Qui su Pensieri Cannibali la posta in gioco viene alzata, con la 41 Years Challenge cinematografica. La super sfida è tra il Suspiria del 1977 e il Suspiria del 2018 e, proprio come il film di Luca Guadagnino, sarà in 6 atti più un epilogo.
#10yearschallenge is for boys
#41yearschallenge is for men
Suspiria (1977)
Regia: Dario Argento
Cast: Jessica Harper, Stefania Casini, Flavio Bucci, Miguel Bosé, Barbara Magnolfi, Alida Valli, Eva Axén, Patricia Ingle, Susanna Javicoli, Joan Bennett, Udo Kier
vs
Suspiria (2018)
Regia: Luca Guadagnino
Cast: Dakota Johnson, Tilda Swinton, Tilda Swinton, Tilda Swinton, Mia Goth, Chloë Grace Moretz, Jessica Harper
Cast: An Seo Hyun, Okja, Tilda Swinton, Jake Gyllenhaal, Paul Dano, Lily Collins, Steven Yeun, Daniel Henshall, Devon Bostick, Shirley Henderson, Giancarlo Esposito
Okja sembra un piatto a metà strada tra un episodio di Black Mirror e un lavoro di Hayao Miyazaki, con l'aggiunta di un tocco di spielberghismo e una spruzzata di disneyata in stile Il libro della giungla e pure un contorno di scene di scoregge degne di un cinepanettone. E tutto questo soltanto nei primi 10 minuti di pellicola. Ma di cosa parla questo film in costante bilico tra genialata e fantozziana cagata pazzesca?
Cast: Tilda Swinton, Matthias Schoenaerts, Ralph Fiennes, Dakota Johnson, Corrado Guzzanti
Genere: estivo
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Figa, dove andate in vacanza quest'estate?
A Borghetto Santo Spirito?
Ma siete proprio dei barboni!
Figa, io invece sono appena tornato da Pantelleria con i miei amici: il Matthias Schoenaerts – uno troooppo figo! – il Ralph Fiennes – uno troooppo scemo! – e la Dakota Johnson, una che in Cinquanta sfumature di grigio sembra una troooppo figa di legno e poi si trasforma in una troooppo porca senza limiti, e qua uguale.
E poi c'era lei, la padrona di casa, la rockstar: la Tilda Swinton. Cioè, io lei non me la farei mai e poi mai, ché la trovo sexy quanto il Signor Burns nudo, ma tanto sono cavolacci del Matthias Schoenaerts che se la deve ciulare e credo che per farlo prima si riempia di Viagra, però comunque lei è troppo una rockstar. Solo che quest'estate era senza voce e una rockstar senza voce è come un pornodivo senza cazzo: inutile.
Figa, io non ci sono nelle foto perché le han fatte scattare tutte a me, anzichè farsi dei selfie come le persone civili.
Cast: Christoph Waltz, Mélanie Thierry, David Thewlis, Lucas Hedges, Tilda Swinton, Matt Damon, Ben Whishaw, Peter Stormare, Rupert Friend, Gwendoline Christie
Genere: intrippato
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Noi abbiamo visto The Zero Theorem. A noi è piaciuto The Zero Theorem, ma non vi diremo di cosa parla. Per prima cosa perché noi prima di vederlo non ne sapevamo nulla ed è meglio così, soprattutto per pellicole come questa. È meglio non sapere proprio niente. Andare completamente alla cieca. E poi per seconda cosa perché è impossibile dire di cosa parla un film di Terry Gilliam. Di cosa tratta ad esempio Brazil?
Noi non riusciamo a dirlo con esattezza, eppure questo nuovo The Zero Theorem con il suo futuro distopico orwelliano e con il suo protagonista stralunato lo ricorda parecchio. Quindi di cosa parlano entrambi?
Boh.
E L’esercito delle 12 scimmie?
Non sappiamo bene su cosa è incentrato con precisione, però è uno dei nostri film preferiti. La prima volta che l’abbiamo visto eravamo solo dei bambini. Era una delle prime volte al cinema con gli amici e ricordiamo solo di aver fatto un dannato casino per tutto il tempo, non capendoci nulla della visione e rendendo impossibile la comprensione anche agli altri poveri spettatori presenti al cinema. Che dannati bimbiminkia che eravamo, e che forse siamo ancora. Quando poi l’abbiamo recuperato qualche anno più tardi da adolescenti ne siamo rimasti folgorati. Non c’abbiamo compreso un’altra volta un granché, ma l’abbiamo adorato.
E Paura e delirio a Las Vegas, di cosa tratta?
Impossibile capirlo a mente lucida. Dopo l’assunzione di dosi massicce di droghe siamo riusciti a comprendere qualcosa di più, ma è stato lo stesso difficile venirne a capo.
"E' meglio indossare una tuta protettiva, prima di visitare Pensieri Cannibali."
I film di Terry Gilliam in pratica non sappiamo di cosa parlano. Forse di tutto, forse di niente. The Zero Theorem prosegue nella stessa direzione. Possiede un impianto visivo sbalorditivo eppure il suo significato è sfuggente. Si tratta di una pellicola profondamente esistenzialista, che detta così è una frase che anch’essa sembra significare tutto e invece non vuol dire niente. Oppure è il contrario?
