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martedì 25 novembre 2014

BASTA CON LA VIOLENZA SULLE DONNE, PICCHIATE SOLO GLI UOMINI!





Benvenuti a un appuntamento speciale con L'indignato speciale, la rubrica mia, del solo e illustre Andrea Pompirana, oggi in via eccezionale ospite sulle pagine virtuali di Pensieri Cannibali. Oggi che tra l'altro non è una giornata qualunque. È la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.
Avete capito bene. L'eliminazione totale della violenza contro le donne. Persino quando propongono di vedere una fiction con Gabriel Garko anziché la finale dei Mondiali di Calcio.
È arrivata l'ora di dire basta alla violenza contro le donne. Non se ne può davvero più.
Vi sentite cattivi?
Ho il rimedio che fa per voi.
Contro la violenza contro le donne, sostieni anche tu la campagna “Viva la violenza contro gli uomini”.

Hai avuto una brutta giornata?
Picchia anche tu un uomo, è divertente!





E allora, cos'altro aspetti?
Grida “Stop!” alla violenza sulle donne e sostieni anche tu la campagna per la violenza contro gli uomini!

di Andrea Pompirana per PensieriCannibali.com


Ringrazio sentitamente Andrea per questo suo incredibile contributo. Passiamo ora al secondo appuntamento dedicato alla Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, la recensione cannibale del film The Gift - Il dono, che fa parte della “No More Excuses Week”, una settimana di post speciali dedicati a film che trattano il tema della violenza sulle donne cui Pensieri Cannibali partecipa insieme a tanti altri fantastici blog.
Ecco il programma completo dell'iniziativa ideata da Alessandra del sito Director's Cult.



The Gift - Il dono
(USA 2000)
Regia: Sam Raimi
Sceneggiatura: Billy Bob Thornton, Tom Epperson
Cast: Cate Blanchett, Keanu Reeves, Giovanni Ribisi, Katie Holmes, Hilary Swank, Greg Kinnear, Gary Cole, Kim Dickens, J.K. Simmons, Rosemary Harris, Michael Jeter, John Beasley
Genere: violento
Se ti piace guarda anche: Medium, Ghost Whisperer, Il sesto senso, Amabili resti

Più che un film sulla violenza contro le donne, The Gift - Il dono è l'apoteosi dei film sulla violenza contro le donne. La pellicola diretta da Sam Raimi ci offre una panoramica piuttosto esaustiva sui vari tipi di crimini contro il gentil sesso.
Che poi definirlo gentil sesso non è pur'esso un crimine?
Meglio non addentrarsi in una discussione di questo tipo. Ritiro allora subito il termine gentil sesso. L'ho usato solo per non ripetere la parola donne 50 volte. Che altro termine posso usare? Le figh... no dai, le femmine. Le femmine può andare bene?

Innanzitutto, The Gift ci propone l'esempio più classico di violenza contro le femmine: le botte da parte del marito.
Un consiglio alle donne: non sposatevi! Una buona parte dei casi di violenza avviene proprio per mano (letteralmente) dei mariti, quindi non sposatevi!
Nella pellicola, Hilary Swank si prende un sacco di botte dal marito Keanu Reeves. Il motivo?
Keanu, persi i suoi superpoteri da Eletto e mollatosi con Trinity, è fuggito in un paesino della provincia americana e s'è sposato con la Swank. Infelice della sua vita ordinaria, lontano dalle meraviglie dello splendido (o ricordo male?) mondo di Matrix, si mette a menare la povera moglie. Non contento di ciò, passa pure a prendersela con la protagonista principale della pellicola, una sensitiva interpretata da Cate Blanchett. E qui mette in atto un'altra pratica parecchio comune nei casi di violenza contro le donne: lo stalking.

"Non ci capisco una mazza di tarocchi...
Mi sa che è meglio se mi do' al poker."

Pensate sia finita qui?
No, Keanu Reeves in questo film è davvero perfido e se la cava tra l'altro bene a fare del male, quindi è un peccato che nelle pellicole gli diano spesso ruoli positivi o da eroe (causa Sindrome da Post Matrix). La sua vera vocazione è fare il villain. Il suo passo successivo è infatti addirittura quello di accusare la sensitiva Cate Blanchett di essere una figlia di Satana. Un esempio moderno di quella che in tempi antichi era stata una delle forme più bastarde e stupide di violenza contro le donne in assoluto: la caccia alle streghe. Uno può pensare che siano solo storie da film dell'orrore, o da modeste serie tv come Salem, ma in realtà la caccia alle streghe c'è stata per davvero, ed è pure durata svariati secoli. O almeno così dice Wikipedia e quindi la prendo per Verità Assoluta.


ATTENZIONE SPOILER
Quando nella cittadina di The Gift una fanciulla sparisce nel nulla, i sospetti si concentrano quindi tutti su di lui, Keanu. Tanto più che il corpo della giovane donna, che tra l'altro è Katie Holmes all'epoca in pieno periodo Dawson's Creek, viene ritrovato proprio nel laghetto di sua proprietà. Keanu Reeves finisce così in galera. Chissà perché? Sembrava un così bravo ragazzo...
Ma sarà davvero lui l'assassino di Katie Holmes, o dietro c'è qualcos'altro? Ad esempio Dawson e Pacey che, a forza di contendersela, hanno finito per farle del male? O forse è stato Tom Cruise, arrivato dal futuro per impedire alla Holmes di sposarlo e di venire a conoscenza di qualche misterioso segreto di Scientology?


Non vi anticipo ciò che succede nel film, ma vi posso dire che la risoluzione della parte thriller è piuttosto scontata. Non tanto per gli appassionati di gialli, quanto per gli spettatori di Studio Aperto. Nella maggior parte dei casi di cronaca, l'assassino è infatti lo stesso della pellicola.
Non intendo l'attore in particolare, ma la categoria che rappresenta in generale.

Oltre a una trama thriller scontata e ben poco coinvolgente, il film The Gift ci fa dono di una serie di personaggi piuttosto stereotipati e ritratti con una certa superficialità. Il pur notevole cast non può fare molto per migliorare la situazione. Così come il Sam Raimi era pre-Spider-Man non riesce a rendere le cose più interessanti, inserendo qua e là qualche momento visionario e paranormale ben poco convincente. Nonostante non abbia manco una quindicina d'anni, The Gift appare oggi un thrillerino superato, che sembra una puntata brutta di Medium o Ghost Whisperer. Se a ciò aggiungiamo dei ritmi parecchio dilatati e sonnacchiosi, il film è consigliato giusto a chi soffre di insonnia. Visto in quello stato a metà strada tra sonno e veglia, The Gift può assumere un suo certo fascino. Altrimenti lasciate perdere e dedicatevi al nuovo passatempo consigliato qui sopra dal saggio Andrea Pompirana: la violenza contro gli uomini!
(voto 5/10)

sabato 10 agosto 2013

HE’S A MANIAC, MANIAC ON THE FLOOR




Maniac
(Francia, USA 2012)
Regia: Franck Khalfoun
Sceneggiatura: Alexandre Aja, Grégory Levasseur
Ispirato al film: Maniac (1980) di William Lustig
Cast: Elijah Wood, Nora Arnezeder, America Olivo, Megan Duffy, Genevieve Alexandra
Genere: pazzo stalker serial killer
Se ti piace guarda anche: Dexter, American Psycho, Chapter 27

