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lunedì 4 febbraio 2013

LES MISERABLES, MISERABILI NOI SPETTATOOORIIIII

Les Misérables
(UK 2012)
Regia: Tom Hooper
Tratto dal musical: Les Misérables di Claude-Michel Schönberg (musiche) e Alain Boublil (testi)
A sua volta tratto dal romanzo: I miserabili (Les Misérables) di Victor Hugo
Cast: Hugh Jackman, Anne Hathaway, Russell Crowe, Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter, Eddie Redmayne, Amanda Seyfried, Aaron Tveit, Samantha Barks, Daniel Huttlestone, Isabelle Allen
Genere: canta tu
Se ti piace guarda anche: Rent, Nine, Sweeney Todd, Moulin Rouge!

Mi ha sempre fatto ridere questa espressione: I dreamed a dream. Ho sognato un sogno. E per forza, cosa dovevi fare? Incubare un incubo?
Comunque, “I Dreamed a Dream” è il brano più celebre e identificativo di Les Misérables, romanzo di Victor Hugo trasformato in uno dei musical di maggior successo nella storia di Broadway a partire dagli anni ’80, quando era al top della popolarità (non a caso viene spesso citato nel romanzo di Bret Easton Ellis American Psycho). Adesso è finalmente (finalmente?) diventato anche una pellicola cinematografica.

I dreamed a dream. Ho sognato un sogno. Nel sogno, non guardavo questo film ed ero più felice. Avrei potuto impiegare molto ma molto meglio le 2ore e 40minuti della durata del musical. Non so, ad esempio avrei potuto cominciare a giocare a Ruzzle, il gioco di parole che fino a qualche giorno fa non avevo mai sentito nominare e di cui adesso invece tutti parlano. Ovunque. Su Facebook, sui blog, per strada. Sembra di essere finiti nell’alba dei giocatori di Ruzzle viventi. C’è gente al volante che non guarda la strada per giocarci. Ne hanno parlato persino al TG5! A quel TG5 dove di solito la cosa più nuova di cui discutono è il nuovo disco di un nuovo artista emergente, un certo nuovo Vasco Rossi.

I dreamed a dream, dicevo. “I Dreamed a Dream” è un brano di sicuro impatto, non lascia indifferenti. È riuscito persino a trasformare Susan Boyle, e ho detto Susan Boyle, in una superstar mondiale, e ho detto superstar mondiale.



Figuriamoci allora se Anne Hathaway, grazie alla sua intensissima interpretazione nella parte di Fantine e soprattutto di questo brano, non riuscirà a portarsi a casa uno scontatissimo Oscar come miglior attrice non protagonista, dopo aver già vinto ai Golden Globes.



Non fraintendetemi, Anne Hathaway qui è davvero bravissima e l’Oscar sarà anche meritato, non certo un furto. Però non è il genere di performance recitative che preferisco. Troppo sopra le righe. Troppo eccessiva. Un talento troppo sbandierato. Come nel campo delle performance musicali fanno Andrea Bocelli, o Celine Dion o Mariah Carey. Nessuno mette in dubbio che abbiano un gran talento vocale, però io personalmente non riesco a sentirli se non munito di appositi tappi per le orecchie.
Anna Hathaway con la sua intepretazione breve ma intensa, pure troppo, rientra comunque tra le note più positive di questo Les Misérables e la scena in cui canta “I Dreamed a Dream” è impressionante per bravura recitativa. Il regista Tom Hooper invece strabilia parecchio di meno. Si limita a mettere la camera fissa su di lei e a far compiere tutto lo sforzo all’attrice. Così sono capaci tutti. Anche i Vanzina.