In The Zero Theorem c’è dentro la vita di oggi, tra social network, app e una connessione alla rete 24 ore su 24 che ci succhia via la vera vita. O magari invece ci regala una vita migliore, piena di fantasia, attraverso cui fuggire da un lavoro e da una routine senza scopo?
Chi lo sa.
The Zero Theorem è il solito gran casino tirato fuori dalla mente folle di Terry Gilliam e non si capisce bene se sta dalla parte della tecnologia o contro. Non si capisce bene se sta dalla parte di chi ha Fede, di chi vive con delle convinzioni, o da quella di chi non crede in niente se non nel vuoto e nella certezza di stare dentro a un mondo privo di senso. Non si capisce bene se sta dalla parte di chi ama, o di chi sogna solamente di amare. E soprattutto non si capisce bene, anzi non si capisce proprio per niente, come qualcuno possa rifiutare l’amore di una come Mélanie Thierry, la splendida Mélanie Thierry.
The Zero Theory è un interrogarsi sul senso della vita che pone delle domande e non offre delle risposte che d’altra parte sarebbe impossibile fornire. Allo stesso tempo è un interrogarsi sul senso del cinema. Sul senso del cinema di Terry Gilliam, se ne ha uno.
Non avete capito niente di quanto abbiamo detto fino ad ora?
Lo capiamo. L’unica cosa che probabilmente avrete capito è che si tratta di un nuovo delirio nel tipico stile del regista. Un trip che va vissuto disconnettendosi da se stessi ed entrando negli occhi e nella mente del protagonista, interpretato da un grandioso Christoph Waltz, uno che è un creep, un weirdo, uno che non sa cosa diavolo ci fa qui, uno che non appartiene a questo mondo.
Un'altra cosa che probabilmente non avrete capito è perché stiamo parlando con il pluralis maiestatis. Non è per le nostre solite manie di grandezza, ma una volta vista la pellicola lo scoprirete.
Forse.
(voto 7/10)
"Questo post cannibale l'abbiamo trovato ancora più incomprensibile del solito."
Correva l’anno 2014. Sì, lo ricordo bene. Era appena uscito il mio ultimo film, Grand Budapest Hotel. Ne ero molto fiero perché rappresentava bene tutto il mio cinema, il mio intero stile racchiuso in un’opera sola. Con un po’ di timore, all’epoca andai a cercare alcuni commenti in rete. Tra di essi ve n’erano molti positivi, alcuni entusiastici, ma ce n’era uno che mi lasciò piuttosto perplesso. Il sito lo ricordo perché aveva un nome molto particolare, si chiamava Pensieri Cannibali. Cannibal Thoughts. WTF? All’epoca uscivo con una studentessa universitaria italiana e, per migliorare la mia conoscenza della lingua, cercavo recensioni delle mie pellicole scritte in quello strano idioma. Non capivo ogni singola parola, però comprendevo il senso generale. Nella sua recensione l’autore del blog, un certo Cannibal Kid, apprezzava il mio Grand Budapest Hotel, ma allo stesso tempo lo considerava un lavoro incompiuto. Ricordo che commentai il post scrivendo: “Non dire stronzate, ragazzo cannibale. Questo è il mio film più bellissimo!”.
Lui rispose: “Ma impara l’italiano, Wes Anderson!”
E io contro ribattei dicendo: “Un giorno lo farò, stronzetto, un giorno lo farò!”
In quel periodo mi trasferii in Italia, cominciai a girare lì i miei film, abbandonai i miei soliti affezionati attori feticcio come Bill Murray, Adrien Brody, Tilda Swinton, Jason Schwartzman, Owen Wilson e gli altri e scoprii nuovi straordinari attori locali come Gabriel Garko, Francesco Arca, Elisabetta Canalis. Mi misi anche a collaborare con grandi intellettuali italiani come i fratelli Vanzina ma, chissà perché, da allora la critica internazionale mi voltò le spalle. Tutti, tranne Cannibal Kid. Dopo quel nostro acceso primo scontro verbale, diventammo grandi amici e lo siamo tutt'ora. Adesso allora mi è venuta la curiosità di andare a recuperare la sua vecchia recensione su Pensieri Cannibali del mio Grand Budapest Hotel. Chissà, magari non aveva poi tutti i torti...
Grand Budapest Hotel
(USA, Germania 2014) Titolo originale: The Grand Budapest Hotel
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson
Ispirato ai lavori di: Stefan Zweig
Cast: Ralph Fiennes, Tony Revolori, Saoirse Ronan, Tom Wilkinson, Jude Law, F. Murray Abraham, Adrien Brody, Willem Dafoe, Mathieu Amalric, Tilda Swinton, Harvey Keitel, Jeff Goldblum, Léa Seydoux, Jason Schwartzman, Owen Wilson, Bob Balaman, Fisher Stevens, Giselda Volodi
Genere: wesandersoniano
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Grand figlio di buona donna, Wes Anderson. I suoi film sono sempre dei dolcetti deliziosi, ma dal gusto spesso dolceamaro. Dei dolcetti che vanno scartati con cura, come nel caso di Grand Budapest Hotel, un film stratificato, costruito con una cura mostruosa, con un’attenzione a ogni più piccolo dettaglio pazzesca. Riguardo a quest’ultima pellicola, ho sentito soprattutto due tipi di pareri: i primi sono quelli degli hipster del tutto esaltati come questa.
