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giovedì 13 febbraio 2014

COSE NOSTRE, LA FAMIGGHIA DEI MAFIOSETTI




Cose nostre – Malavita
(USA, Francia 2013)
Titolo originale: The Family
Regia: Luc Besson
Sceneggiatura: Luc Besson, Michael Caleo
Tratto dal romanzo: Malavita di Tonino Benacquista
Cast: Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Dianna Agron, John D’Leo, Tommy Lee Jones, David Belle, Jimmy Palumbo, Vincent Pastore, Jon Freda, Paul Borghese

Robert De Niro io non lo capisco. Cioè sì, capisco che possa accettare di fare film, un sacco di filmacci del cazzo, per soldi, però ormai sta finendo peggio del peggior Nicolas Cage. Fa qualunque roba, persino Manuale d’am3re. Se lo pago, mi sa che viene pure a lavarmi i piatti.
Va bene i soldi ma cazzo, è pur sempre Robert De Niro, qualcosa si sarà messo da parte, nel corso della sua lunga carriera. E poi la sua strategia anche a livello economico mi sa che non paga tanto. A forza di fare qualunque pellicoletta, il suo cachet dev’essere diminuito parecchio. Se invece facesse un film ogni tanto, se si facesse desiderare, sono sicuro verrebbe pagato di più. Lavorerebbe di meno, farebbe meno stronzate e il guadagno finirebbe per essere più o meno lo stesso. Se io fossi Robert De Niro, girerei solo qualcosa di importante, grandi parti con grandi registi. Invece di finire per essere la parodia di se stesso come capita in questo Cose nostre – Malavita. Nemmeno un film bruttissimo, solo un film inutile.

"Tommy Lee, pure tu qui per soldi?"
"Beh, di certo non per amore del Cinema..."
Luc Besson non l’ho mai capito. Manco lui. Scusate, ma non capisco un cazzo oggi. E mi si passi il “cazzo” continuo, perché è la parola preferita dal protagonista di questo film del cazzo. Ebbene sì, i dialoghi di Cose Nostre – Malavita sono davvero elaborati e possono essere riassunti con l’espressione: “Che dialoghi del cazzo.”
Luc Besson non l’ho mai capito, dicevo. Ha fatto dei buoni film, Léon con l’esordiente Natalie Portman soprattutto, e anche Nikita e Il quinto elemento non sono male. Per quanto mi riguarda, comunque, nessun capolavoro e nessun mio cult personale assoluto. Si tratta in ogni caso di un regista che, soprattutto a cavallo tra 80s e 90s, aveva una sua cifra stilistica. Oggi pure lui è finito invece a girare di tutto. Arthur e il popolo dei Minimei ad esempio cosa cazzo mi rappresentano?
Bah.
E questo Cose nostre?
Bah di nuovo.

"Rimango volentieri qui in Francia. Basta che non mi fate ricominciare con Glee!"
Cose nostre – Malavita, come si può intuire dal solito titolo del cazzo, è un film sulla Mafia. Più precisamente, vede per protagonista una (all’incirca) simpatica famigliuola di mafiosetti. Il boss padre padrino è Robert De Niro, ovvio, nella sua ennesima stereotipata parte da italo americano criminale, e ha per moglie un’incattivita Michelle Pfeiffer, credibile nella parte della Desperate Housewife mafiosa annoiata, talmente credibile che finisce per annoiare pure lo spettatore. Il figlio masculo è John D’Leo che la faccia da giovane terrunciello ce l’ha proprio e il suo personaggio da bulletto di periferia ha il suo perché. Così come ha il suo perché anche e soprattutto Dianna Agron, la splendida Dianna Agron che da quando non c’è più lei in Glee, Glee è diventato una porcheria inguardabile. Il suo personaggio è un po’ una hit-girl terrona e un po’ una romantica innamorata dell’amore. Personaggio non del tutto convincente, ma la Dianna se la sfanga alla grande comunque, anche perché, oltre a essere una meravigliosa fanciulla, a recitare sta migliorando. Se non ci credete, guardatela in questo video in cui è più cantante dei Killers del cantante dei Killers stesso.