"Uh, mamma! Svegliateci quando il film è finito..."
Il film gode di una manciata di altre buone intepretazioni: Hugh Jackman se la cava bene, ma nel suo caso l’Oscar sarebbe davvero eccessivo.  Bravi poi Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter (entrambi già nel musical burtoniano Sweeney Todd), protagonisti dei siparietti più divertenti, in grado di alleggerire un pochetto la situazione di un drammone che stava diventando insostenibile e in cui alle disgrazie personali dei miserabili protagonisti si aggiungono pure quelle legate alla Rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche. Va bene il dramma, va bene il melodramma, però Les Misérables più che un semplice drammone è un invito al suicidio.
A colpire in positivo, oltre ad Anne Hathaway, sono soprattutto i volti più nuovi: il bambinetto Daniel Huttlestone è il protagonista del momento musicale più figo, la scena in cui canta convintissimo “Look Down (Beggars)”. Perché sì, questo Les Misérables ha anche dei momenti buoni. Peccato che su 2 ore e 40 minuti ci siano giusto quelle 2 ore di troppo ad appesantire il tutto.
Non male anche l’emergente Samantha Barks, che arrivava già dalle versione concertale del musical. A lei è affidato l’altro brano più celebre de Les Misérables, ovvero “On My Own”. Più celebre almeno per me, visto che lo conoscevo grazie all’interpretazione di Katie Holmes/Joey Potter in Dawson’s Creek. Pensate un po’ voi su quali solide basi poggia la mia cultura.



"Non è il caso che continui a mentire dicendo che sono meglio di Marilyn,
tanto te la smollo lo stesso."
Tra gli altri giovani attori da tenere d’occhio, occhio appunto poi anche ad Aaron Tveit, già intravisto in Gossip Girl, e alla piccola Isabelle Allen, quella dell’inquietante manifesto della pellicola.
Mi ha convinto di meno invece Amanda Seyfried. Amanda sey fregna, okay, ma il musical non mi sembra troppo nelle tue corde. Continua a non dirmi nulla invece Eddie Redmayne, già anonimo protagonista di Marilyn (dove non era Marilyn, ma il giovane che ne era innamorato, nel caso aveste dubbi in proposito). Io sono il primo a sponsorizzare i giovani attori britannici, lui però no. Sarò comunque felicissimo se mi smentirà in futuro, ma di certo anche lui non mi sembra molto a suo agio con il musical e a livello vocale è il più miserabile del cast.
Se la cava a cantare Russell Crowe, d’altra parte è pure il leader di una rockband, i Russell Crowe & The Ordinary Fear of God, però dentro Les Misérables sembra davvero un pesce fuor d’acqua. Non che ci siano numeri di ballo, perché questo è uno di quei musical in cui non è che si balla. Non più di tanto. Si canta, sempre e soltanto. Il roccioso Russell Crowe comunque pare uno che si aggira in scena chiedendosi: “Ao’, io so’ Massimo, er Gladiatò. Che ce faccio in ‘sto musicarello per effeminati?”.

"Tutto bene, Anne?"
"No, mi si è rotto il karaoke. E mo' come faccio a esprimermi?"
La pellicola viaggia quindi a corrente alternata, tra intepretazioni, canzoni e scene più o meno apprezzabili. Il tutto tenuto insieme da una cura tecnica impeccabile, abiti e scenografie per carità magnifici, e dalla regia del menzionato Tom Hooper.
Riconosco a Tom Hooper di avere stile, un suo stile. Che poi a me questo stile faccia schifo, è un dettaglio non da poco. Adesso non so bene neanche quali termini tecnici sono più appropriati per descrivere il suo modo di girare. Propone spesso e volentieri delle inquadrature sbilenche, come fosse un Terry Gilliam privo però di tutto il talento visionario. Privilegia poi i primi piani e, come dire?, schiaccia la messa in scena, toglie profondità. Magari è solo un’impressione mia, ma quando guardo un suo film mi sento schiacchiato. Mi sento soffocare. Mi manca il respiro. Sto male fisicamente. È per questo che, dopo la già fastidiosa esperienza de Il discorso del re, quello che ha fatto una gran rapina agli Oscar di due anni fa, non ho mai visto il suo acclamato film d’esordio Il maledetto United, nonostante il Manchester United sia una delle mie squadre preferite. Perché ho paura del suo cinema. Mi fa stare male, maledetto Hooper.