E poi ci sono quelli più tiepidi, che parlano invece di sterile esercizio di stile. A me le vie di mezzo non piacciono, però per una volta devo schierarmi nel partito dei dannati moderati. La verità, almeno in questo caso, forse sta davvero nel mezzo.
Da una parte, Grand Budapest Hotel è un film diretto alla grande. Wes Anderson raggiunge qui una fluidità di movimenti della macchina da presa, e anche della narrazione, come mai prima d’ora. A livello estetico, il soggiorno in questo hotel è davvero un piacere per gli occhi. Un incanto continuo, ricco di trovate registiche come l'alternarsi del formato in 16:9 con quello in 4:3. Anche in quanto a sceneggiatura, Wes Anderson tira fuori dei lampi di genio, delle chicche notevoli, dei momenti spassosi. Grand Budapest Hotel è un inno alla narrazione, a partire dalla sua struttura a scatole cinesi, ma vista l’ambientazione esteuropea è meglio dire in stile matrioska, di racconto nel racconto nel racconto nel racconto.
Dall’altra parte Grand Budapest Hotel è un film volutamente monco, diviso in 5 capitoli che sarebbero dovuti essere 6. Manca quello dedicato ad Agatha, il personaggio di Saoirse Ronan. Il narratore, il Lobby Boy dell'hotel ormai cresciuto, decide di troncare quasi del tutto quella parte del racconto, una pagina ancora troppo dolorosa della sua vita. Si ha così la sensazione che manchi qualcosa, qualcosa di fondamentale, che sarebbe stato capace di trasformare la pellicola da splendida esperienza estetica, a visione anche davvero emozionante. Grand Budapest Hotel è un film matrioska che rivela poco a poco i suoi strati, ma alla fine decide di non mostrarci l’ultimo. Il cuore.
Grazie al suo senso dell’umorismo particolare, e qui più incisivo e nero del solito, Wes Anderson ci regala un’ottima macchina da intrattenimento a metà strada tra commedia e thriller. L’impressione è però quella di un film che parla più al cervello che al cuore. Impressione confermata dai molti riferimenti più o meno ricercati, dalle comedy slapstick de ‘na vorta al cinema muto, dalle vaghe implicazioni politiche fino alla dedica finale a Stefan Zweig, come viene ben spiegato in questo post del blog La balena bianca:
A sciogliere i nostri dubbi, ecco che giunge la dedica finale: a Stefan Zweig. Tutto all’improvviso si fa chiaro, semplice, quasi commovente. Un’opera così cesellata, dalla finezza e dalle atmosfere mitteleuropee, non poteva che rifarsi a questo romanziere di inizio novecento, troppo rapidamente dimenticato dopo la sua tragica morte. Caso eccezionale quello dello scrittore austriaco, autore prolifico e dal successo mondiale (le sue opere vennero tradotte in cinquanta lingue), egli può essere considerato il primo autore di bestseller dell’età contemporanea, le avventure da lui descritte spaziavano dai viaggi in terre esotiche ai drammi più sottilmente psicologici, e i suoi protagonisti, come ci ricorda Silvia Montis nell’introduzione a una delle sue raccolte, erano “eroi involontari a confronto con un interrogativo epocale, sui quali si è abbattuto il pesante sigillo della Storia”, proprio come i due protagonisti di Grand Budapest Hotel, semplici inservienti nella bufera dei mutamenti geopolitici. Ma la vicinanza di Anderson allo scrittore austriaco è ben più profonda, di natura stilistica; assistiamo infatti a un evento sensazionale: la traduzione perfetta di un linguaggio letterario nel suo omologo cinematografico. Perché se i film di Anderson appaiono come giochi dal meccanismo perfetto, essenziali e impreziositi dalla cura del dettaglio, sempre la Montis ci ricorda che Zweig era “un cultore della rinuncia, dell’editing a levare anziché a irrobustire, del dettaglio fatale nascosto in un umile aggettivo anziché esplorato in un passaggio auto compiaciuto. Distillava, tagliava, asciugava: il movimento era sempre mirato. Il racconto, un congegno a orologeria”. Wes Anderson, dunque, con questa dedica, svela molto più di quanto si possa pensare. L’opera di Zweig non è una semplice ispirazione, ma un modello di poetica e di intenti, quasi il regista americano volesse seguire persino la stessa sorte dell’autore austriaco, spazzato via dalla storia della letteratura contemporanea, colpevole di intransigenza formale.
Quanto a me, come detto sto nel mezzo. Lunga da me accusare Wes Anderson di intransigenza formale, devo ammettere che nel caso di Grand Budapest Hotel è la forma ad avermi colpito di più rispetto ai contenuti. Sarà perché io in generale sono un fan della forma (e soprattutto delle forme).
Nonostante qualche lampo di umanità, i personaggi che popolano il Grand Budapest Hotel e i suoi dintorni non riescono a trasformarsi del tutto in persone in carne e ossa, come invece capitava nel precedente stupendo e quello sì davvero toccante film del regista Moonrise Kingdom. Ma probabilmente è solo colpa mia. Avrei voluto meno Ralph Fiennes, attore che continuo a non sopportare, e più Saoirse Ronan! È quasi come se Wes Anderson in fase di montaggio avesse fatto il Terrence Malick della situazione e avesse sforbiciato di brutto il suo personaggio. Quello che avrebbe potuto regalare più emozioni a un film che invece resta una visione molto da Est Europa. Un’affascinante quanto fredda matrioska.