Sono un maniaco, maniaco on the floor. E ballo come non ho mai ballato prima. Sono un maniaco per i film anni Ottanta, a parte roba come Flashdance che è una cacchiata pazzesca, diciamolo, e soprattutto per quelli che non sono proprio degli anni Ottanta però lo sembrano. Adoro quei film non anni Ottanta che puzzano di anni Ottanta come Donnie Darko o come Drive. Questo Maniac ricorda proprio Drive. Per i suoi ritmi lenti, pronti a esplodere in lampi di violenza improvvisi e sanguinari. Se fosse uscito prima di Drive, staremmo tutti a gridare al miracolo per questo Maniac, che ha atmosfere simili, una fotografia molto patinata e una colonna sonora electro firmata dal compositore francese Robin Coudert in arte Rob. Invece ha avuto la sfiga di arrivare dopo Drive e quindi non se l’è filato nessuno. A dirla tutta, per quanto abbia un qualcosa di simile, gli manca allo stesso tempo la quinta marcia che Ryan Gosling e Nicolas Winding Refn riuscivano a infilare e questo Maniac resta così dietro a mangiare la polvere, povero lui. Un altro film che ricorda, questa volta proprio degli anni Ottanta, è Maniac. Non è un caso, visto che questa versione 2012 è proprio il remake di quella del 1980.

La cosa particolare di Maniac è che è girato quasi interamente in soggettiva. Il regista Franck Khalfoun propone un trattato sulla ripresa in soggettiva. Tanto per restare in tematica soggettiva io, quando ero un ragazzino, ovvero pochissimi anni fa, avevo avuto l’idea di realizzare un film tutto in soggettiva. Poi, non essendo un regista, non l’ho mai girato, però ai tempi pensavo fosse uno spunto davvero figo per una pellicola. Una cosa che non mi convinceva era il fatto che un intero film così girato potesse reggere. Per un po’, l'uso della soggettiva può rivelarsi ganzo, ma per tutta una pellicola?
La cosa cool di un video come “Smack My Bitch Up” dei Prodigy, al di là del geniale finale, è proprio quella di essere girata in soggettiva, però dura 4 minuti appena.



Se il video dei Prodigy funziona alla grande per via della sua breve durata, un’ora e mezza di pellicola può reggere?
La risposta è ni. Come previsto, la trovata va bene all’inizio, poi dopo un po’ comincia a dare noia. Il film riesce a essere sottilmente inquietante, teso, soprattutto nella prima parte. Più in là cerca di farci sprofondare dentro la mente malata del suo maniacale protagonista stalker, con risultati incerti. I flashback ci riportano dentro i soliti traumi infantili: sua mamma era una gran bella zoccolona e così lui si è trasformato in un serial killer di giovani donzelle tra i 20 e i 30 anni. Piuttosto scontato. Eppure la scelta della soggettiva per gettarci dentro la mente di un maniac è la più azzeccata. Per capire fino in fondo uno psicopatico, cosa c'è di meglio che vedere il mondo attraverso i suoi occhi?
Più che un thriller, una full immersion dentro la vita, dentro la testa di uno stalker fissato con i manichini. Bello, vero?
Un’esperienza intensa che il regista Khalfoun ci fa vivere in maniera completa, supportato però da una poco fenomenale sceneggiatura, scritta da Grégory Levasseur e dal reuccio dell’horror francese fissato con i remake Alexandre Aja, che scivola sui classici stereotipi già visti in un sacco di altre pellicole su serial killer/maniaci/stalker/psicopatici/figli di puttana, e che alla lunga annoia proprio per via di quello che allo stesso tempo è anche il suo punto di forza principale: la (maniacale) ripresa in soggettiva.

"Questo è quello che capita a chi dice che la saga di Guerre stellari
è meglio di quella del Signore degli anelli!"
L’altro punto di forza è Elijah Wood. Per chi se lo ricorda come l’hobbit Frodo nel Signore degli anelli, ritrovarlo qui in veste di psyco sarà un bello shock. Per chi invece è abituato a vederlo parlare con un cane umanizzato (o umano canizzato?) nella simpatica serie Wilfred, è ormai pratica comune considerarlo perfetto per i ruoli da fuori di testa. E poi dai, anche nel Signore degli anelli uno che se ne andava in giro con maghi, elfi, nani e gollum dalla duplice personalità, non è che ci stava tanto con la testa. La sua performance in Maniac è convincente, ma è una prova più che altro vocale. Per la maggior parte del tempo guardiamo infatti attraverso i suoi occhi, cosa che significa che sentiamo solo la sua voce mentre il suo volto lo vediamo comparire giusto quando si specchia. E lo fa spesso. L’espediente degli specchi alla fine diventa parecchio abusato, così come la soggettiva, e allora questo film affascina all’inizio e poi dopo un po’ avrei voluto soltanto uscire da questa testa perché già devo fare i conti con la mia, di testa da maniaco, maniaco on the floor.
(voto 6/10)



sabato 27 luglio 2013

SOLO DIO PERDIONA




Solo Dio perdona - Only God Forgives
(Francia, Thailandia, USA, Svezia 2013)
Titolo originale: Only God Forgives
Regia: Nicolas Winding Refn
Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn
Cast: Ryan Gosling, Vithaya Pansringarm, Kristin Scott Thomas, Tom Burke, Yayaying Rhatha Phongam, Gordon Brown, Charlie Ruedpokanon, Byron Gibson
Genere: refnerenziale
Se ti piace guarda anche: Oldboy, V per vendetta, Kill Bill

Solo Dio perdona, recita il titolo della pellicola di cui parlo quest’oggi.
Non è mica vero. Anche io perdono. Perdono al regista Nicolas Winding Refn di aver creato una delle pellicole più noiose nella storia dell’umanità, Valhalla Rising. L’ho perdonato a tal punto da essere riuscito a dimenticare quella batosta di film e adorare incondizionatamente il suo lavoro successivo, Drive. Così come perdono Ryan Gosling per aver raggiunto la grande fama con uno dei film più smielati degli anni recenti, ovvero Le pagine della nostra vita, e perdono a Kristin Scott Thomas di aver fatto parte di un’altra delle più grandi lagne del cinema mondiale, Il paziente inglese.