Questa allegra famigghia mafiosa, per via del programma di protezione testimoni, si trasferisce in un paesino del cazzo della Francia, ed ecco spiegato (forse) perché Luc Besson ha voluto girare questo film del cazzo, ispirandosi per la sua sceneggiatura al romanzo Malavita di Tonino Benacquista. Se ve lo stavate chiedendo, sì, la pellicola è piena di stereotipi, non solo sulla Mafia, e dunque di riflesso pure sull’Italia, ma pure sulla Francia. A non convincere è però soprattutto la frammentarietà del tutto. Ogni personaggio si ritaglia una mini-storia personale, ma resta appunto una mini-storia. Un soggetto del genere sarebbe stato interessante, piuttosto che per una pellicola, per una serie tv.
Ci sono già stati I Soprano?
Oops.

Tutto già visto, or dunque. Tutto già fatto, meglio, dagli stessi Robert De Niro, per quanto riguarda la tematica mafiosa, e Luc Besson, per quanto riguarda la vicenda criminale. Cose nostre – Malavita è una visioncina noiosa e, se per una volta mi si permette di fare un po’ il moralista, anche piuttosto discutibile. Il messaggio che ne esce fuori in pratica è che la Mafia è una cosa bella. Che messaggio del cazzo.
(voto 5-/10)

mercoledì 30 gennaio 2013

LINCOLN, A LEZIONE DAL PROF. SPIELBERG

"Meno male che la foto l'hanno tagliata, perché mi
trovavo sulla tazza del cesso quando l'hanno scattata."
Lincoln
(USA, India 2012)
Regia: Steven Spielberg
Cast: Daniel Day-Lewis, Tommy Lee Jones, Sally Field, Lee Pace, Joseph Gordon-Levitt, Jared Harris, James Spader, Hal Holbrook, Jackie Earle Haley, John Hawkes, Michael Stuhlbarg, Joseph Cross, David Strathairn, Tim Blake Nelson, Gulliver McGrath, Boris McGiver, Walton Goggins, Lukas Haas, Dane DeHaan, Stephen Spinella, David Costabile, Adam Driver, Gregory Itzin
Genere: lezione di storia
Se ti piace guarda anche: J. Edgar, Invictus, Schindler’s List, The Help

Lincoln è una gran bella lezione di storia americana?
Sì.
Lincoln è un gran bel film?
No. Lo dico subito. Un film ben realizzato, sì. Un filmone da Oscar e da consegnare alla memoria, no.

Steven Spielberg negli anni ‘80 era come Elliott. Un bambino capace di credere nella magia delle cose. Poi il bambino è cresciuto, ha dimenticato cosa la fantasia è, si è preso troppo sul serio e ormai sforna solo film prevedibili. Lincoln è esattamente come me lo immaginavo prima di vederlo. È un filmone pieno di retorica, ricco di enfasi, moralmente anche condivisibile, ma nient’altro. Non c’è una sola sorpresa, non c’è una singola scena che mi abbia davvero colpito. Il classico prodotto impeccabile, senza sbavature, quanto allo stesso tempo privo di una vera anima. C’è una splendida storia, una delle più avvincenti della Storia americana, che ci racconta di un personaggio coraggioso come Abraham Lincoln. Paradossalmente, a mancare al film è proprio il coraggio.
Lincoln il Presidente osava.
Lincoln il film se la fa sotto.

In ogni sequenza la macchina da presa è messa al posto giusto, fa i movimenti giusti (di solito si avvicina lentamente al protagonista mentre parla, anch’egli molto ma molto lentamente) ed è girata con la fotografia giusta. Tutto bello, tutto preciso, tutto vuoto. Un film realizzato con in testa gli applausi dei giurati dell’Academy, pronti a incoronarlo con l’Oscar, ma sarebbe davvero ingiusto. Lincoln non è affatto un brutto film, però non sposta di una virgola il cinema così come lo conoscevamo. Non sposta nemmeno il cinema di Spielberg di una virgola. È un lavoro molto classico, per fortuna meno paraculo rispetto al precedente melenso War Horse, che ci racconta in maniera impeccabile una vicenda che tutti dovrebbero conoscere. Una pellicola necessaria, ma che nessuno parli di Capolavoro.
"Il mio ultimo discorso era talmente interessante che mi sono annoiato da solo."
Per favore.