(voto 7,5/10)
Questo era quanto diceva Cannibal Kid su Pensieri Cannibali nell’ormai lontano 2014. Ora che parlo perfettamente l’italiano, ho capito fino in fondo l’intero contenuto del post. La mia impressione rispetto ad allora però non è cambiata e la ribadisco ancora una volta: “Non dire stronzate, ragazzo cannibale. Questo è il mio film più bellissimo!”.
(Corea del Sud, USA, Francia, Repubblica Ceca 2013)
Regia: Bong Joon-ho
Sceneggiatura: Bong Joon-ho, Kelly Masterson
Ispirato alla serie a fumetti: La Transperceneige di Jacques Lob, Benjamin Legrand e Jean-Marc Rochette
Cast: Chris Evans, Jamie Bell, John Hurt, Tilda Swinton, Song Kang-ho, Ko Ah-sung, Octavia Spencer, Ewen Bremner, Alison Pill, Luke Pasqualino, Tómas Lemarquis, Steve Park, Ed Harris
Genere: arca di Noè 2.0
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Snowpiercer è il nuovo Blade Runner?
Il nuovo Matrix?
Il nuovo Brazil?
Il nuovo Strange Days?
A essere ancora generosi, a me Snowpiercer è sembrato piuttosto il nuovo 2013 – La fortezza, film dei primi anni ’90 con Christopher Lambert impegnato a lottare contro un sistema oppressivo. O anche una pellicola un po’ alla Paul Verhoeven, tra Atto di forza e Starship Troopers. Ma il nuovo Blade Runner?
ARE YOU FUCKING SERIOUS?
Certo che quelli del marketing sanno come vendere un film, dobbiamo ammetterlo. Quella che l’astuta strategia promozionale ha cercato di spacciare come la migliore pellicola di fantascienza degli ultimi 100 miliardi di anni, o qualcosa del genere, altro non è che l’ennesima banalità sci-fi degli ultimi tempi. Non ai livelli irraggiungibili di Cloud Atlas, però insomma, tra i film dei Wachowski di sicuro siamo più vicini a quelle parti che non a quelle di Matrix.
"Oh, andiamo. Sono l'unico qui dentro con un biglietto
e volete farmi la multa solo perché non l'ho obliterato?"
Il film parte dal solito spunto apocalittico. È arrivata una nuova era glaciale, ma questa volta Scrat non è stato chiamato a far parte del cast, poverino, e gli unici esseri umani sopravvissuti stanno su un treno che gira tutto intorno alla Terra. Contenti loro…
Il treno è una specie di moderna Arca di Noè, anche se a me la storia della sua realizzazione ha più che altro fatto venire in mente l’episodio dei Simpson “Marge contro la monorotaia”. Un’idea strampalata ma se non altro piuttosto originale, sebbene i meriti di ciò vadano assegnati alla serie a fumetti francese Le Transperceneige da cui è tratta, più che alla pellicola di per sé.
La singolare variante trenistica di un film a caso di Roland Emmerich si scontra però contro due problemi principali. Il primo è la sua struttura narrativa da videogioco, ovvero completare un livello per passare a quello successivo, solo con le carrozze al posto dei livelli. La sceneggiatura del film si limita quindi a spostare i protagonisti ribelli, i poveri delle ultime carrozze, in quelle davanti, dove incontreranno avventure incredibili… si fa per dire. Detto in parole povere: cinema-videogame alla Zack Snyder spacciato per cinema d’autore.
Carrozza dopo carrozza, diventa chiaro sia ai protagonisti che allo spettatore il funzionamento del treno. Il superamento dei livelli avviene attraverso vari combattimenti, scazzottate o sparatorie, in cui il regista sudcoreano Bong Joon-ho si diverte un mondo. Peccato che, tra momenti concitati alternati a rallenty, appaiano come l’ennesima scopiazzatura fuori tempo massimo delle sequenze action del menzionato Matrix. L’unica scena impressionante è la battaglia con le fiaccole, il solo momento davvero notevole a livello visivo.
"Charlotte Gainsbourg, preparati che sto arrivando!"
Per il resto, il film è una successione di scenette a metà tra il grottesco e il risibile, con ottimi attori come Tilda Swinton, Alison Pill, John Hurt, Octavia Spencer e Ewen Bremner (il mitico Spud di Trainspotting) ridotti a interpretare dei personaggi macchietta che sembrano usciti dalla parodia di un film di Terry Gilliam. Per non parlare dell’attore feticcio del regista, Song Kang-ho, cui è affidata la parte del tossico patito di Kronol che poteva essere il personaggio simpa di turno e invece no, è una lagna pure lui. In un cast sulla carta di buon livello in cui si segnala pure Jamie Bell che ormai vedo ovunque, da Il lercio all'imminente Nymphomaniac e presto pure Cosa nei nuovi Fantastici 4, il protagonista principale – sempre a proposito di Fantastici 4 – è Chris Evans. Ecco, io non ho niente contro Chris Evans, mi sta simpatico fin dai tempi dell’esilarante Non è un’altra stupida commedia americana, ma, se anche in Snowpiercer tutto il resto avesse funzionato a dovere, un film con Chris Evans protagonista NON può essere un cult. Mi si viene a dire che Channing Tatum è inespressivo, ed è vero, ma allora che dire di Chris Evans?