"Vuoi che lo indossi io? Dici starà meglio a me che a te???"
Io perdono, sì quel che è fatto è fatto io però chiedo scusa, regalami un sorriso io ti porgo una rosa, su questa amicizia nuova pace si posa, perché so come sono infatti chiedo perdono, sì quel che è fatto è fatto io però chiedo scusa, per quelle rare volte in cui posso aver scritto delle cazzate, o recensito un film frettolosamente, o ancora aver consigliato una pellicola per me bellissima e che voi invece avete poi trovato una schifezza. In questo caso, io consiglio di dare un’occhiata a Solo Dio perdona, però non vi posso assicurare che vi piacerà. È un film particolare, molto ma molto Refn. Se vi aspettate un nuovo cult totale come era stato Drive, resterete inevitabilmente delusi. Anche chi ha apprezzato questo suo ultimo sforzo, non può considerarlo al livello del suo illustre predecessore. Gli manca qualcosa. Gli manca la stessa forza emotiva che guidava Drive. Qui il danese è ritornato alla sua glaciale freddezza abituale. In compenso, dentro Solo Dio perdona ci si può ritrovare tutto il suo cinema. Come nella trilogia di Pusher, abbiamo di nuovo a che fare con uno spacciatore (l’attore feticcio di Refn, Ryan Gosling), sebbene la sua professione venga solamente menzionata a parole ma non esercitata nei fatti. Come nella trilogia che ha lanciato il regista, anche qui abbiamo poi una situazione famigliare particolare e intricata. Il fratello di Ryan Gosling non può essere certo definito una personcina a modo e, dopo aver stuprato e ucciso una ragazzina di 16 anni, viene a sua volta brutalmente fatto fuori dal padre della ragazza, con la complicità di un agente di polizia (l’inquietante e impronunciabile Vithaya Pansringarm).
A questo punto, arriva in città, ovvero Bangkok in Thailandia, la madre dei due ragazzi, una idolesca Kristin Scott Thomas. È lei il personaggio più loquace di un film altrimenti quasi muto ed è lei a tirare fuori le battute più divertenti di un film violento, durissimo, ma che a sorpresa in alcuni momenti sa persino far ridere. Ed è lei a gridare vendetta per la morte del figlio Billy (Tom Burke).

Ryan Gosling: “Billy ha stuprato e ucciso una ragazzina di 16 anni.”
Kristin Scott Thomas: “Avrà avuto le sue ragioni.”

Solo Dio perdona. Non è vero. Anche Ryan Gosling era pronto a perdonare la morte del fratello, certo non un santo, per mano del padre della ragazza uccisa. Tutti gli altri personaggi della pellicola invece tengono fede al titolo e di perdonare non ne vogliono sapere, tanto da trasformare la vicenda in una faida infinita, per una delle più sanguinarie rassegne vendicative viste su schermo dai tempi del doppio volume di Kill Bill e della trilogia della vendetta di Park Chan-wook.

"Uh, mi sono spezzato un'unghia. Urge manicure im-me-dia-ta-men-te!"
Oltre a questo gioco al massacro, c’è qualcos’altro?
Eh, insomma. Refn ha dipinto la sua pellicola visivamente più bella, Drive escluso, ma a livello di contenuti e di profondità nella costruzione dei personaggi, la sceneggiatura mostra qualche lacuna. Siamo alle solite. Il danese a livello di regia è impeccabile, non gli si può dire niente, come autore di script invece ha ancora ampi margini di miglioramento. Niente che meriti come punizione l’amputazione delle mani, come avviene nel film, però poteva azzardare anche qualcosa in più sulle psicologie dei suoi protagonisti. Il personaggio di Ryan Gosling, in particolare, ci viene mostrato qua e là con qualche sprazzo di umanità, subito dopo negato, cosa che impedisce un vero avvicinamento empatico come invece capitava con l’autista quasi autistico Driver di Drive, probabilmente il più umano, seppure a suo modo, tra tutti i personaggi dell’universo refniano (che poi si dirà refniano o refnaniano?).

Spettacolare senza riserve è invece Kristin Scott Thomas, più sexy e sboccata che mai, una MILFona con i controcazzi che illumina il film e che avrebbe meritato uno spazio ulteriore. Refn però gioca a fare il bastardo, proprio come il personaggio interpretato da Ryan Gosling. Ci fa intravedere attimi di poetica violenza, di brutale bellezza e poi, poi tira indietro la mano. Quando il film sembra dover crescere, raggiungere il suo climax, si spegne. Magari sbaglio io, ma la parte finale, nonostante il suo simbolismo, tra complessi di Edipo e amputazioni mi sembra un po’ affrettata. Forse per questo che a Cannes sono piovuti tanti fischi nei confronti della pellicola, dopo gli applausi per Drive.

Un’accoglienza che ricorda quella riservata a Terrence Malick, passato dalla Palma d’Oro per The Tree of Life agli sberleffi dei critici riservati a Venezia a To the Wonder. Questo Solo Dio perdona è un po’ il To the Wonder di Refn: una pellicola che è quasi un esercizio di stile ed è molto autoreferenziale, anzi refnerenziale. Se Drive era un film indipendente, che poteva essere compreso e amato anche da chi non aveva la più pallida idea di chi Refn fosse, Solo Dio perdona appare più come un tassello che per essere decifrato in pieno va collocato all’interno della sua filmografia. Come detto prima, si ritorna dalle parti della trilogia di Pusher, ma c’è anche qualche lampo di ironia come in Bleeder, c’è la lentezza esasperante di Valhalla Rising, i corridoi, gli spazi claustrofobici e le sequenze visionarie di Fear X, le accelerazioni di ultraviolenza di Bronson e Drive.

"Fighe 'ste luci al neon, devo mettermele anche a casa mia."
Non solo un remix delle sue pellicole precedenti, comunque. Refn tenta inoltre di proporre uno stile differente, più orientaleggiante, ancor più simbolico che in passato, cosa che rende la sua decodificazione un’impresa non semplice. Si tratta di una pellicola da una parte dalla sceneggiatura semplicissima e dai dialoghi minimal quasi inesistenti, dall’altra è un film profondo e complesso, criptico e difficile, proprio come To the Wonder, e che, in maniera analoga, sa accendersi e donarci lampi di bellezza assoluti e di grande cinema, grazie anche alle atmosfere sonore costruite da un Cliff Martinez che ormai si conferma tra i compositori di musica per il cinema più in forma del momento. In aggiunta ai suoi brani, ci sono un paio di canzoni thai al karaoke, che rappresentano i momenti emotivamente più forti di un film anoressico, da un punto di vista sentimentale. Una caratteristica non nuova, all’interno del cinema di Refn. Dimenticatevi quindi la “scena dell’ascensore” di Drive. Qui al massimo potrete trovare la sequenza di una tipa che si masturba davanti a Gosling legato a una sedia. Il vertice del romanticismo di questo spietato Solo Dio perdona.

Il finale non sarà il massimo, non tutto sembra girare al meglio, mancano quei dettagli in grado di trasformarlo in un cult come Drive, l’insieme risulta persino troppo freddo, ma per il resto si tratta di una pellicola visivamente notevolissima, in grado di ritrarre una Bangkok desolata e priva di umanità. Una visione buona, a tratti persino splendida, cui si può anche perdonare qualche difettuccio. Perché non è vero che Solo Dio perdona. Anche io lo posso fare.
O forse ciò significa che io sono come Dio?
(voto 7,5/10)

Recensione pubblicata anche su Wait! Cinema, un nuovissimo blog cinematografico da me curato che vi consiglio di seguire, amare e inserire tra i vostri siti preferiti!

