto che si chiama diavoletto. Meglio quindi tenere la bocca chiusa e restare lontani dallo sguardo di occhi indiscreti.

Robert Redford dopo l’intrigante Leoni per agnelli torna in duplice veste regista/attore con una nuova pellicola dal forte sapore politico. Il regista va infatti a ritirare fuori il tema delle proteste contro la guerra nel Vietnam degli anni Settanta. Gli anni di piombo americani, se così vogliamo chiamarli in maniera impropria ma forse è meglio di no e quindi me lo ritiro che poi se no qualcuno magari si offende. Il passato che riemerge nel presente, in ogni caso, come in tutto un filotto di pellicole recenti da La chiave di Sara a Il debito, passando per gli ottimi Valzer con Bashir e La donna che canta.
Per di più, La regola del silenzio è anche un thriller. Un thiller politico dalle buone premesse che però si materializza in un nulla di fatto. Il classico nulla di fatto. La pellicola è diretta con mano solida dal Sundance Kid Robert Redford, qui molto poco Sundance, è recitata abbastanza bene dallo stesso Redford e da uno Shia LaBeouf che inserisce un altro metro abbondante di distanza tra sé e la saga fracassona di Transformers. Meno spazio invece per l’ottima parte femminile del cast, con ruoli troppo minuscoli per le sottoutilizzate Anna Kendrick, Susan Sarandon e Brit Marling. Comunque si tratta di un cast di quelli davvero notevoli, che comprende pure Terrence Howard, Stanley Tucci, Richard Jenkins, Chris Cooper, Julie Christie, Brendan Gleeson e un sempre più ciccionissimo Nick Nolte.

Una confezione di facciata messa su con notevole professionalità che garantisce una pellicola vedibile. Purtoppo, niente più di questo. La parte thriller infatti non riesce a catturare, ad avvincere, a portarti con sé dentro la sua ragnatela di personaggi. A livello umano, questi personaggi sono ben costruiti fino a un certo punto, poi anche loro quando dovrebbero darti la mazzata e farti provare un moto di empatia emotiva non ce la fanno. Laddove il film fallisce maggiormente nei suoi intenti è però soprattutto nella parte politica. Quello di Robert Redford vorrebbe essere un film controcorrente? Vuole mettere in discussione la politica degli Stati Uniti, il capitalismo, farsi portavoce dei rivoluzionari? Vorrebbe sollevare dubbi sullo ieri e sull’oggi?
Nelle sue intenzioni, può darsi. Peccato che gli unici dubbi che riesce davvero a sollevare nello spettatore sia sulla sua reale utilità. Come intrattenimento funziona anche, sebbene proprio ai minimi livelli, non annoia troppo, è tutto ben fatto. È anche però un film senza coraggio, senza forza, senza voce, che si dimentica subito, che lascia poco o niente, in cui si intravedono le buone intenzioni dell’autore ma che non riesce davvero a provocare una riflessione, come invece capitava con il precedente Leoni per agnelli.
Robert Redford, sarai mica stato troppo agnello, questa volta?
(voto 6-/10)

"Hey, ma dove diavolo è finito il resto della recensione?"

"Magari l'hanno pubblicata sul giornale... No, non c'è..."

"Lo confesso, ci sono io dietro gli attentati di Boston e Palazzo Chigi,
ma della scomparsa della recensione cannibale non ne so niente!"

"E tu l'hai vista, la recensione cannibale?"
"Ma che è? Se magna?"

"Bambina di cui non ricordo il nome, tu lo sai dov'è finita la recensione?"
"Ma papà, io non so manco leggere..."



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