"Vi prego, sparatemi ma risparmiatemi il finale di questo film!"
Oltre a essere un film-videogame, il secondo grande problema della pellicola, anzi il terzo visto che il secondo è Chris Evans, è la sua ambizione di contenere chissà quale altissimo messaggio. Solo che Snowpiercer ha lo spessore politico di un discorso di Matteo Renzi. Hunger Games viene tanto criticato perché propone una visione socio-politica semplicistica, come fosse un 1984 per teenager, cosa che infatti è, ma al confronto di Snowpiercer appare come una saga ultra impegnata.
Nel film di Bong Joon-ho tutto è troppo spiegato. Sul fatto che il treno sia una metafora della società umana, con le classi più agiate nelle carrozze di prima classe davanti e i morti de fame in quelle in fondo, ci potevamo arrivare anche da soli. Invece no. Il film deve esplicitare pure quello, attraverso una serie di dialoghi ridicoli che raggiungono il top nella parte finale. L’apparizione del creatore, del Dio del treno, tale Wilford interpretato da Ed Harris, fa andare giù le mutande quanto quella dell’Architetto in Matrix Reloaded. E allora si torna lì, al cinema dei Wachowski, ma non certo al loro film migliore, il primo Matrix, quanto ai suoi penosi seguiti. Che fantasia poi prendere per questa parte Ed Harris, già uomo dietro le quinte del The Truman Show. Morgan Freeman, che di solito in questi ruoli ci sguazza, era per caso troppo impegnato?
La claustrofobia provocata da Snowpiercer non è allora causata tanto dall’ambientazione interamente all’interno di un treno, quanto dalla presenza di questi soffocanti spiegoni, che non lasciano spazio a molte interpretazioni. Il film concede una carrozza a chiunque, tranne al libero pensiero dello spettatore.
"No, sparate prima a me!"
Dopo 2 ore di corsa in cui si è stati per lo più in piedi e giusto per una manciata di minuti seduti, neanche tanto comodamente, si arriva al termine stremati e si rimpiange addirittura di non aver viaggiato con Trenitalia. Perché?
Perché come film d’intrattenimento Snowpiercer è a malapena mediocre, da un punto di vista del messaggio politico è scontato e ci regala un finale penoso che, alla faccia della fonte di ispirazione francese e del regista orientale, sa tanto di solita americanata buonista, con tanto di ATTENZIONE SPOILER sacrificio supereroistico di Chris Evans. Ciliegina sulla torta: un’ultimissima inquadratura dedicata a un tenero orsetto bianco, che vorrebbe rappresentare come sulla Terra all'infuori del treno ci sia ancora spazio per la vita. Peccato che il tenero orsetto sia pronto a cenare con gli ultimi umani rimasti.
E questa roba qua sarebbe il nuovo Blade Runner?
Solo gli amanti sopravvivono - Only Lovers Left Alive
(UK, Germania, Francia, Cipro, USA 2013) Titolo originale: Only Lovers Left Alive
Regia: Jim Jarmusch
Sceneggiatura: Jim Jarmusch
Cast: Tom Hiddleston, Tilda Swinton, John Hurt, Anton Yelchin, Mia Wasikowska, Jeffrey Wright
Genere: vampiresco
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Pensate che due vampiri più noiosi di Edward Cullen e Bella Swan di Twilight non possano esistere?
Pensate che non li potreste mai trovare, nemmeno se voi stessi foste vampiri che vivono per migliaia di anni?
Piano, gente, piano. Ho da presentarvi due succhiasangue che, in quanto a rottura di palle, non hanno poi molto da invidiare ai due vampirelli verginelli interpretati da Robert Pattinson e Kristen Stewart.
Ecco a voi Adam ed Eve. Sì, si chiamano proprio così i due vampiri protagonisti di Only Lovers Left Alive. Adam è Tom Hiddleston, quello che in Thor nei panni di Loki somigliava a Marco Travaglio e che qui in alcune scene ricorda invece più che altro Jared Leto in Dallas Buyers Club. E non fa manco il vampiro trans. Eve è Tilda Swinton, l’attrice più androgina del mondo, una che, per carità, sarà anche una bravissima interprete, ma la trovo così sexy che non me la ciulerei manco fosse davvero l’ultima lover left alive su tutta la Terra.
Adam ed Eve con i loro bei nomini biblici sono sposati, ma vivono le loro vite immortali da separati. Probabilmente perché sono così noiosi da essersi stufati l’uno dell’altra. Lui se ne sta a Detroit, la capitale americana dell’auto ormai parecchio in crisi, che nelle sue macerie odierne ci viene mostrata in alcuni dei passaggi più significativi della pellicola. E cosa combina? Adam è un polistrumentista, un vero e proprio patito di musica e compone un sacco, però preferisce stare lontano dalle luci della ribalta, lontano da tutti, soprattutto da quelli che lui chiama “zombie”, ovvero gli umani, ed esce solo per fare una capatina in ospedale a recuperare il sangue di cui nutrirsi. Eve invece sta a Tangeri, in Marocco, legge un sacco ed esce ogni tanto per andare a rifornirsi pure lei di sangue dal suo amico Ian Hart.