In più, su L'OraBlù il buon C[h]erotto ha dedicato al film un nuovo minimal poster.


Volete recuperare tutte le altre recensioni cannibali dedicate ai film di Nicolas Winding Refn?
Eccole qui:

Drive

E per adesso è tutto.
Dichiaro ufficialmente finita la Refn Week.




martedì 23 luglio 2013

NON POSSO PIU’ FARE A MENO DEL MIO PUSHER




Pusher II
(Danimarca, UK 2004)
Regia: Nicolas Winding Refn
Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn
Cast: Mads Mikkelsen, Zlatko Buric, Leif Sylvester, Anne Sørensen, Øyvind Hagen-Traberg, Kurt Nielsen
Genere: sfacciato
Se ti piace guarda anche: Pusher, Pusher 3

“Qualcuno dice che ho problemi nel ricordarmi le cose.”
Chi l'ha detto?
“Non me lo ricordo.”

Pusher è figo. Uno di quei film che ti trascina dentro. Ma Pusher II è ancora più figo. Uno di quei rari casi in cui il sequel è migliore del primo. Parlare di sequel nel caso di Pusher II appare comunque un po’ improprio. Più che un sequel, è uno spinoff. O come un episodio di una serie tv che si concentra su un personaggio differente, come capitava in Lost e come capita in Skins. In Pusher II possiamo infatti dimenticarci del pusher Frank, che non compare manco in un cameo ma viene giusto menzionato in un’occasione. Questa volta il protagonista è Tonny, ovvero Mads Mikkelsen, un personaggio che avevamo già visto nel primo episodio e che appariva come un cazzaro di prima categoria. Una cosa ribadita anche in questo nuovo capitolo, dove c’è però una costruzione migliore e decisamente più approfondita del personaggio. Se lo stile registico rimane pressappoco immutato, sebbene ci sia una migliore cura nella fotografia, Refn fa un salto di qualità soprattutto nella sceneggiatura. La vicenda non è particolarmente elaborata, ma questa volta il personaggio di Tonny “arriva” di più allo spettatore.

"Guarda qua, c'è un articolo di Cannibal Kid. E' la nuova rivista per cui scrive."
Uscito di gattabuia, Tonny va a lavorare con il padre, ‘sto raccomandato, con cui ha un rapporto conflittuale.
Naturalmente, la galera non è che gli sia servita un granché e lui resta sempre un cazzone assoluto, un cazzone che si barcamena tra furti, bordelli e spacci di droga insieme al suo compare, che questa volta non è Franky bensì un tizio che in maniera molto milanese viene chiamato Il Figa. Un’altra piccola storia su un piccolo criminale, indagato con una maggiore profondità a livello personale e famigliare. Resta un film freddo, tipicamente danese, ma qui Refn getta ancora più le basi per l’esplosione totale del suo stile che avverrà con Drive, si veda e soprattutto si senta anche l’uso delle musiche qui realizzato in maniera più efficace rispetto al numero 1.
Bello Pusher, ma per una volta il sequel batte l’originale. Forse perché non è un sequel sequel vero e proprio?
(voto 8/10)


Il divertimento sul set secondo quel simpaticone di Refn.
Pusher 3
(Danimarca 2005)
Regia: Nicolas Winding Refn
Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn
Cast: Zlatko Buric, Marinela Dekic, Slavko Labovic, Ramadan Huseini, Ilyas Agac
Genere: spiaccicato

Altro giro, altra corsa. Se il primo capitolo ci raccontava una settimana nella vita del pusher Frank e il secondo il periodo successivo al rilascio di prigione del mezzo criminale Tonny, il terzo episodio di Pusher si concentra sull’unico personaggio apparso in tutti e tre i film della saga, ovvero il re della droga, il serbo Milo interpretato da Zlatko Buric. Questa volta l’azione è concentrata in appena un paio di giorni e in particolare nella notte in cui si celebra la festa del 25esimo compleanno di sua figlia Milena.
Dei tre protagonisti incontrati finora, Milo è quello meno appealing. Fisicamente perde il confronto con Kim Bodnia e Mads Mikkelsen, sorry Zlatko non uccidermi, e anche a livello caratteriale, essendo un personaggio più chiuso ed ermetico. Nonostante questo, ci troviamo di fronte a un (quasi) tutto in una notte serrato e avvincente, giusto un filo sotto ai primi due capitoli. Refn gira con il suo solito stile stiloso, in grado di portare in maniera naturale dentro la vita dei suoi personaggi, anche se a questo turno sembra girare il tutto un po’ più col pilota automatico.

Con Pusher 1 c’era l’eccitazione della prima volta, l’emozione di vedere al debutto un fenomeno della regia. Con Pusher II si andava oltre, spingendo su una storia e su un personaggio ancora più coinvolgenti. Con Pusher 3 Refn gioca invece la carta di una maggiore riflessività, aumentando progressivamente il ritmo solo nel finale. Non facendo un centro pieno come con gli altri due capitoli, ma riuscendo in ogni caso a chiudere il cerchio della trilogia in una maniera a suo modo perfetta.
La chiusura è raggelante, oltre che violenta e splatter al punto da far apparire i primi due episodi come roba per educande. Se in Frank e Tonny, benché tutto fuorché modelli di virtù, si intravedeva ancora un lampo di speranza, questo capitolo ci offre il ritratto di un uomo che, nonostante l’amore per la figlia, è desolato, prosciugato, senza più possibilità di redenzione. Ci offre il ritratto di un’umanità che, come la piscina dell’ultima inquadratura, ha ormai perso anche la sua ultima goccia di umanità.
(voto 7/10)

Post pubblicato anche su The Movie Shelter.

lunedì 22 luglio 2013

PUSHER TO THE LIMIT


Pusher
(Danimarca 1996)
Regia: Nicolas Winding Refn
Sceneggiatura: Jens Dahl, Nicolas Winding Refn
Cast: Kim Bodnia, Mads Mikkelsen, Zlatko Buric, Laura Drasbæk, Peter Andersson, Slavko Labovic, Nicolas Winding Refn
Genere: spacciato
Se ti piace guarda anche: Pusher 2, Pusher 3, Bleeder, Drive

Una settimana nella vita di un pusher. Non è un nuovo reality di Cielo, non è il sostituto di Teen Mom su Mtv, bensì è il film d’esordio di Nicolas Winding Refn. Il danese che tutti amiamo per Drive e che qualcuno, come me, allo stesso tempo odia anche per il comatoso Valhalla Rising. Prima dell’esplosione mondiale, prima del suo ingresso nella Hollywood che conta, prima della sua venerazione a livelli quasi religiosi e terrencemalickiani, tutto ha avuto inizio con Pusher.
Come anticipato, Pusher parla di un pusher, uno spacciatore, uno che si guadagna da vivere vendendo la roba. Che vi aspettavate, d’altra parte, con un titolo del genere? Un film su un chierichetto? Nel mostrarci una “tranquilla” settimana del suo protagonista, Refn non si risparmia certo. Da una materia tanto pulp, il regista ha tirato fuori un film tanto pulp con sesso (più parlato che fatto), droga e rock’n’roll, così come scatti di violenza improvvisi, qualche rissa e scene leggermente splatterose. Da una materia così pulp, volendo il Refn avrebbe potuto esagerare ancora di più, d’altra parte eravamo proprio nel mezzo dei pulpissimi anni ’90, ma il suo intento non sembra quello di voler stupire a tutti i costi per gli eccessi di quanto filma. Il danese sembra voler stupire più per la messa in scena, che per cosa mette in scena. E ci riesce alla grande.