"Al prossimo che si mette a cantare gli faccio saltare le cervella, intesi?"
La regia di Tom Hooper mi ha fatto stare male anche questa volta, nel caso ve lo chiedeste, ma non è la sola cosa ad aver avuto un effetto devastante sulla mia visione del film.
Non ho mai visto il musical da cui è tratto, quindi prendetele come considerazioni basate unicamente come supposizioni, ma un problema di Les Misérables il film è che ha troppo rispetto di Les Misérables il musical. E, per quanto riguarda gli adattamenti, l’eccessiva fedeltà per me non è mai un gran bene. Nel passaggio da un media a un altro vanno operate delle scelte, anche spietate se necessario. Guardando Les Misérables ho avuto l’impressione di un lavoro che a teatro sarebbe funzionato alla grande, ma su pellicola meno. Perché?
Perché questo musical è troppo… musical. Troppo cantato. I dialoghi sono pressoché inesistenti. Una scelta interessante, rischiosa, estrema. Dai risultati però devastanti per la psiche del miserabile spettatore. Terminata la visione del film, mi sono chiesto perché le persone intorno a me parlassero. Parlassero e non cantassero. Se odiate i musical quindi vi consiglio di girare al largo, perché questo film potrebbe farvi lo stesso effetto del sole per i vampiri: provocarvi combustione spontanea.

Per quanto mi riguarda, non sono mai stato un grosso fan dei musical. Ultimamente però ho apprezzato parecchio alcune rivisitazioni originali del genere, come Moulin Rouge! e Dancer in the Dark (che al confronto di questo era quasi una commedia goliardica), così come ho seguito con interesse il Glee dei primi tempi e pure l’altra serie musical Smash e tra poco vi parlerò pure di Pitch Perfect. Non partivo quindi del tutto a digiuno dal genere. Però vi assicuro che, se non siete fan hardcore dei musical, 2 ore e 40 minuti senza pause, tutte cantate, TUTTE cantate, vi faranno impazzire.

Ma perché diavolo cantate seeempreeeeeeeeee?
Vi fa così schifo parlareeeeeeeeee?
Non se ne può davvero piùùùùùùùù
e non mi resta altro che invocare Belzebùùùùùùù
Perché diavolo diavolo diavolo
diavolo diavolo diavolo
(tutti in coro) DIAVOLO DIAVOLO DIAVOLO
perché diavolo cantate seeempreeeeeeeeeee?
Qualcuno me lo vuol spiegar?
qualcuno me lo sa spiegar?
La la la la la lalaaa?
La la la la la la laaaaa?
Les Misérables ti mando fuori di testaaaaaaa.
Les Misérables ti fa gridare: “Ma bastaaaaaaa!”.

Poi basta. Mi è passata.
Dopo due giorni in cui sono andato in giro per strada a cantare e la gente, tra una partita a Ruzzle e l’altra, mi guardava come se fossi pazzo, alla fine l’ho capito chi sono les misérables del titolo: noi poveri spettatori.
(voto 5/10)

Post pubblicato anche su L'OraBlù, con la nuova locandina minimal firmata da C(h)erotto.


lunedì 31 gennaio 2011

Il discorso del re: Un sovrano (e un film) senza voce

Il discorso del re
(UK, Australia 2010)
Titolo originale: The King’s Speech
Regia: Tom Hooper
Cast: Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce, Michael Gambon, Timothy Spall, Jennifer Ehle
Genere: biopic storico
Se ti piace guarda anche: The Queen, Elizabeth, Shakespeare in love

Trama semiseria
1925. Il figlio di Giorgio V d’Inghilterra, incaricato di fare un discorso pubblico a Wembley, si blocca e non riesce a parlare frenato dalla sua balbuzie. La moglie allora gli ingaggia un coach per aiutarlo a risolvere questo problema, un po’ come accade con i trainer di Mtv Made che in due mesi trasformano un caso umano nel più figo del liceo. Tutto risolto in fretta come nel programma tv? Non proprio: gli anni passano, il guaio permane e quando tocca a lui salire sul trono come Giorgio VI non può proprio farlo da balbuziente. Ah, nel frattempo l’Inghilterra scende in guerra contro la Germania di Hitler, ma questo in confronto alla drammatica balbuzie del re sembra davvero non fregare niente a nessuno…

Recensione cannibale
Può bastare una storia carina a fare un buon film? Direi proprio di no. Soprattutto se la storia in questione è sì curiosa, ma ha anche alcuni risvolti tragicamente ridicoli. La balbuzie è sì un problema non da poco, così come il parlare di fronte a una grande folla è una cosa di cui io stesso ho un gran terrore. Però in quel periodo accadevano anche cose un tantino più preoccupanti di questa. Quali? Il nazismo, ad esempio. Si dirà allora che questa è più che altro una commedia, peccato non faccia molto ridere, ma fino a che i toni rimangono leggeri le cose funzionano ancora. Le note dolenti arrivano quando questa vicenda viene trattata con solennità e drammaticità mentre, soprattutto se vista all’interno del contesto dello scoppio di una guerra mondiale, appare piuttosto irrilevante per non dire idiota.