Come avrete intuito, i due non vanno in giro a fare stragi di zombie, cioè umani, ma fanno una vita da monotoni vampiri vegani, come ormai sempre più spesso capita di vedere in film e serie tv, dall’Angel di Buffy – L’ammazzavampiri, il capostipite di tutti i succhiasangue buonisti, fino a quelli di True Blood, The Vampire Diaries e Twilight.
Magari è soltanto una mia fantasia malata, ma quando Jim Jarmusch si è messo a lavorare su questa sua nuova pellicola ha immaginato una versione adulta dei due protagonisti del super successo Twilight. Forse si è chiesto: “Come sarebbero Edward e Bella dopo anni e anni di matrimonio?”.
La risposta la vediamo rappresentata in Only Lovers Left Alive. Prima di cominciare a preoccuparvi, specifico subito che questa pellicola per il resto non ha niente a che vedere con la saga di Twilight. È in tutto e per tutto un film di Jim Jarmusch, con i pregi e limiti che ciò comporta.
Con Jim Jarmusch ho un rapporto combattuto. Da una parte gli sarò sempre grato per avermi dato Ghost Dog, uno dei miei film preferiti di sempre, e anche per Dead Man, uno dei pochi western insieme a Django Unchained ad avermi detto qualcosa. Sarà perché non è per nulla un western classico. Anzi, forse non è un western per niente. Altre sue pellicole invece le trovo estenuanti, come Broken Flowers o soprattutto il recente The Limits of Control, che non sono manco riuscito a vedere fino alla fine talmente mi ha stremato.
Only Lovers Left Alive è un altro suo tipico film. Lento, lentissimo, infinito, con una trama, se è presente una trama, appena abbozzata e tutto costruito intorno ai personaggi protagonisti. Solo che qui non abbiamo un killer samurai figo come Ghost Dog o un giovane William Blake figo come il Johnny Depp di Dead Man, bensì come detto due vampiri. Due vampiri noiosissimi che decidono di ritrovarsi e così Eve raggiunge Adam a Detroit. Pensate che a questo punto succeda qualcosa di interessante?
No.
A interrompere la loro vita monotona ci pensa, dopo circa un’ora di film, l’arrivo della sorella di Eve, Ava, interpretata da una scoppiettante Mia Wasikowska. È con lei che la pellicola finalmente si anima e il Jim Jarmusch ci regala in un club rock alcuni dei momenti più belli sulle note dei Black Rebel Motorcycle Club. A livello di singole scene, il regista conferma ancora una volta di saperci fare, eccome. La sequenza roteante all’inizio e i primi piani in cui i vampirelli si “fanno” di sangue come dei tossici sono notevoli. Nel complesso però il film non decolla mai. Persino l’arrivo della Wasikowska è appena un’illusione e ben presto tutto si sgonfia e si torna a vagare in mezzo a mari non di sangue, solo di noia. Il film è la rappresentazione perfetta dell'eternità della vita di due esseri immortali, come ha scritto in maniera altrettanto perfetta Dikotomiko nel suo blog.
Pure i dialoghi non riescono a essere minimamente incisivi o profondi. “Sai che Jack White dei White Stripes è l’ultimo di dieci figli?”. E chissenefrega.
È apprezzabile la visione personale che Jim Jarmusch dà del mondo dei vampiri. Solo che non è poi nemmeno così originale. Negli ultimi tempi i succhiasangue non sono stati protagonisti solo di saghette fantasy ma anche di vari film d’Autore, dal singolare Twixt di Francis Ford Coppola a Byzantium di Neil Jordan, pellicole che in qualche modo questa rievoca. Così come a me è venuto in mente anche This Must Be the Place, per via del personaggio di Tom “Travaglio” Hiddleston, un musicista annoiato in crisi di mezza età come lo Sean Penn del film di Paolo Sorrentino, che a sua volta era un lavoro dalle atmosfere alla Jim Jarmusch e quindi tutto torna. Tutto gira in cerchio come nella sequenza d’apertura del film.
Ciò che non torna è il senso di un lavoro come questo. La pellicola è esteticamente molto bella, come uno spot pubblicitario d'Autore, ha una colonna sonora post-rock niente male, sfoggia alcune singole sequenze molto ben girate. Nel complesso però non va da nessuna parte. Only Lovers Left Alive è un film affascinante, ma mai davvero coinvolgente. Il problema sta tutto nei protagonisti che, Edward e Bella permettendo, sono i due succhiasangue più pallosi nella storia dei vampiri. Dracula a vederli si starà rivoltando nella tomba. E non è un modo di dire.
…e ora parliamo di un film di cui secondo me è meglio non sapere niente.
Perciò, se non l’avete ancora visto, vi consiglio di non proseguire oltre con la lettura, anche se nel dirlo vado contro gli interessi del mio blog, e di recuperare prima il film che è una visione interessante.
Non è l’ideale per una serata di svacco e intrattenimento leggero, piuttosto è un pugno allo stomaco, sappiate solo questo.