"Cos'è, stai cercando di fare la tua versione di Blurred Lines?"
In quanto opera d’esordio, ci troviamo di fronte a un film ancora acerbo, eppure lo stile del regista emerge già con prepotenza. La primissima scena, i titoli di testa che ci introducono i personaggi con il loro nome scritto in sovrimpressione, ci riportano nel mezzo di una scelta stilistica tipicamente anni ’90. Considerata la tematica tossica, l’impressione iniziale è allora quella di potersi trovare di fronte a una copia danese di Trainspotting o poco altro. Bastano pochi minuti e l’impressione si rivela subito sbagliata. Sbagliatissima. Refn non sembra avere l’intenzione di copiare nessuno, semmai è alla ricerca di uno stile proprio. Uno stile che in apparenza può sembrare di stampo documentaristico, ma non è così. Il regista non adotta quello stile mockumentary che nel nuovo millennio avrebbe conosciuto grande fortuna. Refn segue i personaggi con macchina da presa a mano, segue da vicino il suo pusher protagonista, per fortuna evitando quell’effetto tremolante da mockumentary, appunto. Pur girando con un budget ridotto, Refn fin dal suo esordio vuole fare Cinema, grande Cinema, non robette dal sapore amatoriale. Pusher passa così dall’essere un potenziale clone pulp dei successi in auge negli anni Novanta, o dall’essere un potenziale documentario pseudo realistico sulla vita di uno spacciatore, all’essere un piccolo e prezioso saggio cinematografico su come seguire un personaggio e gettarci all’interno della sua vita. Una lezione da cui sembra aver tratto insegnamento anche il Darren Aronofsky di The Wrestler e Il cigno nero, pellicole in cui si instaura un rapporto quasi fisico tra macchina da presa e personaggio in una maniera molto vicina a quanto visto in questo Pusher.

Naturalmente questo folgorante esordio getta anche le basi per il Refn-style successivo, quello che sviluppato a dovere e con alcuni accorgimenti lo porterà a realizzare il suo capolavoro, Drive. Un elemento fondamentale nella riuscita di quest’ultimo è la scelta delle musiche. L’atmosfera electro-pop tanto anni ’80 e contemporaneamente attuale getta la pellicola in una dimensione fuori dal tempo molto originale. In Pusher invece la selezione musicale è più scontata e tipicamente anni ‘90. A tratti la soundtrack del film spacca parecchio, però non colpisce fino in fondo. Per la scena dell’inseguimento del pusher con i poliziotti, viene ad esempio usato un pezzo punk-rock; una scelta efficace, quanto prevedibile, laddove quella di Drive risulta parecchio più imprevedibile.

"Smettila Mads, non te lo do' il pugnetto!"
Altro elemento che non convince del tutto è la costruzione del personaggio protagonista, il pusher Frank, interpretato da un ottimo  Kim Bodnia, che tornerà anche nel successivo film di Refn, Bleeder. Seguiamo questo personaggio per un’intera settimana, eppure non scatta mai nei suoi confronti una vera empatia. La freddezza emotiva credo sia una scelta precisa del regista, qui anche sceneggiatore a quattro mani con Jens Dahl, però a coinvolgere maggiormente sono i personaggi secondari. Sono loro a regalare i momenti più “umani” alla pellicola: il picchiatore che confessa il suo sogno di aprire un ristorante, o la prostituta innamorata del pusher Frank, così come la madre dello spacciatore che cerca di aiutarlo finanziariamente, e una maggiore umanità la si ritrova persino nella sbruffonaggine del suo amico Tonny, interpretato dal sorprendente esordiente Mads Mikkelsen, che ritroveremo protagonista assoluto di Pusher II. Una freddezza emotiva che verrà risolta in Drive in maniera non ruffiana o cuoriciosa, solo regalando al protagonista Driver un maggiore sentimentalismo. Rendendolo più umano, “a real human being, and a real hero”.

Il finale di Pusher è sospeso, proprio come quello di Drive. Laddove quest’ultimo lascia però con la sensazione di aver assistito a qualcosa di pienamente riuscito e con un gusto buono, Pusher lascia un po’ l’amaro in bocca. Un esordio folgorante, un talento registico genuino da tenere d’occhio, ma anche l’impressione che manchi qualcosa. Col senno di poi, possiamo comunque dire che Refn con Drive riuscirà a portare a completo compimento quanto di buono mostrato con un esordio che, sempre col senno di poi, non si è rivelato un fuoco di paglia, ma una fiamma pronta a divampare.
(voto 8-/10)

A domani, con nuove recensioni refniane che fanno parte della Refn Week.


Post pubblicato anche su L'OraBlù, corredato dal minimal poster creato per l'occasione da C[h]erotto, e postato, tanto per esagerare, pure su The Movie Shelter.


lunedì 17 giugno 2013

SKRILLEX IN VIAGGIO


Killer in viaggio
(UK 2012)
Titolo originale: Sightseers
Regia: Ben Wheatley
Sceneggiatura: Alice Lowe e Steve Oram, con materiale aggiuntivo di Amy Jump
Cast: Alice Lowe, Steve Oram, Jonathan Aris, Monica Dolan, Eileen Davies
Genere: assassino
Se ti piace guarda anche: God Bless America, Natural Born Killers, Gangster Story

Killer in viaggio è un film originale. Cosa che non significa sia anche un bel film. Però un film originale al giorno d’oggi è merce rara assai, quindi è da vedere. Di film belli in giro ce ne sono. Oddio, non tantissimissimissimi, però ce ne sono. Di film originali ne circolano invece talmente pochi, che appena ne arriva uno è bene fiondarcisi sopra.

"Ma come sei permaloso! Scherzavo quando dicevo che tu in confronto
a Uggie di The Artist sei un cane a recitare."
Cosa c’è di originale, in questo Sightseers?
Tutto.
Il regista è Ben Wheatley, quello di Kill List, un film che mi era davvero stato sulle balle. Può un film stare sulla balle? Certo che sì. Non mi erano stati sulle balle gli attori. Anzi. Neil Maskell poi si è rivelato idolesco nella serie tv Utopia con il suo tormentone: “Where is Jessica Hyde?” e la bionda MyAnna Buring si è vista in cose interessanti come Blackout e White Heat. Mi era stata leggermente sulle balle la regia, che però se non altro proponeva uno stile e un montaggio piuttosto singolari, ma mi era stata più che altro sulle balle la pellicola nel suo complesso, con quella sua voglia di apparire estrema e trasgressiva e violenta a tutti i costi.
C’erano dunque le premesse perché mi stesse sulle balle anche questo nuovo lavoro di Ben Wheatley. In fondo non è che sia poi così distante. Anche Sightseers racconta una storia estrema e trasgressiva e violenta, con forse persino più omicidi di quelli presenti sulla Kill List. Eppure il film questa volta funziona. Funziona alla grande.