Nonostante questo, Il discorso del re ha avuto 12 nomination all’Oscar e sembra il principale concorrente a The Social Network per salire sul trono di film re dell’annata. Perché? Davvero difficile da spiegare, se non per la passione dell’Academy a film storici di una noia mortale come Il paziente inglese o Shakespeare in Love, una passione che negli ultimi tempi sembrava essersi esaurita ma che questo The King’s Speech ha riacceso alla grande.
Mentre alcuni film storici attraverso il passato ci aiutano a capire quello che sarebbe successo dopo, vedi Il nastro bianco di Haneke tanto per dire una pellicola ambientata all’incirca in quel periodo, Il discorso del re sembra invece una storia del tutto scollegata da qualunque collegamento all’attualità. Si può fare eccezione per la vicenda di Edoardo VIII, il re che decide di abdicare in favore del fratello per via di uno scandalo sulla sua vita privata, cosa che a noi italiani può far venire in mente un collegamento con Berlusconi che ad “abdicare” non ci pensa proprio qualunque vicenda lo travolga. Ma questo non credo fosse certo nelle intenzioni della pellicola inglese. Al di là del fatto che cinematograficamente The Social Network è una pellicola di ben altro (e alto) livello, c’è anche da chiedersi quindi se sia più giusto premiare un film che riesce a parlare alla grande della vita di oggi oppure una storiella nel passato della monarchia inglese che poco o nulla a che fare con il presente.
Davvero senza senso poi il fatto che la regia professionale ma anche pomposa e priva di personalità di Tom Hooper sia stata preferita a quella del Christopher Nolan di Inception. Bah.

Bene il cast, ma niente per cui strapparsi i capelli: Colin Firth nel rendere il balbuziente Giorgio VI vince una sfida difficile e quasi certamente vincerà anche l’Oscar, ma allo stesso tempo non è uno di quei ruoli che lasciano un segno nella storia del cinema e lo stesso Firth ha fatto secondo me di meglio in A Single Man. Davvero ottima Helena Bonham Carter nei panni della moglie, così così il sopravvalutato Geoffrey Rush nei panni del logopedista, l’uomo che cerca di aiutare il principino inglese con metodi poco ortodossi (ma nemmeno troppo) a ritrovare la sua voce. Tutto questo, ricordo, mentre nel resto del mondo succedeva una cosa da niente chiamata Olocausto, ma volete mettere con i problemoni di Giorgio VI che deve fare un discorso di ben 2 minuti alla radio?

A tratti sul noioso e sull'odioso andante, Il discorso del re non è nemmeno un bruttissimo film, però dopo aver visto tutte e 10 le pellicole candidate all’Oscar posso dire che questa è di gran lunga quella che mi ha convinto di me. È solo una storiella curiosa raccontata in maniera troppo enfatica che nel finale assume contorni alquanto grotteschi e al limite del ridicolo. All’Academy però amano le storie ruffiane, vedi Forrest Gump, un buon film che però proprio non reggeva e non regge tutt’oggi il confronto con quella pietra miliare di Pulp Fiction. Ma agli Oscar indovinate chi fu a trionfare? E comunque questo discorso del re non vale nemmeno la metà di Forrest e inoltre, dopo lo sguardo originale proposto da Sofia Coppola con il suo Marie Antoinette, rigetta il genere storico concettualmente indietro di decenni, per non dire secoli.
In un’annata strepitosa per il cinema americano come non capitava da anni, con grandissimi film come Black Swan, The Social Network, Inception e Winter’s Bone, vogliamo davvero dare l’Oscar a un film che più che la definizione di “classico” merita quella di “antico” e che sembra furbescamente pensato per vincere… l’Oscar?
Mmm, temo che andrà a finire proprio così.
(voto 5,5)

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