…e ora parliamo di Kevin, almeno con chi ha visto il film, tutti gli altri continuino a loro rischio e pericolo…
…e ora parliamo di Kevin
(UK, USA 2011)
Titolo originale: We need to talk about Kevin
Regia: Lynne Ramsay
Cast: Tilda Swinton, Ezra Miller, Jasper Newell, Rock Duer, John C. Reilly, Ashley Gerasimovich, Siobhan Fallon, Alex Manette
Genere: pure evil
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“There is no point.
That’s the point.”
Pazzi che fanno una strage.
Subito il pensiero vola a Columbine, se pensiamo alle scuole, ma di riflesso va anche a Breivik, l’autore del massacro di Utoya, in Norvegia. Cosa anima davvero queste persone resta un mistero cui forse nemmeno migliaia di pellicole potranno mai dare una risposta.
Anche perché, come dice Kurt Vonnegut nel libro che sto leggendo adesso Mattatoio n. 5, "Non c'è nulla di intelligente da dire su un massacro. Si suppone che tutti siano morti, e non abbiano più niente da dire o da pretendere. Dopo un massacro tutto tace, sempre, tranne gli uccelli. E gli uccelli cosa dicono? Tutto quello che c'è da dire su un massacro, cose come "Puu-tii-uiit?"
Il documentario di Michael Moore Bowling a Columbine cercava di allargare il discorso alla violenza di cui è impregnata la cultura americana e mostrava come possa essere facile negli Usa procurarsi un’arma. Se però pensiamo alla Norvegia e alla sua cultura pacifista, la situazione è del tutto differente. Opposta, direi. In quel caso dietro c’erano delle motivazioni di tipo ideologico. Nazismo, massoneria, nazionalismo, fondamentalismo anti-Islam… Una di queste cose, tutte queste cose combinate insieme, o forse solo pazzia?
Pellicole come Elephant di Gus Van Sant e Polytechnique di Denis Villeneuve (poi autore dello splendido La donna che canta) erano riuscite, ed Elephant era anche qualcosa in più di una semplice pellicola riuscita, perché non cercavano di dare una risposta. Semplicemente, anzi mica tanto semplicemente, provavano a ricreare quell’atmosfera da incubo che si è dovuta respirare in quei tragici momenti. Con un occhio freddo e privo di facili pietismi.
…e ora parliamo di Kevin racconta una storia simile, in cui però ad essere differente è il punto di vista.
Dimentichiamo il titolo italiano: …e ora parliamo di Kevin sembra infatti più appropriato per una caciarona commedia goliardica americana. Invece in We need to talk about Kevin, con il titolo originale le cose vanno già meglio, non c’è davvero niente da ridere.
Fin da subito veniamo scaraventati in un incubo.
Il rosso si sparge dappertutto e non va via. Si tratti di vernice lanciata contro le pareti di casa o di una marmellata alla fragola, il rosso è dappertutto.
La protagonista della pellicola, una Tilda Swinton degna di una nomination agli Oscar molto più di Glenn Close o della solita vincitrice Meryl Streep, se ne va in giro come una zombie e tutti cercano di farle del male, manco fossimo in Resident Evil o in The Walking Dead. Lentamente veniamo a scoprire i motivi per cui viene trattata come un’appestata: suo figlio. Suo figlio e ciò che ha fatto.
Il film alterna momenti onirici, mescolandoli con il passato e il presente soprattutto nella prima parte, per me la più incisiva, mentre nel prosieguo prende una via narrativa più lineare, forse pure troppo. Se l’inizio della pellicola è davvero folgorante, poi via via qualcosa si perde.
Ma anche dopo il film riserva spunti di degnissimo interesse. È nella seconda parte che ci si concentra sulla figura di Kevin, una figura che all’inizio invece viene evocata giusto come uno spirito o, meglio, come un mostro. Una creatura innominabile.
"I figli so' piezz'e core... ma a volta so' solo piezz'e mmerda!"
La domanda cui ci mette di fronte il film non è tanto: “Perché Kevin agisce in questo modo?”, ma piuttosto: “Cosa faremmo noi se ci trovassimo con un figlio così?”.
Ci sono persone che nascono malvagie. L’ambiente in cui si cresce, l’educazione, la cultura, possono formare e cambiare le persone. Ma solo in parte. Per il resto, certe persone nascono malvagie e non c’è niente da fare. È così e basta.
Kevin sembra un personaggio di un film horror, reso in maniera inquietante dai tre attori che gli prestano l’impassibile freddo volto: il piccolissimo Rock Duer, il giovincello Jasper Newell e quindi il teenager Ezra Miller. Soprattutto quest’ultimo è un attore da tenere d’occhio, sebbene rischi di rimanere incasellato all’interno del genere “ragazzo seriamente disturbato”, ruolo che aveva già interpretato nel non meno preoccupante Afterschool.
Merito del film è quello di non scivolare nel thriller horror paradossale con un ragazzino spaventoso stile Orphan o altre robe di questo tipo, ma di rimanere sempre, anche nei passaggi più onirici, dentro i confini di un verosimile che ci mostra come questo orrore non sia qualcosa di soprannaturale, ma di ben presente vicino a noi. Proprio come nelle scuole di Elephant e Polytechnique. Soltanto, visto dal punto di vista della madre e con l’aggiunta di un pizzico di fiabesco, che oggi va tanto di moda, attraverso la figura di Robin Hood.