Il merito?
Non lo so. Lo stile registico è simile a quello di Kill List. È sempre presente un montaggio rapido e schizzato, con lampi visionari e scatti di violenza improvvisi. I protagonisti anche in questo caso sono degli schizofrenici assassini e non è semplice empatizzare con loro. A fare la differenza credo allora sia la presenza di humour. Sightseers fa morire. Fa morire dal ridere, sebbene in una maniera disturbata e disturbante. Mi sono davvero divertito un sacco a vederlo. Kill List era troppo musone. Era un film a suo modo originale pure quello, però si prendeva troppo sul serio.

"Com'è che il museo della birra era pieno e a quello dei tram non c'è nessuno?"
Sightseers, o se preferite (ma perché dovreste?) chiamarlo con il titolo italiano Killer in viaggio, riesce nell’impresa di coniugare divertimento e violenza pulp. A questo punto verrà subito in mente il nome di Quentin Tarantino, un maestro, il Maestro in questo campo, e invece no. Sightseers come detto è un film terribilmente originale, con una vena umoristica propria, molto British, molto ma molto cinica, cattiva, spietata.
La storia è presto detta: assistiamo al viaggio on the road, alla tranquilla (più o meno) settimana di vacanza di due personaggi singolari. Lei, Tina lascia a casa da sola la madre vecchina per spassarsela con lui, Chris, il suo boyfriend che conosce appena, in una gita che li vedrà scorrazzare per le campagne inglesi tra una visita a un museo dei tram e una a un museo delle matite. Proprio così, è gente che se la spassare alla grande. Per ravvivare la vacanza, visto che l’adrenalina provocata da un museo dei tram non è sufficiente, cominciano anche a fare qualcos’altro. Tipo uccidere…

Non sto a spoilerarvi altro perché, come detto, questo film lo dovete vedere. Non è che vi consiglio di  vederlo. Vi ordino di vederlo! Perché, come detto pure questo, a un raro film originale non si può rinunciare. Di film in grado di intrattenere e inquietare in questo modo non ce ne sono in circolazione molti. Se Michael Haneke girasse una commedia, invece di noiosi drammoni da Oscar, potrebbe uscirne qualcosa del genere. E poi i due stralunati psicopatici protagonisti, cui in un primo tempo si guarda con sospetto, nel corso del film diventano due idoli. Tina e Chris sono i Bonnie & Clyde della nerd generation o, se preferite, i Mickey & Mallory della campagna inglese. Tra l’altro i due fenomenali protagonisti Alice Lowe e Steve Oram sono anche gli autori della sceneggiatura e quindi il titolo di idoli totali spetta loro in pieno.

Da segnalare inoltre l’uso dannatamente efficace della colonna sonora. Si parte con “Tainted Love” versione Soft Cell. Per carità, può sembrare un brano già parecchio (ab)usato, però qui è perfetto per accompagnare l’inizio della fuga romantica dei due depravati protagonisti e, col senno di poi, si rivela la canzone ideale per descrivere la loro storia: un amore corrotto, infetto, malato. Altrettanto perfette risultano “Season of the Witch” per i momenti più fuori e visionari del film e il pezzo di chiusura “The Power of Love” dei Frankie Goes to Hollywood, ad accompagnare un finale beffardo e tutt’altro che scontato. Perché in questo film, non c’è niente di scontato. Killer in viaggio è un film originale. Cosa che non sempre significa sia anche un bel film. E invece Killer in viaggio è anche un film di una poetica e violenta bellezza.
(voto 7,5/10)



mercoledì 23 maggio 2012

Andare a scuola fa male

Film segnalato qualche tempo fa spassionatamente (non moderatamente) da moderatamente ottimista sul suo blog Piano piano, sequenza....

Polytechnique
(Canada 2009)
Regia: Denis Villeneuve
Cast: Maxim Gaudette, Karine Vanasse, Sébastien Huberdeau, Evelyne Brochu, Johnne-Marie Tremblay
Genere: stragista
Se ti piace guarda anche: Elephant, ...e ora parliamo di Kevin, Bowling a Columbine, Romanzo di una strage, United 93, La donna che canta

Cosa muove il comportamento di un pazzo assassino?
Polytechnique si ispira alla strage compiuta nel 1989 da un tizio che non si definiva un “pazzo assassino”. Si definiva un razionale.
E allora: cosa muove il comportamento di un “razionale” del genere?
Questo massacro è avvenuta a Montreal, in Canada. Come? Nel pacifico Canada avvengono cose del genere?
Sì, nel pacifico Canada. Così come nella pacifica Norvegia c’è stata la strage dell’isola di Utoya.
Se nel caso di Columbine le cause possono essere ricercate nella cultura della violenza della società americana, qui come la mettiamo?
Eppure anche in questo caso gli atti sono rivendicati come politici e dovuti a una mentalità d’odio puro. Nel caso di Utoya (che potrebbe diventare prossimamente un film di produzione americana), Breivik è un dichiarato anti-multiculturalista, anti-marxista, anti-islamista. Nel caso di questo Polytechnique, l’autore della strage è un dichiarato anti-femminista:

Avendo sempre avuto una mentalità un po' retrograda per natura
ho sempre provato rancore verso le femministe.
Si aggrappano ai vantaggi dell'essere donna,
come i costi più bassi dell'assicurazione,
il congedo per maternità, quello parentale,
ed allo stesso tempo rivendicano per loro quelli degli uomini.
The Killer, Polytechnique


Il regista Denis Villeneuve, futuro autore del bellissimo La donna che canta, nonostante il cognome non ama correre. Ci accompagna per i corridoi del politecnico di Montreal in maniera lenta e discreta, come chi sente il bisogno di mostrarci una cosa importante. Qualcosa che non ci piacerà, che ci farà stare male, che picchierà forte come un pugno allo stomaco dato da un tizio grosso stile Khal Drogo di Game of Thrones. Eppure sente il bisogno di farlo, perché è una storia che dobbiamo conoscere, dobbiamo vedere con i nostri occhi.
Polytechnique non è una visione leggera. Fin dall’inizio ci proietta dentro un incubo reale. Un vero horror che fa il paio con Elephant di Gus Van Sant, inevitabile pietra di paragone. Ma Polytechnique, oltre alla scelta del bianco e nero che rende il tutto ancora più freddo e raggelante, offre anche spunti di riflessione diversi, su tutte un maschilismo imperante difficile da estirpare anche nelle società che si dichiarano più evolute, come il colloquio iniziale della protagonista femminile ben evidenzia. E nei difficili panni di questa protagonista, suo malgrado, della triste storia raccontata dal film troviamo l’ottima Karine Vanasse. Segnatevi il suo nome. Questa stagione è stata a bordo del cast della gradevole serie 60s style Pan Am. La serie non è stata confermata, ma di lei invece credo sentiremo parlare ancora a lungo.