Ad impreziosire il lavoro da precisetti dello Spielberg c’è un’interpretazione anch’essa impeccabile di Daniel Day-Lewis. Eppure, pure in lui non c’è quasi mai un vero trasporto emotivo. Una grande performance attoriale, una fusione totale con il suo personaggio, ma io non c’ho visto la stessa intensità e passione messa ne Il petroliere o ne L’ultimo dei Mohicani.
Riguardo ad Abraham Lincoln il personaggio è stato un grande, si è battuto per fare passare il XIII emendamento, però i suoi discorsi non si possono davvero reggere. Quando inizia a parlare lui non la finisce più. Grazie al film, comunque, ho finalmente capito perché Abraham Simpson si chiama così.



"Hey, ma tu non sei il cavallo Joey di War Horse?
Chissà cos'hai fatto per diventare il nuovo pupillo di Spielberg, eh?"
Tra le cose interessanti della vicenda va evidenziata l’apertura mentale di Lincoln, primo presidente Repubblicano nella storia degli Stati Uniti, nonostante promuova il XIII emendamento più per interessi politici che per altro, mentre il ruolo dei conservatori lo ricoprono i democratici. Curioso come poi la Storia abbia invertito i ruoli.
La vicenda politica, tra un soporifero monologo di Lincoln e l’altro, funziona anche, almeno per chi è un minimo interessato alla Storia americana, altrimenti ciao, finirete dritti nel mondo dei sogni. Laddove la pellicola non trasporta del tutto è invece nel privato, nell’intimo dei personaggi. Che uomo era, davvero, Lincoln? Il film ci dice che era uno che parlava davvero un sacco, uno che sapevi quando iniziava un discorso ma non sapevi quando lo finiva. Il resto non ce lo dice. Da questo punto di vista, ho trovato più riuscito un film di per sé non del tutto riuscito come J. Edgar, che riusciva a scavare, almeno un pochino, all’interno della vita e della mente di un altro personaggio cruciale nella Storia americana, risultando invece troppo intricato e poco incisivo nella parte più storica.
Non che adesso voglia a tutti i costi fare l’avvocato difensore di Clint Eastwood, ma non ho capito perché ad esempio un altro suo film come Invictus, vicino per spirito e per tipo di vicenda raccontata a questo però più intenso da un punto di vista emotivo, sia stato snobbato da Academy e critici americani, mentre Lincoln sia stato tanto lodato. Qualcuno me lo spieghi, per favore. Perché quello non era incentrato su un Presidente americano, forse?

Se Lincoln è una lagna, i personaggi di contorno rimangono sempre in secondo piano. Ed è un enorme peccato, perché possiamo soltanto intravedere le potenzialità di alcuni attori che offrono brevi ma notevoli interpretazioni. Su tutti Joseph Gordon-Levitt, il figlio di Abraham, ma anche un sorprendente James Spader (quello di Stargate), un valido ma comunque non da Oscar Tommy Lee Jones, e qualche interessante volto telefilmico, da Lee Pace (Pushing Daisies) al mad men Jared Harris, da Walton Goggins (The Shield) ad Adam Driver (Girls), senza dimenticare Michael Stuhlbarg (Boardwalk Empire) e David Costabile (Breaking Bad). Persino il personaggio della moglie di Abraham, interpretata da Sally Field, viene molto sacrificato e anche la storia umanamente più coinvolgente, quella della perdita di uno dei figli di Lincoln, rimane sullo sfondo come un’eco lontana.