Che c’entra Robin Hood con un film del genere?
Con il doppio epilogo finale lo veniamo a scoprire, nella più raggelante delle maniere. Se per quanto riguarda la strage all’interno della scuola ce la potevamo aspettare, in fondo il film gira tutto intorno a questo evento, la strage famigliare è qualcosa che lascia davvero di ghiaccio. Un po’ come quando Dexter (ATTENZIONE SPOILER SULLA QUARTA STAGIONE DI DEXTER, SE NON L’AVETE ANCORA VISTA) scopre il cadavere di Rita in bagno.
Se le interpretazioni di madre e (triplice) figlio protagonisti sono spaventosamente notevoli, John C. Reilly nei panni del padre resta un pochino nell’ombra, anche per esigenze di sceneggiatura. A impreziosire un film di raggelante bellezza ci pensano quindi anche l’ottimo tocco della regista Lynne Ramsay, soprattutto nella prima notevolissima parte, e una colonna sonora variegata che mixa le musiche originali di Jonny Greenwood dei Radiohead (già autore delle soundtrack de Il petroliere e Norwegian Wood) con una serie di brani che vanno dalla straniante “Last Christmas” degli Wham! alla ancora più straniante “Everyday” di Buddy Holly. Un pezzo quest’ultimo che invero sta diventando un po’ troppo abusato, considerando come fosse il leitmotiv già di Gummo e Mr. Nobody e si sia sentito anche in Stand by me, Big Fish e pure in un episodio di Lost.
Gli horror di solito mi divertono, più che spaventare. Ma We Need to Talk about Kevin non è un horror e forse è per questo che è ancora più spaventoso. Perché il suo terrificante orrore è reale.
…e pensare che dal titolo italiano sembrava un’innocua commediola con Ben Stiller e Jennifer Aniston…
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Inizia come un film nordico, ambientato in una Milano imbiancata dalla neve ma soprattutto tra le gelide mura di una casa di imprenditori alto-borghesi bauscia (i Recchi). Una scelta decisamente fredda per una pellicola intitolata calorosamente Io sono l’amore.
Va subito detto che ci troviamo di fronte a un film vertiginosamente affascinante, a una regia maestosa di un Luca Guadagnino il cui precedente è un certo imbarazzante Melissa P.
Ma un passo falso (o un film di merda) può capitare a tutti e Guadagnino stavolta si fa perdonare alla grande attraverso uno sguardo originale, ricco di bellezza, con un gusto retrò notevole ed elegante, potremmo dire classico (ad esempio nella scelta dei caratteri dei titoli di testa o nella raffinatezza della fotografia).
Sa anche sorprendere, Guadagnino, con lampi improvvisi di sogni & visioni dei personaggi e continui cambi di registro: se nella prima parte la pellicola sembra avviarsi ad essere un tipico melò, la seconda ambientata a Sanremo stravolge tutto, con una scena d’inseguimento alla Brian De Palma e una deriva sentimental/sessuale tra due personaggi. E alla terza parte cambia ancora: c’è una breve tappa a Londra e poi esplode in tutta la sua componente melodrammatica preannunciata all’inizio e poi accantonata. Per dovere di cronaca, accanto ai complimenti fin qui fatti va anche notato come la seconda e la terza parte risultino un po’ meno riuscite e il finale vada nella direzione di una epicità eccessivamente esasperata.
Il film mette così in evidenza tutti i pregi ma anche i limiti del nostro nuovo cinema Paradiso: ci sono in giro registi validi, dotati di un gusto visivo davvero notevole, ma ciò non corrisponde sempre a sceneggiature dello stesso livello. In quella di Io sono l’amore, curata tra gli altri dallo stesso Guadagnino, ci sono buchi e cali di tensione evidenti, soprattutto verso la fine.
Il reparto attori è poi piuttosto preoccupante. Gli interpreti italiani davvero bravi si contano sulle dita di una mano: Toni Servillo, Filippo Timi e Alba Rohrwacher lavorano già tanto, tantissimo, non possono comparire in tutti i film. Meglio ovviare a questa penuria chiedendo aiuto all’estero come ha fatto Guadagnino, affidandosi al volto gelido dell’inglese Tilda Swinton, oppure sarebbe il caso di alzare il livello qualitativo delle nostre fiction televisive, che dite? Se negli Usa o in Inghilterra le serie tv rappresentano infatti per gli attori una ottima palestra (anzi, a volte ormai sono molto meglio del cinema stesso), da noi la situazione è radicalmente diversa. Non è un caso allora che altri due ottimi attori di questo cast (il virziniano Edoardo Gabbriellini e la stupenda Diane Fleri) arrivino da I liceali, una delle rarissime eccezioni di qualità in un panorama televisivo italico mai come ora in coma.
Il mio pollice sta quindi su su su per Luca Guadagnino e il suo Io sono l’amore, tra i pochi film italiani recenti applauditi da pubblico e critica anche negli Usa, però rimane l’impressione che con una sceneggiatura più solida e qualche svolta mucciniana in meno nella parte conclusiva ci saremmo trovati di fronte a un capolavoro. O giù di lì.
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