Non so nemmeno io se consigliarvi un film del genere o meno, soprattutto in un momento come questo dove notizie e ricorrenze certo non felici si rincorrono tra giornali e telegiornali. Polytechnique è girato ottimamente, offre parecchi spunti di riflessione e lascia il segno. Però fa male. Ti fa rimanere in stato di allerta tutto il tempo. L’attesa è qualcosa di snervante. Noi spettatori sappiamo che qualcosa di terribile sta per succedere. Loro, quelle ragazze, invece non sapevano nulla. Per loro era soltanto un’altra normale giornata di scuola.
(voto 7,5/10)


lunedì 21 maggio 2012

Dio maledica l’America

God Bless America
(USA 2011)
Regia: Bobcat Goldthwait
Cast: Joel Murray, Tara Lynne Barr, Melinda Page Hamilton, Mackenzie Brooke Smith, Rich McDonald, Aris Alvarado, Maddie Hasson
Genere: American (kill) idol
Se ti piace guarda anche: Assassini nati – Natural Born Killers, South Park, Hesher, Gangster Story, La rabbia giovane

Ormai nessuno parla più di niente.
Non fanno altro che vomitare tutto quello che hanno visto in TV, sentito alla radio, o guardato su Internet.
Quando è stata l'ultima volta che hai avuto una conversazione senza che qualcuno stesse messaggiando o fissando uno schermo?
Una conversazione su qualcosa che non fosse celebrità, gossip, sport, o politica spicciola.
Qualcosa di importante.
Qualcosa di personale.
Frank, God Bless America


Dio maledica l’America.
Dio maledica i reality e i talent-show.
Dio maledica i film americani fatti con lo stampino.
Dio benedica invece l’America che ancora riesce a tirare fuori film del genere.
Dio benedica Bobcat Goldthwait.
Chi è Bobcat Goldthwait, a parte uno con un nome davvero strambo ma comunque degno della benedizione di Dio?
Bobcat Goldthwait è conosciuto più che altro come Zed di Scuola di polizia. Questo tipo qui…


Come regista ha invece fatto Il papà migliore del mondo con Robin Williams, che a questo punto mi andrò a recuperare, ma è con questo God Bless America che rischia di diventare un nome cult e non più solo per essere stato Zed di Scuola di polizia. Per quanto uno che si chiama Bobcat Goldthwait possa diventare un nome di culto…

La storia che racconta in questo God Bless America, da lui anche sceneggiato, è una sorta di Bonnie & Clyde rivisitato ai tempi dei reality-show e della tv spazzatura. È anche una sorta di Assassini nati - Natural Born Killers (quasi) senza implicazioni sessuali ma con un uguale senso di disprezzo e feroce ironia nei confonti dei media americani. Va detto che lo stile registico del Bobcat è molto meno elaborato, visionario e inventivo rispetto a quello di un Oliver Stone e molto più lineare, televisivo e patinato. A livello visivo quindi God Bless America non è un capolavoro assoluto, ma a livello di idee si rifà alla grande. La sua cattiveria non ha infatti nulla da invidiare allo script tarantiniano, dallo stesso Tarantino poi disconosciuto dopo le modifiche apportate da Stone, e riesce a rendere alla grande tutte le contraddizioni della Grande America attuale laddove avevano fallito varie altre pasticciate pellicole recenti, come Super e Red State.

Bobcat guarda al mondo dei reality, dei talent e in generale della società consumistica americana partendo con un sorriso sulle labbra. Via via però il suo ghigno si trasforma in una smorfia di tristezza e di rassegnazione e finisce nella disperazione. Bobcat fotografa un’America patria del libero mercato, ma annientata culturalmente. Un paese in cui l’American Dream è diventato quello di essere derisi pubblicamente a un talent-show. Un paese passato dall’American Dream all’American Idol. Un paese in cui tutti sono anestetizzati dalle minchiate sparate dalla tv e retweettate su Internet, al punto da non saper distinguere più ciò che è importante e cosa no. Cosa è reality e cosa è fiction. Un paese in cui la violenza è diventata talmente un’abitudine che per parecchio tempo nessuno si rende nemmeno conto della carneficina compiuta dai due protagonisti del film.

"Don, chi è quel tizio al tuo fianco?"
"Non lo so, ma sono sicuro di averlo già visto da qualche parte..."
Dio benedica Joel Murray, il protagonista maschile.
Joel Murray è il classico attore che sai di aver già visto da un sacco di parti, ma non ti ricordi dove. Ci penso io allora a rinfrescarvi la memoria: era l’amico cazzaro di Greg in Dharma & Greg, è apparso in diversi episodi di Mad Men, era nell’horror Hatchet ed era pure il pompiere in The Artist.
Quindi quest’uomo è comparso in Mad Men, The Artist e God Bless America, ovvero tre tra le migliori cose viste negli ultimi anni. Roba che attori molto più quotati e glamour di lui si possono solo sognare.
Ah, è pure il fratello di Bill Murray. Cosa mica da tutti, essere i fratelli di un mito come Bill Murray e cercare di costruirsi, riuscendoci, una propria dignitosa carriera attoriale personale.
In God Bless America, Joel Murray è un uomo divorziato, la sua figlioletta non lo sopporta, viene licenziato dal lavoro che svolgeva da più di 10 anni per un motivo assurdo e gli viene pure diagnosticato un cancro. È ormai un uomo disgustato da tutto ciò che lo circonda al punto da meditare il suicidio. Ma quando vede in tv l’odiosa viziatissima protagonista di un reality sullo stile di My Super Sweet 16 su Mtv, decide di cambiare i suoi piani…
Come dargli torto? Vedere programmi stile My Super Sweet 16 può rappresentare davvero una di quelle che gli americani chiamano “life changing experience”.



Dio benedica Tara Lynne Barr, la sorprendente giovane protagonista femminile.
Classe 1993, questa è un’attrice che se non si brucia è da tenere seriamente d’occhio in prospettiva futura.
Nel film è la ragazzina che diventa complice di Joel Murray nei suoi intenti malefici contro l’America cancellata dai reality-show. Loro due, Frank e Roxy, metteranno in scena uno show omicida personale, con un’avventura on the road, come detto, da nuovi Mickey e Mallory Knox.
Il cognome Knox vi ricorda qualcosa? Qualche altro “presunto” omicida?
Potrei definirli anche dei Bonnie & Clyde 2.0, ma so che questo potrebbe farli incazzare parecchio e quindi evito.