"Cannibal, se ti becco ti stronzo... volevo dire ti strozzo!
Scusa, non parlo tanto bene l'italiano..."
Volendo azzardare un rischioso discorso razziale, che uscirebbe meglio dalla penna di un blogger americano di colore, rispetto a quella di un fottuto muso pallido blogger piemontese, si parla tanto di XIII emendamento, di abolizione della schiavitù, di uguaglianza, ma dove sono i personaggi black? Li vediamo nella primissima inquadratura, poi via via nel corso della pellicola sono ben pochi, non si ritagliano altro che uno spazio molto marginale. L’intera pellicola sembra più che altro offrire uno sfoggio di alta moralità e uno sfoggio di uno dei cast più ricchi di strepitosi attori bianchi che la Storia del cinema ricordi. Però, Spielberg, i neri dove li hai nascosti nella tua storia?
Sulla tematica razziale, ho trovato allora molto più convincente e intelligente, pur nella sua apparenza cazzona, un film dall’anima black come Django Unchained di Quentin Tarantino, naturalmente, e un altro film “da bianchi che parlano di neri” come The Help. Anch’esso registicamente molto classico e tradizionalista, anch’esso pensato con in testa gli Oscar, ma se non altro parecchio più intenso a livello emotivo. Non che Lincoln non ci provi a emozionare, con un evitabilissimo finale ricco di retorica o con le solite barbose banali musiche del solito barboso banale John Williams che sottolineano i momenti più enfatici. Quelli in cui ci si dovrebbe emozionare, quelli in cui mi sono quasi emozionato, quelli in cui non mi sono mai davvero emozionato.

Steven Spielberg era un bambino ricco di fantasia. Uno che credeva che le bici potessero levarsi in cielo e volare. Adesso è solo un bravissimo, preparatissimo quanto noioso professorone di Storia. Le cose cambiano e le persone invecchiano. E purtroppo spesso dimenticano cos’è la magia.

DRIIIN
È suonata la campanella. La lezione di Storia è finita. Tutti via di corsa, prima che Lincoln attacchi di nuovo con un altro sermone dei suoi!
(voto 6-/10)

Questo post è stato pubblicato anche su The Movie Shelter, nuovissimo rifugio per appassionati di cinema che ha aperto i battenti giusto ieri e che vi consiglio di leggere, seguire, aggiungere tra i Preferiti o almeno buttarci un'occhiata.


giovedì 4 ottobre 2012

Mad Men in Black

Men in Black 3
(USA, Emirati Arabi Uniti 2012)
Regia: Barry Sonnenfeld
Cast: Will Smith, Tommy Lee Jones, Josh Brolin, Emma Thompson, Michael Stuhlbarg, Alice Eve, Jemaine Clement, Nicole Scherzinger, Mike Colter, Michael Cernus, Bill Hader, David Rasche
Genere: retro-futurista
Se ti piace guarda anche: Men in Black 1 e 2, Ritorno al futuro 1, 2 e 3, Paul

Nostalgia canaglia.
Quando si finisce per rimpiangere anche delle cose pessime come i Men in Black, è un brutto segno. Sto proprio invecchiando. Dicono sia un processo irreversibile. Dicono non si torni più indietro. Non c’è macchina del tempo che tenga.
A dire la verità, non è che rimpianga proprio i Men in Black. È solo che sono diventato più indulgente, con i Men in Black. E ciò non va bene.

Il primo episodio, risalente addirittura al lontano 1997, non mi era piaciuto. Mi era sembrata una ruffianata pseudo fantascientifica pseudo simpatica buona giusta per lanciare la carriera dello pseudo attore pseudo rapper Will Smith.
Will Smith mi è sempre stato un po’ qui.
Qui dove, sulle palle? No, non esageriamo. Solo sullo stomaco. Willy il principe di Bel-Air era una serie davvero spassosa, però a far ridere erano soprattutto i personaggi di contorno, come il mitico Carlton o la Paris Hilton ante litteram e black Hilary Banks, mentre lui faceva troppo il figo e se la tirava già allora un casino. Come attore non l’ho mai retto, ma, se possibile, come rapper è persino peggio. Le sue rime sono roba che fanno passare Vanilla Ice per uno Shakespeare gangsta e a livello musicale sono la versione ultra-commerciale del vero hip-hop.
Adesso però non mi sta nemmeno così tanto sullo stomaco, o sulle palle. C’è gente in giro che fa di molto peggio, da quei ca**o di cantantucoli brasileiri come Michel Telò e Gusttavo Lima a robe come il Pulcino Pio. Non so se a cantare questa nuova vecchia fattoria 2.0 sia davvero un pulcino o chissà chi, però al confronto Will Smith appare ancora come un fenomeno.
Nostalgia canaglia.
Ti fa apparire meno terribili cose del passato che invece terribili lo erano eccome.