Dio benedica la Darko Entertainment, casa di produzione di questa pellicola che, come si può facilmente evincere dal nome, è di proprietà di Richard Kelly, il paparino di Donnie Darko.
Dio benedica Richard Kelly e Donnie Darko.
Dio maledica chi bollerà questo film come un’apologia della violenza. E non avrà quindi capito nulla.
Dio maledica Internet, che permette la diffusione di un mare di video idioti.
Ma Dio benedica Internet, che permette anche la diffusione di un film del genere, altrimenti difficilmente (molto difficilmente) recuperabile nei cinema o in tv. Ho goduto per ogni istante della visione di un film del genere. Vabbè, diciamo tranne negli istanti in cui se la prende (ingiustamente) con Juno e Diablo Cody.
Dio benedica God Bless America, il film americano sull'America più perfidamente intelligente degli ultimi mesi/anni/secoli.
(voto 8/10)

sabato 21 aprile 2012

Che ora è? È l’ora blu





Da questa settimana ho cominciato a collaborare con un nuovo blog, o meglio un blog tutto rinnovato.
Si tratta di L’ora blu, blog collettivo realizzato dall’amico CheRotto, autore del sito OsirisicaOsirosica così come pure dell’header qui sopra di Pensieri Cannibali, e che vanta anche la preziosa collaborazione di BlackSwan.
Una pagina che è la voce dell’associazione culturale di Bollate (MI) L’ora blu, appunto, ma anche una pagina che più in generale si occupa di musica, letteratura, cinema e quant’altro.
Il mio contributo, non si sa bene perché, riguarda lo spazio cinematografico, con una rubrica intitolata L’ora cult. E per il primo appuntamento con il cinema cult, ho aperto con il giapponese Battle Royale.
Potete leggervi il post su L’ora nera (vi invito pure a diventare lettori della pagina!)
e in alternativa, per chi se lo fosse perso da quelle parti, ve lo ripropongo anche qui sotto.

Battle Royale
(Giappone 2000)
Titolo originale: Batoru rowaiaru
Regia: Kinji Fukasaku
Cast: Tatsuya Fujiwara, Aki Maeda, Takeshi Kitano, Chiaki Kuriyama, Taro Yamamoto, Kou Shibasaki, Masanobu Ando
Genere: ammazzatutti
Se ti piace guarda anche: The Hunger Games, Arena, Battle Royale II: Requiem, Kill Bill

“È da tanto tempo che io non riesco a fidarmi degli adulti.”

Ci sono film che riescono a catturare alla perfezione lo spirito dei tempi.
Battle Royale è uno di questi.
A dirla tutta, tutto parte con l’omonimo romanzo scandalo di Koushun Takami, uscito in Giappone nel 1999 con grande scalpore e in grado di generare poi anche un popolare manga e due film. Il primo dei quali è questa pietra miliare, uscito in varie versioni, alcune parecchio censurate vista la natura molto splatter di numerose scene.


Cos’ha di così figo Battle Royale?
In pratica è come un reality-show, solo un po’ (un po’ tanto) estremizzato fino alle massime conseguenze. Guardando il Grande Fratello o L’isola dei famosi (per quanto vi possiate vergognare, ammettelo di averli visti almeno una volta!) vi siete mai chiesti cosa succederebbe se i concorrenti portassero la competizione un filo più in là rispetto alla consueta sequela di strategie, bugie, alleanze, amorucoli e sotterfugi messi in atto?
Vi siete mai chiesti insomma cosa capiterebbe se uno dei personaggi si mettesse a uccidere gli altri?
È da uno spunto del genere che (forse) dev’essere partita l’idea di Battle Royale, diventato poi spunto e punto di riferimento neanche tanto velato di Hunger Games, romanzo diventato la pellicola super campione di super incassi dell’anno negli Usa e a breve in arrivo anche da noi.

Ambientato in un Giappone sottoposto a un regime totalitario immaginario, ma in cui è possibile intravedere echi del fascismo giapponese, una classe di terza media sorteggiata a caso tra tutte quelle del paese viene spedito, senza possibilità di replica, su un’isola. In quest’isola, tutti gli studenti sono costretti a scannarsi a vicenda fino a che non ne rimarrà soltanto uno. Come in Highlander.
L’unico studente che si salverà tornerà alla sua vita normale, potrà andare al liceo, sposarsi, avere figli che rischieranno di partecipare a una futura Battle Royale e si porterà questo piacevole ricordo per sempre dentro il suo cuore. Tutti gli altri moriranno. E se non si uccideranno a vicenda in questo gioco al massacro per la sopravvivenza, un congegno stretto intorno al loro collo li farà saltare per aria.
Perché, tutto questo?

Domanda che potremmo fare anche per quanto riguarda i reality-show. Perché esistono? Perché è nato Survivor, generando poi tutte le isole dei famosi e altre cazzate varie?
Belle domande.
Perché la vita in fondo altro non è che una lotta per la sopravvivenza, tanto per gli uomini quanto per gli altri animali. E questo “gioco”, come spiega un perfido Takeshi Kitano nel film, è la maniera migliore che gli adulti hanno deciso di impartire come lezione alle nuove generazioni.
Battle Royale ci mette davanti a una riflessione spinta al limite sui meccanismi di educazione, in maniera non troppo distante anche dal greco Kynodontas, così come sul contrasto tra vecchie e nuove generazioni. Inoltre, spinge a chiedersi cosa saremmo disposti a fare pur di sopravvivere. Domande del tipo: “Per sopravvivere, arriveresti a uccidere il tuo compagno di banco o persino il tuo migliore amico?”.
Facile capire perché un romanzo poi un manga poi un film del genere abbia creato tante polemiche.
Una storiona di quelle potenti e pazzesche ancora oggi a più di una decina d’anni di distanza dalla sua uscita.

Anche da un punto di vista cinematografico, Battle Royale è una pellicola di ottimo livello. Il regista Kinji Fukasaku, purtroppo scomparso nel corso delle riprese del non memorabile sequel del film, sa il fatto suo e sa dosare a dovere la violenza che esplode in scene ben più che splatter, con momenti dolci e delicati. La vecchia tecnica della carezza in un pugno. Notevole in proposito l’uso delle musiche. Anziché utilizzare, chessò, pezzi metal o techno per le scene più violente e concitate, Fukasaku propone brani di musica classica, creando un forte quanto efficace effetto di contrasto. Dolcezza VS violenza. Bambini VS adulti. Amore VS follia. Il contrasto: il grande punto di forza della riuscita di questo adattamento cinematografico.
Se proprio vogliamo trovare un limite al film, è quello di presentare troppi personaggi, troppe storie, risultando a tratti un po’ confuso. È qui che invece sta l’arma vincente escogitata da Suzanne Collins, l’autrice di Hunger Games, dove abbiamo una storia survival analoga, ma vista attraverso il punto di vista di una protagonista principale: la ragazza cacciatrice Katniss, un personaggione della Madonna, tra l’altro. Non che in Battle Royale non emergano comunque un paio di protagonisti, che infatti ci regalano i momenti emotivante più intensi di una visione che non è solo sangue sangue sangue e morte morte morte come si potrebbe immaginare. È molto di più.

La vita è un gioco. Battle Royale spinge questo assunto alle sue estreme conseguenze. Siete pronti ad affrontarle? Il consiglio è quello di recuperare, se non l’avete ancora fatto, questo cult nipponico assoluto. Perché ci sono pochi film in grado di catturare alla perfezione lo spirito dei tempi.
Battle Royale è uno di questi.
(voto 8/10)

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