Men in Black 2 era ancora peggio del primo. Davvero una porcheria. Si salvava giusto una scena, quella del cane che abbaiava sulle note di “Who Let the Dogs Out” dei Baha Men. E sentendo il Pulcino Pio, si finisce per rimpiangere pure quell’agghiacciante canzone.
Nostalgia canaglia portami via.

"Ma 'sta roba sulla spalla non potevate metterla addosso
a Willy Smith? Quello non vede l'ora di fare il buffone..."
Men in Black 3 è costruito tutto sull’effetto nostalgia. Di una fantascienza molto anni ’90, con richiami diretti ai primi due episodi della serie e in particolare al primo. E pure alla fantascienza anni ’80, con evidenti e più che graditi richiami a Ritorno al futuro. E anche agli anni ’60, considerando come gran parte di questo episodio proprio lì sia ambientato. In questo episodio, il principe di Bel-Air viaggia infatti nel tempo, e senza l’aiuto di Delorean o coniglioni vari, per salvare la vita a un giovane Agente K. O meglio, a un non-giovane 29enne Agente K, interpretato con una azzeccata quanto ironica scelta dal 44enne Josh Brolin. Grande attore, sebbene qui monolitico come richiesto dal personaggio.

Sarà che con me il tema dei viaggi nel tempo funziona sempre come calamita attira attenzione (unica eccezione: La casa sul lago del tempo, davvero pessimo) e sarà che l’ambientazione 60s ha pur’essa sempre il suo fascino, sebbene i 60s ricreati nella pellicola non siano nemmeno paragonabili a quelli di Mad Men, eppure alla fine questo capitolo mi è sembrato più godibile rispetto ai primi due. Non dico mi sia piaciuto, però piaciucchiato sì.
Ci sono varie trovate carine, come l’Andy Warhol alieno, e c’è persino un tentativo, per quanto vago, di scherzare sul razzismo vigente all’epoca contro le persone di colore. E all’inizio fa pure la sua apparizione Nicole cognome impronunciabile Scherzinger, la cantante pussy delle Pussycat Dolls. Ho specificato che lei è la cantante perché le altre mica sono cantanti, sono ballerine, e a definirle ballerine e non spogliarelliste sono ancora stato gentile, e a definirle spogliarelliste e non escort sono stato ancora più gentile, e a definirle escort e non zoccole sono stato ancora ma ancora più gentile e a definirle zoccole e non…
Basta! La smetto.

C’è poi anche Michael Stuhlbarg, quello di Boardwalk Empire e di A Serious Man, qui simile al Robin Williams epoca La leggenda del re pescatore ma comunque piuttosto in parte, mentre non mi ha convinto il cattivone interpretato dal di solito divertente ma qui no Jemaine Clement, metà del duo Flight of the Conchords. Come cattivone è davvero poco credibile, persino come cattivone di una commedia.
Quanto alla regia, beh, è sempre quella che è. D’altra parte Barry Sonnenfeld è il regista di Wild Wild West, quindi non è che si possa pretendere molto di più.

"Guardate qui, cari lettori, e dimenticate che Cannibal abbia parlato bene di me!"
Alla fine è sempre tutta una questione di aspettative. Il cavaliere oscuro - Il ritorno mi sembra sia stato apprezzato di più da chi non aveva amato un granché i primi due capitoli della saga batmannolaniana e che quindi, non arrivando con enormi e insostenibili attese, è rimasta soddisfatta dal giocattolone. Chi invece sperava di non dover rimpiangere l’insostituibile Joker fatto vivere da Heath Ledger, è rimasto deluso.
Io da un terzo Men in Black non avevo alcuna aspettativa, nemmeno la più bassa, e quindi alla fine mi sono ritrovato con mia grande sorpresa a enjoyarmi, seppure moderatamente, lo spettacolo. Avrei continuato a vivere benissimo pure senza, a dirla tutta, però già che l’ho visto non mi è manco dispiaciuto.
Merito di Josh Brolin che come Tommy Lee Jones (non)giovane è più credibile di Tommy Lee Jones da vecchio e merito pure di Willy Smith che mi ha persino fatto ridere. Più di una volta. Non l’ho mai trovato divertente prima e ora sì? Proprio ora che è passato clamorosamente di moda? Sto davvero invecchiando.
Nostalgia canaglia.
(voto 6+/10)

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